Opinione scritta da vitosantoro
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contro la cultura della dissimulazione
«Scrivere un libro erotico in arabo è invece una cosa naturale, con la sterminata, raffinata eredità che abbiamo in materia», sostiene Salwa al Neimi - arabista originaria di Damasco, ma da anni trapiantata in Francia, a Parigi, dove lavora nel prestigioso Institut du Monde Arabe - autrice de La prova del miele (in arabo Borhan al -’Asal), breve romanzo di un centinaio di pagine, pubblicato con successo - è giunto alla sesta edizione in meno di due mesi - da Feltrinelli per la traduzione di Francesca Prevedello.
Il titolo si ispira a una sentenza del mistico Ibn ’Arabi, «La prova della dolcezza del miele è il miele stesso», in cui si sottolinea il primato dell’esperienza sull’estasi. Naturalmente il miele è qui inteso nel senso del liquido vaginale: peraltro, nel mondo arabo il termine halu, dolce, ha valenza polisemica, collegandosi alle sfere semantiche del cibo, della bellezza interiore ed esteriore, e dei piaceri del sesso.
La protagonista de La prova del miele è una bibliotecaria siriana, chiara controfigura narrativa dell’autrice, che vive a Parigi, in un demi-monde fatto da intellettuali espatriati. La donna è sempre stata una lettrice appassionata dei libri erotici, oggi quasi messi al bando, della tradizione araba («li leggevo e li rileggevo, assaporavo i loro scritti, traducevo la mia vita nelle loro parole e le proteggevo perche erano una lingua segreta»), da quando, appena adolescente, una compagna le prestò di nascosto il Libro della voluttà.
Tuttavia, ha sempre nascosto questa sua passione dietro la veste dell’erudita della materia. Per questa ragione, il direttore della sua biblioteca la incarica di scrivere un saggio sugli autori che nei primi secoli dell’Islam cantarono il sesso come «gloria di Dio». Così tra numerose citazioni di testi antichi, dove le «parole erano precise», l’io narrante accompagna il lettore nel suo peregrinare tra Parigi e Tunisi, facendogli conoscere luoghi come l’hammam - molto simile al salone di bellezza del film Caramel - dove si stabilisce una solidarietà tutta femminile. Non a caso, in questo libro le figure maschili sono quasi del tutto assenti, mai indicate con il loro nome di battesimo, ma come il Viaggiatore, il Regista, l’Editore, il Lontano e il Pensatore, con cui il sesso è stato perfetto.
Eppure, al contrario di quanto si possa pensare questo non è un romanzo erotico, ma un vero e proprio pamphlet in chiave narrativa contro quella cultura della dissimulazione, la taqiyya, che ha portato a snaturare, se non ad occultare le tradizioni culturali di una grande civiltà araba, presentandola come sessuofoba.
"Le mie letture segrete - si legge nel terzo capitolo - mi fanno pensare che gli arabi siano l’unico popolo al mondo per il quale il sesso è una grazia di cui essere riconoscenti a Dio. L’insigne e prode shaykh Sidì Muhammad al-Nifzàwì - sia pace all’anima sua - comincia così la sua opera Il Giardino Profumato: Sia Gloria a Dio, che ha voluto che il più grande piacere dell’uomo fosse la vulva delle donne e che per esse fosse il pene degli uomini. Che la vulva trovi pace, che si plachi, che trovi soddisfazione solo dopo aver conosciuto il pene e viceversa..."
E il citare da testi erotici come Il Giardino Profumato, probabilmente composto verso la metà del XVI secolo, nonché da tanti altri testi classici della letteratura araba, riveste un senso del tutto politico, visto che nel mondo musulmano la lingua araba qui assume il valore di lingua sacra - è quella in cui il Corano è stato scritto - e al contempo di lingua del sesso. Cosa in assoluto contrasto con i dettami della attuale società araba, dove un termine come nikah, accoppiarsi, viene sottolineato con il rosso dal programma di correzione ortografica del computer. Laddove un autore del nono secolo come al-Giahiz sottolineava: «Questi termini sono stati coniati perché la gente li usi. Se sono conservati è per essere pronunciati».
vito santoro
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L'apocalisse della ragione
Nel suo nuovo libro dal titolo chilometrico da film della Wertmüller, Dio il diavolo e la mosca nel grande caldo dei prossimi mille anni, Sebastiano Vassalli ribadisce la sua sfiducia nel romanzo come genere capace di catturare il reale nella sua totalità. Quindi, ancora una volta - come nei suoi precedenti lavori come Amore lontano, La morte di Marx e L’italiano - spazio al racconto, che qui asseconda una delle tante vene narrative dello scrittore genovese, vale a dire quella apocalittica e morale (mai moralistico), il cui esito più significativo è indubbiamente rappresentato da 3012.
