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Unda Maris86 Opinione inserita da Unda Maris86    26 Agosto, 2021
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La virtù eroica

Si parta da una premessa: recensire un libro come "Il vangelo secondo Gesù Cristo" di Josè Saramago è praticamente impossibile, tanto vasta è la gamma di pensieri, emozioni e stati d'animo che ne accompagnano la lettura.
Mi soffermerò, pertanto, solo su alcuni episodi, cercando di riportare ciò che ho provato immergendomi nelle pagine di questa eccezionale opera letteraria.

Il primo episodio che mi ha colpito è stato quello dell'Annunciazione della nascita di Gesù, che ho riletto più volte, tanto l'ho trovato bello:
"Maria stringeva la scodella con le mani a conca, coppa su coppa, come in attesa che il mendico vi deponesse qualcosa dentro, e lui senza spiegazioni così fece, si chinò e raccolse un pugno di terra che, dopo aver alzato la mano, lentamente fece scivolare fra le dita, mentre diceva con voce sorda e risonante, L'argilla all'argilla, la polvere alla polvere, la terra alla terra, nulla comincia che non debba finire, tutto ciò che comincia nasce da ciò che è finito. Maria, turbata, domandò, Cosa vuoi dire, e il mendico rispose solo, Donna, tu porti un figlio nel tuo ventre, ed è questo l'unico destino degli uomini, avere inizio e fine, avere fine e inizio, Come hai saputo che sono incinta, Non è ancora cresciuto il ventre, ma i figli brillano già negli occhi della madre (...) Io sono un angelo, ma non dirlo a nessuno".
Per chi non abbia mai letto Saramago, sarà doveroso fare una puntualizzazione sul fatto che l’Autore limiti al massimo l’utilizzo della punteggiatura, usando solo punti e virgole.
Avrete potuto notare, nello stralcio di testo riportato, che l’Angelo Gabriele appare sotto le spoglie di un mendico, il quale depone nella mani di Maria una manciata di terra che, successivamente, diverrà luminosa continuando a brillare nella scodella. Maria, in realtà, è già incinta di Gesù, concepito come qualsiasi altro bambino: l’Annunciazione è presentata come un momento di potente chiaroveggenza, nel quale Maria si limita a comprendere, anche se in modo oscuro, l’eccezionalità del bimbo che porta in grembo. Di una delicatezza e di una semplicità da far battere il cuore anche l’immagine dell’Angelo che si presenta sotto le spoglie di un mendicante, quasi a volerci ricordare che la vera forza, il vero splendore è nell’umiltà…e che la “banale” quotidianità ha in sé una dignità che supera ogni altezza.

Un’altra scena toccante è quella della morte di San Giuseppe, che, per portare in salvo un anziano vicino di casa, si trova nel bel mezzo di una rivolta, viene preso per un sedizioso e finisce per morire appeso ad una Croce, all’età di trentatré anni, come accadrà più tardi a suo figlio Gesù:
“Giuseppe fu l’ultimo a essere crocifisso e quindi dovette assistere, l’uno dopo l’altro, al supplizio dei suoi trentanove compagni sconosciuti, e quando arrivò il suo turno, perduta ogni speranza, non ebbe neppure la forza di ripetere le sue rivendicazioni di innocenza, chissà, forse ha perso l’occasione di salvarsi quando il soldato, con il martello in mano, disse al sergente, E’ il tizio che diceva di non avere colpa, il sergente ebbe un attimo di esitazione, proprio l’attimo in cui Giuseppe avrebbe dovuto urlare, Sono innocente, invece tacque”.

Tralascerò, perché già tratteggiata in altre recensioni, la complessa figura di Pastore, con cui Gesù, andato via di casa dopo la morte di suo padre Giuseppe, trascorrerà un periodo fondamentale della sua vita, carico di dubbi ed interrogativi su ciò che è giusto e ciò che invece non lo è (ad esempio, nei vari riti sacrificali previsti dalla religione ebraica), tra ciò che è opera di Dio e ciò che è opera del diavolo.

Verrò, così, alla scena, a mio giudizio, più delicata e, al tempo stesso, più intensa di tutto il romanzo: l’incontro di Gesù con la “peccatrice” Maria di Magdala: verrebbe da dire, ricordando un celebre brano musicale, che lei è quella che ha “nel cuore un volo di gabbiani, ma un corpo di chi ha detto troppo sì”. E Gesù – verrebbe da continuare -, come un ragazzo, se ne innamorò:
“Maria di Magdala finì di medicare il dolorante piede di Gesù, concludendo l’opera con una salda e adeguata fasciatura, Ecco fatto, disse lei, Come posso ringraziarti, disse Gesù, e per la prima volta i suoi occhi sfiorarono quelli di lei (…). La donna non rispose subito (…) e infine disse, Serbami nel tuo ricordo, nient’altro, e Gesù, Non scorderò la tua bontà, e poi, facendosi coraggio, E non dimenticherò neppure te, Perché, sorrise la donna, Perché sei bella”.

Insomma, se volete accostarvi alla lettura dell’originalissimo Vangelo di Saramago, dovete essere disposti a rivalutare il vostro punto di vista su tanti aspetti della realtà, non solo per quanto riguarda la religione. Imparerete che nella vita “il destino è la cosa più difficile” (cito non alla lettera) e che a nulla serve la logica a fronte dell’imprevedibilità degli eventi, perché la vita è innanzitutto caos. Scoprirete che dare da bere aceto ai condannati non era un vile atto di tortura, ma, come attestano fonti dell’epoca, solo un modo per aiutare il moribondo a soffrire un po’ meno, dal momento che l’aceto agiva come una specie di antisettico naturale. E che la vita, sì, è ingiusta, se dà ad uno di aggrapparsi alle ali di un aereo per evitare la morte e ad un altro di essere semplicemente nato e cresciuto in un’altra parte di mondo.
Unico rimedio, sembra suggerire tacitamente l’Autore, quello di unirsi nella “social catena” di leopardiana memoria e, come fa la ginestra nell’omonima lirica del Poeta di Recanati, reclinare dolcemente il nostro capo una volta giunti al momento estremo, dopo una vita di eroica resistenza.

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Unda Maris86 Opinione inserita da Unda Maris86    17 Luglio, 2021
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"Ragione e sentimento"

"Elias Portolu, non sei un pastoraccio qualunque, ed hai studiato e sofferto, e puoi capire queste cose".

I Portolu sono una famiglia di pastori del Nuorese, tutta dedita al lavoro ed alle buone pratiche legate alla religione; all'inizio della storia, Elias, uno dei tre figli di zia Annedda e zio Berte Portolu, è appena tornato a casa dopo aver scontato un periodo di prigionia nel continente, mentre suo fratello Pietro si è fidanzato e sta per prendere moglie.

