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“E l’ommini accusì viveno ar monno…”
È la Roma papalina della prima metà dell’Ottocento, quella immortalata nei sonetti di Giuseppe Gioachino Belli: popolani e nobili, servi e padroni, pontefici, cardinali e monsignori, preti, fraticelli, padri confessori, boia, meretrici, ebrei del Ghetto, santi e dannati, giacobini e carbonari.
Un grande affresco di cui ogni singolo sonetto costituisce un colorato vivacissimo quadretto, dove risuonano non soltanto preghiere in processione e benedizioni papali, ma anche (e soprattutto) imprecazioni, volgarità e schietto vociare di piazze e mercati dell’Urbe. Per chi, come me, non è madrelingua, il romanesco del Belli potrebbe non risultare a tratti troppo scorrevole, al contrario di quello di Trilussa, ma di certo è sempre spassoso. L’autore, acuto osservatore e testimone del suo tempo, non risparmia niente e nessuno, puntando il dito contro la corruzione morale e materiale insita anzitutto nel clero fino al massimo vertice; nei suoi sonetti, irriverenti, dissacranti, licenziosi, a loro modo filosofeggianti, a parlare sono per lo più popolani d’ogni risma che riflettono su come va il mondo e le ingiustizie della vita, senza lesinare un pensiero nemmeno a chi occupa il soglio di san Pietro…
La vita der Papa
Io Papa?! Papa io?! fussi cojjone!
Sai quant’è mejo a ffà lo scarpinello?
Io vojo vive a modo mio, fratello,
e no a modo de tutte le nazzione.
Lèveje a un omo er gusto de l’ucello,
inchiodeje le chiappe s’un zedione,
mànnelo a spasso sempre in pricissione
e co le guardie a vista a lo sportello.
Chiudeje l’osteria, nègheje er gioco,
fàllo sempre campà co la pavura
der barbiere, der medico e der coco:
E’ vvita da fà gola e llusingatte?
Pe mé, inzin che nun vado in zepportura,
maggno un tozzo e arittoppo le ciavatte.
16 novembre 1833