Il fil rouge che collega le numerose microstorie di questo libro (ma i redattori dell’Einaudi l’avranno letto, visto che lo presentano in quarta di copertina come un romanzo teologico in tre atti?) è rappresentato da un tema già affrontato dalla tradizione letteraria - Pirandello su tutti - la stupidità umana. Quella che interessa a Vassalli non è «la grande stupidità», quella dei potenti della terra per intenderci, che con le loro scelte sbagliate possono provocare effetti catastrofici, ma quella piccola, che «ha incominciato a trasmettersi da un individuo all’altro come la tosse asinina o il colera».
E la metafora della stupidità «come una pallina da ping-pong o come una bolla di sapone, infrangibile e leggerissima», che rimbalza da un luogo all’altro moltiplicandosi «in cento e mille palline da ping-pong, un milione di bolle (infrangibili) di sapone», consente a Vassalli di costruire un vero proprio caleidoscopio di storie d’amore, morte e stupidità, riunite in tre movimenti. Nel primo leggiamo, tra l’altro, del vecchio giudice Stoiber che improvvisamente s’innamora della sua brutta e vecchia segretaria Verona, mai oggetto in ventidue anni, dei suoi interessi; della violenza esercitata in una stazione della metro da alcuni giovani nordafricani; dell’inviato speciale in un deserto asiatico che viene ucciso dai banditi del posto. A questi casi si aggiunge nella seconda parte la storia, raccontata in prima persona dal diavolo, del dirottamento del vVolo 93 della compagnia United Airlines l’11 settembre e nella terza ed ultima, un’altra serie di vicende, tra cui quella di uno scrittore che, nonostante i pericoli, visita i luoghi della sua prossima narrazione; di un tecnico di elettrodomestici che soddisfa le voglie delle clienti della sua ditta; di una donna esperta in lezioni di sesso.
Ne deriva un enorme bestiario, un catalogo di esemplari post-umani, che la scrittura fluida e brillante di Vassalli fissa nella loro folle corsa verso l’apocalisse.
Una lettura divertente e al tempo stesso angosciante, un nuovo saggio della maestria di Sebastiano Vassalli. Però le grandi narrazioni de La chimera e di Cuore di pietra erano un'altra cosa...
Vito Santoro
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La metamorfosi contro la violenza degli uomini
Come scrive Salvatore Silvano Nigro, «Camilleri è il cronista, il favolista e il mitografo della comunità vigatese». Ed è appunto, una favola quella che l’incredibile e infaticabile macchina narrativa dello scrittore siciliano ci ha regalato quest’estate.
Il casellante racconta la storia - ambientata nel 1942, nel pieno della Seconda Guerra Mondiale - di Nino Zarcuto, trentenne dalla mano sinistra offesa per un incidente sul lavoro. L’uomo alterna la custodia e la manutenzione di uno tre caselli della linea Vigata-Sicudiana con l’attività di concertista presso un salone di barbiere. Il tutto sempre di comune accordo con sua moglie Minica, che dopo molti tentativi, anche grazie ai consigli e alle pratiche di una mammana, Nino riesce a mettere incinta.
La gravidanza tanto attesa e una vincita al lotto fanno pensare che la vita dei due sia baciata dalla fortuna. Invece, le cose prendono una svolta decisamente drammatica.
Racconto dalla piega favolistica, dicevo, come ormai Camilleri è solito fare nelle storie che non fanno parte del ciclo Montalbano. Una favola questo Casellante, dove lo scrittore siciliano con grande abilità riunisce un sistema di personaggi, di cui accentua i connotati grotteschi.
