Opinione scritta da kafka66
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Un atroce delitto
Niente male quest'opera prima della George, una lettura senza dubbio piacevole, anche se l'autrice indugia talvolta in maniera eccessiva nella descrizione di luoghi e personaggi che, oltre ad essere esposizioni piuttosto leziose, si discostano molto dalle vicende principali, facendo perdere la tensione che scaturisce dal procedere delle indagini dell'ispettore Thomas Lynley. Le ultime cento pagine hanno invece il giusto ritmo e si leggono con un certo interesse e una più viva partecipazione emotiva. Definirlo tra i 25 migliori thriller di tutti i tempi è, secondo il mio punto di vista, un'autentica eresia.
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L'inventore del genere "hard boiled"
Il romanzo, considerato una vera e propria pietra miliare, rappresenta il prototipo di tutti i romanzi "hard boiled" che sono seguiti. I dialoghi sono diretti, immediati, potenti. Hammett si concentra sulle espressioni dei volti, sulle pose dei protagonisti, sui loro tic, sulle abitudini (come quella di Sam Spade di arrotolare continuamente una sigaretta), indugiando talvolta sul loro abbigliamento o sui tratti del volto per caratterizzarne la descrizione. La parte finale, quando per tre quarti del libro ci si è chiesti quanto siano plausibili certi passaggi narrativi, è davvero strepitosa. In un crescendo di avvenimenti tutto si chiarisce e ci si rende conto di quanto le vicende possano essere verosimili. Sam Spade diventa l'icona di tutti gli investigatori privati, seguito a breve distanza dal bellissimo Marlowe di Chandler, personaggio per certi versi simile a Sam Spade eppure così diverso. Sam Spade è un uomo rude, violento, istintivo, determinato, capace di non farsi sopraffare nè dai malviventi, nè dalla Polizia, e neppure dalle donne, con le quali ha comunque un atteggiamento dolce, non disdegnando assolutamente i rapporti sessuali. Marlowe, invece, pur essendo attratto dalle donne è più tendente alla misoginia e comunque non si lascia quasi mai andare, se non per un fuggevole bacio. Inoltre Sam Spade non ha problemi ad accettare compensi alti dai suoi clienti, quando questo è possibile, e non disdegna di poter lucrare da una situazione vantaggiosa. Marlowe è più galantuomo, è sempre al verde e lavora tranquillamente per il suo compenso minimo senza chiedere altro, quando lo ritiene. Per il resto i personaggi sono molto simili, freddi, determinati, laconici, con atteggiamenti da macho, sicuri di sè in ogni situazione e sempre pronti all'azione. John Huston realizza poi nel 1941 una trasposizione cinematografica del romanzo che diventerà un film cult, con l'interprete più azzeccato, il grandissimo Humphrey Bogart.
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Un giallo d'annata
Simenon riesce a descrivere in maniera davvero straordinaria le atmosfere e i luoghi nei quali vivono i personaggi dei suoi romanzi. L'esperienza di lettura può essere paragonata all'osservazione di un quadro i cui dettagli sono resi attraverso leggere e brevi pennellate che hanno il potere di rendere suggestive le ambientazioni e vibranti le vicende. Sono davvero ammaliato dalla prosa di Simenon e non posso che esprimere un parere positivo per questa splendida opera scritta nel 1932. Tuttavia la penna di Simenon riesce a sorprendere e ammaliare soprattutto nei romanzi che non hanno come protagonista l'ispettore Maigret, i cosiddetti romans durs, come "L'uomo che guardava passare i treni", "Le campane di Bicètre", "La camera azzurra" e molti altri, in totale 117 romanzi scritti tra il 1931 e il 1972. In quest'opera sono comunque da sottolineare alcuni mirabili passaggi, specie nella parte iniziale del racconto, nei quali ci si sente immersi nell'atmosfera affascinante del porto e prendono vita, magicamente emerse dalle nebbie, forme umane e intricate vicende raccontate in maniera magistrale dallo scrittore belga.
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La maschera del perbenismo
Davvero straordinaria quest'opera di Simenon, intima, profonda, emozionante. Un personaggio che guarda dentro se stesso e si accorge di aver sempre portato una maschera, per compiacere gli altri, senza il coraggio di guardare oltre, di trovare sfogo alle sue pulsioni, ai suoi desideri più profondi. Parabola sulle convenzioni, sul perbenismo, sulla "immobilità" della coscienza, sulle frustrazioni interiori. Alcuni passaggi dell'opera sono così intensi da rimanere scolpiti nella mente, come la scena del cenone di Capodanno, oppure l'epilogo, in cui Kees Popinga pronuncia la frase più vera e più amara di tutta l'intera vicenda.
