Opinione scritta da David72

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David72 Opinione inserita da David72    06 Gennaio, 2010
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Vivere per amare o amare per vivere?

Il saggio di Fromm costitisce un classico della letteraratura psicoanalitica non specialistica e credo sia presente nelle bibilioteche di parecchie generazioni di studenti, adulti, genitori, insegnanti, figli.
Personalmente ho letto il volume durante l'adolescenza e recentemente ho avuto modo di riprenderlo in mano, trovandomi a considerarla adesso da un punto di vista molto diverso.
Fromm apparteneva alla categoria degli "umanisti radicali", era cioè convinto che l'individuo potesse, attraverso l'impegno e la conoscenza di sè, emanciparsi sino a divenire in grado di esprimersi compiutamente nel mondo, quindi ad amare in modo maturo e responsabile sè stesso e gli altri.
Si tratta di una visione idelistica dell'uomo, che può facilmente far presa su un giovane idealista, ma credo che queste argomentazioni siano oggi più difficilmente riproponibili.
Possiamo ancora oggi, in una società sempre più impersonale, tecnicamente organizzata e sempre meno interessata ai sentimenti e alle emozioni umane, emanciparci come individui, costruire la nostra libertà e divenire capaci di vero amore?
Non è che forse oggi l'amore è invece un'ancora di salvezza per non precipatare nel baratro di una società, in cui solitudine e disagio di vivere sono sempre più forti?
La domanda è forse in questi termini: è davvero possibile vivere sino a diventare capaci di amare, o forse si ama per cercare, in qualche modo, di sopravvivere?

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A chi è interessato a conoscere la visione del mondo delle scuole psicoanalitiche neofreudiane
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David72 Opinione inserita da David72    06 Gennaio, 2010
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Sicurezza in cambio di felicità?

E'imbarazzante esprimere un parere personale di un saggio freudiano, considerato che il pensiero dell'autore si colloca, a prescindere dai diversi punti di vista e dalle correnti di pensiero attuali che ne constituiscono lo sviluppo, come uno dei fatti fondanti la cultura occidentale contemporanea, ovvero il modo di pensare e di vivere di noi tutti.
"Il disagio della civiltà" viene pubblicato nel 1930 e rappresenta una delle opera della maturità di Freud. Anche per questa ragione il volume rappresenta una testimonianza della concezione del mondo freudiana, resa possibile da una ormai avanzata assimilazione dei concetti psicoanalitici, adesso applicati per interpretare il cambiamento sociale e culturale in atto tra fine Ottocento e Novecento.
Il disagio della civiltà rappresenta il prezzo pagato dall'Occidente moderno e civilizzato che, se da un lato è riuscito a contenere la pulsione di morte e quindi riesce a garantire meglio l'ordine sociale, è del resto sempre più esposto al senso di colpa e di fatto ha barattato, una volta per tutte, sicurezza in cambio di libertà di espressione personale e quindi di felicità.
Il punto di vista è, evidentemente, interessante e ancora oggi attuale.
Solo una domanda sorge inquietante: gli anni della pubblicazione del libro sono gli anni Trenta, quindi gli anni dei grandi totalitarismi dell'Europa, preludio alla catastrofe di una nuova guerra e alle persecuzione etniche e razziali. Forse che la diagnosi di Freud sia troppo ottimistica? non è che forse la "civiltà" del Novecento, oltre a contenere i germi della più spietata violenza e follia omicida, abbia anche tolto le speranze, le utopie e il desiderio di creatività ed espressione del genere umano?

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interessante per conoscere la visione del mondo e dell'uomo freudiana, al di là degli aspetti prettamente psicoanalici del suo pensiero.
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David72 Opinione inserita da David72    05 Gennaio, 2010
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E' possibile pensare il non pensabile?