Si pensi alla coppia apparentemente sterile che si rivolge a medici e praticone per risolvere il proprio problema. O all’uomo forte del regime sempre attento a cogliere eventuali vilipendi alla sacralità dei rituali fascisti. O al padrino che risolve ogni cosa e che costituisce la vera autorità del paese. Per non parlare degli aneddoti che caratterizzano il primo capitolo, dove da par suo, Camilleri racconta come si siano succeduti i vari custodi del casello.
Una piccola umanità che spesso si trova in balia di eventi più grandi di lei, tanto da dover a volte rinunciare alla propria umanità.
È quello che capita appunto, a Minica. Qui lo scrittore di Porto Empedocle innesta nel racconto quel tema della metamorfosi, da lui già trattato in Maruzza Musumeci, lì la trasformazione di una donna in sirena, in questo libro, invece, in un arbolo.
Minica, dopo la terribile violenza di cui è vittima, non può più procreare. Per questo nella sua mente si innesca un meccanismo che la porta a volersi trasformare in una pianta così da stabilire un rapporto simbiotico con la natura, e tornare a far parte del ciclo vitale. La sua è una sorta di muta resistenza alla violenza della società degli uomini.
Una resistenza muta e folle che solo il marito può comprendere e assecondare perché mosso dall’amore: la cura come una pianta, concimandola, potandola, innestandola. Tenacia che darà alla fine i suoi risultati, con la creazione di una nuova Sacra Famiglia.
Uno dei migliori Camilleri degli ultimi tempi.
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Il neo-umanesimo di Todorov
Parigi. Anni dell’occupazione nazista. Una giovane donna, Charlotte Delbo, accusata di aver cospirato contro gli occupanti, viene arrestata. In carcere non ha diritto a libri, al contrario della sua compagna, reclusa al piano di sotto. È costei che per mezzo di una corda (realizzata intrecciando fili tirati via dalla coperta) calata giù dalla finestra, le fa pervenire una copia della Certosa di Parma di Stendhal. Da questo momento Fabrizio del Dongo diventa il compagno inseparabile di prigionia della donna. In seguito, durante il viaggio in un carro bestiame alla volta di Auschwitz, Charlotte ascolta la voce dell’eroe euripideo Alcesti, che le spiega in che cosa consiste l’inferno verso il quale si dirige e le offre l’esempio della solidarietà. Poi altri eroi, tutti «assetati di assoluto», come Elettra, don Giovanni, Antigone, le fanno visita nel lager.
Anni dopo, ripercorrendo à rebours la sua esperienza di deportata in Spectre, mes compagnons, Charlotte finirà con lo scrivere che «le creature del poeta sono più vere di quelle in carne e ossa, perché sono inesauribili. Ecco perché sono miei amici, miei compagni, grazie ai quali siamo legati agli altri uomini, nella catena degli esseri umani e della storia».
Più di un secolo prima della Delbo, John Stuart Mill era guarito dalla depressione, aiutato dalla lettura dei poemi di Wordsworth. Grazie a loro aveva raggiunto quella felicità vera e continua che può derivare soltanto dalla contemplazione tranquilla delle bellezze della natura.
Dunque, «la letteratura può molto. Può tenderci la mano quando siamo profondamente depressi, condurci verso gli esseri umani che ci circondano, farci comprendere meglio il mondo e aiutarci a vivere». La letteratura ‘serve alla vita’. Sempre. Anche in situazioni normali, lontanissime dai casi estremi prima citati.
È questa la tesi di fondo dell’ultimo lavoro di Tzvetan Todorov, La letteratura in pericolo, breve saggio (84 pagine), in cui il celebre studioso franco-bulgaro racconta in chiave autobiografica la crisi della critica strutturalista per poi perorare un ritorno ad un umanesimo attento ai contenuti umani dell’arte e avverso a qualsiasi pratica critica autoreferenziale.
Infatti, quella che ‘serve alla vita’ è soltanto la letteratura intesa «nell’accezione ampia e pregnante che è prevalsa in Europa fino alla fine del XIX secolo», secondo cui esiste un rapporto biunivoco tra la realtà e l’arte: la seconda aiuta a conoscere la prima, che al tempo stesso agisce su di essa. E Todorov ricorda a questo proposito, Oscar Wilde, sostenitore di una idea di letteratura come creazione di un mondo a partire dalla «materia bruta dell’esistenza reale»; come creazione di «un mondo nuovo che sarà più meraviglioso, più duraturo e più vero di quello che vedono gli occhi della folla».
