Opinione scritta da callettino

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callettino Opinione inserita da callettino    30 Dicembre, 2010
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un colpo di.., teatro, e siamo alla frutta

L’autrice di questo romanzo ha preteso di raccontarci una vicenda siciliana attraverso un crudo realismo che attinge le sue radici nell’assurdo. Niente di male, se non fosse che quel po’ di sicilianità che traspare nella prima parte del romanzo, cede il passo al grottesco, con picchi direi di istinti masochisti e necrofili che i personaggi assumono nella vicenda e che riescono a ricoprire il lettore… di merda. Infatti, le contendenti, questi ostinati e inverosimili personaggi che si fronteggiano per un pezzo di strada, marcano il territorio defecando e pisciando. La visione di Emma Dante è questa: un duello a colpi di chi caga di più o di chi piscia più in là. E nel mezzo di tutto questo, l’autrice ci infila un amore lesbo e una pioggia di vermi che cade dal cielo e copre le strade… E a questo punto non so davvero che cosa resta al povero lettore. La scrittura non è malvagia, anzi si fa notare, ma un libro non è soltanto scrittura, è altro ancora. Le cose positive: l’ambientazione, le scene; le cose negative: lo scadere del realismo nel grottesco, forse guadagna qualcosa in teatralità, ma narrativamente siamo appesi al palo.
Così com’è, non so davvero che cosa dovrebbe trasmettere questo libro al lettore.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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callettino Opinione inserita da callettino    30 Dicembre, 2010
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un mattone ben orchestrato

È senz’altro scritto bene: anzi, più che scritto bene, visto che ne Il Suggeritore l’autore ha saputo imprimere un ritmo e una scansione delle frasi ben architettate. Però lasciatemi dire che c’è una trama che non finisce mai: e l’omicida seriale è già visto in tutte le salse. “Buio” di Dacia Moraini è senz’altro migliore, e non ti devi sorbire un mattoncello di circa 500 pagine come il libro di Carrisi. L’eroina, il personaggio principale della storia, ha tutte le forme tranne che quelle femminili. Non si trova femminilità in questo personaggio, magari diamo la colpa al suo stato psicologico, alle sue turbe psiche, al pregresso dramma che attinge più alla scrittura poetica che alla resa credibile dei fatti. Inverosimile. Vabbè. La scena d’amore che la coinvolge mi pare priva di erotismo: dico erotismo consono alla psicologia del personaggio. Il finale del romanzo lascia perplessi: finale regalato, alla sanfasò, e dopo che hai tanto letto non glielo perdoni all’autore!
Il genere narrativo è attinente al genere di certa scrittura americana, e allora? Mica devo valutare un romanzo se ben s’infila in un genere letterario rispetto a un altro. Difatti, se ho citato “Buio”, un libro a tutti gli effetti “italiano”, un motivo per me deve esserci. I luoghi che narra Carrisi sono di seconda mano: privi di sapori e atmosfere: sono luoghi “letterari” e, in quanto tali, rendono l’idea, ma a fine lettura ti rimane un mazzo in mano.

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callettino Opinione inserita da callettino    03 Gennaio, 2010
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narrativamente... saggio

Un romanzo che molti definiscono un capolavoro. Ma noi lettori non siamo tutti uguali (per fortuna), ognuno con la propria esperienza, ognuno con il proprio punto di vista. Tutti gli autori sono criticabili: e un lettore che ha letto dalla prima all’ultima pagina, ha il sacrosanto diritto di dire il suo parere.

Personalmente, pur riscontrando in Eco un autore di livello medio - superiore, tuttavia in ne “Il nome della rosa” ho parecchio cose da dire.

Romanzo capolavoro “Il nome della rosa” non è: lo sfondo narrativo è superbo, le descrizioni solide e le dissertazioni sul vetro, sul riso, sulla luce, sul silenzio, sulla lingua e sui frati e fraticelli… convincenti. Una tecnica intelligente, dove però le descrizioni rimangono descrizioni punto: a sé stanti, dove stona il genere deduttivo alla Sherlock Holmes di frate Guglielmo, per un riconoscibile dottor Watson in Adso. Una coppia inquirente già vista, quindi, che a mio giudizio molto toglie al romanzo che avrebbe dovuto seguire una strada propria. Scrivendo è logico che si ripercorrano altri libri o ci si rifà a qualche personaggio letto, ma qui l’influenza di Doyle è davvero troppa e inopportuna e troppi concetti sui religiosi stancano: più che un punto di vista dell’autore emerge un lavoro da saggista, di storico convinto. Le varie citazioni arricchiscono e (ma) nulla aggiungono. Un romanzo dove la vena creativa di narratore si individua a fatica, dove certi passi sono inutili nell’economia della trama e poco rendono l’idea: i personaggi sono solo voci che dicono, una scusa per snocciolare concetti e restituire un lavoro di ricerca, di professorone a cui è cara la parola. Un romanzo non giallista – filosofico, ma assolutamente letterario, dove anziché l’impronta dell’autore si coglie meglio il suo lavoro di ricercatore. Un romanzo che poteva essere scritto in 200 pagine e ( a dispetto delle quasi 500 pag) avrebbe fatto meglio la sua figura: il di più stanca, è zavorra intellettuale che poco dà, e anzi irretisce quel lettore che non vuole farsi influenzare e mal concepisce un’intelligenza ostentata. Buone le descrizioni del labirinto, poco incide l’esperienza sessuale di Adso, così come la sua esperienza su frate Michele rimane sulla penna perché non rende l'idea macabra della scena. Dove il narratore è chiamato a incidere con la sua creatività, spunta il letterato, il saggista, lo scopritore di manoscritti. Questo a mio giudizio è il vero limite del romanzo.

