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CANTO PER TE
A spasso tra i Canti, alla ricerca dei gioielli più preziosi. Nelle prime pagine, un rapido sguardo alle canzoni: Leopardi ce l’ha col suo tempo e rimpiange il passato, in particolare Roma antica. Nessuna novità per lo spirito italico, che, scontento dell’Italia com’è, rimpiange spesso il suo passato glorioso: “O patria mia, vedo le mura e gli archi/e le colonne e i simulacri e l’erme/ torri degli avi nostri, ma la gloria non vedo” (All’Italia). Segue, nella canzone a lui dedicata, un affettuoso rimprovero al cardinale Angelo Mai, che aveva appena ritrovato il De re publica di Cicerone: perle ai porci, secondo il nostro severo censore, fatica sprecata per gente morta, non all’altezza di quella nobile e vitale eredità. Sorvoliamo anche sulla poesia composta in occasione delle nozze della sorella Paolina, anche perché quel matrimonio non si fece e non s’aveva da fare: lo sposo, a detta di Giacomo, era tutt’altro che un Adone e si rivelò assai meno ricco di quanto all’inizio si era creduto. Anche i “giovani favolosi”, all’occorrenza, sanno tenere i piedi per terra e tutelare gli interessi di famiglia.
Il “vincitore del gioco del pallone” del componimento successivo, Carlo Didimi, era un Ronaldo o un Maradona del tempo, ma lo sport qui celebrato non è il calcio, bensì la palla al bracciale, giocato negli sferisteri. Leopardi non appartiene alla categoria degli intellettuali invidiosi del successo degli sportivi, della loro fama e dei loro guadagni, come un Giovenale, nemico giurato dei gladiatori, ma è convinto che lo sport vinca la noia e risvegli le virtù eroiche e guerriere.
Andiamo avanti, qualche pagina ancora ed ecco, comincia a sgretolarsi la crosta del linguaggio aulico e classicheggiante, diciamocelo, un tantino tromboneggiante. Ma non siamo troppo severi: aveva intorno ai vent’anni, i letterati suoi contemporanei, chi meglio, chi peggio, si esprimevano così, e lui nel frattempo stava maturando un filone parallelo, una poetica tutta nuova e rivoluzionaria, destinata a trionfare. Accostiamoci al meraviglioso incipit dell’Ultimo canto di Saffo: “Placida notte, e verecondo raggio/ della cadente luna! E tu che spunti/ fra la tacita selva in su la rupe,/ nunzio del giorno…”. È la poetessa greca che si dispera di fronte ad una paesaggio quieto e raccolto, contrastante col suo animo tormentato da un’insanabile ferita d’amore e dalla cognizione della propria bruttezza. “Virtù non luce in disadorno ammanto” diventerà il verso consolatorio di tanti…diversamente belli dopo di lui e prima dell’avvento della chirurgia plastica, delle palestre e del personal trainer.
Ma ci siamo, comincia la poesia del borgo, l’idillio delle care immagini borghigiane e familiari, “situazioni, affezioni, avventure storiche” dell’animo, tradotte in un linguaggio più semplice, intimo, cristallino. Il verso non soggiace più a regole precostituite, ma segue liberamente il ritmo dell’anima, ed ecco la prima, meravigliosa gemma leopardiana, l’avvio del Passero solitario: “D’in su la vetta della torre antica,/ passero solitario, alla campagna/ cantando vai finché non muore il giorno;/ ed erra l’armonia per questa valle./ Primavera d’intorno/ brilla nell’aria, e per li campi esulta,/ si’ ch’a mirarla intenerisce il core”. Che purezza, questo canto che vaga per la campagna, la sua indeterminatezza, la vaghezza che ci fanno godere di quel “caro immaginare”, radice di tanti capolavori leopardiani! Quella primavera che brilla nell’aria ritornerà ogni volta nelle nostre primavere più dolci, quando una luce limpida e senza veli brillerà e ci renderà felici di stare al mondo. Eh sì, perché il Nostro amava la vita, in contrasto col suo stesso pessimismo. E amava la Natura, che pure considerava un mostro orribile, “madre di parto e di voler matrigna” (La ginestra)
Attenzione, siamo al momento clou: “Sempre caro mi fu…”. Sprofondiamo ancora una volta, dopo duecento anni circa, in questa immensità, in questo Infinito che si fa strada nella mente attraverso il superamento del dato sensoriale e benediciamo quella siepe che da tanta parte escluse lo sguardo del poeta ma spianò la via a versi memorabili. Nel dolce, ossimorico naufragio finale, ognuno di noi è autorizzato, magari poco filologicamente, a sentire quello che vuole: la pace interiore che per una volta arriva nella nostra vita, un attimo di armonia del tutto e col tutto, Dio, il nostro Dio personale che balena, intimo e senza dogmi, raccolto dentro di noi e libero da ogni dottrina.
