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Estatico abbandono
Dalle sommità dell’Appennino scende il vento, precipita in forre oscure, da cui poi risale per rotolare lungo le chine delle dolci colline senesi e infine va a placare la sua irruenza, distendendosi nell’amena e bucolica campagna toscana. Viene e porta con sé voci armoniche, versi soffusi di languida malinconia che l’esile, ma ferma mano di Maria Teresa Santalucia Scibona ha segnato su fogli di carta bianca che ora svolazzano, s’insinuano in ogni pertugio, fino a quando trovano una finestra aperta e, quasi per miracolo, si ricompongono sul mio tavolo.
Ed è così che li leggo, ancora odorosi di resina di pino, ancor olezzanti delle mille essenze vitali di una natura che mi par di sentire amica. E sono d’amicizia queste poesie, dedicate quasi tutte a persone con cui l’autrice è riuscita a entrare in sintonia, tanto che l’hanno ispirata. Per quanto i temi discussi siano i più vari, di questa natura c’è più di una traccia, c’è anzi un estatico abbandono da cui riemergere per mostrare, quasi con stupore, quanto immensamente l’anima sia stata nutrita, coccolata, vezzeggiata dall’assoluta bellezza e perfezione del creato, di cui i versi possono solo darci un’idea, per quanto sapientemente esposta (Altrove, in un altro emisfero / la notte abbandonò l’alcova. / Il giorno ancora assopito, / salutava l’alba mollemente / adagiata nel divano di stelle. /… oppure ancora …/ Nel tramonto ramato / non v’era alcuno, oltre me / nella silente solitudine. / Cresceva il desiderio di calarmi / fra gli spazi votivi dell’anima, per godere con lo stupore / di bimbo, l’incanto del creato.). Fra l’altro, la lirica che ho sopra riportato, oltre a essere esplicativa di quel concetto di estasi, nell’ambito della produzione di Maria Teresa Santalucia Scibona mi sembrano che con altre di questa raccolta possano costituire ancora una volta una significativa conferma di una spiccata predisposizione per un’analisi attenta del destino umano, come appare più evidente nella poesia che dona il titolo all’intera silloge. Mi riferisco a Le rotte del vento, dedicata Giampaolo Rugarli, noto narratore italiano. Credo che valga la pena di riportarla per intero: Nel mare ondeggiante / la carena silente / solca i flutti l’infrange. / Senza indizio riga / la traccia del tragitto. / Ospiti di scarsi giorni, // anche noi corrucciati / bramosi gaudenti / di terrene delizie / navighiamo a vista / eludendo ignari / le rotte del vento. In pochi versi concisi è riportata la vita di ogni uomo con una metafora di un Titanic che procede senza una meta ben precisa, cercando, inconsapevolmente, di evitare quelle rotte del vento che poi sono frutto della natura, rientrano in un disegno complesso, imprevedibile e incomprensibile, su cui si basa tutto il Creato. È tuttavia la sensibilità individuale che ci conduce a esprimerci mediando ciò che intendiamo dire con ciò che osserviamo e quello che i nostri occhi vedono è la perfezione assoluta della natura, di cui noi stessi siamo umile parte. E questa osservazione è frutto di una trascendenza che ci porta a vedere anche e soprattutto con l’anima.
A proposito di metafora, forse più che in altre sue raccolte, questo tropo è ben presente ed è il ricorso alla natura una via quasi obbligata per esprimere concetti e sensazioni.
Peraltro, da una poetessa come Maria Teresa Santalucia Scibona tutto è lecito attendersi, fuorché la banalità, i versi fini a se stessi, il compiacimento nel cercare astruserie, nell’imbarazzare il lettore con concetti incomprensibili. No, questo poetare non rientra nel suo DNA; è presente in lei invece una forza vitale, un carattere indomito, nonostante che la salute non l’assista, uno stimolo, direi, che l’induce a rendere particolare e originale, e ovviamente artistico, ogni tema trattato, anche il più comune, tanto comune da poter sembrare a una disamina superficiale di scarso o nullo interesse. Ne è una ulteriore conferma anche questa raccolta, come in Gli intrusi, un’altra metafora che sulle ali di Esopo tratta con riuscitissimo artificio il tema spesso abusato dei difetti del progresso. Insomma, se mi è stato chiesto di prefare questa raccolta, io ho accettato, ma per quanto cerchi di porre in evidenza questo o quel pregio nulla posso di più di quello che il lettore riuscirà, in tutta libertà, a cogliere leggendo, perché non c’è nessuna difficoltà interpretativa, i versi scorrono come un tranquillo torrente al piano, i concetti sono ben sviscerati, senza possibilità che sorgano dubbi, il piacere di un’armonia strutturale completa è sempre presente.
Potrei aggiungere: che cosa è possibile pretendere di più? E infatti è proprio così, ma, mentre chiacchiero e volgo con la penna alla fine, un colpo di vento improvviso mi scompagina i fogli, li solleva e invano li rincorro mentre svolazzando escono fuori e paiono accodarsi a uno stormo di migratori. Dove andranno? Non posso saperlo, quel che è certo è che loro non eluderanno le rotte del vento.