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Il capolavoro di Giovanni Pascoli
Myricae è probabilmente la raccolta poetica in cui meglio si esprime il genio creativo di Giovanni Pascoli, è un’opera di rilevante valore, anzi molto più esattamente è il capolavoro di questo genio romagnolo, e costituisce l’ultimo esempio di poesia lirica classica, essendo anche al contempo un omaggio a Publio Virgilio Marone. Infatti il titolo deriva da un verso della quarta Bucolica del grande poeta latino: Non omnes arbusta iuvant humilesque Myricae (Non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici). E non poteva esserci miglior titolo, vista l’impronta della silloge, in cui è costante un dialogo introspettivo fra l’io dell’autore e il mondo di piccole cose che lo circondano, elementi di una natura mitizzata, densa di significati simbolici, a volte struggentemente dolce e nelle composizioni finali permeata di mistero, ma non mancano spazi evocativi, in cui forte è il senso del dolore e l’immanenza della morte.
E’ indubbiamente una raccolta in cui è possibile cogliere l’evoluzione artistica dell’autore, considerando che è stata scritta in un arco di tempo piuttosto lungo (la prima edizione, di 22 poesie è del 1891, l’ultima, di 150 componimenti, è del 1900, anche se, negli anni successivi e fino al 1911, ci furono altre quattro edizioni, frutto però non di aggiunte, bensì di modeste revisioni stilistiche).
L’opera, al di là della sua valenza intrinseca, che la qualifica appunto come capolavoro, presenta una varietà di argomenti e un piacere di lettura ben difficilmente riscontrabile in analoghi lavori di autori pur di grande lignaggio.
Se i ricordi sono immancabilmente presenti, e al riguardo cito la celeberrima Rio Salto (Lo so: non era nella valle fonda / suon che s'udia di palafreni andanti: / era l'acqua che giù dalle stillanti / tegole a furia percotea la gronda. /…) in un susseguirsi di suoni e di immagini di rara efficacia, se pur assumono valenza di rilievo i pensieri, come in Il passato (Rivedo i luoghi dove un giorno ho / pianto: / un sorriso mi sembra ora quel pianto. / Rivedo i luoghi, dove ho già sorriso.../ Oh! come lacrimoso quel sorriso!), risplendono i versi di una mistica natura, un paesaggio bucolico, i lavori dei campi, la mansuetudine di un bove, che simboleggia la forza di una grande umiltà (Al rio sottile, di tra vaghe brume/ guarda il bove, coi grandi occhi: nel / piano / che fugge, a un mare sempre più / lontano / migrano l'acque d'un ceruleo fiume; /….).
Ricordi, natura, riflessioni sono i percorsi di una vita dell’uomo, purtroppo nato con una durata a tempo, ignota, ma pur sempre limitata, e non è quindi un caso che il senso della morte sia sempre presente, ben espresso da Il giorno dei morti (Io vedo (come è questo giorno, oscuro!), / vedo nel cuore, vedo un camposanto / con un fosco cipresso alto sul muro. /…./ O casa di mia gente, unica e mesta, / o casa di mio padre, unica e muta, / dove l'inonda e muove la tempesta; /.. ). E’ una poesia struggente, che stringe il cuore, assai lunga, ma con un ritmo costante, senza la benché minima caduta, così lontana dalle stridenti retoriche di Gabriele D’Annunzio, è una lirica tutta sostanza, nulla è lasciato al virtuosismo che pure traspare analizzando versi che si scolpiscono nel cuore.
È grande Pascoli e grandi sono le sue poesie, ancor oggi attuali, perché la loro contemporaneità sta nell’immenso mistero della vita e della morte, sta in una natura che a volte ci sembra dolce e amica, altre invece aspra e feroce, sta nel nostro essere infinitamente piccoli di fronte alla immensità del creato.
La lettura, quindi, è raccomandata senza il minimo dubbio.