Questa concenzione dell’arte, e in senso lato della letteratura, ha iniziato a subire un lento ma inesorabile processo di sgretolamento con la messa in discussione da parte di Nietzsche, dell’esistenza stessa dei fatti indipendenti dalle loro interpretazioni e quindi, dell’esistenza stessa della verità, qualunque essa sia.
Si tratta di una nozione che ha permeato le varie tendenze estetiche principali del XX secolo, tuttora influenti tanto nel campo della didattica quanto in quello del dibattito culturale. Tendenze che Todorov esemplifica nella triade formalismo (“la forma prima dell’essenza”) – nichilismo (“il mondo è abominevole”: solo la distruzione e la violenza svelano la verità della condizione umana) – solipsismo (“l’io è infinitamente interessante”). Triade che ha appunto messo la letteratura in pericolo.
Il formalismo infatti, ha esercitato subito dopo il 1968, una tale influenza sull’insegnamento scolastico, costringendolo ad inseguire una linea di equilibrio tra l’approccio alla letteratura attraverso dati esterni, biografici e aneddotici, e l’analisi più attenta delle opere stesse. In questo modo, a scuola si tende a porre maggiore attenzione sugli strumenti dell’analisi letteraria che sulle opere stesse. Tale concezione austera e limitativa è presente anche in buona parte della critica giornalistica e persino in numerosi scrittori, che sono come immobilizzati dal loro stesso desiderio di conformarsi alle teorie che ritengono essere alla moda.
E per uscire dal formalismo – nella ricostruzione dello studioso – si è pensato che non vi fosse altra scelta se non il nichilismo e il solipsismo, che solo in apparenza si oppongono al primo. Formalismo e nichilismo partono infatti, da una base comune. L’autore nichilista non partecipa del mondo che descrive, dato che lo sa vedere dall’esterno. Quello solipsista si attiene unicamente alla sua esperienza personale. Così finisce per dedicarsi principalmente all’autofiction, cioè al racconto caratterizzato da finzione e realtà autobiografica, in cui egli non solo riserva uno spazio amplissimo alla rappresentazione della propria interiorità, ma anche «si libera da ogni costrizione autoreferenziale, godendo così al tempo stesso della supposta indipendenza dell’invenzione e del piacere che deriva dalla valorizzazione di sé».
Ora, la letteratura, a detta di Todorov, può immensamente di più, perché, al contrario dei discorsi religiosi, morali o politici, «non formula un sistema di precetti; per questo motivo sfugge alle censure che vengono esercitate sulle tesi formulate a chiare lettere». Essa fornisce un contributo alla nostra comprensione del mondo.
Non solo. Il grande studioso della letteratura fantastica cita un recente studio del filosofo americano Richard Rorty (Redemption from egotism. James and Proust as spiritual exercises), in cui si sostiene che la letteratura, oltre a porre un qualche rimedio alla nostra ignoranza, ci guarisce anche dall’egotismo, inteso come illusione di autosufficienza. In questo senso, «i romanzi non ci forniscono una nuova forma di sapere, ma una nuova capacità di comunicare con esseri diversi da noi; da questo punto di vista riguardano la morale, più che la scienza. L’orizzonte ultimo di tale esperienza non è la verità, ma l’amore, forma suprema del rapporto umano».
Per questa ragione, la lettura va incoraggiata con ogni mezzo, «compresa quella di libri che il critico di professione considera con una certa condiscendenza, se non addirittura con disprezzo, dai Tre moschettieri a Harry Potter», romanzi popolari che offrono agli adolescenti «una prima immagine concreta del mondo che, possiamo esserne certi, le letture successive renderanno poco per volta più elaborata».
È evidente che il taglio divulgativo e pamphlettistico del libro costringano l’autore a semplificare spesso il discorso, soprattutto nei capitoletti in cui ricostruisce la storia dell’estetica, ponendo al centro il problema dell’autonomia e dell’eteronomia dell’arte, per arrivare ad una sorta di nuovo umanesimo permeato di una vera propria mistica della letteratura.
