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Un grande poeta da riscoprire!
Nel panorama letterario italiano, Giovanni Pascoli (1855-1912) è forse un poeta ancor poco apprezzato, se non intenzionalmente ignorato o addirittura dimenticato e relegato alle vecchie antologie scolastiche dei tempi in cui studiare poesia, al contrario di quanto accade oggi, veniva considerata cosa buona e giusta.
Eppure, quella dell'autore romagnolo resta una delle voci poetiche di maggior rilievo e più rappresentative del periodo a cavallo tra la fine dell'Ottocento e il primo Novecento, come del resto ben anticipava la stessa raccolta “Myricae”, pubblicata per la prima volta nel 1891; l'edizione definitiva, comprendente centocinquanta liriche raggruppate per temi, sarebbe giunta a distanza di una dozzina d'anni.
Tra queste pagine di raro pregio, si susseguono soprattutto brevi testi, piccoli componimenti finemente cesellati e ispirati alla natura, dove trovano spazio l'amore per la terra natale (quella “Romagna solatia, […]/ cui regnarono Guidi e Malatesta” cantata con passione e trasporto non comuni), gli affetti più cari, i ricordi specie dell'infanzia e della prima giovinezza, la solitudine struggente, i tanti lutti che, uno dopo l'altro, si abbatterono sulla famiglia Pascoli, a partire dall'omicidio, peraltro impunito, del padre Ruggiero alla cui memoria l'opera è stata dedicata. La presenza della morte, non a caso, aleggia molto spesso su questi versi, impregnandone l'essenza e condizionando le emozioni e la visione del mondo da parte del poeta; una visione, proprio in virtù di tutto ciò, sempre ammantata di malinconia, se non di cruda tristezza, così come di tacita rassegnazione di fronte alla immanenza del dolore che mette radici profonde e inestirpabili nell'umano vivere. E la felicità, dunque, non ha possibilità alcuna di esistenza? Forse, ma essa si riduce soltanto a qualcosa di sfuggente, vago, ingannevole il cui inseguimento termina ogni volta tra le ombre della sera per annullarsi nell'inevitabilità di un“silenzio infinito”.
Poesia sorprendente e ammaliante, quella che le “Myricae” donano al lettore, il quale si ritrova così a contemplare la lenta e atavica vita nei campi, a perdersi tra i colori dei paesaggi che seguono l'eterno alternarsi delle stagioni, ad ascoltare le cantilene d'amore delle lavandaie o il chiacchierare notturno e sognante delle fanciulle intente a lavorare all'arcolaio alla luce della lanterna. Scrittura, quella pascoliana, attenta altresì al particolare, al quotidiano, alle umili cose della campagna, ma non per questo priva d'eleganza e raffinatezza formali che culminano in una musicalità puntuale e impeccabile.
Riguardo a Pascoli, così Gabriele d'Annunzio scriveva: “Penso che nessun artefice moderno abbia posseduto l'arte sua come Giovanni Pascoli la possedeva. La sua esperienza era infinita, la sua destrezza era infallibile, ogni sua invenzione era un profondo ritrovamento. Nessuno meglio di lui sapeva e dimostrava come l'arte non sia se non una magia pratica.” Parola di Vate!
Tra i componimenti più belli dell'intera silloge, mi piace ricordare quello intitolato “Romagna”, i cui versi, appresi almeno tre decenni fa, sono riaffiorati come per incanto alla mia memoria:
“Romagna”
(a Severino)
Sempre un villaggio, sempre una campagna
mi ride al cuore (o piange), Severino:
il paese ove, andando, ci accompagna
l’azzurra vision di San Marino:
sempre mi torna al cuor il mio paese
cui regnarono Guidi e Malatesta,
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.
Là nelle stoppie dove singhiozzando
va la tacchina con l’altrui covata,
presso gli stagni lustreggianti, quando
lenta vi guazza l’anatra iridata,
oh! Fossi io teco; e perderci nel verde,
e di tra gli olmi, nido alle ghiandaie,
gettarci l’urlo che lungi si perde
dentro il meridiano ozio dell’aie;
mentre il villano pone dalle spalle
gobbe la ronca e afferra la scodella,
e ‘l bue rumina nelle opache stalle
la sua laboriosa lupinella.
Da’ borghi sparsi le campane in tanto
si rincorron coi lor gridi argentini:
chiamano al rezzo, alla quiete, al santo
desco fiorito d’occhi di bambini.
Già m’accoglieva in quelle ore bruciate
sotto ombrello di trine una mimosa,
che fioria la mia casa ai dì d’estate
co’ suoi pennacchi di color di rosa;
e s’abbracciava per lo sgretolato
muro un folto rosaio a un gelsomino;
guardava il tutto un pioppo alto e slanciato,
chiassoso a giorni come un birichino.
Era il mio nido: dove immobilmente,
io galoppava con Guidon Selvaggio
e con Astolfo; o mi vedea presente
l’imperatore nell’eremitaggio.
E mentre aereo mi poneva in via
con l’ippogrifo pel sognato alone,
o risonava nella stanza mia
muta il dettare di Napoleone;
udia tra i fieni allor allor falciati
de’ grilli il verso che perpetuo trema,
udiva dalle rane dei fossati
un lungo interminabile poema.
E lunghi, e interinati, erano quelli
ch’io meditai, mirabili a sognare:
stormir di frondi, cinguettio d’uccelli,
risa di donne, strepitio di mare.
Ma da quel nido, rondini tardive,
tutti tutti migrammo un giorno nero;
io, la mia patria or è dove si vive:
gli altri son poco lungi; in cimitero.
Così più non verrò per la calura,
Tra que’ tuoi polverosi biancospini,
ch’io non ritrovi nella mia verzura
del cuculo ozioso i piccolini,
Romagna solatia, dolce paese,
cui regnarono Guidi e Malatesta;
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.
Giovanni Pascoli
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