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La parola a chi non ha voce!
I Sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli sono un capolavoro poetico eccezionale. Il loro respiro, che parte dai rioni vecchi, dai vicoli scuri della città papalina di metà Ottocento, arieggia fino a disquisire di morale, leggi, teologia e bibbia e delle cose del mondo in genere.
Belli ci trasporta in una Roma in cui il Papa , i cardinali, i nobili, i paini, le mignotte, le serve, le padrone eccetera, sono sì diversi per carattere e per costumi, ma appartengono tutti all'unica commedia umana della vita sullo sfondo entusiasmante della Città Eterna.
Il personaggio narrante è un "io popolare", com'era Belli, nato in una umile casa alle spalle di Largo Argentina e nei pressi di Piazza Navona, da una famiglia fedele al Papa.
E sebbene egli dia voce ai popolani, al popolo di Roma, erede di una ricchezza linguistica databile a molto tempo prima, continuatore di atteggiamento da rugantino degni degli antichi romani, nonostante tutto è un popolo succube e rassegnato, cinico e utilitarista, anche se non domo e non piegato. Alla fine, l'ultima parola è la sua. La parola di Pasquino, il gusto della battuta.
Nei versi di Belli rivive quella Roma e sembrerà, al lettore, di trovarsi in mezzo alle battute salaci dei popolani che commentano come passa le giornate il Papa, quale sia il vizio di quella nobildonna o cosa rincresce a quel tale... Tutto nel teatro belliano di maschere che se allegre sono smargiasse e volgari ma sincere, se tristi sono pessimiste (come l'autore- si pensi a Er caffettiere filosofo o La fine der monno) ma dense anche di un'autentica fede religiosa che si poggia saldamente (e al di là delle vulgate superstiziose dei popolani e delle ribalderie incivili della Curia) al Cielo.
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