Il tema della morte può essere affrontato da molti punti di vista. Limitandosi all'approccio umanistico ed escludendo quindi l'ambito medico-scientifico, la morte può divenire oggetto di studio, ad esempio, per le scienze storiche, l'antropologia culturale, la sociologia, la psicoanalisi e la filosofia.
Il saggio di Jankelevitch, filosofo di origine ebraica e professore alla Sorbona, è un esempio di approfondimento filosofico sul tema della morte.
Personalmente, è il primo trattato prettamente filosofico che leggo su questo tema. Il saggio è estremamente complesso, con un livello di approfondimento elevato della tematica trattata.
L'idea di fondo dell'autore è che la morte cosituisca una sfida filosofica quasi impossibile, in quanto il pensiero è per definizione possibile solo relativamente all'"essere" e quindi si colloca solo all'interno dell'esperienza di vita dell'essere umano.
La morte non può quindi essere pensata, in quanto condizione di "non essere", ovvero di "totalmente altro", quindi rappresenta il "non pensabile".
Il saggio prende in esame anche elementi limitrofi rispetto al tema della morte, intesa solo in senso di condizione di totale ed irrevocabile "non esistenza": ad esempio l'invecchiamento, il momento del trapasso, il trascorrere del tempo, l'ineluttabile, il definitivo.
Pur non essendo un filosofo, ritengo che il volume possa essere considerato un riferimento fondamentale nella discussione filosofica della morte. Per il lettore non specialistico, và affrontato con calma e letto senza troppe pretese, in quanto la scrittura dell'autore è sicuramente complessa e spesso il linguaggio utilizzato ha un taglio tecnico-specialistico.
Interessante per chi intenda effettuare ricerche e studi sul tema della morte dal punto di vista delle scienza umane.

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Antropologia della morte, Thomas
Storia della morte in Occidente, Aries
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David72 Opinione inserita da David72    02 Gennaio, 2010
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Commento

Il sociologo Adorno riteneva che non fosse più possibile la poesia, dopo l'esperienza di annichilimento dell'uomo attuata dalla persecuzione ebraica nel corso nel corso della seconda guerra mondiale.
Forse il romanzo di Dacia Maraini ripropone questa domanda. L'amore di due ragazzini, un amore infantile e per questo assoluto, poetico, è sconvolto dalle vicende storiche e trova in Auschwitz il suo definitivo punto di non ritorno.
Non è possibile un "ritorno", un nuovo incontro, un riscatto, una rinascita, una qualsiasi ricomposizione.
Personalmente, trovo il tema del romanzo estremamente "duro", nel riproporre un viaggio verso il buio dell'uomo, verso quel punto di non ritorno che la storia può sancire in modo definitivo, incurante della volontà dei singoli di ristabilire un ordine, di riportare un bagliore di speranza.
E'anche un messaggio di impegno etico: si può sempre tentare, anche se la disillusione può essere una ferita altrettanto amara.

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David72 Opinione inserita da David72    02 Gennaio, 2010
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La masseria delle allodole

Il romanzo storico di Antonia Arslan mi è sembrato molto interessante e curato, forse solo non troppo agevole alla lettura per la grande quantità di nomi armeni e turchi con i quali si ha poca dimestichezza.

Ad ogni riga traspare l'erudizione e lo spessore culturale dell'autrice, che nella ricostruzione della vicenda della propria famiglia, dipinge un affresco storico della tragedia della persecuzione armena durante la prima guerra mondiale.

Nel racconto si intrecciano, in modo a volte complesso e di non semplicissima lettura, dialoghi, sensazioni, stati d'animo, a comporre un mosaico umano drammatico, ma anche vitale ed affascinante.

Dal mio punto di vista, il pregio del romanzo è la capacità dell'autrice di sovrappore i ricordi della storia famigliare con la "grande storia" che si può leggere sui manuali storiografici.

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David72 Opinione inserita da David72    02 Gennaio, 2010
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La lunga vita di Marianna Ucrìa

Attraverso gli occhi di Marianna si profilo un cambiamento culturale di portata storica. La società feudale di antico regime, con le sue regole e le sue tradizioni, viene a poco a poco sostituita da una società più libera e improntata ai valori della moderna borghesia.E'soprattutto il sentimento amoroso che cambia: dal matrimonio senza amore e vissuto nell'ottica di una strategia politica di alleanza parentale, si passa all'amore intimo e romantico.

Al mutismo di Marianna si contrappone la sua introspezione, il suo amore per la letteratura e per il sapere critico e indipendente, il suo coraggio di donna libera in una terra ancora rigidamente patriarcale ("il signore David Hume avrebbe detto..."); una protagonista che, nella sua menomazione, si fà interprete e spettatrice di un nuovo modo di vivere le relazioni tra persone.

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