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“Ai leoni! Ai leoni!”
Una gran bella sorpresa si è per me rivelata la lettura di questo breve romanzo del francese Alphonse Daudet (1840-1897), che m’incuriosiva da diverso tempo.
Pubblicato nei primi anni Settanta del XIX secolo, il libro aprì una trilogia i cui due successivi titoli non ebbero forse la stessa fortuna del primo. Penna particolarmente prolifica, quella dell’autore, la cui opera spazia dai romanzi alle novelle, dalle poesie ai testi teatrali. Al centro dell’opera in questione, un personaggio molto originale le cui (dis)avventure colorano queste pagine di autentica e irresistibile comicità: Tartarino è un uomo del sud (come lo stesso Daudet), della città di Tarscona, in Provenza. È un inguaribile spaccone, nonché bramoso di viaggi avventurosi, possibilmente lontani dalla patria. Il suo giardino è pieno di piante esotiche in miniatura, compreso un baobab che ha ormai preso comoda dimora in un vaso da geranio, mentre in una delle stanze della sua abitazione si trovano in bella mostra armi di ogni tipo e dimensione.
È talmente assetato d’avventura – e tale è la fama di grande cacciatore di cui gode nella sua città – che all’improvviso si ritrova, suo malgrado e armato di tutto punto, a bordo di una nave in partenza alla volta dell’Algeria, terra di non bene identificati “turchi” e, all’epoca, già da tempo in mano francese. Obiettivo del viaggio: andare a caccia dei temibili leoni dell’Atlante!
Attraverso una prosa fluida e molto bella, Daudet ci racconta di un eroe in verità tragicomico il cui animo si sente spesso diviso tra un don Chisciotte e un Sancho Panza. Mettendo piede per la prima volta in Africa, ecco Tartarino d’improvviso faccia a faccia con un mondo, quello arabo-islamico, che, sebbene “contaminato” dalla presunta civilizzazione europea, esercita ancora un notevole fascino derivante anzitutto dalla vaga idea di un Oriente fiabesco che finisce per estendersi anche a ovest. Colpisce la descrizione dettagliata di Algeri, con la sua caratteristica Casbah dalle viuzze strette, i mercati, i minareti delle moschee da cui i muezzìn chiamavano i fedeli musulmani alla preghiera, le donne velate, la società coloniale che, impigrita, sostava ai café e nelle piazze. Un brulicare confuso e tumultuoso di mori, neri subsahariani ed europei, un crocevia di popolazioni e culture che lo scrittore nativo di Nimes, essendo stato in Algeria anni prima, sa cogliere con un’abilità a mio avviso davvero degna di nota; il tarasconese, dopo l’iniziale timore e sospetto nei confronti degli abitanti del posto, finisce addirittura per prendere casa nella città vecchia di Algeri, per via di una liaison imprevista, in mezzo ai musulmani che prende a frequentare, al punto che lui stesso viene chiamato sidi Tart’ri (signor Tartarino). E la caccia ai leoni? In realtà, come il nostro eroe scoprirà amaramente, le nobili belve di un tempo si sono estinte in Algeria; l’unico leone di cui lui riuscirà a portar via la pelle come trofeo sarà quello di un povero felino malandato praticamente addomesticato.
L’epilogo sarà pieno di sorprese, tra cui la più scontata e triste si rivelerà la disonestà europea ai danni dell’ingenuo Tartarino; tuttavia, il ritorno a Tarascona non sarà privo del tappeto rosso, come del resto si conviene agli eroi. Un romanzo godibilissimo, ancor più nella bella traduzione di quasi un secolo fa di Aldo Palazzeschi.
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