Elias è un ragazzo sensibile e dall'animo nobile, che, per dirla con prete Porcheddu, sacerdote cui il giovane si rivolge per ottenere alcuni consigli, guarda la luna "non per indovinare le ore, come tutti i pastori, ma con sentimento alto, solenne". Proprio questa delicatezza d'animo, però, lo espone a forti crisi e travagli interiori: così, quando il giovane sente crescere dentro di sé la passione amorosa per la sua futura cognata, Maddalena, finisce per ammalarsi gravemente, combattuto tra cuore e ragione morale, tra la propria speranza di felicità e il sereno avvenire di suo fratello Pietro.
Accanto a questo conflitto, Elias vive anche l'altro grande dilemma legato alla propria vocazione religiosa, vista da una parte come un approdo sicuro contro le tentazioni del mondo (in primis l'amore proibito per Maddalena) e, dall'altra, come possibile inizio di un cammino ancora più in salita.

Un'opera moderna, dunque, dove l'incapacità del protagonista di compiere una scelta interiore definitiva e la difficoltà nell'interpretare del tutto coerentemente un ruolo all'interno della società sembrano anticipare, in parte, la fisionomia dell'"inetto", figura tipica dei grandi romanzi del Decadentismo.

Particolare come sempre, infine, lo stile della Deledda, intriso di modi di dire popolari e vocaboli sardi, a volte di non facile comprensione. Del resto, si sa: ogni cuore parla una lingua tutta sua.

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Unda Maris86 Opinione inserita da Unda Maris86    06 Luglio, 2021
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"Sarai felice, sarai infelice, sarai di nuovo feli

"Da' tempo al tempo, abbi fiducia: t'innamorerai, sarai insicura, dirai di no, sarai sicura, dirai di sì, sarai felice, sarai infelice, sarai di nuovo felice, tutto accadrà quando sarà tempo" (p. 326).

E' così che Marco Carrera, il "colibrì" - questo il soprannome che gli aveva dato sua madre da piccolo per via della sua corporatura minuta -, immagina di rivolgersi alla figlia di sua figlia, Miraijin. Come suo nonno Marco e sua madre Adele, ella ha un piccolo neo tra il mignolo e l'anulare della mano destra, una sorta di "marchio di fabbrica" che ne suggella l'appartenenza al destino della famiglia. Non solo: Miraijin - nome giapponese che vuol dire "uomo del futuro" / "umanità nuova" - è venuta al mondo in una data che è già di per sé una singolare combinazione numerica, il 20 10 2010. E, come se tutto ciò non bastasse, la ragazza, crescendo, acquista un fascino quasi sovrannaturale che sembra sbocciare e manifestarsi insieme ai numerosi talenti di cui, man mano, appare dotata: Miraijin, infatti, ha il dono di riuscire bene in tutto ciò che fa, attratta spontaneamente da ciò verso cui è per propria natura portata. E', in sostanza, proprio l'emblema di quell' "umanità nuova" scritta nel suo nome, una generazione di individui che "penseranno al plurale" e porranno la cultura "al primo posto tra i loro interessi" (p. 332). Insomma, il seme della rinascita universale dopo il vorticoso succedersi di dolori ed eventi negativi che hanno attanagliato la vita di suo nonno Marco Carrera, "il colibrì".

Tuttavia, la forza del romanzo, a mio avviso, non si coglie nell'invito alla speranza che l'Autore, Sandro Veronesi, sembra volerci lasciare come nota finale (dove non si può fare a meno di cogliere un esagerato idealismo ed una perfezione forse un po' distanti dalla realtà). La forza del romanzo è nel titolo, ossia nella metafora del colibrì: questo uccello, infatti, oltre ad avere un corpicino molto gracile, ha bisogno di sbattere le ali circa settanta volte al secondo per mantenersi in volo. Ciò vuol dire che ogni colibrì compie uno sforzo enorme semplicemente per non perdere l'equilibrio o, detto con le parole del libro, "mette tutta l'energia nel restare fermo". Si scopre, allora, che Marco Carrera è come il colibrì non solo per il suo fisico minuto - peraltro poi prodigiosamente cresciuto nel giro di pochi mesi, durante l'adolescenza, grazie ad una cura ormonale -, ma anche e soprattutto perché il suo sforzo principale è, per l'appunto, restare in equilibrio, anche nei momenti più tragici della sua storia personale e familiare. Chi gli sta intorno, spesso, non percepisce minimamente le sue "acrobazie", non vede le sue ali da colibrì impegnate in cento e più sforzi, che si tratti di riorganizzare radicalmente le proprie priorità, di accudire entrambi i genitori gravemente malati, di confrontarsi con lutti improvvisi o di controllare dei sentimenti. Ciononostante, lui, il colibrì - Carrera, non si perde d'animo: accetta la propria sorte e va avanti.

Non un banale inno alla speranza, quindi; ma, piuttosto, una bella riflessione su come, in ogni vita, ci sia un tempo per tutto. Per essere felice, poi infelice e poi di nuovo felice. E così ancora.

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Unda Maris86 Opinione inserita da Unda Maris86    07 Agosto, 2020
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Candido o della semplicità.

“E peraltro gli piaceva, assomigliarsi a un gatto: per la libertà che sapeva di avere, per il nessun legame con le persone che gli stavano intorno, per la capacità di bastare a se stesso”.

Ecco, condensato in poche parole tratte dai primi capitoli del romanzo, il ritratto di Candido Munafò, nato in un piccolo paese della Sicilia la notte tra il 9 e il 10 luglio 1943, durante lo sbarco degli Americani. Un “piccolo mostro”, a detta invece della mamma del bambino, una giovane donna che, senza porsi troppi scrupoli, dopo pochi anni dalla nascita di Candido riesce ad ottenere l’annullamento del matrimonio dal Tribunale della Sacra Rota e quindi a trasferirsi in America per ricominciare una nuova vita col suo secondo marito.

Dal canto suo, il padre di Candido, l’avvocato Francesco Maria Munafò, subisce le decisioni della moglie facendo buon viso a cattivo gioco e affidando di fatto il piccolo alle cure di Concetta, la governante di casa.

Nemmeno il nonno materno di Candido, un ex generale della milizia fascista divenuto parlamentare della Democrazia Cristiana dopo la fine della guerra, dimostra di avere davvero a cuore le sorti del nipote, preoccupandosi più che altro di amministrare l’ingente patrimonio che questi avrebbe ereditato per parte paterna una volta raggiunta la maggiore età.

Soltanto l’arciprete Lepanto, un curato dalle idee all’avanguardia, con la passione per la psicanalisi e per il pensiero comunista, prenderà a cuore il destino di Candido, seguendo dapprima il ragazzo nel doposcuola pomeridiano e poi, col passare degli anni, diventando per lui un vero e proprio compagno di vita.
Tanto che, quando don Antonio, l’arciprete, decide di abbandonare l’abito talare e di tornare a vivere da laico, i due si ritroveranno a compiere insieme le stesse scelte, dal coltivare la terra in campagna al prendere la tessera del partito comunista.
In entrambi, prevale su tutto il bisogno di una vita autentica, sincera, pura, leale; slegata, insomma, dagli stereotipi e dalle ipocrisie in cui la società, spesso, ci rinchiude in maniera subdola, propinandoci degli ideali di libertà che finiscono per degenerare in vere e proprie forme di schiavitù (anche solo psicologica).

