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La dignità, nient’altro che la dignità
Non è un caso se questa raccolta poetica riporta, dopo la dedica ai figli, gli ultimi quattro versi di Pozzanghera nera il 18 aprile (Noi siamo rimasti la turba / la turba dei pezzenti, / quelli che strappano ai padroni / le maschere coi denti), poesia in cui il grande Rocco Scotellaro riassume in modo encomiabile il profondo disagio delle genti meridionali e, per estensione, di tutti coloro che, schiacciati dalla prepotenza dei padroni, sono gli ultimi, benché non secondi a nessuno. Carlo Levi coniò per questo grandissimo autore lucano l’appellativo di poeta della “libertà contadina”; purtroppo lasciò questo mondo che aveva appena trentanni, ma se la morte lo colse troppo presto i semi della sua passione hanno attecchito, pochi forse, ma sufficienti a perpetuare un ideale che sempre esisterà fino a quando uomini prevarranno sistematicamente su altri uomini. Uno di questi semi ha il nome di Vincenzo D’Alessio, un meridionale pure lui, che ha nel cuore la sofferenza di tanti, troppi oppressi. Non si tratta di una scelta politica in senso stretto, ma di un fuoco sempre vivo che lo ispira, lo porta a scrivere versi come questi: Il dolore dei poveri / fa sorridere il mondo / La morte fa notizia /dal telegiornale/…; oppure Attenti al sistro del vento / al ventaglio dei politici / alla falsa materia. Cristo / viene ucciso su questa terra / in ogni momento e non si / chiama Roma!. Certo la realtà di un meridione dagli eterni e stridenti contrasti fra bene e male, fra ricchezza e miseria, fra la tanta gente onesta che subisce e la malavita che soffoca, che condiziona, che toglie ogni speranza, influiscono notevolmente sulla produzione letteraria di D’Alessio, ma si sbaglierebbe a considerarlo solo il cantore del sogno del Sud, di un mondo più giusto, di una dignità totale e non effimera, perché i Sud del mondo sono tanti, sono le favelas del Brasile, le baraccopoli dell’Africa, la rassegnazione di tanti giovani, in meridione come in settentrione, che non trovano lavoro. No, D’Alessio è di più, è la voce di un impegno civile che sgorga dal petto e che non si rassegna mai, non demorde, continua in una lotta a oltranza, sorretto dalla passione propria di chi non può restare indifferente. Il suo è un grido pacato, ma è un grido, una luce che brilla, un faro per una torma di naviganti cenciosi che anelano a un mondo migliore. Non c’è astio, non c’è violenza in questa lotta verbale, ma forse sono proprio le parole che, restando, feriscono più di una spada, sono i silenzi attoniti a rimbombare all’intorno, è un canto che ha la levità di una preghiera e la forza di un pugno che colpisce allo stomaco.
Questo e altro è Versi di lotta e di passione e credo che se Rocco Scotellaro potesse leggere questa silloge ne sarebbe contento e direbbe: “Non ho seminato invano.”.