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Soave levità
Ho già avuto occasione di scrivere più volte delle opere di Mara Faggioli, siano esse letterarie che figurative, e comunque ho sempre riscontrato un comune denominatore, una matrice che le contraddistingue e che è possibile definire come una soave levità. Ora, dato che questo mio scritto è afferente solo alla poesia, o meglio alle poesie di questa raccolta, intitolata Dulcamara, vincitrice peraltro del Premio Speciale Mario Conti al XXVIII Premio Firenze – Europa, lascio da parte le pur belle e interessanti sculture dell’autrice, per un necessario approfondimento critico del testo in questione.
Di raccolta si tratta e non tematica, fatta eccezione per una silloge di dodici liriche a cui si è voluto dare, con illuminato intuito, il titolo di Un anno di poesie abbracciate.
Sono versi, tutti, che più che rincorrersi, si affacciano timidi sulla carta delle pagine, con un pudore naturale proprio di una lontana infanzia, in un candore di sentimenti e di emozioni espressi non con roboanti artifici, ma che sembrano sgorgare sotto gli occhi come una fresca e invitante polla d’acqua.
Quindi una caratteristica essenziale è la semplicità, quel travaso di idee creative che non passa per ferree logiche sintattiche, per laboriosi e astrusi calcoli di metrica, ma fluisce come un suono della natura, in un equilibrio armonico che incanta e stupisce (Stasera, / nell’ora in cui il giorno / depone la sua veste stanca / e, pigra, la luna / nel cielo si adagia, / violenta, la nostalgia di te / mi assale. /…).
Peraltro, se il dolce e l’amaro di Dulcamara sono i due aspetti della vita di ognuno di noi, è altrettanto vero che anche laddove prevale una nota malinconica emerge sempre un raggio di speranza, come se l’autrice volesse dirci che il nostro percorso terreno, anche se costellato a volte da dolori, merita sempre di essere vissuto, con la massima intensità, come se ogni giorno potesse essere l’ultimo ( …/ Come potrò dimenticare la tua amicizia / che a piene mani mi hai donato / senza che io avessi seminato niente. / …).
E nella minisilloge Un anno di poesie abbracciate, che da sola è un autentico gioiello, aggiungendo preziosità ad altre pregevolissime poesie, Mara Faggioli si permette addirittura un’invenzione che giustifica il titolo, con il verso finale di ognuna che rappresenta anche quello iniziale della successiva. Un vezzo, un capriccio estetico di una poetessa che vuole mettersi a costruire versi e non a modularli come prorompono dall’intimo? No, assolutamente no, perché questo piccolo escamotage, più che una funzione estetica, ha un ruolo di concatenamento logico fra i mesi appunto dell’anno, in un percorso ideale che è poi quello della vita, in cui accadimenti e fatti, che a volte ci sembrano del tutto casuali, sono strettamente connessi, una trama perfetta ordita dal destino (Da Giugno:…/ Si scioglie la memoria / abbandonando il tempo / e ci conduce, così, / verso una nuova estate.) (Da Luglio: Verso una nuova estate, / nell’abbagliante luce / che dal cielo trabocca, / ci accoglie, / ebbro di sole, / luglio, / con occhi di cristallo / e cuore selvaggio. /…).
Minisilloge che si srotola, verso dopo verso, in un lungo adagio, fra visioni di natura, accostamenti metaforici, perfino allegorie, Un anno di poesie abbracciate si legge con uno sguardo all’indietro e un altro in avanti, partecipi di questa esistenza che la mano, magica, di Mara Faggioli proietta al nostro interno in un film, di cui, pur conoscendo l’inizio e la fine, riusciamo ancora a stupirci.
Dulcamara è probabilmente il miglior libro fino a ora realizzato dall’autrice e secondo il mio parere è un’opera imperdibile.