Si tratta, quindi, di curare la propria forma mentis – anche attraverso lo studio della filosofia, della letteratura, della storia del pensiero politico tante volte evocate nel corso del romanzo – in modo da non smarrire mai uno sguardo “candido” sulla realtà e sugli uomini. Non concepire il male (“omnia munda mundis”, avrebbe detto il grande Manzoni!) non perché non esista ma semplicemente perché non esiste dentro di noi (come quando il protagonista dimostra di non curarsi dell’interdizione che i suoi parenti hanno chiesto per lui, felice di rinunciare a dei beni che per lui erano diventati un peso).

E viaggiare, viaggiare tanto prima di stabilirsi nel posto non “in cui” ma “per cui” si è nati.
Perché solo dopo aver cercato troveremo noi stessi: troppo banale?
Beh, “a vederle, le cose si semplificano; e noi abbiamo invece bisogno di complicarle, di farne complicate analisi, di trovarne complicate cause, analisi, giustificazioni. Ed ecco che a vederle non ne hanno più; e a soffrirle, ancora di meno”. Parola di Candido Munafò.

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Unda Maris86 Opinione inserita da Unda Maris86    30 Agosto, 2019
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La verità è che non esiste la verità.

Premetto che ho letto questo libro per puro caso: era uno dei pochi romanzi rimasti in casa prima di un trasloco. Inoltre conoscevo già Paolo Giordano, avendo letto ed amato tantissimo, qualche anno fa, "La solitudine dei numeri primi". Nutrivo quindi delle grandi aspettative e diciamo che, per le prime cinquanta pagine, mi è sembrato di ritrovare il grande Giordano dell'opera prima. Man mano che sono andata avanti nella lettura, però, ho avuto l'impressione che la storia perdesse d'intensità e che la narrazione proseguisse quasi esclusivamente per forza d'inerzia: vicende improbabili, eccessive accelerazioni o - viceversa - decelerazioni del ritmo narrativo, dialoghi banali tra i personaggi rompono, un po' alla volta, l'incantesimo di un racconto che, all'inizio, emoziona e promette molto di più.

Se infatti, in un primo momento, Teresa, un' adolescente torinese, e i tre "fratelli" pugliesi ricordano i personaggi a tutto tondo di Alice e Mattia, i due "numeri primi" protagonisti del precedente romanzo, subito dopo essi appaiono ben più insipidi rispetto alla coppia dei loro predecessori. Perché, nonostante Teresa, Bern, Nicola e Tommaso (cui si aggiungeranno, poi, gli amici Danco e Giuliana) decidano tutti insieme di coltivare un progetto comune, ossia vivere esclusivamente nella natura e per la natura, la loro vicenda sembra priva di un centro gravitazionale altrettanto preciso: dal punto di vista propriamente narrativo, infatti, non è ben delineata la Spannung (cioè il momento clou del racconto), così come, dal punto di vista dei contenuti, non è facile dire se il libro intenda parlare soprattutto di amicizia, di amore, di relazioni umane contraddittorie oppure di ideali superiore, quali la fede religiosa in Dio o la tutela dell'ambiente.

Anche l'evoluzione psicologica dei personaggi, a mio avviso, poteva essere elaborata meglio: ad esempio, nella prima sezione, Cesare, il "padre" dei tre ragazzi, ci viene presentato soprattutto come un fanatico della religione, un individuo dai modi affettati ma austeri nei confronti dei figli, di cui cerca di tenere sotto controllo ogni movimento (compreso spiare le effusioni amorose tra Bern e Teresa nel canneto poco distante dalla masseria). Dopodiché, il suo ruolo e quello di sua moglie Floriana passeranno decisamente in secondo piano per buona parte della trama; ma, al termine del racconto, troveremo d'improvviso un personaggio diverso, totalmente cambiato, dal cuore così tenero e magnanimo da poter perdonare chi gli ha procurato il dolore più grande di tutta la vita.
Anche la relazione tra Bern e Teresa si sviluppa su binari non sempre ben definiti: troviamo prima la passione travolgente di due ragazzini poco più che sedicenni, poi un rapporto stabile che vede, però, un sempre maggior dominio psicologico da parte di Bern (e, quindi, l'esasperazione di Teresa) e, infine, un rocambolesco ricongiungimento dopo un periodo di separazione.

Difficile, per tali ragioni, trovare la giusta chiave di lettura dell'opera, di sicuro ambiziosa come progetto editoriale, ma che promette più di quanto riesca poi effettivamente ad offrire al lettore.

Forse perché, come scrive Paolo Giordano nelle ultime pagine del libro, "la verità sulle persone, su chiunque, semplicemente non esiste".







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Unda Maris86 Opinione inserita da Unda Maris86    15 Luglio, 2019
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Due...in uno?

A leggere il titolo di questo romanzo - complice la copertina -, siamo portati a pensare a tutto ciò che è "due" nel senso di "unità": la magia di due cuori che battono all'unisono, l'ardore di due corpi fusi in un unico abbraccio, insomma, per dirla in breve, l'utopia di un amore perfetto. Ben presto, però, la lettura del romanzo ribalterà completamente le vostre attese.

Sì, perché "due", per i personaggi del romanzo, vuol dire soprattutto "dualità", quindi crisi, conflitto, separazione; ma anche, finito il tumulto, crescita, maturazione, nuova unità. O, al contrario, volendo dare un’interpretazione più disincantata dell’opera - che, anche in questo, presenta un’intrinseca “dualità” -, l’Autrice potrebbe suggerirci che ogni deviazione dall’ordine sociale prestabilito significa, a lungo andare, logoramento ed autodistruzione; così, per forza di cose, l’individuo sarà portato, prima o poi, a rivalutare il senso della vita accettando come unica possibilità di salvezza la serenità di un’esistenza in armonia con se stesso e con il proprio ruolo nella famiglia e nella società.

Occorre considerare, inoltre, che il romanzo, apparso nel 1939 e ambientato qualche anno prima, tra gli anni Venti e i primi anni Trenta del Novecento, nasce in un periodo di estrema precarietà degli equilibri sociali e internazionali, permeato dal recente ricordo della Grande Guerra e già gravido delle tensioni politiche che porteranno all’esplosione della Seconda Guerra Mondiale ed alla tragedia dell’Olocausto (in cui, peraltro, perderà la vita la stessa Némirovsky, morta ad Auschwitz nel 1942).

