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Senza vie di fuga
Ho letto Ossi di Seppia a più riprese nella mia vita e come sarà accaduto a molti prima da studentessa e poi da appassionata di letteratura e vorace lettrice. Ciò che immediatamente balza all'attenzione del lettore è la "negatività" e non già il "pessimismo" Montaliano. Ecco perchè non citerei subito "Spesso il male di vivere ho incontrato" ma innanzitutto "Non chiederci la parola" che non a caso apre la raccolta. Montale collocandosi sulla sponda opposta a quella del poeta vate d'annunziano (la cui lezione, specie se consideriamo la cifra stilistica, fu comunque assorbita dal poeta) dichiara di non essere in grado di fornire alcuna risposta o formula agli interrogativi esistenziali: tutto ciò che può dire, parafrasando la quartina con la quale si conclude la lirica, è “ciò che NON siamo, ciò che NON vogliamo". Si tratta di una chiara dichiarazione di poetica: l'autore specifica il modulo procedimentale utilizzato che si risolve in un approccio "negativo", fermo e rassegnato ad una realtà (il male di vivere appunto) che resta immanente e che mai trascende alla maniera di Ungaretti suggerendo un qualche barlume di speranza.
Ossi di seppia sono i ventitré componimenti che corstruiscono la raccolta, resti organici, oggetti inanimati proprio in quanto non forniscono risposte ma constatano "cose". Sebbene questo, essi non restano senza scopo; sono sì oggetti inanimati ma pur sempre oggetti in divenire destinati ad altra "utilità".
Pessimismo, rassegnazione, "negatività"(nella particolare accezione che abbiamo conferito a questo concetto) contribuiscono in ultima analisi a trasmettere al lettore un senso di spaesamento e disillusione: ci si ritrova immersi in una realtà desolante senza vie di fuga.
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Non posso che condividere.
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Interessante commento. Montale è certamente maestro di stile, ma io preferisco Ungaretti che, pure di fronte al dolore trova in sé un palpito di vita, spesso molto di più.