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La solitudine del poeta
È un canto solitario e triste, quello che il poeta Gavino Puggioni intona e libera tra le strade scoscese del mondo e dell’umano vivere. Versi, i suoi, acuti e penetranti, che s’intrecciano in pagine dense di significato ed emozioni.
In questa nuova silloge, così come in altri precedenti lavori, uno dei tratti distintivi della sua scrittura è senza dubbio quello di uscire dai confini, per quanto vasti, della propria interiorità per prestare ascolto alla realtà di cui quella stessa interiorità è parte. La penna dell’autore, non a caso, si sofferma, con addolorata indignazione, agli angoli delle nostre strade, ma anche su quell’altrove soltanto in apparenza lontano, dove masse di disperati vivono una quotidianità di guerre e atrocità impunite, dove “il cielo è tenebra/ […] e la terra germoglia/ di cadaveri”. E s’interroga, pur se tanti sono i perché che rimangono senza risposta, mentre assiste impotente alle brutture di un mondo nel quale, oggi, anche il dolore finisce per essere globalizzato: “Le armi/ ma perché le armi?/ chi devono ammazzare/ ancora?/ Le violenze/ ma perché le violenze?/ i nostri bambini/ le nostre donne/ perché tante vittime?”
Echi di guerre che bussano ormai incessantemente alle nostre porte, dignità umiliate e calpestate, giovani vite brutalmente recise da una terra di cui non s’ode che il pianto: in questo scenario, devastato e devastante, il poeta è solo, smarrito, con una identità che non è più la stessa. Intorno a lui soltanto il vuoto del silenzio, riempito dal fragore dei pensieri e dalla voce inquieta del vento. Ma, per fortuna, esiste anche il mare, quello che bagna la terra natìa e la cui voce scuote l’anima, riconducendo il cuore a ritroso nel tempo, lungo i sentieri perduti degli anni.
Ecco ricomparire allora, come sprazzi di sole, frammenti d’infanzia e altre stagioni felici, quando c’era ancora spazio per i sogni e le voci dei bambini si rincorrevano a perdifiato tra vigne e canneti. Il tempo, però, sommo e sublime inganno, scivola via troppo in fretta, facendo sì che l’esistenza si riduca sconsolata a essere “come un’ombra”, e ciò che resta, alla fine, è soltanto amaro disincanto: “Avevo tempo/ da consumare/ forse per amare/ Lo credevo/ ne ero convinto/ Invece l'ho consumato/ e/ non me ne sono accorto!”
Con uno stile incisivo, metricamente libero, spesso lapidario, Gavino Puggioni dà forma e sostanza a una silloge intensa e appassionata, nella quale la solitudine diventa condizione dell’anima attraverso cui scrutare il mondo, sia interiore che esteriore, mentre passato e futuro già s’intersecano nell’oggi desideroso di altra vita, altro tempo, così come di pace e speranza.
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