Dunque, l’opera sembra rispecchiare in pieno i contrasti della sua epoca, sospesa tra un forte desiderio di riscatto e la paura di un futuro quanto mai incerto. Gli stessi protagonisti dell’opera, Antoine e Marianne, sperimentano la volubilità e l’incostanza di affetti e situazioni: dallo slancio giovanile di un amore che, pur tra vari contrasti, sembrava l’unico degno di essere vissuto, i “due” si ritrovano, in poco tempo, ad essere un marito e una moglie quasi indifferenti l’uno all’altra, soffocati – ma, al tempo stesso, inevitabilmente uniti – dai banali ingranaggi della quotidianità. Del resto, non c’è nessun personaggio, in questo libro, che possa dirsi davvero felice: ad esempio, i vecchi genitori di Antoine, il signore e la signora Carmontel, hanno alle spalle una vita di insoddisfazioni e malesseri, mentre dei coniugi Segré, genitori di Marianne, si dice che hanno sempre condotto un’esistenza disordinata, restando insieme per pura convenzione sociale e non badando più di tanto alla crescita ed alle frequentazioni delle tre figlie. Solange, invece, migliore amica di Marianne, all’inizio così piena di vita, avrà suo malgrado un destino difficile; e finanche Dominique, amico ed ex coinquilino di Antoine, giovane colto ed idealista, dovrà adeguare le sue aspirazioni alla realtà, rinunciando al vero amore, almeno nella vita coniugale.

Insomma, realismo e disincanto sono i toni prevalenti nel romanzo.

Ma forse, nonostante tutto, si vive e ci si salva soltanto in due.

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Unda Maris86 Opinione inserita da Unda Maris86    27 Agosto, 2018
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Quadri viventi

“Canne al vento” non è un libro come un altro. O, meglio, non è un libro. Non so se vi è mai capitato di andare a vedere i cosiddetti “quadri viventi”: a me viene in mente, in primis, il “presepe vivente” allestito da una decina d’anni a questa parte, nel periodo di Natale, nei Sassi di Matera, la mia città. Ebbene, si tratta di manifestazioni in cui i figuranti “danno vita” a quadri famosi o, nel caso di Matera, ai personaggi del presepe. Ecco, “Canne al vento” è questo: un grande quadro / presepe vivente.

Già il titolo solletica la nostra immaginazione visiva e ci fa capire che, leggendo questo libro, ci addentreremo in una natura animata, piena di segreti, maestosa e terribile al tempo stesso. Una grande madre che sembra contenere nel suo grembo tutta la sapienza dell’umanità, quelle verità ancestrali che, nascoste ai più, si rivelano solo attraverso il corso inesorabile degli eventi.

Come lettori, ci si sente subito trasportati in quest’atmosfera un po’incantata, dove creature misteriose quali nani e panas (spiriti di donne morte di parto) fanno apparire la Sardegna di fine Ottocento una terra quasi fiabesca per poi lasciare spazio al realismo dei tanti paesaggi descritti (o, sarebbe meglio dire, dipinti) ed alla concretezza dei gesti del vivere quotidiano.

Al centro della storia, il destino delle tre sorelle Pintor, in ordine d’età Ruth, Ester e Noemi: tre nomi biblici per esaltare, forse, non solo la nobiltà di stirpe della famiglia, ma anche il senso di sacralità che attraversa, in silenzio, il progredire della trama. Tre nomi che racchiudono, inoltre, proprio come la storia della salvezza narrata nella Bibbia, la fede in una promessa: la speranza di una felicità nuova dopo il “vento” sfavorevole della cattiva sorte che ha piegato la famiglia Pintor portandola sull’orlo di una voragine sempre più profonda.

Ad incarnare simbolicamente il destino della famiglia ed il senso di tutta la storia, troviamo la figura del servo fedele, che, a ben vedere, ha anch’essa una chiara matrice biblica, oltre a rievocare il personaggio della nota parabola evangelica. Efix, questo il nome del servo, sente di essere attaccato al “destino tragico della famiglia” come “il musco alla pietra”. Egli, pronto a tutto per le sue padrone e fiducioso nella capacità di redenzione del loro giovane nipote giunto dal continente, don Giacintino, prende idealmente e fisicamente su di sé il peso di tutti i mali abbattutisi sulla famiglia ed affronta un viaggio di purificazione che tanto ricorda, per restare in tema biblico, quello del Cristo caricato della Croce verso il Calvario. Se vi sarà riscatto e resurrezione o, al contrario, solo l’ombra della notte, lo saprete non prima della fine.

Nel frattempo, avrete l’illusione di trovarvi anche voi in mezzo ai personaggi di questo grande “presepe” e, con un po’ d’immaginazione, anche voi ascolterete il suono delle canne che “sussurrano la preghiera della terra”. Perché è un libro di un’intensità unica che difficilmente scorderete. Una poesia vestita di prosa. Un quadro vivente racchiuso nella minuscola, ma magica e infinita, forma delle lettere.

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Unda Maris86 Opinione inserita da Unda Maris86    26 Luglio, 2018
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MARGARITA

Ho letto "Cose che nessuno sa" conquistata da altri tre romanzi di Alessandro D'Avenia letti di recente, precisamente "Bianca come il latte, rossa come il sangue", "L'arte di essere fragili" e "Ogni storia è una storia d'amore".

Forse proprio per questo motivo, non ho riscontrato nel libro una particolare originalità: la figura del Prof. di Lettere, giovane ed appassionato, ricorda molto da vicino quella del Prof. di Filosofia presente nel romanzo d'esordio (oltre ad essere, ovviamente, una chiara trasposizione letteraria dell'autore stesso), così come le "cose che nessuno sa" sono un "distillato" di idee sulla vita e sull'amore che giunge a piena maturazione e viene riversato in abbondanza nelle ultime due opere, non romanzi in senso stretto, ma, rispettivamente, un dialogo immaginario con Giacomo Leopardi (L'arte di essere fragili) e una raccolta di storie d'amore di personaggi illustri (Ogni storia è una storia d'amore). Anche la trama, che ha per protagonisti due adolescenti posti dinanzi all'esperienza del dolore, ricorda molto, come atmosfera, la vicenda narrata in "Bianca come il latte, rossa come il sangue".

A parte questo, considerato di per sé, il libro presenta un’architettura coerente e ben gestita, in grado di far scorrere parallelamente il mitico viaggio compiuto da Telemaco alla ricerca del padre all’inizio dell’Odissea con quello della protagonista, Margherita, che, proprio dopo aver conosciuto la storia di Ulisse a scuola, si arma di coraggio e, insieme all’amico Giulio, di qualche anno più grande di lei, si lancia alla ricerca del padre, andato via di casa senza dare spiegazioni.

Sarà così che, alla fine di questo “viaggio”, tutti i personaggi della storia vedranno rafforzati i propri vincoli d’affetto, riconoscendo in essi la “perla” (in latino, per l’appunto, “margarita”) che, tra luci ed ombre, gioie e dolori, rende ogni vita affascinante, irripetibile e, per questo, degna di essere apprezzata in tutte le sue sfumature.

