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La Commedia della Follia
Quando Ludovico Ariosto scrive il suo capolavoro, siamo agli inizi del Cinquecento, in pieno Rinascimento, periodo culturalmente e politicamente ricco di luci e ombre. Il recupero del classicismo aveva portato a una nuova coscienza del reale; l’Italia era dominata dal sistema politico delle corti, laddove i letterati ed artisti svolgevano la loro attività secondo i dettami politici dei loro principi-mecenati. Alla corte estense di Ferrara opera Ludovico Ariosto, personalità tesa a preservare una propria libertà artistica, il che genererà un contrasto di fondo con la sua condizione di poeta di corte. La visione disincantata delle dinamiche umane e politiche dell’autore trova espressione dunque nel grande poema epico, che, attingendo ai modelli ereditati dalla tradizione romanza e volgare, mette in luce la commedia della follia che domina la vita dell’uomo. La guerra tra cristiani e musulmani rimane dunque sullo sfondo, mentre in primo piano ci sono le guerre dell’uomo con se stesso e con gli altri, con le passioni e con le inspiegabili forze che muovono il mondo, narrate ed esemplificate con eccellente sapienza artistica, nobilitata da richiami linguistici ai classici latini e volgari, e con una vena comica, ma non per questo non impegnata. La trama complessa, su cui non mi soffermo, è costituita da un’immensità di fili narrativi tra loro intrecciati, forse impossibili da ricordare, ma in cui è comunque possibile orientarsi considerando alcune parole-chiave, tra loro strettamente connesse, per comprendere l’intima essenza di questo caposaldo della letteratura italiana.
FOLLIA. Ad essa si allude già nel titolo, che richiama in realtà un episodio sì rilevante, ma non preponderante in un’opera policentrica. In piena armonia con le tendenze culturali dell’epoca, la follia risulta nel paradosso della realtà la condizione di normalità dell’uomo. Tutti i cavalieri, cristiani o pagani che siano, sono rappresentati in una grottesca contraffazione della figura del paladino tradizionale: al ligio combattente per la propria etica Ariosto sostituisce degli stolti uomini che seguono i loro istinti, lasciandosi ingannare ingenuamente da una realtà che non è come appare (il contrasto tra realtà ed apparenza è un Leitmotiv della cultura umanistico-rinascimentale). Inconsapevoli e incapaci, essi creano tutti una serie di situazioni teatrali comiche in cui Ariosto riversa ironicamente la sua disillusione sulla natura dell’uomo. La pazzia è ovunque (l’esempio principe è la guerra, il più grande esempio della follia umana secondo Ariosto) e le passioni, in primis l’Amore, prima e più comune forma di pazzia, guidano le azioni di tutti i personaggi in una smaniosa corsa verso l’incomprensibile.
VANO. Ciò che accomuna tutti i personaggi del poema è la ricerca di un oggetto del desiderio (una donna, un elmo, un amante e quant’altro); una costante ricerca destinata (tranne in un solo caso, funzionale all’encomio del protettore del poeta) a rimanere sempre inappagata. Gli uomini, mossi dalla passione e dimentichi di ogni barlume di razionalità, vanno continuamente incontro al fallimento poiché incapaci di districarsi nelle contraddizioni di una realtà dominata dal caos e dal disordine. La vanità di ogni azione è dunque legata al carattere effimero delle passioni, che conducono inevitabilmente al fallo, termine estremamente ricorrente nel poema proprio ad indicare il tratto comune ad ogni vita dominata da insane passioni, di cui il poeta, lungi da ogni tipo di moralismo, ammette di esser vittima egli stesso. L’errore di ogni uomo è quello di pretendere di conoscere nella propria condizione di permanente e inconsapevole cecità di fronte al destino.
CASO. Autore laico e poco interessato a disquisizioni ed indagini metafisiche, Ariosto attribuisce la responsabilità degli eventi al caso. La Fortuna, latinamente intesa come sorte cieca, è il mondano primo motore immobile, la forza invincibile che determina l’inquieto susseguirsi di avvenimenti contro cui nulla può la virtù umana, la boccacciana “industria”, di cui la sorte si prende indistintamente gioco. Il suo carattere irrazionale spiega (senza spiegarla) il turbine confuso e caotico di eventi in cui l’uomo è coinvolto, la realtà contraddittoria e incomprensibile alla ragione dell’uomo, naturalmente portato dunque alla follia. L’unica forma di conoscenza umana possibile è quindi legata paradossalmente alla stultitia, ossia la “pazzia”, ma anche la “stupidità”, che, come detto, caratterizzano i protagonisti del poema. Ogni certezza e stabilità è dunque negata radicalmente dall’Ariosto, che vi sostituisce un altro termine-chiave della sua poesia, il “forse”, riconducendo tutto al campo della possibilità. E se tutto è possibile, l’autore non si fa scrupolo di combinare, come fosse normale, l’elemento magico a quello reale: razionalità e fantasia sono perfettamente coesistenti e, perdipiù, sono un ottimo strumento letterario per suscitare interesse nel pubblico. La verità assoluta non esiste e l’uomo brancola nel buio. Come programmaticamente dichiarato dal poeta nell’opera, il lettore potrà cogliere il senso dell’opera solo, ancora una volta paradossalmente, capovolgendo quanto letto.
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corredata di una puntuale contestualizzazione dell'opera
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