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Sulle orme di François Villon
Della produzione poetica di Fabrizio Manini, di notevole pregio (al riguardo prego il lettore di leggersi le mie recensioni a Grigie distese e a Voglio che dio mi mostri il suo volto), fa parte anche un’opera di più ridotte dimensioni, ma sicuramente atipica sia per l’autore che per le produzioni correnti.
La ballata era un tempo molto diffusa e la sua ritmicità permetteva ai cantastorie di cantarla; spesso erano lavori che parlavano di vicende amorose o anche storiche, ma adatti soprattutto ad ascoltatori di poche pretese, quali potevano essere soprattutto i servi della gleba di almeno sette secoli fa.
Ciò non toglie che vi si siano cimentati, con opere di diverso e maggior valore, anche poeti famosi, fra i quali Petrarca e in tempi meno remoti Carducci, Pascoli, D’Annunzio.
In queste composizioni la tecnica è essenziale e quindi occorre non solo conoscere bene la metrica, ma esserne padroni. Infatti i versi sciolti e liberi mal si adattano al ritmo richiesto e soprattutto a quella sorta di ritornello armonico che è sempre presente.
Al riguardo Manini dimostra consapevolezza dei propri mezzi, ricorrendo a quartine a rime pure, talvolta baciate, altre più spesso alternate; tuttavia non si rifa alla tradizione italiana della ballata, cioè alle opere dei citati Petrarca, Carducci, ecc., di carattere più elegiaco, ma ai grandi specialisti francesi, fra i quali spicca quel François Villon, scapestrato e mezzo delinquente, al punto tale che, al di là del valore, è anche noto per la sua vita turbolenta.
Fabrizio Manini ha intitolato queste dodici ballate “Ballate di vita di morte e d’amore”, perché in effetti ha inteso tracciare alcuni aspetti caratteristici dell’esistenza, con un occhio però di favore più per la morte che per la vita e per l’amore.
E indubbiamente Villon ha avuto un grande ascendente su di lui, ove si consideri che la fonte ispiratrice sono proprio le opere dell’autore francese.
Non a caso il riferimento è addirittura la famosa Ballade des pendus e anche nella silloge di Manini troviamo La ballata dell’impiccato (…dal cappio pietà/ brunito d’attesa/la tua fune saprà/che il mio culo pesa.).
Poi ci sono altre ballate che hanno tematiche diverse, ma nella maggior parte delle quali è presente la morte.
Del resto, nell’epoca d’oro di questa forma poetica, la morte, vista come figura, era quasi sempre presente, perché in fondo serviva anche a umanizzarla. Questa tendenza smitizzante era ripetuta anche nelle arti figurative, come nelle famose Danze Macabre che affrescavano le pareti di molte chiese con annesso cimitero.
E anche in Manini questa smitizzazione è presente, perché in fondo l’autore sembra volerci dire che la morte è una certezza, mentre la vita non lo è.
Peraltro l’opera ha una sua valenza anche perché prefigura quella che sarà la successiva produzione poetica dell’autore, e non tanto per la forma, quanto per i contenuti.
In particolare si ravvisa quelle tematica esistenziale propria di Grigie distese nella Ballata della noia, successivamente ripresa con alcune modifiche nella silloge testé citata, nonché nella Ballata della solitudine, segno evidente dell’evoluzione artistica e filosofica che l’autore nel tempo va portando avanti.
Del resto i prodromi di Voglio che dio mi mostri il suo volto si riscontrano, sia pure abbozzati, nella Ballata dell’amore e della morte, dove il concetto, che sarà in seguito più ampiamente espresso, qui è delineato in modo diverso, ma è pur sempre presente la contestualità fra l’amore affettivo e quello erotico, il primo rientrante con il pentimento nella raffigurazione divina e il secondo, con l’espiazione nella morte, simbolizzato da una sorta di diavolo salvificatore (…cerco l’oblio/dell’alito nero/ e invoco il mio/ destino e spero…;… baciarti la bocca/ a labbra di seta/ salvezza mi tocca/ in morte discreta…).
E’ opera di facile e gradevole lettura, dove la tecnica, come precisato agli inizi, la fa da padrona, ma scorrendo le righe, quartina dopo quartina, se riuscirete a essere partecipi, non potrà non venire in voi il desiderio di canticchiarle, magari immaginandovi di essere su una piazza del ‘500, contornati da mocciosi che si accapigliano e da gente del popolo, che, estasiata, batte il tempo con i piedi.
Indicazioni utili
Canti celtici, di Renzo Montagnoli;<br />
Voglio che dio mi mostri il suo volto, di Fabrizio Manini