Opinione scritta da camillaru
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UN GIALLO SENZA SUSPENCE
Un giallo ben scritto, ma senza suspence. Più che Simenon, mi ha ricordato Sciascia (senza, però, lo stile capace di leggere e descrivere quasi liricamente l'animo umano).
Una scrittura asciutta, personaggi non proprio tridimensionali (a partire dai due ispettori, di cui non si conosce la storia), una trama costruita meticolosamente, ma che non tiene incollato alla lettura, come ci si aspetterebbe da un romanzo poliziesco.
Bella, invece, la descrizione dei luoghi: la vicenda spazia dal Sud al Nord del Giappone, che resta un paese dotato di un incredibile fascino.
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ACQUA E MAGIA
Praticamente la versione equorea di Wayward (il primo romanzo dell'autrice), ha in comune con questo la prosa scorrevole ma inutilmente enfatica, legata a una narrazione adatta a un pubblico di adolescenti e una trama facilmente prevedibile.
Se del precedente romanzo non avevo apprezzato la presenza dell'elemento magico e l'assenza di una figura maschile positiva, posso dire che con "Sirene" le due questioni sono state abbondantemente mitigate. Da una parte ero preparata alla presenza del fantasy, e ne attendevo la rivelazione durante la narrazione; dall'altro, i personaggi maschili hanno subito (almeno parzialmente) un riscatto, rendendo il rapporto uomo-
donna più realistico e meno sbilanciato.
Nel complesso è un libro leggero, che si fa leggere in modo scorrevole, ma sicuramente non indimenticabile.
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LA CASA DEGLI SPIRITI
CONTIENE SPOILER
Come tutti i romanzi di Starnone, anche questa è una storia corale. La prima parte del racconto è affidata alla moglie Vanda, abbandonata insieme ai due figli dal marito Aldo, innamoratosi di un’altra donna. Questa sezione del romanzo è scritta in forma epistolare: il soliloquio di una donna distrutta, che in tutti i modi cerca di mostrarsi risoluta e forte di fronte all’uomo che l’ha lasciata, nonostante tenti disperatamente di riportare la situazione allo status quo.
La seconda parte, quella più consistente, è affidata alle parole di Aldo. Dopo un’apparente intrusione dei ladri nell’appartamento di famiglia, Aldo ritrova le lettere che la moglie gli inviò durante quegli anni di assenza dalla famiglia e con un lungo flashback ci informa di come, dal suo punto di vista, sono andate le cose.
L’immagine dell’uomo sposato, innamorato follemente di una donna molto più giovane, che lo fa sentire libero, felice, lontano dalle responsabilità e dai vincoli del matrimonio e della paternità; il senso di colpa che lo divorerà e lo spingerà a tornare nella casa coniugale quasi per inerzia, mosso dal desiderio di non nuocere più ai figli; la vita che scorre nel silenzio delle cose non dette, della guerra fredda tra i coniugi, mai realmente riappacificati: sono questi i temi che emergono dalla lunga confessione di un uomo settantenne che tira le somme della propria esistenza.
Infine, il terzo capitolo ci è raccontato dalla figlia Anna, una donna di mezza età dalla vita disordinata, il frutto del dolore e del rapporto malato tra i suoi genitori.
Su tutte, spicca la figura della casa di famiglia: la casa comprata in un momento di floridezza economica, il luogo del dolore, il sito del ritorno, il contenitore dei ricordi. La casa è lo specchio dei suoi abitanti, che hanno nascosto in bella vista i propri segreti, nella speranza che fossero scoperti per poter una volta per tutte smettere di fingere. Perfino il nome dato al gatto domestico, Labes (in latino “rovina”), risuona quotidianamente tra quelle mura come un sinistro presagio sulla bocca di tutti, senza che nessuno si accorga cosa significhi davvero.
Quando scopriamo che Anna e Sandro hanno messo ogni cosa a soqquadro in un atto di ribellione contro quel clima di menzogne, il caos esterno rappresenta finalmente ciò che è davvero stata quella dimora: un campo di battaglia tra persone irrisolte (la madre imperante, il padre ormai succube, i figli destabilizzati negli affetti e nelle finanze).
Il titolo, “lacci”, fa riferimento all’aneddoto che convince Aldo a tornare a casa dai suoi figli. Durante un loro incontro, Anna fa notare come Sandro si allacci le scarpe in un modo molto strano, lo stesso modo in cui le allaccia il padre. I lacci, quindi, sono il simbolo dell’eredità non genetica, bensì pedagogica ed emozionale dei genitori verso i figli. Un legame da cui non si può fuggire, soprattutto quando è causa ancestrale di ferite e traumi che ne condizioneranno tutta la vita.
Starnone racconta la storia ordinaria di una famiglia disfunzionale, come ce ne sono molte, e che ci rimanda alla celebre frase di Tolstoj: “tutte le famiglie felici si somigliano tra loro; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”.
