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Dal buio della notte all’alba lucente
Ci sono momenti nella vita in cui una malattia particolarmente seria non solo ha ripercussioni sul fisico, ma inevitabilmente presenta riflessi sulla psiche. Il timore di non guarire, la paura che la stessa esistenza possa venire meno finisce con il condizionare inesorabilmente il nostro modo di essere, e ciò indipendentemente dal fatto che si combatta e che non subentri una sofferta rassegnazione. Questa esperienza è stata provata anche da Adriana Pedicini che, amante della poesia, di cui è anche eccellente autrice, ha inteso tradurla in versi. Sono liriche, quelle della prima parte, che esprimono in modo perfetto questo stato d’animo, come per esempio, in Hic et nunc (Le lacrime bucano le rocce / del cuore dalla volontà / levigate e dall’amore. / Le raccolgo / otre accartocciato / pieno al fondo di detriti / e di pagliuzze tra la sabbia.). Per il titolo, non a caso, è stata usata questa locuzione latina che letteralmente si traduce in qui ed ora, che nell’italiano corrente non ha tuttavia un significato chiarificatore, ma che nell’uso filosofico assume una valenza del tutto particolare. Infatti, nell’esistenzialismo, di cui Martin Heidegger è stato uno dei più insigni rappresentanti insieme con Karl Jaspers, Hic et nunc sinteticamente esprime il concetto dominante di questa filosofia, con l’essere umano visto nella fragilità della sua condizione a tempo, di questa sua precarietà determinata da una fine certa. E questo stato di incertezza si rivela più che mai come determinante proprio nel momento in cui si nutrono timori per la propria vita. Ancora più esplicativa poi appare Stanza d’ospedale, laddove l’essere umano, in questo tempo incerto, cerca conforto nelle voci, nei rumori d’ogni giorno, nelle parole dei medici, ma è un sollievo forzoso, momentaneo, poiché come s’avvicina la sera, con le ombre che calano e che naturalmente isolano l’individuo, inevitabile prende il sopravvento quell’angoscia prima in apparenza celata.
Mi preme, però, rassicurare i lettori: questa silloge non è una voce di pianto, non porta a sollecitare facili commozioni, bensì è una descrizione realistica delle tante emozioni che investono l’essere umano in questa particolare condizione, anzi rappresenta una fine e veritiera analisi psicologica.
Se la prima parte ha questo fine, che fra l’atro può indurre a un pathos non indifferente, la seconda potrei definirla di resurrezione, come quella di una vicenda iniziata con le peggiori prospettive, ma che si conclude felicemente. E non a caso la linea di demarcazione è portata da una poesia che si intitola Profumo di Natale ( Timida e rossa / come le mie gote giovinette / la piccola euphorbia / dall’angolo riposto / tinge di colore / la mia anima, / sommessa luce / in uggioso avvento. /…/ Ho respirato profumo di Natale.). Più che di una natività si tratta di una rinascita per chi vede innanzi a sé la via della guarigione. L’ispirazione cambia, al grigio brumoso si sostituiscono altri colori, un richiamo alla vita, e allora al Profumo di Natale segue quello della primavera e perfino la pioggia diventa amica. Tutto appare diverso, in una luce nuova e si ritrova il piacere di osservare la natura con il cuore ora traboccante di gioia. Quel senso di precarietà è assopito, lasciato alle discussioni filosofiche di chi studia Heidegger e Jaspers; resta però una domanda: chi siamo?
Ben strutturata, per nulla enfatica, questa silloge è di facile lettura e invita non poco a meditare sul significato della vita, sul valore di certi aspetti che spesso consideriamo insignificanti, ma che nell’arco di un’esistenza assurgono a beni primari, come può essere quello di osservare un fiore, consapevoli di poterlo ancora fare nei giorni a venire, senza che una spada di Damocle incombente ci assilli, togliendoci la gioia di riscoprire il valore di tante piccole grandi cose.
Da leggere, indubbiamente.