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"Eppure sono vivi"
Simenon riesce a descrivere i sentimenti del protagonista, improvvisamente malato, emiplegico e a contatto con un mondo e una realtà nuove, con rara intensità e profonda introspezione. Pagine dense di immagini, attinte dai frammenti dei propri ricordi, che si fanno strada attraverso i dubbi sulla propria esistenza, per approdare ad una presa di coscienza del tutto nuova del proprio mondo e delle persone che gravitano attorno a sé. Egli capisce come i malati, spesso dimenticati e rinchiusi dentro un mondo a parte, avulso dagli altri, si chiudano quasi sempre dentro una dimensione fatta di solitudine, sofferenza e sconforto, un mondo che si riesce a comprendere realmente soltanto vivendo noi stessi in mezzo a loro. "Eppure sono vivi", dice a un certo punto il protagonista riferendosi ai malati e ai vecchi "che trascinano le gambe con un' andatura a scatti buttando un piede di lato come pupazzi meccanici che funzionino male". Il mondo che gravita attorno a loro, anche se si prende cura di loro, li dimentica ogni giorno, costringendoli dentro una dimensione che li intristisce e li svuota della propria dimensione umana. Il protagonista stesso si rende conto che nel suo lungo processo di guarigione tutto ciò che aveva un significato vivo nella sua coscienza verrà presto dimenticato una volta che egli sarà del tutto guarito e potrà tornare alla sua vita: "Si è sentito molto vicino ai vecchi con l'uniforme che fumano la pipa sulle panchine del cortile. Ora non concede loro più che un'occhiata distratta e la pipa acquistata dalla signorina Blanche è chiusa in un cassetto". Ma questo è quanto. E concludendo egli dice: "Si fa quello che si deve fare, ecco tutto. Si fa quel che si può. Un giorno andrà a trovare suo padre a Fecamp, insieme a Lina"... poiché anche il padre del protagonista, come quei vecchi, vive ancora, ma ormai è solo e dimenticato da tutti e trascina la sua povera esistenza in uno stato quasi vegetativo.
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Le angosce del nostro vivere
Romanzo complesso e profondissimo, surreale e delirante, denso di immagini che lasciano annichiliti. Visioni lucide e potenti, ricche di spunti sui malesseri del nostro io più intimo e riflessioni sulle angosce dell'uomo, sulla colpa, sulla impossibilità della redenzione. Riflessioni sulla giustizia distorta e spietata dell'uomo sull'uomo, sulla giustizia divina, sul rapporto dell'uomo con la religione e con Dio. E poi immagini che raccontano dei difficili rapporti umani, del senso di sconfitta, di vuoto, di profondissima angoscia nei rapporti personali, amorosi o semplicemente intimi, della incapacità di raggiungere autenticità, condivisione e verità. Un mondo subdolo, dove nessuno può fidarsi degli altri, dove i propri pensieri non rassicurano, non chiariscono, non aiutano. Le sensazioni provate mentre si legge sono angoscianti, claustrofobiche, persino fisiche, si percepisce l'ansia e la si vive noi stessi assieme a K. e manca davvero l'aria come manca a K. e sembra quasi di provare la fatica di respirare. Sensazioni forti che sono prima di tutto sensazioni dell'anima. Pur essendo un manoscritto per certi versi frammentario, soprattutto nel finale, quasi abbozzato, dobbiamo ringraziare Max Brod per aver disobbedito alle volontà testamentarie di Kafka, il quale avrebbe voluto distruggere questo straordinario romanzo che tanto ha rappresentato e rappresenta ancora oggi per ognuno di noi.
