Opinione scritta da Giovanni Crotti
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Un romanzo ambientato in un Israele inconsueto
Leggendo questo romanzo si è subito catapultati dentro una storia potente, scritta benissimo da una voce femminile contemporanea della sempre fertile letteratura israeliana.
Ci si perde nel deserto del Negev senza però mai perdere l'attenzione né la bussola tra le pagine. Ci si perde tra le menzogne che parlano in ogni riga, paragrafo dopo paragrafo, pagina dopo pagina, diventando sempre più efficienti.
E quando si entra in una casa, il sole disegna sulle pareti macchie stupende.
E quando un pescatore entra in quella cosa enorme che è il mare, si duole perché non può essere accompagnato da due fessurine: gli occhi di chi lo ama.
Ci si innamora di Sirkit, la 'straniera' che incanta con la luce dei suoi occhi e che farebbe annegare la mano dell'uomo bianco nel velluto della propria pelle.
"Stava giusto pensando di non aver mai visto una luna più bella, quando ha investito l’uomo. Per un momento, dopo il tonfo, ha pensato ancora alla luna ma poi ha smesso di colpo, come una candela spenta da un soffio."
Chi guida la jeep è Eitan Green, marito, padre e medico israeliano; l’uomo che ha investito è un migrante africano.
Non siamo in una delle ‘classiche’ città israeliane che la narrativa del secondo dopoguerra ci ha permesso di conoscere attraverso pagine e pagine di grande letteratura. Non siamo a Gerusalemme, né a Haifa, né a Tel Aviv: siamo a Beer Sheva, nel sud di Israele, in una città di 200mila abitanti, ricca di accampamenti beduini, di kibbutz sempre più in via di abbandono, di tanti africani (soprattutto dal Corno d’Africa) e tante famiglie israeliane operaie. Siamo al confine della geografia e siamo anche in una zona liminale della coscienza.
"Eitan, senza accorgersi che per la prima volta Sirkit non gli rivolgeva solo monosillabi, ha guardato incantato la luce nei suoi occhi. Sirkit era raggiante."
Eitan, da medico, è costretto clandestinamente a curare l’uomo investito e frequenta ogni giorno, in cambio del silenzio, Sirkit, donna molto prossima al ferito. La storia si incammina verso il ricatto e quindi le menzogne iniziano a parlare, sempre più frequentemente, in modo sempre più stringente, diventando sempre più efficienti. La paura e la meschinità diventano quindi le uniche testimoni della trama, a partire da quel fatidico incidente in una notte sotto una luna mai vista prima così bella.
"Improvvisamente, questa storia gli è piombata addosso da chissà dove. Tutte le conoscenze restano valide, tranne la conoscenza di se stesso. Una notte ha investito un uomo sul ciglio della strada e incontra un’eritrea sulla porta di casa. Perché scappando s’incontra quello da cui si scappa."
Lui, Eitan, proviene da un mondo in cui il sole gli illuminava ogni giorno l’esistenza. Lei, Sirkit, viene invece da un paese in cui il sole sorge sempre sporco di sabbia.
Che romanzo è “Svegliare i leoni”? E’ un corpo a corpo con storie intime e personali che sanno diventare universali, storie spietate, letteratura che riscopre anche il suo ruolo etico e critico, una trama che ci conduce, come succede a Eitan, in ruoli interiori inimmaginabili, è una storia sulle fragilità e sui principi morali e sulle responsabilità. È un romanzo anche sui desideri proibiti e sulla vergogna, srotolate anche con una tela di bugie.
Siamo nel deserto vero, nel triste deserto della coscienza, siamo nel retro di Israele, in una città che letterariamente sembra essere una porta di servizio.
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Discesa agli inferi al sole di mezzanotte
Romanzo epico e molto contemporaneo, La valle dei fiori della giovane scrittrice groenlandese Niviaq Korneliussen è un'opera che nasce per proteggere dalla luce (e non dal buio) la mai nominata io narrante.
Con un impressionante meccanismo a decrescere dei suicidi che affliggono quei territori remoti (il romanzo ha anche parti sociologicamente impregnate di dati statistici reali sulla 'felicità' dei suoi abitanti), Korneliussen ci introduce a numerosi cambi di scena che oscillano tra le tradizioni inuit, i suoi amori saffici e la modernità razzista della patria madre (non madrepatria) danese.
Su tutto aleggiano senza sosta i social network (vere e proprie connessioni che superano le enormi distanze di quei luoghi), il buio di un clima estremo, l'alcool vera piaga sociale, la costante paura di volare cadere e precipitare della giovane protagonista, la violenza domestica, le molestie sessuali, la terribile catastrofe sociale dei suicidi tra i minorenni.
E un corvo, onnipresente con il suo manto nero che conduce il racconto verso una lenta e costante discesa agli inferi, accompagnata da un corredo di emozioni ancestrali che risalgono controcorrente non riuscendo però a scalfire l'enorme senso di solitudine emanato dalle 300 pagine di questo magnifico romanzo.
“Vorrei essere sepolta nella Valle dei Fiori”, dice perentoria a un certo punto la protagonista della storia. E, parlando di una coetanea che si era suicidata, “magari sentiva che questo non era il suo posto, che non apparteneva a questo mondo”. Sono concetti centrali che riecheggiano frequentemente: sono affermati in danese mentre le espressioni in lingua inuit ci riportano a una dimensione ancestrale che si oppone alla modernità e al progresso.
La storia è ambientata in luoghi estremi, dove le condizioni meteorologiche influenzano moltissimo la quotidianità e, inimmaginabile pensando ai sessanta mila abitanti che popolano quell’immensa isola, l’autrice ci rende vive le tensioni e i pregiudizi tra chi vive l’area più sviluppata (quella attorno alla capitale nella costa occidentale) e le aree meno avanzate della costa orientale. Tensioni e pregiudizi che incrociano, anche grazie alle pagine più sociologiche del romanzo, il tentativo della protagonista narrante di riconoscere il proprio posto in seno alla società. Cercando di sfuggire al dato statistico per il quale la discesa agli inferi si compie maggiormente con l’arrivo della luce di giugno e spesso in coincidenza con l’arrivo del sole di mezzanotte.
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