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LE NOSTRE ANTENATE
Una raccolta di fiabe per una bambina morente, scritto per darle la forza di continuare a vivere, affinché aggiunga la propria storia a quella delle sue antenate: così Mastretta, in uno degli ultimi racconti, descrive implicitamente al lettore il senso del suo libro. Ed è effettivamente così, perché ciascuna delle implacabili donne di Puebla di cui parla la raccolta viene raccontata con la familiarità di un parente (non a caso, sono tutte “zie”), ma con l’astrazione della leggenda e il linguaggio dolce di un racconto del focolare.
Il fil rouge che congiunge tutte le donne (e, mi vien da pensare, anche la stessa autrice) è un’indomita passione, tanto implacabile da essere il perno della vita di ciascuna. Amori clandestini e tenerezze coniugali, frenesie della carne e sinceri affetti filiali, ma anche un ostinato malanimo (meravigliosa la storia della zia che si aggrappa alla vita perché “non vuole essere seppellita accanto a quell’uomo”) o una tenace caparbietà; spesso queste donne hanno una propensione al nomadismo, alla curiosità, alla scoperta, ma riscopriamo in loro anche la fragilità, la paura e la capacità di ricominciare da capo.
Un carosello di mogli, amanti, madri e sorelle che sfila davanti agli occhi del lettore, con uno stile estremamente piacevole ma allo stesso tempo particolareggiato e intenso. Ogni storia, a prescindere da quanto il finale sia più o meno comico, ha una sua morale, che apre importanti spunti di riflessione sul senso della vita, dell'amore, della famiglia e della storia in generale.
C'è la passionalità latina, il misticismo degli indios, e tutta una tradizione letteraria legata al sud America: un romanzo di donne, come in Allende; una storia familiare allargata, come in Márquez; la spontaneità degli affetti sinceri, come in Sepúlveda.
Una lettura scorrevole, piacevolissima, breve ma sicuramente intensa. Le uniche critiche che potrei muovere a questa raccolta di racconti sono due: a volte, un leggero senso di ripetitività; altre volte, una morale oscura, di difficile decifrazione. Ma nessuna delle due inficia a tal punto la lettura da renderla sconsigliabile.
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La squallida passione di un uomo ordinario
Che storia vuole raccontarci Simenon con questo romanzo? Una storia d'amore? Di passione? Oppure, più verosimilmente, una squallida parentesi di vita di un uomo ordinario?
"Il treno" inizia con uno spaccato di felice vita familiare: l'odore del caffè che si diffonde in una casa di un villaggio di campagna, abitata da una bambina, una donna incinta e un padre che si prepara ad una giornata di lavoro nella bottega adiacente all'abitazione. Sembra una normale e soleggiata mattina di agosto a Fumay, piccola cittadina sul confine francese, quando la Guerra irrompe con tutta la sua violenza costringendo gli abitanti all'evacuazione. Tra questi c'è anche la famiglia di Marcel, che, dopo aver chiuso rapidamente i bagagli, si dirige alla stazione insieme a sciami di profughi per salire su uno dei pochi treni disponibili. Moglie e figlia da una parte, marito dall'altra: Marcel si ritrova all'interno di un carro bestiame che, a causa degli stravolgimenti della guerra, sarà addirittura separato dal resto del convoglio, finendo, infine, a La Rochelle.
Quello che succede nel vagone del treno rispecchia perfettamente la sospensione della morale in tempo di crisi raccontata dai più celebri autori della letteratura di tutti i tempi (da Tucidide con la peste di Atene, a Manzoni con gli avvenimenti di Milano). E così anche Marcel, in poche ore, dimentica i propri doveri coniugali e si abbandona alla passione insieme ad Anna, una donna ceca di origine ebrea salita a bordo dopo l'evacuazione di una prigione.
Sicuramente straniante è, dal primo momento, l'indolenza (per non dire indifferenza) del protagonista di fronte agli stravolgimenti imposti dalla guerra: non un momento di esitazione, né di avvilimento o disperazione, anzi, quasi una certa compiacenza nei confronti del destino che lo allontana dalla propria apparentemente idilliaca vita quotidiana. È un uomo banale, Marcel: cagionevole fin da bambino, privo di qualsiasi specifica qualità, fortemente miope (la sua unica preoccupazione è quella di ritrovarsi senza gli occhiali di scorta nella tasca), sembra essersi trovato per caso nella sua vita borghese, tanto da non dispiacersi affatto di doverla abbandonare. Anche nella ricerca del vagone che ospitava sua moglie e sua figlia, Marcel agisce con un certo automatismo: si reca ogni giorno a controllare gli elenchi degli sfollati senza mostrare particolare apprensione, e torna indietro serenamente quando si accorge che i nomi da lui cercati non sono nella lista.
