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E' cino, la gran bota, la s-ciupteda
 
E' cino, la gran bota, la s-ciupteda 2014-09-11 19:45:52 Renzo Montagnoli
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    11 Settembre, 2014
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Una raccolta in vernacolo

Il dialetto è un idioma tipicamente locale e fino a non molto tempo fa era utilizzato più frequentemente della lingua italiana. Al riguardo, da un’inchiesta ministeriale del 1910 risultò che oltre la metà degli insegnanti delle elementari ricorreva al dialetto per le lezioni quotidiane. Il fatto fece scalpore, furono presi immediati provvedimenti e in pochi anni il vernacolo venne bandito dagli istituti scolastici. In un paese come il nostro in cui lo spirito unitario è sempre stato carente è comprensibile quindi che sia fatta leva, onde creare una popolazione omogenea, sull’uso di una sola lingua, appunto l’italiano. Poco a poco il dialetto venne confinato a entità ristrette, assumendo a volte le caratteristiche di un linguaggio arcaico che pochi appassionati si ostinavano a mantenere. Come in vernacolo c’erano le prose, si avevano anche le poesie, anzi entrambe le forme espressive esistono ancora oggi (ricordo che fino a pochi anni fa a Mantova c’era un vero e proprio Festival delle commedie dialettali). E se spesso associamo al vernacolo una narrativa o una poesia di limitato spessore, sovente tesa, anche con toni un po’ volgari, a sollecitare la facile risata, non vi è però da dimenticare che ci sono stati poeti dialettali di rilevante valore (Trilussa e Totò, per citarne i più noti). Quindi anche la poesia in vernacolo, purché si tratti di componimenti non banali, ma votati a messaggi non di rado profondi, ha una sua dignità, pur restando un problema di base che è la sua non facile comprensibilità in tutte le zone d’Italia, con l’eccezione dei versi in napoletano e in romanesco, dialetti discretamente conosciuti anche al di fuori delle località d’origine. Affinché tutti potessero comprendere è intervenuto opportunamente l’uso di accompagnare al testo in vernacolo la traduzione in italiano, che però risulta meno efficace di certi linguaggi locali nell’esprimere concetti e situazioni.
A questo punto ci si chiederà il perché di questo lungo preambolo e al riguardo si potrà comprendere dal mio commento critico che segue subito.
È cino – la gran bòta – la s-ciuptèda è una raccolta di poesie in dialetto romagnolo che Gianfranco Miro Gori, l’autore, ha pubblicato con l’editore Fara di Rimini, quindi perfettamente nella zona del vernacolo utilizzato. Quanto sia importante la traduzione a latere è testimoniato dal fatto che il titolo mi aveva indotto a pensare a un certo Gino, che prende una gran botta e poi una schioppettata. Niente di più sbagliato perché cino sta per Il cinema, la gran bòta per Il gran botto e solo la s-ciuptèda ha un significato comprensibile, cioè la schioppettata.
Questa raccolta è articolata in tre tematiche, di cui quella preponderante è il cinema, e non poteva essere altrimenti visto che Gori ha ideato e diretto la Cineteca di Rimini. In effetti, cino è un omaggio al cinematografo, non a quello di oggi che ne vede forse gli ultimi bagliori, ma a quello di ieri, in una sorta di Nuovo Cinema Paradiso e di Amarcord. E’ una rievocazione commossa delle sale di un tempo, fumose, anche chiassose, per quello che all’epoca non era uno spettacolo, ma Lo Spettacolo. E così come i fotogrammi di una pellicola i versi ci raccontano la storia del cinema fino all’amara conclusione che sembra segnare la fine di un mondo (Il cinema è morto, / Il dialetto è morto./ O / ruzzolano entrambi / più o meno / nel vociare della televisione / nel chiacchiericcio di Internet). Insomma è finita un’epoca pionieristica, in cui si ragionava anche con il cuore, ed è trionfante il periodo tecnologico, che, inaridita l’anima, sta anche congestionando la mente. Sì, è una fine, ma questa terra, questo mondo in cui viviamo, com’è nato? Grazie al gran botto, al big bang ha cominciato a formarsi la Terra, si è sviluppata, e anche se non possiamo avere la misura del tempo che è stato necessario, alla fine è quello che ci ritroviamo, noi compresi. Sono originali le poesie che parlano in pratica della creazione e rivelano che l’autore qui ha un chiaro intento didascalico, perché sapere da dove veniamo serve per conoscere dove andremo.
Scopi legati alla sua terra e in particolare al suo paese natio San Mauro Pascoli sono all’origine delle ultime due poesie (Il morto ammazzato e L’assassino) e parlano di un fatto vero, dell’omicidio di Ruggero Pascoli, padre del grande poeta Giovanni. Hanno la voce del cantastorie, il sapore di un tempo passato che, ahimé, mai più ritornerà.
Nel complesso il libro mi è piaciuto, per quanto sia impossibilitato a esprimere un giudizio compiuto sullo stile, stante la mia modesta conoscenza del dialetto romagnolo che influenza tuttavia solo in minima parte la gradevolezza, poiché ho preferito abbandonarmi alle caratteristiche e simpatiche inflessioni; il contenuto, peraltro, non è da poco, affronta temi, quali la memoria e il mistero della creazione, senza scivolare nel banale o in cose più che risapute, ma con una sua personale visione in cui in più di un’occasione mi sono ritrovato.
Quindi, l’invito è a leggerlo, perché ne vale la pena.

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