Mi sono sempre chiesto quale sia poi il segreto di un altro, meraviglioso incipit: “Dolce e chiara è la notte e senza vento,/ e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti/ posa la luna, e di lontan rivela/ serena ogni montagna” (La sera del dì di festa). Non so, ma la sintassi lineare, le parole dall’uso ancora comune, sono un vero miracolo della scrittura. E la leggerezza di questa definizione al negativo, l’assenza di vento, è un prodigio poetico. Di fronte a tanta impalpabile, quasi evanescente bellezza, appare più tormentato e disperato l’anima dell’innamorato che si sente disprezzato e nemmeno ci spera che la donna amata abbia un pensiero per lui, in quella serata magica: “non io/ non già che io speri/ al pensier ti ricorro”. La conclusione non è da meno: il poeta si ricorda di quando era bambino e, al concludersi di un’analoga giornata festiva, udiva un canto per i sentieri “lontanando morire a poco a poco” e già ne traeva presagio di dolore e di morte. “Lontanando morire a poco a poco”: un verso in calando che imita mirabilmente il lento spegnersi del canto nella profondità di una notte silenziosa, già vissuta con dolore.
La Nerina delle Ricordanze (“Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea…”), Silvia: intorno a vaghe figure femminili, poco più che fantasmi della fantasia, si concentra la sostanza poetica di due canti conosciutissimi anche al grosso pubblico, ma la mente ritorna soprattutto al poeta che, lasciando gli studi e le “sudate carte”, udendo la voce e il rumore della mano della fanciulla che percorreva la tela, osserva il paesaggio intorno ed è colto da un’arcana felicità. “Mirava il ciel sereno,/ le vie dorate e gli orti,/ e quinci il mar da lungi, e quindi il monte./ Lingua mortal non dice/ quel ch’io sentiva in seno”.
A conclusione di una straordinaria stagione creativa, vissuta a metà tra l’odiosamata Recanati e Pisa dal clima dolce che attenua le sue sofferenze, un altro vertice assoluto, il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, ci insegna le parole per porre istintivamente alla luna, quando la vediamo splendere in cielo, la stessa eterna domanda : ”Che fai, tu, luna in ciel? dimmi che fai,/ silenziosa luna!”, quasi a chiederci la ragione misteriosa del nostro stare su questa piccola terra in mezzo all’immensità degli spazi, ignara di noi, del nostro sperare come del soffrire.
Ma, inaspettato e diverso, ecco un gioiello meno noto: una poesia drammatica, di puro pensiero, dedicata stavolta ad una esperienza d’amore reale, conclusasi con una delusione senza pari, ed un invito A se stesso ad abbandonare quest’ultima illusione che sembrava avere rianimato la vita, a realizzare che nulla vale la pena di vivere in questa “infinita vanità del tutto”. La bellezza dell’universo si rovescia in ascetico nichilismo. Tanto può l’assenza d’amore, la disperazione che Aspasia (al secolo Fanny Targioni Tozzetti) gli infligge senza neanche immaginarne le conseguenze. Un verso scolpito nella pietra della grande poesia ed un’eco lontana dell’Ecclesiaste, senza la prospettiva religiosa, e del meraviglioso Catullo, quando invitava se stesso ad abbandonare l’amore impossibile per Lesbia. Solo che qui la disperazione trascende l’individuo e si fa cosmico, universale dolore, insensatezza della esistenza.
Poi Torre del Greco e quell’ultima, meravigliosa sinfonia scritta sulle pendici del Vesuvio, dove attecchisce la ginestra, che dà il suo nome ad un ultimo capolavoro. L’innamorato della vita, se da una parte osserva la distruzione provocata dal “formidabile monte,/ sterminatore Vesevo”, dall’altra pensa agli uomini, alla loro volontà epica di ricominciare dopo le sciagure, esortandoli a superare le barriere che li dividono e a combattere il vero, unico nemico di tutti: la Natura avversa. Parole che, in tempi di pandemia e di faticosa lotta per sconfiggere il virus con i mezzi della conoscenza, del sapere scientifico e della collaborazione tra i popoli e tra scienziati di vari paesi, ancora una volta si riattualizzano e prendono il sapore di una profezia.
P.S. Lo so, vi aspettavate almeno una citazione del Sabato del villaggio ma ho l’impressione che la donzelletta, il mazzolin di rose e di viole, la vecchierella siano state alquanto usurate dalla scuola e che il resto l’abbia fatto il suo impianto didascalico. Ci rimarrebbe forse il senso di tristezza e di vuoto della domenica pomeriggio. Ma oggi ci sono le partite in tv, almeno per i tifosi. E poi, se uno ha la fortuna di fare un lavoro che gli piace, come per me era l’insegnamento, la prospettiva dell’incombente lunedì non è poi tanto terribile. Infine, l’attesa del sabato si è diluita oggi nel venerdì, che ormai gli è fratello. E “Il venerdì del villaggio” non suonerebbe granché bene.
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Quanto alla teoria del piacere, fa parte di quell'insieme di riflessioni filosofiche leopardiane che, pur avendo un valore autonomo, sono il punto di partenza imprescindibile della poetica e della poesia leopardiana.
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