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callettino Opinione inserita da callettino    01 Gennaio, 2010
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tedio invernale (della serie: non solo Moccia)

Dicono che s’impari molto di più da un libro scritto male che da uno scritto bene. Oggi so che s’impara molto anche da un libro che non ti lascia niente. Il libro di Fabio Volo non ti lascia niente.

Allora parlerò di cosa ho imparato.

Ho imparato che si può scrivere in scioltezza, per 170 pagine, affrontare duemila discorsi, raccontare la vita di un personaggio io - narrante schizofrenico, di circa sei personaggi descritti e raccontati con flashback da questo io - narrante, dare un senso logico ai pensieri, conferire un ritmo accettabile alla propria scrittura, scrivere tutto sommato bene e senza pecche, essere più o meno ironico qui e poco brillante là, isterico lì, paranoico qua, e non lasciare assolutamente niente al lettore!
Io, per esempio, sono quel lettore.

Il libro, l’autore mi perdoni, è un coacervo di frasi fatte, di rimandi stereotipati, di frasi stantie, di una narrativa che, data la dura scorza della cultura letteraria italiana, giunta a noi gravida di eroi, non riesce nemmeno a fare il solletico al termine romanzo.
Frasi come: “Perché una donna, quando si sente amata si apre e dà tutto il suo mondo” (e quel che segue a pag. 133) rischia di farti venire un attacco di diarrea.

L’incipit presenta un personaggio io - narrante psicolabile, ipocondrico, pieno di paure e quindi incapace di affrontare la vita di tutti i giorni. Ma a un certo punto della narrazione l’autore lascia il personaggio nevrotico per assumere, in insistiti flashback, quelle dello stereotipato giovinetto carismatico tipico dei nostri giorni, che di carismatico non ha un emerito nulla. Il racconto va infatti avanti a colpi di canne fatte tra amici, di inverosimili avventure amorose fatte occasionalmente con improbabile ragazze che ci stanno a un sol colpo di sguardo, di un’amicizia col personaggio Luca puerile, in cui ogni lettore può riscontare il classico migliore amico. Infatti, il romanzo è l’occasione dove ogni lettore può riconoscersi sia per lo standardizzare col reale dei vari personaggi, sia per l’eternità delle situazione raccontate. Nulla capita ai personaggi che non sia capitato a un qualsiasi lettore nella sua vita. E questa chiamasi noia. Anche se l’ingenuo lettore si farà certo catturare, perché convinto di carpire dal romanzo le facili conquiste amorose. Ma le conquiste amorose sono tutte minchiate, perché inverosimili nelle situazioni prospettate.

Qualche nota positiva.

L’ironia (anche quelli della Mondadori se ne sono accorti, ma in quarta di copertina hanno esagerato: umorismo, suvvia!). Ma è un’ironia che si coglie a tratti, inconscia, trascurata, che l’autore dovrebbe invece riprendere per farla sua, conscia, e ricamarla in tutta la scrittura. Basti pensare alla scena amorosa con Giada, con il cane impazzito che lecca i piedi al nostre eroe, o allo stesso personaggio Luca, l’amico del cuore, qui un po’ sdolcinato, là un po’ ironico. Troppo poco. Il continuo proliferare di una scrittura di superficie, che si parla addosso e dove le frasi dicono il necessario e senza cogliere in profondità, dove non si ha un freno con i pensieri puerili e bla bla, fa dimenticare ciò che di buono comunque c’è.
Anche la scrittura, asettica, è stereotipata: frasi brevi e col punto fermo. Ma ormai non se ne può più. Per favore, riutilizziamo il punto e virgola qualche volta e infiliamoci anche la virgola o il duepunti, dove è necessario. Il ritmo ne risente: perché in sottofondo di questo lungo racconto, leggendo nella tua testa, si sente come il ticchettio del telegrafista. Sì vabbè, leggendo ce la metti tu, lettore di una certa età, la punteggiatura. Ma uno scrittore giovane, che sconosce quasi totalmente l’uso del punto e virgola, che minchia leggerà? Mistero narrativo. Hemingway utilizzava il punto e virgola e pure le frasi lunghe. A chi si imita allora?
Un ultimo indizio è ancora in quanta di copertina: “Con 'E una vita che ti aspetto' Fabio Volo si conferma capace di esplorare con un linguaggio semplice il complesso mondo interiore di tutti e di ognuno”.
Potevo capire un linguaggio chiaro, ma un linguaggio semplice tradotto in narrativa significa scrittura sempliciotta. E qui si sta affermando la stessa cosa.

