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Amos Oz - D’un tratto nel folto del bosco
Una favola per bambini? Una favola per bambini allo stesso modo dei Gulliver’s Travels di Jonathan Swift: opere complesse che appartengono ad epoche assai lontane e diverse tra loro, che affidano all’uso dell’allegoria e della metafora significati profondi.
Il mondo descritto da Oz in questo breve romanzo appare subito circondato ed afflitto da un incomprensibile mistero. Ci troviamo in un luogo e in un tempo indefiniti, dove l’umanità, abbandonata dagli animali che avevano fatto parte della loro vita fino ad un certo momento, vive nell’angoscia d’una colpa commessa ma non ammessa né rivelata. Da questo paese dimezzato, in cui chi resta può facilmente essere identificato con l’oppressore e il carnefice, e chi si allontana con l’oppresso in cerca di pace, parte prima Nimi, il bambino buffo che aveva visioni notturne di animali e per questo veniva deriso per poi fare ritorno privo di parola e affetto da nitrillo. Ed è proprio la perdita della parola, così significativa in un mondo dove regna l’incomunicabilità, che permette al lettore di cogliere il profondo significato della vicenda. Solo i più puri, quali possono essere i bambini, hanno il privilegio di vedere. E saranno Mati e Maya, nella loro trasgressiva fuga in cerca della verità che riusciranno a vedere gli animali nascosti nel bosco, che vivono in armonia,
leoni con conigli, coccodrilli con caprette e uccelli di ogni tipo. In questo bosco giardino dell’Eden regna incontrastato Nehi. Anche lui aveva abbandonato, come Nimi, il mondo degli umani, il cui scherno spietato emargina il diverso. Il tema della diversità qui si fa determinante, in quanto il diverso viene considerato tale ora per colore della pelle ora per religione ora per scelte di vita. Il diverso di Oz non è solo l’ebreo che rivendica a sé il giusto diritto di cancellare secoli di emarginazione, ma è, in questo caso, a mio avviso, lo stesso artista, l’intellettuale, che come Nehi, si chiude nella sua torre d’avorio, sminuito e avvilito dalla insensibilità altrui e consapevole della sua incapacità di comunicare.
Eppure questo mondo impoverito, abitato solo da oppressori, può forse ancora essere salvato dalla purezza incontaminata di Maya, più ancora di quella di Mati, che conserva qualche ricordo forse d’un mondo prima ancora della sua nascita: questi ricordi sono la causa dei suoi timori, mentre Maya appare più coraggiosa, proprio per la sua assoluta purezza. Ed è a Maya e a Mati che sarà affidato il compito di raccontare quanto hanno visto, di restituire agli abitanti del paese la vera vista, la vista degli occhi dell’anima.