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Le gesta di un popolo
L'opera di Steinbeck non è un romanzo che racconta semplicemente le vicende di una famiglia alla ricerca di un posto dove vivere e di un lavoro ma, alla maniera del poema epico, è un romanzo che narra le gesta di un intero popolo cacciato dalla propria terra e alla ricerca di un posto dove ricostruire la propria identità, ma anche, potremmo dire, trovare semplicemente un po' di pace, un minimo di sicurezza per il proprio futuro e una speranza di vita nuova. In questo straordinario affresco storico, che ha la forza prorompente del capolavoro assoluto, si stagliano le figure degli eroi, che sono gli umili protagonisti della famiglia Joad, soprattutto Mà, la figura forte e centrale dell'intero romanzo, e il figlio Tom. Un grande plauso alla traduzione di Sergio Claudio Perroni, che ci permette di gustare l'opera integrale di Steinbeck in tutto il suo splendore. Alcuni capitoli sono così intensi e pieni di vita, e così pieni di vigore, che producono una specie di risonanza interiore, rimanendo scolpiti nella mente. In particolare il lungo capitolo 26, e tutti quelli finali, fino alla struggente conclusione, la cui forza dirompente si chiude con un finale ad un tempo amaro e pieno di speranza, con un'immagine di sorprendente forza simbolica.
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Il disperso
“Il disperso”, titolo originario del primo romanzo incompiuto di Kafka scritto fra il 1911 e il 1914 e pubblicato postumo nel 1927 da Max Brod, l'amico ed esecutore testamentario di Kafka che cambiò anche il titolo dell'opera facendolo diventare “America”, è definito il suo romanzo giovanile. Si tratta però di un'opera già molto matura nel percorso letterario dell'autore poiché vi traspare nitidamente la grande forza narrativa di Kafka e la sua capacità di creare figure ricche di costrutto, attorno alle quali ruotano i temi cari all'autore praghese, come la solitudine, il senso di sconfitta, il desiderio di comprensione e di giustizia. Alcuni capitoli sono davvero straordinari, in particolare, a mio avviso, quello che porta il titolo di "Hotel Occidental", ove il protagonista, Karl Rossman, lavora come ragazzo degli ascensori presso un grande albergo, caotico e pieno di vita. In questo capitolo risaltano i bellissimi dialoghi attraverso i quali Karl deve difendersi dalle ingiuste accuse del capo cameriere e da quelle del capo portiere. Altro capitolo di grande risalto nella narrazione è quello dove è presente il personaggio di Brunelda, ove risalta in maniera straordinaria l'episodio del comizio elettorale osservato dai protagonisti sul balcone di casa. Chiude il romanzo un altro splendido capitolo che Max Brod intitolò “Il teatro naturale di Oklahoma”, dove si rendono chiari i propositi dell'autore di scrivere un finale positivo e pieno di buoni propositi. Nonostante il finale incompiuto il romanzo è senza dubbio il più ottimista dell'autore, privo quasi del tutto di quel senso di profonda angoscia interiore, di smarrimento e di ineffabile sconforto che traspare in maniera più evidente nelle opere successive.
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L'irraggiungibile verità
Ho trovato molto impegnativa la lettura di quest'opera di Kafka, tuttavia la lettura di alcuni capitoli ha prodotto dentro di me le stesse sensazioni di quello che considero il vero capolavoro di Kafka, ovvero "Il Processo". In questi capitoli vengono trasmessi al lettore i brani di intere conversazioni della nostra quotidianità, dove le continue "tesi" messe in atto dai personaggi diventano prima plausibili, poi inaccettabili, poi nuovamente plausibili. La prosa, pur essendo notevolissima, risulta spesso appesantita a causa dei lunghi periodi e delle complicate riflessioni dei protagonisti. Rimane un'opera densa di significati, corposa e molto strutturata dove, attraverso l'atmosfera livida del villaggio e di un castello, anche metaforico, irraggiungibile per il protagonista, si producono le tematiche care all'autore, quali il senso di angoscia del vivere quotidiano, la mancanza di chiarezza nei rapporti umani, la ricerca della verità e della giustizia, la lotta e l'accanimento per raggiungere uno scopo, il senso vanificato delle proprie azioni prodotto dai comportamenti dell'uomo coinvolto nei meccanismi della burocrazia ma, si vorrebbe dire, dell'uomo coinvolto nei rapporti con l'uomo e con le sue limitatezze. Un romanzo che merita senza dubbio un'attenta rilettura, per cogliere con maggiore chiarezza il senso ineludibile delle angosce tipiche del nostro vivere.