Un plauso all'Autore, dunque, per il merito di risvegliare, nel pubblico adulto, la sete di speranza e fiducia nell'esistenza umana e, negli adolescenti, la voglia di leggere imparando a capire, un po’ per volta, anche il libro della vita.

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Unda Maris86 Opinione inserita da Unda Maris86    23 Giugno, 2018
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Nomen omen.

“Nomen omen”. Così dicevano gli antichi: nel nome è racchiusa l’essenza del nostro destino. Che si voglia crederci o no, il nostro nome è la nostra eco nel mondo e l’eredità che lasciamo a chi verrà dopo di noi.

“Nomen omen”. Arte-misia è l’arte. La sua passione per la pittura il suo modo originale di stare al mondo. E, come ci insegna il doppio significato della parola, “passione” è amore, ma anche dolore. “Patire”, infatti, in senso strettamente etimologico, è “sentire” qualcosa, sia in bene che in male. In altri termini: è amare prima di tutto, amare fino ad accettare il dolore, come risulta chiaro quando diciamo, ad esempio, “la Passione di Nostro Signore”.

“Nomen omen”. La storia di Artemisia è il racconto di un amore per la pittura che deve fare i conti con una serie di dolori, dal grave torto subito da parte del collega artista Agostino Tassi, ai pregiudizi della società – che, un tempo come ancora oggi, spesso ostacola la piena realizzazione del talento femminile - fino alle incomprensioni vissute anche all’interno della famiglia.

“Nomen omen”. Il destino di Artemisia è, allora, “vivere tanto a lungo da poter dipingere ogni emozione umana”, rischiarare col colore lo sguardo e l’anima di chi, ancora oggi, può ammirare i suoi dipinti e cogliere gli stati d’animo che si agitano dentro i personaggi delle sue tele.

“Nomen omen”. Artemisia non compie solo il suo destino, ma anche quello di un’altra persona cara: Orazio Gentileschi, suo padre e maestro di pittura sin dall’infanzia, nonostante l’intensa collaborazione artistica di quest’ultimo proprio con l’Agostino Tassi responsabile dello stupro di Artemisia. Non a caso, la figura di Orazio Gentileschi, come in una composizione ad anello, apre il romanzo (“Mio padre mi camminava accanto per darmi coraggio e con la mano sfiorava lieve i pizzi che ornavano le spalle del mio corpetto”), si dilegua per buona parte della narrazione e poi ritorna proprio alla fine della storia, quando Artemisia raggiunge suo padre, ormai privo di forze, in Inghilterra e gli promette di dipingere una grande allegoria della Pittura (“Sì, papà” – Lo baciai lievemente sulla fronte – “Lo farò”).

“Nomen omen”. Per dirci, in fondo, che l’amore non è perfezione ma pienezza. E che è proprio quando le due s’incontrano che nasce l’Arte.

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Unda Maris86 Opinione inserita da Unda Maris86    11 Agosto, 2017
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Le ali della libertà

Ho ricevuto in regalo "La gallina volante", romanzo d'esordio di Paola Mastrocola, in occasione del mio ultimo compleanno, qualche mese fa. Conoscevo l'autrice, sapevo anche dei suoi studi classici e del suo lavoro come insegnante di Lettere in un liceo torinese, ma non ero ancora entrata a far parte del suo pubblico di lettori. Di sicuro, la prima cosa che colpisce è l'originalità dello stile, imbevuto di sagace ironia sin dal titolo: perché mai una gallina dovrebbe apprendere l'arte del volo? In realtà, la storia in cui vi imbatterete - in pratica, il diario di un anno scolastico redatto con lo sguardo critico di una Prof. di Italiano, Carla - è la metafora di un acuto punto di vista sul mondo della scuola e sulla realtà in generale, dove spesso la forma prende il sopravvento sulla sostanza e comodi stereotipi si sostituiscono alla bellezza, pur faticosa, dell'atto creativo. Così, istruire delle galline escogitando bizzarri sistemi per farle volare diventa il pretesto per credere in qualcosa di apparentemente impossibile e per abbattere i pregiudizi che non di rado condizionano la nostra percezione del mondo. Allo stesso tempo, Carla, la protagonista, cercherà di coltivare il rapporto d'amicizia con un'allieva speciale, Tanni, ribelle come ogni adolescente in cerca del senso profondo della propria vita, ma dotata anche di particolare talento e sensibilità. Non a caso, pur imboccando una strada del tutto controcorrente e al di là di ogni legittima aspettativa, la ragazza dimostrerà d'aver compreso come nessun altro l'indole e i sentimenti della sua insegnante, tanto da regalarle lo stesso libro che Carla aveva a propria volta pensato di donare a lei. Tra le righe, quindi, l'autrice sembra voler suggerire, come messaggio finale, che la vita ci riserva spesso percorsi inaspettati e molto lontani dalle attese di chi ci è intorno, ma fatti su misura per noi, per incrociare un giorno le nostre aspirazioni e dare compimento al nostro destino: "Non di tutto possiamo essere felici. Non di tutte le cose che facciamo nella vita. Basterebbe esserlo di una perché quell'una poi rischiara tutte le altre e siamo salvi".

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Unda Maris86 Opinione inserita da Unda Maris86    24 Luglio, 2017
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Un libro per... voltare pagina.

Parto da un'importante premessa: non ho concluso la lettura di questo libro, essendomi fermata prima dell'ultima sezione, intitolata "Il magico potere del riordino che vi cambierà radicalmente la vita". Non ho dubbi sul fatto che una vita ispirata all'essenzialità, con pochi oggetti importanti, ci alleggerisca il cuore, ma il punto è un altro: il libro è molto ripetitivo e, tolta l'idea centrale, resta ben poco di interessante. Tutto, quindi, ruota intorno al seguente postulato: buttare il più possibile seguendo un ordine per categorie, ossia passando dagli oggetti cui si è solitamente meno affezionati (come vestiti dismessi o avuti "in eredità" da fratelli / sorelle maggiori) a quelli più carichi di valenze affettive (come, ad esempio, libri e ricordi). In questo modo - e non riordinando per ambienti - si dovrebbe maturare, secondo l'autrice, una graduale attitudine al riordino che ci porterà, nel tempo, a non cadere più nella detestabile spirale del caos e a vivere serenamente la nostra vita in armonia con l'ambiente che ci circonda. Certo, se siete i classici disordinati creativi o degli inguaribili nostalgici, farete fatica, come me, ad accostarvi al libro della Kondo ed ai suoi toni radicali. Se, invece, siete in cerca di una nuova vita e di un taglio netto col passato, beh...è proprio il libro che fa per voi.

