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Il canto del drago
Il secondo volume della trilogia dell'Allende parte al rallentatore con un riepilogo dei fatti essenziali del primo volume e ripropone gli stessi personaggi ma un diverso luogo e una diversa filosofia di vita. Anche in questo romanzo colpisce il desiderio di incontrare culture diverse e diverse visioni del mondo. E' come se l'autrice si chiedesse se il nostro modo di vita sia l'unico e il più ragionevole e si risponda di no. Questa volta Isabel ci porta nell'Himalaya a incontrare i monaci tibetani e culture molto pacifiste dove si coltiva molto lo spirito, il distacco dalla materia, e l'armonia con l'universo. Anche qui Isabel cerca e trova una cultura in cui la materia, la vita e la morte non abbiano molto peso ma ciò che conta è lo spirito. E' come se in ogni romanzo cercasse un antidoto alla sofferenza e alla malattia della figlia, un modo di vedere le cose per alleggerire la pena per il distacco e contemporaneamente la soluzione, cioè la medicina miracolosa. Anche in questo caso al nipote Alexander viene fatto dal monaco un dono inaspettato inaspettato: una medicina per la madre che in teoria sta bene, è già perfettamente guarita dalla malattia. Sembra che Isabel sente la malattia incombere ancora e non possa far a meno di scrivere ogni storia per "curare" figlia e nipoti.
In ogni caso l'avventura è bella e il cattivo viene subito identificato. L'Allende non cura molto i colpi di scena. Se oltre alla nonnina Kate gira una donna bella, fin troppo bella, come nel precedente volume bisogna stare in guardia. Nonna Kate si fa rubare la scena solo dal nipote e dalla sua amica Nadia. Mentre nel precedente volume si imparava a vedere con il cuore, qui si deve imparare a parlare con il cuore, cioè senza usare le parole.
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