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Estraniamento e miraggio
“Il deserto dei Tartari” può essere considerato come la parabola dell'uomo che cerca di dare un senso alla propria esistenza. Nell'ambito immaginario del romanzo, in questo luogo-non luogo suggestivo e ricco di tensione, in questa fortezza che è casa e riparo, ma anche prigione e sofferenza, in questo deserto che rappresenta estraniamento e annientamento, si risolvono le ansie, i propositi, le speranze del protagonista. Egli è alla ricerca di qualcosa di grande, di glorioso, che lo possa distinguere e farlo sentire diverso dagli altri. In questo protendersi verso i propri ideali egli vive una tensione grandissima che lo porta verso un'aspirazione che è quasi bramosia, che è fame e sete insieme. Ma egli è anche e semplicemente un uomo, con i suoi limiti, la sua mediocre esistenza, la sua limitata concezione del mondo e degli altri, la sua incapacità di cambiare lo stato delle cose. Il protagonista rincorre un sogno, un miraggio di là da venire, e l'intera sua vita è il sacrificio di un uomo che si accorge di quanto breve sia la propria esistenza. In tutto questo vi è il riconoscere la limitatezza della vita di ogni essere umano e infine, al giungere dell'età senile e degli inevitabili rimpianti, arriva la consapevolezza del vero nemico che egli deve affrontare, non più i Tartari oltre il deserto, ma la morte. Il capitolo finale è certamente il più struggente, il più malinconico, il più amaro dell'intero romanzo.
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Un fuoco pirotecnico
Il Maestro e Margherita è un'opera davvero straordinaria. Un romanzo che incanta e fa riflettere, che riesce a commuovere e che fa sorridere, un'opera così ricca di significati da renderla complessa e affascinante al tempo stesso, ma assolutamente facile da leggere e comprensibile per chiunque. La sua impronta ironica e surreale, che risulta chiara e travolgente fin dalle prime pagine, ci permette di gustare ogni descrizione con quello spirito di magico incanto che proviene soltanto dalle grandi opere, inducendo talvolta a rileggere intere pagine per gustare certi passaggi, che sono davvero un fuoco pirotecnico di immagini fantastiche e di suggestive figure allegoriche. Le vicende si susseguono a ritmo incalzante e sono un'esplosione di rappresentazioni ricche di grande vigore creativo ed entro le quali si risolvono e si sbrogliano i dialoghi più stimolanti e coinvolgenti che sia possibile leggere. Romanzo nel romanzo sono i capitoli su Ponzio Pilato, nei quali lo stile, assolutamente diverso da quello degli altri capitoli, rende l'opera ancora più appassionante e ricca di spunti sui quali riflettere. Le descrizioni che si ritrovano in alcune parti dell'opera, specie quelle dei capitoli finali, sono pregne di quell' afflato poetico che è riconoscibile soltanto nei grandi scrittori. L'opera è davvero appassionante e commovente, fin quasi alle lacrime, specie per il modo in cui ci si ritrova partecipi del dolore causato all'autore dalla censura che dovette subire la sua opera quand'egli era in vita a causa del regime staliniano. Una suprema rivincita la pubblicazione postuma del romanzo, che ci rende testimoni della meravigliosa grandezza della sua opera.
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E' tutto un imbroglio
Gogol riesce, con la maestria che gli è propria e con il suo tipico tratto, ironico e pungente, a generare un mondo ricco di personaggi esilaranti e al limite del surreale. Un mondo dove sfilano gli attori più diversi, dai ricchi e viziosi proprietari terrieri ai funzionari statali biechi e corrotti. E anche laddove vengono ritratti personaggi apparentemente positivi, apparentemente buoni, lavoratori onesti dediti al benessere della propria famiglia e dei servi delle loro terre, si scorge in realtà, rivelandone il vero volto attraverso la satira, la loro misera vita, la loro pochezza, la mancanza di valori autentici. Personaggi che sono essi stessi le vere anime morte, non i servi oggetto delle contrattazioni di Cicikov. Questi, figura e personaggio principale dell'opera di Gogol, è il catalizzatore dei vizi e delle storture dell'intero mondo creato dall'autore, mondo fittizio si, ma specchio di un mondo reale altrettanto ricco di storture e vizi. Cicikov è un uomo privo di scrupoli in una realtà pervasa dalla corruzione morale, un uomo che, meglio di chiunque altro, è capace ad un tempo di mettere alla berlina i notabili cittadini e i piccoli proprietari terrieri dediti ai divertimenti e alle ricche libagioni, e apparire poi ridicolo, misero e senza spessore morale, con la sua ricercatezza nel vestire e la cura della sua toletta. Egli arriva persino a farsi cucire da un sarto un abito assai ricco e sfarzoso anche quando sono stati scoperti i suoi disonesti traffici ed è costretto a fuggire. Il tratto caratteristico dell'intera opera è dunque l'ironia e la satira piccante, provocatoria, capace di illuminare in modo vivido e beffardo un mondo dove regnano depravazione e immoralità. Ma in questa prima opera, che voleva essere, secondo le intenzioni dell'autore, un grande poema sulla Russia, si ritrova anche la poesia di una natura magica e incantata che viene raffigurata in maniera appassionata e commovente. Una natura che si beffa delle miserie umane e regna sovrana, incontrastata, immutabile e meravigliosa sopra ogni cosa.