Non solo Moccia, quindi: laddove la frase di Volo a pag. 10 "...E io vorrei gridare: "Sono un uomo felice, grazie!" mi catapultano nell'incipit di Federico Moccia in "Ho voglia di te": "...Voglio morire. Questo è quello che ho pensato quando sono partito".
Del resto: narrativa simile e scontatella (stesso ritmo, stessa intonazione... stessa scrittura): tipo all'asso piglia tutto. Perché li leggo, allora? Un giorno dovrò pur testimoniare lassù.

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callettino Opinione inserita da callettino    31 Dicembre, 2009
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Quella linea d'ombra...

È noto che laddove l’emozione affiora l’ironia incomincia a scemare. Eppure in quest’incontro diciamo ossimorico, deve esistere una zona neutra, come una linea invisibile che, nel passaggio da uno stato all’altro, la nostra psiche diventa ibrida. Qui, in questa sorta di linea d’ombra alla Conrad, troviamo la scrittura di John Fante: a un tempo, esilarante, malinconica. Basti pensare che le vicende de “Il mio cane stupido” – uno dei due racconti di A ovest di Roma - avevano destato l’interesse di Peter Sellers e di altri attori famosi, interessati a farne un film. Alla fine il film non c’è stato: ma rimane il romanzo. Forse un cane umanizzato, così come lo crea la penna di Fante difficilmente poteva trovare un interprete degno. Un cane di carattere, sempre eccitato e con la voglia di incularsi il padrone, tanto per presentarlo ai lettori. In letteratura non sono molti che hanno utilizzato un personaggio - cane dandogli un ruolo da protagonista. Mi viene in mente Bulgakov, in “Cuore di cane” e Agnon in “Un cane randagio”. Per raccontare le rispettive vicende, entrambi hanno scelto di “farsi cane”. Ma un cane pensante, non può che essere un cane umanizzato. Un punto di vista umano che s’incrocia con le condizioni miserabili di un cane! Non poteva che scatenare il risibile a cielo aperto ma allo stesso tempo scuotere le coscienze più attente: si pensi alla cure amorevoli del medico che nutre il cane randagio col solo scopo di vivisezionarlo, o quelle del cane Balak che, scacciato da tutti, quando scopre che sul dorso porta il marchio del lebbroso (l’ebreo), incomincia ad assalire tutti i suoi nemici e chi incontra davanti a sé. Anche Fante sceglie questa strada: il cane Stupido - alter ego di Fante - infatti, gli resterà l’unico fedele. Dell’altro racconto inserito ne “A ovest di Roma”, “L’Orgia”, a memoria rimane la scrittura fluida e sciolta di Fante: che ad oggi fa impallidire quella di certi nostri autori così tanto acclamati. Di John Fante va letto tutto, anche se a lettura finita ti lascia dentro un macigno che non sai più come toglierti.

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callettino Opinione inserita da callettino    11 Dicembre, 2009
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romanzo, e il titolo è un ossimoro

Non è contando il numero delle pagine che si arriva a classificare un libro! Un racconto, lungo o breve che sia, ha una diversa scansione narrativa di quella di “Una storia semplice”. I tempi narranti e lo sviluppo della trama sono senz’altro quelli del romanzo. Vedi la caratterizzazione e il numero dei personaggi, i vari punti di vista, le scene diverse e, soprattutto, il ritmo. Ma è tutto merito dell’autore, che in così poche righe ha saputo espandere un mondo narrativo a sé stante, così completo che altri autori – con storie simili – ci raccontano generalmente in 400 pagine. Sciascia incarna lo spirito siciliano alla grande: sintetizzando, si può dire nel palmo di una mano, ironia, mimica e realismo. Il solo titolo, “Una storia semplice”, ha una funzione ben determinata nel romanzo: un ossimoro che lo si scopre leggendo proprio la trama ma il cui rimando Sciascia ce lo offre con i pensieri del personaggio - colonnello (…il colonnello vide, invece, il caso molto complicato). Un ossimoro che con il “siciliano sentire” si trasforma in pura ironia; un’ironia che ci racconta il sopruso, una certa mafiosità, che fa capire, che spinge oltre l’interpretazione. E tutto questo Sciascia ce lo offre scrivendo in puro italiano, senza utilizzare cioè quel dialetto siciliano che di per sé è già intriso di ironia. L’ironia e la “sicilianità” di Sciascia sono tutte al netto, farina del suo sacco. Un grande.

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