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Unda Maris86 Opinione inserita da Unda Maris86    06 Settembre, 2016
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Luce

“Un uso qualunque di te” è la storia di una vita “a rovescio”. Ma non solo per il racconto basato sulla tecnica narrativa del flash-back. “A rovescio” soprattutto perché Viola, la protagonista, ripercorre i suoi anni “in controluce”, rivelandoci l’interno del guscio in cui l’hanno imprigionata, nel tempo, il giudizio dei familiari e la morale comune. “A rovescio”, ancora, perché, nonostante un marito praticamente perfetto, tutta la sua vita appare come una serie di scelte inevitabilmente sbagliate, con sensi di colpa ogni volta più pesanti e invincibili. “Luce” è, in tutti i sensi, il centro del romanzo: nel lessico, nei sussulti del cuore, nel nome di una figlia ormai adolescente, nel desiderio finale di redenzione. Tutti ingredienti che rendono il racconto, nel complesso, coerente ed unitario. Unica pecca un finale abbastanza prevedibile e una trama non sempre all’altezza della complessità insita nelle emozioni descritte. Efficace, in compenso, lo stile di scrittura, dotato di grazia, buongusto ed intensità espressiva, tanto che, a tratti, si ha l’impressione di leggere poesia in prosa.

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Unda Maris86 Opinione inserita da Unda Maris86    16 Agosto, 2016
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Ri-splendere

Ispirato al delicato tema della violenza sulle donne, "Splendi più che puoi" è la storia di un complesso percorso di emancipazione fisica e psicologica dagli abusi commessi quotidianamente da un marito senza scrupoli, insensibile e paranoico. Così, tra le ferite che lacerano il corpo e quelle che provano lo spirito, Emma, la protagonista, dovrà prima studiare attentamente i comportamenti del marito per prevederne ogni possibile mossa e, poi, mettere a punto un vero e proprio piano in fuga per portare in salvo la propria vita e quella di sua figlia di quattro anni. A questo punto, insieme alla battaglia legale volta ad ottenere l'affido esclusivo della piccola, inizia la dura lotta interiore affrontata dalla donna per riconciliarsi con se stessa e tornare ad una vita il più possibile "normale". Prezioso, in questo lungo processo, si rivelerà il contatto con altre donne segnate dallo stesso dramma, tutte, come Emma, al capolinea di storie diventate impossibili. Solo così, un po' per volta, la donna riacquisterà la necessaria fiducia in se stessa e nel proprio valore, tornando con forza a vivere il lavoro e gli affetti più cari.
Nonostante il difficile tema trattato, la narrazione non presenta mai toni cupi o eccessivamente drammatici, prediligendo di gran lunga la visuale introspettivo-psicologica alla descrizione delle violenze, senza rinunciare, per questo, ad un profondo, impeccabile realismo. Da segnalare di certo il pregio di uno stile semplice ed efficace per raccontare una verità complessa, come quella della violenza, dai mille nomi ma spesso senza voce.

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Unda Maris86 Opinione inserita da Unda Maris86    10 Agosto, 2016
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Due donne, un unico sogno

In un Paese segnato dal dolore della guerra, due donne che il dolore lo portano scolpito nella loro storia familiare osano il coraggio della speranza. Così, Elsa lascia l'America per lavorare come infermiera volontaria in Afghanistan e Parween, che dell'Afghanistan è figlia, fa la guerra ad ogni timore e pregiudizio per affermare, con orgoglio, la propria libertà dal regime dei talebani. Due vite, insomma, che prima s'incontrano per caso e poi s'intrecciano volando insieme verso un unico sogno: un futuro migliore per una terra sfigurata dalla crudeltà dell'uomo ma pronta a rialzarsi e ricominciare. In questo scenario, la narrazione proceda snella e molto scorrevole, talora, in verità, un po' essenziale e affrettata, soprattutto verso la conclusione del racconto. Resta, però, tutto il calore di un'esperienza di vita vissuta (Elsa non è altro che la controfigura letteraria dell'autrice stessa, infermiera ed operatrice umanitaria in diversi Paesi di guerra) e l'alto valore documentario di un'opera che, come una fotografia, restituisce a pieni colori l'essenza della realtà.

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Unda Maris86 Opinione inserita da Unda Maris86    25 Agosto, 2014
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Da un amore misterioso al mistero di un amore

"Le scimmie parleranno anche (...) ma lettere d'amore non ne scrivono. Nemmeno la nota della spesa, scrivono. Come sono umane le lettere d'amore, come nobilitano. Solo noi scriviamo lettere".

Tutto inizia con l'arrivo, per posta, di una misteriosa lettera d'amore. Anonima. O, meglio, a firma di uno sconosciuto "Montone" che si rivolge alla sua "cara Capra", due pseudonimi già rivelatori della nota d' ironia che accompagna, come una musica di sottofondo, tutto lo sviluppo del romanzo. Poi, come se le parole della lettera si staccassero un po' alla volta dalla carta prendendo corpo nella vita reale, giunge, improvvisa e travolgente, la storia d'amore tra Helen, la libraia destinataria della lettera, e Johnny, uno dei suoi giovani aiutanti. Così, dopo le prime perplessità legate ai vent'anni di differenza tra i due, la loro storia si fa sempre più intensa e appassionata, tra incontri semi-clandestini ed altri espedienti che faranno rivivere ad Helen, divorziata e con una figlia, il ricordo dei suoi primi amori ai tempi del liceo. Ma, più forte di ogni distanza e della paura di essere scoperti - con l'inevitabile, duro giudizio che ne seguirebbe da parte di amici e familiari -, il legame che oramai unisce le vite dei due innamorati sembra destinato a perdurare anche quando, finita l'estate, Johnny torna al College ed alla sua vita di sempre, lontano mille miglia da Helen e dalla ridente cittadina di Pequot. Insomma, una storia d'amore e fedeltà che, al di là di schemi e convenzioni sociali, finisce per riannodarsi, nell'imprevedibile conclusione del romanzo, a quella di "Capra" e "Montone", cantando alla sovranità d'Amore e, insieme, alla libertà dell'uomo.

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Unda Maris86 Opinione inserita da Unda Maris86    06 Febbraio, 2012
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“L’altro appare perché abita già in me”

In un contesto di complessiva organicità nel piano di stesura dell’opera, appare evidente come ciascuna delle due sezioni in cui essa si articola presenta una propria specificità. In particolare, la prima parte, a cura di Enzo Bianchi, offre un agevole approdo al tema della prossimità muovendo dal confronto tra Antico e Nuovo Testamento ed evidenziando, quindi, l’apporto innovativo - e, mi verrebbe da dire, altresì creativo - di quest’ultimo rispetto al primo, pur sempre in un orizzonte di coerenza e continuità con la tradizione ebraica. In sintesi, al termine di questa prima sezione, il lettore può disporre di un rapido e schematico ragguaglio sui principali aspetti della questione, enunciati con ordine, chiarezza e puntualità. A questo punto, quindi, si è muniti dell’opportuno equipaggiamento conoscitivo per addentrarsi nella riflessione critica sulla “drammatica della prossimità”, che Massimo Cacciari enuclea con grande attenzione, penetrante acutezza e sistematico rigore nelle scelte lessicali, producendosi, così, in una disamina che, pur richiedendo al lettore una rigida vigilanza intellettiva, lo ricompensa poi con la certezza di aver dedicato del tempo ad una meditazione senza dubbio arricchente dal punto di vista umano, culturale e spirituale, giacché egli avrà scoperto come il plesios, cioè il prossimo, sia già parte del sé e quanto l’esigenza di prossimità, non riducibile ad un mero senso di vicinanza o affinità, fluisca direttamente da quella “ferita” d’amore che trafigge prima di tutto proprio noi stessi.

