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Un’opera immortale
"Canto l’eroe che profugo da Troia / venne in Italia ai lidi di Lavinio, / che, sballottato per terra e per mare / dal volere divino e dalla rabbia / tenace di Giunone / in lotta ancora / molto soffrì, finché pose nel Lazio / la sua sede e i suoi dèi, donde la stirpe / latina, i padri Albani e l’alta Roma. /… "
Virgilio è ormai un poeta famoso, grazie a Bucoliche e a Georgiche. Onorato, oggetto di doni e altamente retribuito si potrebbe considerare un artista arrivato, che ora gode dei frutti del suo talento. Non è tuttavia così, perché il poeta è consapevole che se i testi che gli hanno dato la gloria sono di altissimo livello, tuttavia non riescono a completare un ciclo artistico che faccia di lui un faro e un mito della letteratura. E’ grande, anzi grandissimo, ma ancora non è entrato nel sogno degli uomini, ancora non è stato in grado di evocare drammi e passioni come quell’Omero che ha scritto l’Iliade e l’Odissea, poemi epici, e pertanto in grado di lasciare una scia leggendaria che non si disperderà nel tempo, ma che anzi, con il trascorrere dei secoli, finirà per riverberare di una luce propria, di un alone mistico proprio delle opere immortali.
Tuttavia, Virgilio è un uomo schivo, per certi versi ombroso e solitario, e benché in lui alberghi il desiderio di entrare nella storia come una leggenda, gli manca il conforto esterno, o meglio lo stimolo per attizzare la sua arte e concretizzare il suo desiderio.
Nell’anno proprio di ultimazione di Georgiche, commissionatagli indirettamente da Ottaviano, da questi verrà l’idea di realizzare un lavoro che da un lato enunci l’origine divina di Roma e, soprattutto dei suoi capi e del futuro imperatore, e dall’altro giustifichi l’operato di Cesare e di conseguenza il predominio dei successici Cesari, realizzando anche quella concordia nazionale indispensabile per una rinascita post repubblicana, che veda i cittadini orgogliosi di essere romani e come tali ligi alle tradizioni, al senso etico e all’incondizionato rispetto per lo stato, qualunque sia la forma in cui è costituito.
E’ così che nasce l’Eneide, più di un capolavoro, un’opera sopra il tempo e senza tempo, in cui l’impronta epica s’accompagna a pagine struggenti, in cui si agitano e si amalgamano personaggi e sentimenti unici, frutto di una sensibilità poetica che non ha mai avuto uguali, né mai ne avrà, almeno fino a oggi.
Opera forse incompleta (consta di dodici libri contro i 24 dell’Odissea e dell’Iliade alle quali si ispira) e non revisionata per l’improvvisa e prematura scomparsa dell’autore, resta tuttavia un canto di infinita bellezza che va ben oltre le intenzioni di Ottaviano e che ancora ci portiamo appresso, stupiti, per non dire increduli, incapaci di comprendere come un uomo di più di duemila anni fa sia stato capace di creare il mito della nascita di Roma con un personaggio tutto sommato terreno come Enea.
E se le passioni sono proprie degli uomini, ma anche degli dei, in fin dei conti creati dagli uomini stessi, questo poeta contadino, venuto dalle nebbiose lande di Mantova, riesce a elevarsi oltre la materialità dell’essere, scompare, ma non muore, oltrepassa l’Ade per vivere in eterno con la sua Eneide.
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