Un altro punto po’ tirato via, è, ad esempio, l’interpretazione dello sviluppo del formalismo nei paesi dell’Est come necessità di difendere l’autonomia del fatto artistico in un contesto ideologico e autoritario. Qui Todorov ha certamente ragione, ma glissa sul successo di questa tendenza nelle nazioni occidentali, dove la situazione politica era molto diversa.
Al di là di questi aspetti, La letteratura in pericolo ha, tuttavia, il merito di porre l’accento su due questioni essenziali. Innanzitutto fa emergere il ruolo preminente della letteratura nell’educazione interculturale, grazie alla sua capacità di fare vivere come nostri i sentimenti, i punti di vista e i pensieri dell’altro. In altre parole, l'esperienza letteraria ci consente di coniugare consapevolezza e inconsapevolezza, rigore realistico e immaginazione, di trasferirci in una zona franca, dove vivere emozioni intense, lasciando contemporaneamente aperta la possibilità di dire a noi stessi: «tanto questo è un gioco».
L’altro punto centrale sta nel farci riflettere sul ruolo della critica. Todorov definisce lo scrittore come «colui che osserva e comprende il mondo in cui vive, prima di rappresentare questa conoscenza attraverso storie, personaggi, sceneggiature, immagini, suoni». Ciò implica il delinearsi della figura del critico come colui che, a prescindere dalle metodologie usate, è in grado di «trasformare significato e pensiero nel linguaggio comune del suo tempo».
Dunque, la critica non può avere un metodo. E Todorov cita a questo proposito, l’esempio del monumentale studio di Joseph Frank su Dostoevskij, scritto senza alcun pregiudizio metodologico, anzi pronto ad accogliere qualsivoglia input, vuoi strutturale vuoi storico. In questo modo, «permettendo che il pensiero dell’autore sia incluso nel dibattito infinito di cui è oggetto la condizione umana, lo studio letterario di Frank diventa una lezione di vita».
È, dunque, una accezione ‘politica’ della funzione critica quella che sembra emergere dalle pagine del libretto di Todorov, quasi una ripresa della formula benjaminiana del critico come «stratega nella battaglia letteraria». Un’idea di critica dagli obiettivi pragmatici e dallo scopo politico concreto, al di fuori del territorio delle arti: senza un qualche rapporto con l’azione, con la prassi, la critica non ha senso, gira a vuoto. Solo così potrebbe creare nuove sensibilità, aprire nuovi spazi di coscienza, suscitare altre visioni, magari più audaci.
Vito Santoro
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un nuovo memorabile romanzo di Ian McEwan
Ian McEwan è senza dubbio uno dei maggiori scrittori viventi. L’uscita di ogni sua opera rappresenta sempre una festa per il lettore. Ne è una prova Chesil beach, romanzo breve e bellissimo (ottimamente tradotto da Susanna Basso), incentrato (come è ormai noto a tutti visto che di questo libro si sono occupate non solo le cronache culturali dei giornali ma anche quelle di costume) sulla prima notte di nozze, in un albergo lussuoso nell’amena località di Chesil beach, di due ventiduenni inglesi, Florence ed Edward, che, come capitava spesso in quegli anni, siamo nel 1962, arrivano vergini al matrimonio.
«Erano giovani, freschi di studi - recita l’incipit - e tutti e due ancora vergini in quella loro prima notte di nozze, nonché figli di un tempo in cui affrontare a voce problemi sessuali risultava semplicemente impossibile». Lei è una giovane violinista molto promettente, di buona famiglia, cresciuta in una grande casa elegante e per così dire, decadente. Lui è uno storico, che proviene invece da una famiglia piuttosto modesta e disastrata, dalla casa disordinata e sciatta. Lei si scopre sostanzialmente frigida. Lui è tanto impaziente di dare prova della sua virilità quanto imbranato nel rapporto.
Con precisione implacabile, intrecciando con abilità i punti di vista di lui e di lei, McEwan descrive i fatti di quella notte fatidica, abbandonandosi a qualche flashback necessario per descrivere il background familiare dei due protagonisti. E offre l’ennesimo saggio della sua straordinaria capacità di calarsi nella psicologica dei personaggi, in una sorta di metempsicosi, ricostruendone in maniera quanto mai minuziosa l’intima esperienza di una cultura sentimentale e sessuale, che egli - nato nel ’48 e che quindi ha avuto venti anni in quel ’68 che molte cose ha cambiato - non ha avuto la sfortuna di conoscere e vivere.