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Un turbinio di emozioni
Buzzati si rivela scrittore del tutto nuovo in questo romanzo pieno di vigore, intenso, coinvolgente, con un ritmo che colpisce con forza, in maniera quasi insolente, specie in alcuni capitoli, che si leggono senza prendere fiato, "risucchiati" nei profondi monologhi interiori del protagonista. Rispetto al più conosciuto "Il deserto dei Tartari", che ha tutt'altro ritmo, sembra davvero un racconto scritto da un altro autore. Mi ha sorpreso l'utilizzo di una prosa vibrante, che tralascia spesso la punteggiatura, ma lo fa volutamente, per rendere il ritmo ossessivo, come ossessivi sono i pensieri del protagonista. Un romanzo che scorre come un fiume in piena e sembra scandagliare il flusso dei pensieri più reconditi, ma anche di quelli improvvisi, del protagonista, per riversarli poi sulla carta come un pittore surrealista fa con i colori della sua tavolozza, gettandoli vigorosamente sulla tela, quasi volesse imbrattarla, renderla densa, corposa, astrusa, ma anche profonda, e certamente oscura. In questo senso il romanzo è quasi surreale, poiché vive attraverso le angosce di Antonio Dorigo, nutrendosi dei suoi contorti e macchinosi pensieri, nel contesto di una Milano malinconica e grigia, piovosa e sporca. L'ambiente nel quale vive, o meglio, sopravvive il protagonista, è simile ai suoi pensieri, alle sue angosce interiori, e sembra che l'uno si alimenti degli altri e viceversa. Sorprendenti gli immediati passaggi dalla prima alla terza persona, meravigliosi i dialoghi interiori pieni di dubbi di Antonio, che giorno dopo giorno rimane invischiato in un'amore morboso che gli toglie ogni energia, che lo tormenta e lo angustia, che lo fa diventare diffidente e geloso, ma anche incapace di reagire, di conservare la sua dignità, di ribellarsi definitivamente, di raggiungere un qualche punto fermo. Egli si divora interiormente senza capire i motivi che lo spingono a comportarsi in quel modo, si annienta, si lascia andare alla disperazione, distruggendo anche il suo amor proprio, senza capire cosa lo porti al tormento. Romanzo possente, denso, abbacinante, che racconta di un sentimento chiamato amore qui ridotto a puro stato morboso, a pura sofferenza interiore.
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Uno splendido esordio
Ogni volta che si legge Conrad si rimane colpiti dalla perfezione stilistica della sua prosa. La sua impronta classica, il suo romanticismo tipicamente ottocentesco, sono il segno distintivo di uno scrittore che già nel suo romanzo di esordio, all'età di 38 anni, riesce a farci vivere una storia densa di contenuti e piacevolissima da leggere. La lotta quotidiana alla ricerca della ricchezza e del benessere, l'amore verso la figlia Nina, le speranze, le paure, le illusioni, l'angoscia e infine la follia, sono messe in scena in maniera davvero magistrale L'atmosfera del romanzo, primo libro della trilogia malese, insieme con "Un reietto delle isole" e "Il salvataggio", è davvero suggestiva, con la tipica ambientazione conosciuta dall'autore nel periodo dei suoi viaggi nelle Indie orientali, nella fattispecie una località sperduta nel Borneo, dove la maestosa dimora di Kaspar Almayer fa da centro nevralgico dell'intera vicenda. Uno sguardo eloquente sull'insensatezza del colonialismo, un lucido ritratto di un uomo disperato, rimasto solo, in preda ad un tormento interiore che lo distrugge giorno per giorno fino al prevedibile epilogo.
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