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Le stagioni della vita
L’immagine di copertina ritrae una bimba (l’autrice) a cavalcioni di un pennuto in legno o bronzo, ma quel che colpisce è lo sguardo, apparentemente solo imbronciato, ma che se osservato con attenzione sembra essere quasi di sfida. Probabilmente cela l’inconscio desiderio di essere realmente presente nella vita, un “adesso ci sono io” che vuole ipotecare il futuro. E’ sempre così, perché si è alla prima stagione e si guarda solo in avanti, ma poi, con gli anni che passano, si arriva a un punto che ci si rivolge all’indietro, si ricorre alla memoria per delineare un quadro esistenziale di luci e di ombre che non ci soddisferà mai pienamente.
E così le stagioni di questo libro non sono propriamente quelle astronomiche, che ben conosciamo, ma esprimono metaforicamente il ciclo della vita ed è in questa ottica che deve essere letta la bella raccolta di Franca Canapini.
Che poi il percorso inconscio del ricordo riaffiorante a tratti faccia sì che nascano sovrapposizioni e confusioni è nell’ordine dell’esistenza, perché mai saremo in grado di controllare gli stimoli improvvisi della nostra memoria, sollecitata da fatti ed eventi che spesso non sono strettamente correlati al presente.
Si alternano così a note gioiose anche riflessi malinconici, in un quadro generale che è inutile scomporre perché è la reale immagine di un presente e di un passato che si avvicendano, quasi a voler testimoniare l’imprescindibilità per una vita corrente dall’esperienza trascorsa.
Abbandono
(omaggio alla mia vecchia auto)
Come mi hai lasciata
spenta
desolata
nella piazza assolata.
…..
Non è che un oggetto, un agglomerato di lamiera che tuttavia ha accompagnato la persona nel suo andare, creando quindi un legame quasi affettivo che nel ricordo delinea altri fatti ad essa correlati; è un bene inanimato che in un transfer psicologico assume una valenza vitale attraverso l’identificazione con ciò che a suo tempo ha rappresentato.
La poesia di Franca Canapini può essere definita di esperienza, quindi, di sentimenti e di emozioni fotografate, come in Gioia ( Vola in alto/spirito mio/ risorto/straripante di gioia/così calmo/così grande/infine/…), senza dimenticare una naturale inclinazione verso toni malinconici, che si esprimono soffusamente, come in Lari (…Non ti chiedo che tu torni per me / ma ti prego, proteggi la casa) o come in Cosa pensavi allora (a mio padre) (…E tu / cosa pensavi allora? / Come passasti la giornata? / Con chi parlasti? / Persi ancora una volta / un giorno della tua vita).
Quest’ultima poesia collega il ricordo al rimpianto, a fatti accaduti e ad azioni non concretizzate, l’aspetto negativo della memoria il cui affiorare a volte infonde un senso di colpa tanto più acuto quanto maggiore è il nostro bisogno nel presente di renderci disponibili a comunicare, per liberarci dell’ansia che stritola dentro quando si comprende ciò che si poteva fare e che non si è fatto, né più potrà mai essere realizzato. Sono occasioni perdute, frequenti in tutti noi, e il rammentarle vena di tristezza un momento della realtà nel quale abbiamo la necessità di confessarci le nostre presunte colpe. E’ uno sfogo, un tentativo in un bilancio generale per trovare spunti che possano permetterci di sperare in un futuro che ogni giorno che passa diventa sempre più opaco.
Ci sono anche due poesie, fra le più interessanti della raccolta, che rappresentano un primo abbozzo di ricorrere all’epica. La prima è Risiera di San Sabba, con la confessione di una mazza di acciaio e di legno utilizzata per uccidere dei poveri deportati. Poesia non veemente, che sposta il discorso dal carnefice al suo strumento di morte, conferendo ad esso una dignità che disonora ulteriormente l’uomo che l’utilizzava. Anche in questo caso c’è quindi un transfer, finalizzato alla possibilità di un dialogo con il poeta, destinatario di una supplica che condanna irrimediabilmente i tanti Fritz ed Helmutt di quel lager.
L’altra è Cornacchie, una metafora che si esprime nel contrasto fra le cornacchie sui tetti e la gente rinchiusa nelle case, con l’evidente significato che la libertà per gli animali sta nella loro indole e per gli umani nel calore della propria famiglia, accrescendo però così la tendenza all’incomunicabilità. Gli uccelli nascono liberi, come gli uomini, ma questi ultimi finiscono con il rinchiudere poi se stessi e così la propria libertà.
Quale è la poesia migliore? E’ difficile a dirsi e molto dipende dal gusto di chi legge, dal suo stato d’animo in quel momento, dalla maggiore o minor propensione a dialogare emotivamente con l’autore. Secondo me, considerato l’argomento trattato, credo che Fuori stagione sia altamente sintomatica di quell’avvicendarsi di stagioni che è proprio della vita, e in cui l’autunno, secondo Franca Canapini, è indubbiamente quella che ci pone di fronte a domande che prima non ci eravamo mai poste. Troppo tardi per ricominciare, nasce la consapevolezza di una sterile utilità a noi stessi e agli altri. Come in un palcoscenico in cui gli attori interpretano ora solo se stessi (…Fantasmi di un tempo giocondo / aspettano estenuate / la gelata della fine.) inizia un conto alla rovescia a cui invano cercheremo di por rimedio per abbandonarci, ormai vinti, alla gelida attesa nell’ultima stagione.
Il lavoro di più anni ha trovato così compendio in questa silloge vincitrice, meritatamente, del Premio di Poesia Jacques Prévert 2009.
Quindi per varietà e per svolgimento c’è tutto quello che può interessare l’appassionato di buona poesia ed è anche per questo che caldeggio la lettura di Stagioni sovrapposte e confuse.