Ma Chesil beach non è un romanzo 'storico': non mira a offrire semplicemente uno spaccato della vita sessuale prima della rivoluzione sessantottina. E nemmeno un romanzo sul problema delle dinamiche di potere che spesso si sviluppano in un rapporto di coppia. Piuttosto è un romanzo sul presente, che mira a porre in relazione - e questo avviene nel quinto e conclusivo capitolo - i tabù di ieri con la finta-libertà di oggi. Se i due giovani sposini - sembra dirci McEwan - saranno destinati a vivere trascinando con sé il pesantissimo fardello del fallimento iniziale, non meno diverso è il destino delle generazioni del presente, impastoiate come sono nel moralismo e nel perbenismo catto-protestante teo-con che innerva e pervade la società.
Un destino di insoddisfazione e di frigidità.
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Prima di Romanzo criminale
Il grande successo di Romanzo criminale (2002), bissato - sia pure parzialmente - dal relativo sequel Nelle mani giuste (2007), ha reso, e con pieno merito, Giancarlo De Cataldo uno delle star della narrativa italiana, non solo di genere. Da qui la ristampa dei suoi primi lavori, passati all’epoca inosservati, come, solo per citarne alcuni, il romanzo d’esordio Nero come il cuore e quel magnifico esercizio di new journalism che è Terroni. Ora è la volta di Onora il padre. Quarto comandamento, che Einaudi ripropone all’attenzione dei lettori italiani dopo l’iniziale, e unico, passaggio, firmato con il nom de plume John Giudice, otto anni fa nei Gialli Mondadori.
Va detto che questo libro è la novelization della sceneggiatura di una miniserie televisiva - Leo Gullotta e Marco Bonini i protagonisti; Giampaolo Tescari il regista -, che il magistrato-scrittore tarantino scrisse all'inizio del 2000 con Fausto Brizzi e Marco Martani, proprio la coppia che ha curato lo script e la regia dei due Notte prima degli esami (Brizzi) e di Cemento armato (Martani). «Giudicato forse troppo “forte” - si legge nella Nota dell’autore del libro - il film fu trasmesso nel 2003 su Retequattro, in coincidenza con una partita di Coppa della Roma».
Onora il padre contiene, fatta salva l’ambientazione riminese, tutti gli ingredienti dello psyco-thriller anglosassone, genere in auge negli anni Novanta grazie ai due capolavori di Thomas Harris, Red dragon e Il silenzio degli innocenti. Infatti, secondo la migliore tradizione del genere, ci troviamo dinanzi a omicidi cruenti (donne seviziate e uccise, ma senza mai violenza sessuale), a un serial killer che sembra inafferrabile, e a un investigatore solitario che si occupa del caso grazie alla sua capacità di penetrare nella criminal mind.
Analogamente, la tecnica di scrittura si fonda sullo sdoppiamento del punto di vista e della voce narrante, evidenziato anche dall’utilizzo di un diverso carattere tipografico. Nella parte in tondo, il narratore è esterno alla diegesi e racconta al passato la storia delle indagini e della caccia al “mostro”, le dinamiche umane e sentimentali che si stabiliscono tra i componenti dell’unità investigativa, oltre a darci uno spaccato della psicologia del detective grazie al sapiente uso del discorso indiretto libero.
Nei corsivi, invece, il racconto è in prima persona e in contemporanea con gli eventi. Qui è il maniaco ad esprimere le sue elucubrazioni, in cui Nietzsche e l’Antico Testamento si mescolano; elucubrazioni dominate da quella «legge dei padri» di cui si sente esecutore e in nome della quale deve uccidere chi trasgredisce alle regole, secondo un vero e proprio rituale che contempla la presenza vicino alla vittima di bastoncini di incenso e di una canzone primi anni 70, molto hippy (Silence dei Flying Objects, ma tanto il brano quanto il gruppo non esistono, sono una invenzione dello scrittore) a fungere da colonna sonora degli omicidi.
Naturalmente, come è tradizione di questo tipo di romanzi, si scoprirà che le donne uccise hanno tutte un tratto in comune e che le torture fino alla morte di cui sono vittime, hanno il carattere di un vero e proprio contrappasso dantesco.
