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La precarietà
La neve, quella vera, non l’abbiamo mai vista / se non nella bocca di un vulcano / nei pochi giorni di cristallo dell’inverno come una minaccia / che ricorda quel che non abbiamo tentato abbastanza / ma il gelo, quello sì, è dentro di noi fino alle ossa / e lo sentiamo che morde le giunture e crepa le ossa / fino al midollo. /…. (da I frammento, Napoli 2007)
Correvamo con la neve in tasca per paura che svanisse / come un sogno appena sognato nel soprassalto ghiacciato / di un risveglio. … (da XXII frammento, Napoli 2007)
Mi pare opportuno premettere che leggendo le prime poesie di questa breve silloge avevo ritratto un’impressione non certo favorevole, rilevando un andamento prosastico che ben poco ha a che fare con la poesia. Però, proseguendo nell’esame dell’opera e, soprattutto a una seconda rilettura più attenta e approfondita, mi sono reso conto che, se pur esiste in modo inequivocabile una tendenza alla prosa, tuttavia i versi, per come sono stati congegnati, riescono a costruire una struttura equilibrata, dotata di un certo ritmo e anche di armonia, tutti elementi che sono senz’altro tipici di una liricità, sia pure in chiave moderna, quindi più leggibile, anche per l’assenza di una metrica convenzionale e per una chiarezza di esposizione che ha il dono della quasi immediatezza.
E fra l’altro Filia, nel fornirci un’immagine di Napoli, la sua città, riesce anche, partendo quindi da un microcosmo, a pervenire a una visione più generale, più globale, con una nota pessimistica, velata comunque da una provvidenziale ironia.
Già il titolo, La neve, un fenomeno atmosferico del tutto inusuale per la città partenopea, assume un simbolismo fra l’assenza e il desiderio di una presenza, l’assenza vista come elemento fortemente negativo, quasi come una morte figurata, in contrapposizione a una presenza che è vitale, mobile, percettibile solo come auspicio. E del resto è presente il contrasto fra il candore della neve e il nero delle vie sporche, in un quadro di esistenze che si trascinano e cercano di restare attaccate alla vita, nonostante tutto.
Ne esce un ritratto di Napoli non conformista, una visione non certo da cartolina, né comunque di città fatiscente; c’è invece un dialogo muto inconsueto con i suoi abitanti, negli incontri per le strade, negli angoli delle piazze, con una descrizione di un’umanità che, benché il solo esistere sia una fatica, comunque vive, aggrappata forse a un’illusione, a una speranza di cambiamento che, anche se non ci sarà, è sempre meglio di una dirompente rassegnazione.
Filia sembra quasi ribaltare il famoso detto “vedi Napoli e poi muori” con un “vedi Napoli e poi vivi”, perché quel senso di provvisorietà proprio della neve lì è precarietà quotidiana, ma, a ben guardare, tutti siamo precari su questa terra, oggi ci siamo, domani no, e solo che comprendiamo che questa temporaneità non è una condanna, ma una risorsa, solo allora potremo capire come si possa vivere oltre ogni aspettativa.
Del resto, la morte non è altro che il prezzo che paghiamo per vivere e quando qualche cosa si paga, questa deve sfruttata il più possibile, soprattutto quando si tratta della vita, che è una sola e pertanto non deve essere sprecata.
Da leggere, senz’altro.
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Commenti
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Non è da tutti, saper rileggere un libro.
Ancora i miei complimenti.
Pia