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Unda Maris86 Opinione inserita da Unda Maris86    04 Gennaio, 2012
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Un diario di emozioni

Riflettere su un'opera letteraria che si presenti in veste di florilegio comporta, solitamente, una certa difficoltà di fondo: come compattare in unità un magma incandescente di pensieri che, pur apparentati dal comune riferimento ad un tema specifico, restano pur sempre indipendenti l'uno dall'altro? Tuttavia, per la raccolta di Coelho di cui ci stiamo occupando, proprio questo limite "naturale" risulta complessivamente trasceso grazie alla grande abilità dell'autore nella proposta di un itinerario che, mediante la partizione in diverse aree tematiche (provvidenza, trasformazione, superamento ecc...), trasmette al lettore la sensazione di essere guidato attraverso un percorso sempre denso di sostanza e significato. In altri termini, ci si trova dinanzi ad uno sviluppo organico ed unitario del tema "Amore", modulato nei timbri della profondità e della delicatezza, lungi, per contro, da qualsiasi eco di banalità. Gradevolissima, poi, la veste grafica dell'edizione, che, anche grazie all'originale e luminoso corredo di illustrazioni, al termine della lettura non sarà certo riposta per sempre sugli scaffali della nostra biblioteca, destinata a trasformarsi in un vero diario personale di emozioni da riaprire e meditare ogni volta che se ne avverta il bisogno.

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Imperdibile per i lettori di Coehlo, ma consigliato a chiunque!
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Unda Maris86 Opinione inserita da Unda Maris86    17 Febbraio, 2011
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Alla scoperta dell'io.


Pensare di soffermarsi sui contenuti estrinseci del libro di Morelli sarebbe, a parer mio, poco produttivo ed altresì scarsamente denotativo dell’impianto di questo testo, che, al di là di quanto formalmente espostovi, intende far presa sulle corde più profonde dell’essere, proponendo al lettore un percorso interiore che dovrebbe condurlo alla riscoperta e valorizzazione della propria “immagine” originaria. Secondo l’autore, infatti, in ognuno di noi albergherebbe, il più delle volte sopraffatta ed ignorata, una sorta di primigenia impronta caratteriale, che il raziocinio, tuttavia, avrebbe progressivamente annebbiato; sicché, la frequente contraddizione tra ciò che ragionevolmente si è e si ritiene di dover essere, da una parte, e la forza propulsiva dell’immagine inscritta nell’anima, dall’altra, determinerebbe una specie di “scollamento”, onde anche ciò che programmiamo e perseguiamo nel nostro presunto interesse non ci offre, alla fine, quell’intimo appagamento che solo scaturirebbe, invece, dalla consapevolezza della propria essenza primigenia. Occorre, pertanto, porsi in ascolto dell’anima e far sgorgare dalla sua inesauribile sorgente fiumi di immagini, oniriche e non, che possano funzionare a mo’ di “specchio” del nostro io, con l’importante avvertenza di non operare alcun tipo di censura. Cioè, solo fidandoci della nostra essenza primigenia addiverremo ad una piena realizzazione della nostra personalità; e solo concependo il “disturbo” come segnale positivo dell’anima, che cerca così di ritrovare la strada maestra, potremo ristabilire il corretto equilibrio tra ciò che la vita ci chiama ad essere e i nostri aneliti più profondi. Nel complesso, benché, ad esser franchi, mi abbia destato un certo scetticismo il discorso dell’autore su un’ipotetica armonia cosmica che presiederebbe al dispiegamento dei destini universale e individuale (quasi in una sorta di visione panteistica), tuttavia posso assicurare di aver provato, durante la lettura, una positiva sensazione di benessere e tranquillità interiore, ciò che, in ultima analisi, credo fosse intento precipuo dell’autore.

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Libri di psicologia ma non solo.
Religione e spiritualità
 
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Unda Maris86 Opinione inserita da Unda Maris86    20 Dicembre, 2010
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Più abbagliante che convincente.

Ho letto il libro di Augias-Pesce nella primavera del 2007, appena pochi mesi dopo l'uscita in libreria, peraltro su consiglio di un autorevole docente di Letteratura Cristiana Antica. Tuttavia, credo di dover ritenere che, malgrado l'indubbio pregio del bagaglio scientifico-conoscitivo del Prof. Pesce e l'accattivante formula dell'inchiesta messa su dal bravissimo e stimatissimo Augias, il libro lasci nel lettore un non so che di poco convincente. Ad esempio, quando si opina sulla verginità di Maria perché nel Vangelo si parla di "fratelli e sorelle di Gesù", si affida solo ad un miserevole accenno il compito di spiegare come il termine figurante nell’Evangelo non sia da intendersi alla lettera nel senso di “germano”, ma vada inteso piuttosto come “cugino” o qualcosa di simile. Cioè, si ha l’impressione, a mio modestissimo parere, che in alcuni punti l’”inchiesta” sia pre-orientata verso la dimostrazione di alcune opinioni in luogo di altre, complice, forse, un approccio in parte pregiudizievole verso certi temi. Sicché, l’intenzionale neutralità dichiarata in partenza dai due studiosi finisce per essere compromessa, talvolta, dalla compiaciuta ricerca del dettaglio presumibilmente inedito o del particolare in grado di destare meraviglia, a discapito magari di una visione più globale ed esauriente. Utile, in ogni caso, la riflessione sul rapporto Ebraismo-Cristianesimo che permea l’indagine ed il costante riferimento alla collocazione storica degli eventi.