Ma il romanzo racconta anche un’altra indagine. Quando la vittima del Figlio dei fiori - questo è il nome che viene affibbiato al killer - è Francesca Maltese, ragazza ricca e conosciuta, la polizia manda a Rimini Matteo Colonna, giovane criminologo, già allievo dell’Accademia dell’Fbi di Quantico (come Lucy, l’insopportabile nipote di Kay Scarpetta…). Sarà lui a scoprire che questo delitto si collega con altri avvenuti negli anni precedenti.
Ombroso e solitario, poco avvezzo al gioco di squadra e per questo da subito in distonia con il vicequestore Prosperi, Matteo nasconde un segreto: nato a Rimini da un padre che non lo ha riconosciuto, è cresciuto a Milano in un orfanotrofio. Così la trasferta romagnola è anche occasione di un ritorno alle origini e di un incontro con un genitore che non ha mai conosciuto, il giocattolaio Davide Zanetti, che si rivela non del tutto estraneo ai fatti delittuosi.
Già da queste note si evince come il plot di Onora il padre presenta un che di meccanico nella sovrapposizione francamente forzata delle due ricerche, quella dell'assassino e quella del padre. Inoltre, la derivazione del romanzo da una sceneggiatura per una miniserie tv fa sì che questo presenti tutta una serie di situazioni topiche - come la visita nella colonia abbandonata, classico luogo spettrale, dove nel ’72 è avvenuto il delitto che ha dato origine alla macabra serie, o come la morte del poliziotto collaboratore di Matteo, subito dopo la scoperta dell’identità dell’assassino - che nell’economia di un film thriller possono essere accettabili, a patto che il regista sappia gestire al meglio le riprese, dosando saggiamente i tempi di attesa e il ritmo del montaggio (come il Dario Argento dei bei tempi andati). Molto meno in un romanzo, uscito per giunta nel 2008, buon ultimo di una sfilza enorme di titoli incetrati sullo stesso argomento, dove con la loro prevedibilità erodono pesantemente la sospensione dell'incredulità da parte del lettore (è poi, davvero difficile pensare che nessuno prima dell’arrivo a Rimini di Colonna non avesse colto il fatto che tutte le vittime avevano affidato il padre vecchio e malato alla stessa casa di riposo).
Così, riletto oggi, Onora il padre il padre può essere considerato come un esercizio di preparazione al capolavoro, a quel Romanzo criminale, cui De Cataldo stava già allora lavorando. Troviamo infatti, quel gusto per la descrizione quanto mai essenziale dell’ambiente, nonché l’uso nel corso della narrazione dei verbali di polizia, secondo la lezione della migliore crime novel americana. Ma soprattutto, qui lo scrittore inizia la messa a punto di quella strategia narrativa a focalizzazione interna ai personaggi, che porterà alla perfezione nel dittico sulla banda della Magliana, dove il racconto si presenterà magistralmente strutturato come un mosaico polifonico di tanti “io”, psicologizzati ai massimi livelli, con il ricorso a un parlato mimetico, alla lingua gergale e dialettale, in una efficace “soggettiva” che ci fa vedere il mondo con gli occhi dei vari Libanese, Freddo, Dandi, Scialoja e Stalin Rossetti. Ma questa è un'altra storia.
vito santoro
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il romanzo della zona grigia
Nella sterminata produzione di Georges Simenon - oltre 400 titoli - Il treno, scritto nell’arco di pochi giorni, dal 18 al 25 marzo del 1961, secondo i consueti ritmi frenetici dello scrittore belga, ora riproposto da Adelphi, che lo riporta nelle librerie italiane dopo una lunghissima assenza (risale infatti, al 1966 la precedente edizione mondadoriana), è l’unico libro - insieme al giallo Il clan degli Ostendesi - a raccontare una vicenda completamente calata nello scenario della Seconda Guerra mondiale. Furono dunque, necessari più di venti anni al creatore di Maigret, accusato di collaborazionismo e responsabile nel 1940 di un campo profughi a La Rochelle, per fissare sulla pagina i suoi ricordi di guerra, argomento per lui «terribile e magnifico».
