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Alla ricerca della perfezione
“Da Pietole: …/ VIRGILIO! O tu, cui partorì la madre /nei campi, al sole, dentro un solco aperto / dal curvo aratro per il pio frumento; / o tu, che avesti per gemello un pioppo / che si levò su tutti gli altri al cielo, /sì che ai suoi rami si stessean le nubi: / appiè del dio, chiuso nell'aureo musco, / venìan le incinte, e i loro blandi voti / s'unìan lassù col pigolìo dei nidi: /…”
Questa raccolta, pubblicata nel 1909, è la naturale continuazione dei Primi poemetti, stampati quattro anni prima, ed è dedicata agli studenti dei licei e delle università in cui Pascoli insegnò. Lungi dall’essere un semplice coacervo di poesie scollegate fra loro è una vera e propria silloge mirata in cui si amplia ulteriormente il tema della vita contadina, pur presentando componimenti, peraltro di notevole pregio, avulsi da questa tematica. È questo il caso di La Vertigine, con la quale si discerne del mistero della vita e del profondo senso di smarrimento cosmico, in una continua ricerca dell’Assoluto come soluzione a una inanità che sempre incombe sull’uomo, secondo un’ottica tipica del decadentismo (… / Oh! se la notte, almeno lei, non fosse! / Qual freddo orrore pendere su quelle / lontane, fredde, bianche azzurre e rosse, / su quell'immenso baratro di stelle! /…).
Non mancano ovviamente poesie dedicate alla vita agreste, come Tra le spighe (Il grano biondo sussurrava al vento. / Qualche fior rosso, qualche fior celeste, / tra i gambi secchi sorridea contento. /...), un caleidoscopio di immagini in cui si avverte un certo rimpianto per quel mondo in cui Pascoli è nato e che necessariamente con gli studi è stato costretto a lasciare. Ma sono parentesi atte a stemperare quel pessimismo che lo attanaglierà per tutta la vita, in un senso di precarietà e di incompiutezza che lo costringeranno a un’esistenza tormentata, di cui così bene si tratteggia nella biografia Giovanni Pascoli. Tutto il racconto della vita tormentata di un grande poeta, scritta da Gian Luigi Ruggio.
I Nuovi poemetti sono un’opera del tutto particolare, stante la notevole dimensione quasi narrativa dei testi, e la metrica adottata, la terzina dantesca, un omaggio alla lui tanto cara Divina Commedia. Però, se Dante Alighieri aleggia con il suo stile, è pure presente l’ispirazione di Virgilio, attesa la visione bucolica della vita dei campi, che giunge a trasfigurarsi in un’immagine mistica, un luogo sicuro in cui rifugiarsi per lasciar fuori il dolore proprio dell’esistenza. Ed é al più grande poeta latino che dedica l’ultimo componimento della raccolta, quel Pietole in cui si ripercorre il tema delle Bucoliche, con visioni di indubbio effetto, ricreando l’atmosfera della magia della natura.
Pascoli, che ha ormai anni di esperienza sulle spalle, cerca anche un formalismo che tende alla perfezione, consapevole di essere sì debitore ai suoi grandi maestri Dante e Virgilio, ma al tempo stesso avvertendo la capacità di raffrontarsi con loro.
Se c’è un’opera della maturità, e questa c’è sempre in ogni artista, i Nuovi poemetti ne costituiscono un chiaro esempio, un lavoro meditato, prima ancora di essere sofferto, con cui stupire, prima dei lettori, l’autore stesso. E non è uno scopo velleitario, perché l’impressione che si ricava è proprio quella di trovarsi di fronte a un’opera di grande eccellenza, forse irripetibile per il perfetto equilibrio fra forma e sostanza; per questo motivo mi sento di consigliarla vivamente, perché si troverà un Pascoli così completo, da sembrare lontano dai pur validi componimenti giovanili, da quella Cavalla storna, croce e delizia del nostro apprendimento scolastico.