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Altre pubblicazioni sul Cristianesimo delle origini.
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Unda Maris86 Opinione inserita da Unda Maris86    05 Novembre, 2010
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"Vibrazioni" d'amore

Recensire un’opera di Hermann Hesse è, come sempre, intrinsecamente riduttivo, data l’inesauribilità delle sfumature che intessono non solo la trama, ma anche il profilo psicologico dei personaggi, colti in tutta la profondità del loro essere. Per tal ragione, ogni azione materiale che essi compiono rimanda ad una serie di presupposti caratteriali ed emotivi che, oltre ad arricchirne la fisionomia, ne esalta i moti interiori e gli stati d’animo. Al contempo, peraltro, ben svolti risultano anche gli aspetti estrinseci e formali della narrazione, che, incentrata su un numero ben circoscrivibile di attori e vicende, prende le mosse, acquisisce vigore e giunge all’epilogo alla luce di un elemento costantemente sotteso ed operante: la musica. Non tanto l’amore, infatti, a parer mio, quanto proprio la musica assurge, in questo romanzo, al rango di protagonista ideale: “A partire dal mio sesto o settimo anno circa, ho capito che di tutte le potenze invisibili la musica era destinata ad avvincermi con maggior forza e a dominarmi”, può asserire con intima convinzione il personaggio centrale nonché voce narrante della storia, Kuhn, violinista e, poi, egli stesso compositore. Amore e musica, del resto, si sposano e compendiano in maniera perfetta proprio nel personaggio della soavissima, splendida Gertrud, che, nella sublime interpretazione vocale della musica di Kuhn, ne incarna altresì la passione d’amore. Sicché, le vette più alte dell’ingegno musicale del protagonista finiscono per sperdersi nel cielo – talvolta limpido e splendente, talaltra fosco e burrascoso – dell’ardore sentimentale, trovando proprio nel personaggio di Gertrud la manifestazione più compiuta e tecnicamente espressiva.
In ultima analisi, come è del resto peculiare dell’indole letteraria dell’autore, "Gertrud" si propone all’aspettativa dei lettori non solo come intreccio di accadimenti, ma anche – e direi, anzi, preminentemente – come trasfigurazione e traslitterazione del reale nel sommesso ma avvincente linguaggio della più profonda interiorità.


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Romanzi d'introspezione psicologica o altre opere di Hesse.
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Unda Maris86 Opinione inserita da Unda Maris86    20 Luglio, 2010
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Vi rimane nel cuore per sempre...

Per suggerirvi un’idea di ciò che “Piccole donne” rappresenta per me, basterà che vi dica solo questo: ancora oggi, dopo tredici anni dalla lettura del romanzo della Alcott, di tanto in tanto avverto l’irresistibile desiderio di riprendere in mano quel libro, sentire il profumo delle sue pagine e lasciarmi rapire da un capitolo, da un dialogo o anche solo da una frase. Per lungo tempo sperai ardentemente di poterne gustare una trasposizione cinematografica, ma poi, quando il mio sogno si avverò, sopraggiunse l’inevitabile delusione... certo non perché il film fosse di modesta qualità, anzi! Semplicemente, compresi (come, peraltro, già intuibile) che le quattro sorelle March si erano così saldamente radicate nella mia immaginazione che qualsiasi pellicola sarebbe stata inesorabilmente difforme dalla mia attesa! Meg, Jo, Beth ed Amy, ormai da tempo mie speciali compagne di viaggio, non potevano ad un tratto diventare diverse da come le avevo immaginate sin dalla prima pagina! Vi prego di credermi se vi dico che tante letture mi hanno coinvolta, affascinata ed anche formata; solo una volta in tutta la mia vita, però, gli occhi mi sono riempiti di lacrime dinanzi alla pagina di un libro... è accaduto alla scomparsa della piccola, tenerissima Beth.

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Unda Maris86 Opinione inserita da Unda Maris86    20 Luglio, 2010
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Una perla della letteratura di tutti i tempi

Affermare che non ci sono parole in grado di esprimere il potente fascino sprigionato da ogni rigo di un libro di straordinaria bellezza è tutt’altro che un’iperbole, se stiamo parlando di Narciso e Boccadoro, autentico capolavoro uscito dalla sapiente penna di Hermann Hesse. Giacché non si tratta solo della storia, profonda e commovente, di due amici che proprio nella reciproca diversità scoprono la linfa vitale del loro legame, ma di un travolgente viaggio attraverso gli impercettibili palpiti, i lievi respiri e gli intimi sussulti che promanano non solo dall’animo dei personaggi, ma anche dal cuore pulsante della natura, con i suoi cangianti scenari paesaggistici. Miriadi di miriadi i messaggi ricavabili dallo snodo della narrazione, in cui gli spazi dedicati con più evidenza alla riflessione si congiungono in piena armonia con gli sviluppi della trama. È alla sensibilità di ciascun lettore, quindi, che sembra affidata la libera scelta di discriminare la prospettiva di pensiero che appaia preponderante, oppure più luminosa o affine al proprio bagaglio esperienziale ed intellettuale. Quale, secondo me, la nota più vibrante? Il mistero della “scintilla” del divino che, a dispetto di scelte alternative o di temperamenti stravaganti, sempre informa i grandi spiriti.

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Storia e biografie
 
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Unda Maris86 Opinione inserita da Unda Maris86    21 Aprile, 2010
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Una giornata nell'antica Roma

A rendere godibile la lettura di un testo, quale quello di Angela, dal taglio scientifico-divulgativo è soprattutto la costante ed apprezzabile propensione dell'autore verso esigenze di tipo “didattico”: egli cerca, cioè, di prendere per mano il suo lettore e di guidarlo, passo dopo passo, tra le vie di Roma antica, dalle prime luci dell’alba sino al calare della notte. La linearità dello stile, secco ed immediato, ed i frequenti raffronti con la modernità costituiscono, naturalmente, le indispensabili coordinate per il compimento di tale operazione; il lettore-visitatore, quindi, saprà orientarsi con destrezza nella serie di percorsi proposti dall’autore, sempre vigile ed attento. Davvero singolari, poi, alcune delle curiosità rivelate, omesse, magari, dalle pubblicazioni specialistiche del settore. Utile sarebbe stata, forse, ad esempio in appendice, l’indicazione di una bibliografia minima di riferimento, che potesse dar conto al lettore di alcune affermazioni o teorie di cui non è possibile recuperare la provenienza. Un po’ sbrigativo, peraltro, a mio parere, il trattamento di alcune questioni: per esempio, quando si parla dei banchetti, si citano indifferentemente quelli di Nerone e di Trimalcione, senza istituire alcuna differenza tra un personaggio storico ed un personaggio, invece, frutto dell’inventiva letteraria del grande Petronio e, dunque, del tutto fittizio. Comunque, l’impianto complessivo dell’opera resta sostanzialmente valido, evidenziando una buona dialettica tra dato storico-scientifico e cornice romanzesca del “viaggio” nell’antichità romana.

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Scienze umane
 
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Unda Maris86 Opinione inserita da Unda Maris86    03 Agosto, 2009
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Come mi vuoi?

"Come mi vuoi?" coniuga uno stile sempre vigile, pertinente e lineare a contenuti di apprezzabile spessore scientifico-formativo; ci si imbatte, così, in una disamina teorica facilmente traducibile in considerazioni di ordine pratico-operativo, specie grazie alla presentazione di casi e situazioni reali. Una lettura, quindi, comprensibile e costruttiva per ognuno, ma che suggerirei soprattutto a quanti, sensibili e riflessivi, considerano preziosa ed importante ogni loro relazione sociale.

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