La vicenda è ambientata proprio nel maggio ’40. Il treno del titolo è un lungo convoglio che trasporta profughi attraverso la Francia, dalle Ardenne evacuate davanti all’avanzare implacabile delle armate tedesche fino a La Rochelle: i vecchi, le donne incinte, i bambini piccoli e malati nelle carrozze viaggiatori, tutti gi altri in quelle destinate al trasporto del bestiame. Tra gli sfollati troviamo Marcel Féron, piccolo commerciante di apparecchi radiofonici di Fermay, uomo senza qualità, pesantemente miope e dalla salute cagionevole. Una gioventù la sua, trascorsa - negli anni della Grande Guerra - in sanatorio a causa della tubercolosi e segnata dal trauma familiare rappresentato dal ritorno a casa una sera della madre, nuda e con i capelli rapati a zero, punizione destinata alle donne collaborazioniste.
L’uomo è serenamente sposato con Jeanne, che sta per dargli un altro figlio, dopo la piccola Sophie. Serenamente ma non si sa a che punto felicemente sposato, perché quella di Marcel è un’esistenza mediocre, totalmente priva di sussulti.
Questo tran tran quotidiano è travolto dalla guerra che lo strappa dalla sua casa e dalle sue abitudini e lo costringe a compiere un vero e proprio salto nel vuoto.
Separato dalla moglie e dalla figlia, Marcel incontra nel treno Anna, una ebrea praghese, dal passato misterioso e segnato dal carcere, da cui è appena uscita. Nel corso del lungo viaggio - caratterizzato dalle mitragliate degli aerei tedeschi, da soste dalla durata imprecisata fino alla definitiva sistemazione nel campo di raccolta - i due iniziano ad attrarsi l’uno all’altra sempre più fino a diventare inseparabili e ad amarsi di una passione tanto irresistibile quanto destinata fin dal principio alla caducità, all’essere senza futuro: «Né passato, né avvenire. Solo un fragile presente, che dirovamo e assaporavamo al tempo stesso»; «Non ci pensavo mai, non solo perché mi rifiutavo di pensarci, ma perché non mi veniva in mente: la nostra vita in comune non aveva futuro».
È una vitalità disperata, una furiosa smania di sesso quella che la guerra offre a Marcel e ad Anna, nonché ai numerosi uomini e alle numerose donne stipate nel tendone da circo del campo. Una vitalità disperata che, tuttavia, non investe la sfera ideale, che non determina alcuna presa di coscienza politica, che non ha alcuna proiezione nel futuro, cristallizzata com'è in una sorta di eterno presente.
Non a caso, dopo l’armistizio con i tedeschi firmato dal governo Pétain, la vita riprende subito normale in tutto tranne che «per la presenza dei tedeschi e per l’approvigionamento di viveri che diventava sempre più difficile». Marcel ritrova la moglie, che nel frattempo ha partorito Jean François, e la figlia, perse nello sfollamento, «quasi deluso che tutto si sistemasse così facilmente» e torna alla sua grigia esistenza. Così, anni dopo, non gli resta che scrivere un memoriale per lasciare al figlio una immagine diversa di sé, quella di un uomo che «per alcune settimane è stato capace di provare una passione». Passione che si è presto consumata con la stabilizzazione dell’occupazione tedesca, il ritorno alla routine quotidiana e alla tutela del proprio particulare. «Ripresi la mia vita dal punto in cui l’avevo lasciata, com’era destino, perché non avevo mai pensato che ce ne potesse essere un altro».
Ne è prova il fatto che Marcel non darà alcun aiuto ad Anna, mentre scappa da una retata della Gestapo, scortando da partigiana un pilota inglese, e si renderà così complice, a tutti gli effetti, della sua fucilazione.
Romanzo terribile e crudele, capace di ricostruire con una scrittura geometrica ed essenziale quello che era lo stato psicologico di quella maggioritaria zona grigia che era scesa a patti durante la guerra, con l’invasore. Zona grigia che è anche e soprattutto, condizione eterna dell’umana natura; stato dell’anima, che non può essere, secondo Simenon , in alcun modo modificato, tranne che in situazioni tanto brevi quanto eccezionali.
È questo il peccato originario che rende tragica la condizione dell’uomo; peccato che, magari attraverso la scrittura, deve essere svelato, quanto meno per per essere onesti con se stessi e con il mondo.
Vito Santoro
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