Anna, dal canto suo, si attacca a lui con l'ostinazione di un cane fedele: lo segue ovunque, in silenzio, senza fare domande e senza spingersi oltre il limite invalicabile che è la vita fuori dalla condizione in cui si trovano. Vivono clandestinamente in un campo profughi per cittadini belgi, e quel luogo di disperazione diventa la loro oasi d'amore, in cui fanno colazione al bar, comprano vestiti e si abbandonano a lunghi picnic sulle spiagge del porto. Entrambi consapevoli della mancanza di un domani, sospesi in un limbo i di quella che Anna chiama, puerilmente, felicità.
Quei momenti sono destinati a finire e, infatti, finiranno. La storia ci viene raccontata da Marcel nella speranza di lasciare al figlio un'immagine diversa di sé stesso, dimostrandogli che, anche solo per un breve periodo, è stato in grado di provare delle passioni. Ma è davvero così?
Marcel non ha, in realtà, passione per nulla. Vive in una bolla, completamente estraniato dal mondo che lo circonda, come se la miopia gli affliggesse più il pensiero che la vista in sé. Non si preoccupa della figlia e della moglie lontane, né del figlio in arrivo in un ospedale di guerra; non si preoccupa di aver abbandonato il proprio laboratorio a dei predoni stranieri, tantomeno di lasciare gli animali della sua fattoria incustoditi e destinati alla morte. E non si preoccupa nemmeno di Anna, che abbandonerà (apparentemente) con più dispiacere rispetto al resto, salvo poi riservarle la stessa indifferente brutalità alla fine del romanzo.
È un libro che scorre lento, nonostante i continui stravolgimenti della sorte, proprio per la mancanza di trasporto del protagonista su cui sono incentrati gli avvenimenti. Sembra di assistere costantemente alla rivincita di un uomo che, nella sua vita, non ha mai potuto fare ciò che realmente voleva (per fortuna, aggiungerei). La sua libertà si manifesta nella possibilità di deresponsabilizzarsi, di vivere solo per sé potendo trascurare le conseguenze delle proprie azioni. Quando, al contrario, la quotidianità ritrova il suo ordine e ogni azione ha il peso che le spetta, non esiterà a mettere a repentaglio la vita di chi dice di amare pur di non modificare niente della sua ordinaria esistenza borghese.
Non il migliore romanzo di Simenon, nonostante meritino una menzione speciale i meravigliosi momenti di lirismo nel descrivere gli atti della passione erotica.
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Un viaggio lungo 20 secoli (o forse solo una vita
ATTENZIONE: CONTIENE SPOILER
Il libro inizia in modo difficile: ci si immerge così, senza aver preso fiato, nella Gerusalemme degli anni ‘40, con tutte le contraddizioni e le difficoltà che la città viveva in quegli anni. Sin dal primo momento fanno capolino personaggi importanti della letteratura israeliana (pressoché sconosciuti ai lettori europei, come il poeta Cernicowskij); il primo membro della famiglia Klausner che viene presentato è l’ingombrante zio Yosef, con il salotto culturale che ruota intorno alla sua tavola, la silenziosa e servizievole zia Zipporah sempre un passo indietro a lui, le aspirazioni fallite del padre di Amos (imputate a un eccesso di zelo dello zio accademico, che taglia le gambe al meritevole nipote pur di non essere accusato di nepotismo).
Il libro, quindi, inizia con difficoltà. Ma, superato lo scoglio iniziale, Oz mette in fila una serie di personaggi della sua famiglia, paterna e materna, che meriterebbero ognuno un romanzo a sè. C’è l’adorabile nonno Alexander, che sopravvive a tutta la sua famiglia, instancabile amatore, appassionato ascoltatore delle donne, irrimediabilmente attaccato alla vita. Sua moglie Shlomit, che muore per “troppa pulizia” dopo aver sentenziato l’iconica frase “il Levante è pieno di microbi”. La temibile nonna mame, bambina viziata fino alla fine dei suoi giorni, e il laborioso nonno pape, quasi contento di aver perso tutte le sue ricchezze, per potersi finalmente dedicare alla vita da semplice operaio che ha sempre perseguito.
La storia prosegue in modo lineare, in linea cronologica, prima per parte di padre e poi per parte di madre, fino ad arrivare alla nascita di Amos. Da qui, il racconto prosegue diseguale, a passi di gambero, estremamente sbilanciato verso i primi anni della giovinezza, con un capitolo squarciato sul presente, nel momento in cui l’autore sta scrivendo il libro, seduto alla scrivania ereditata dal padre, in una torbida mattina di luglio del 2001.
Amos, che descrive con dovizia di particolari ogni singolo momento della vita dei suoi avi, non pronuncia una parola su come si sono incontrati i suoi genitori, come si sono innamorati, quando si sono sposati. L’unione dei due è presentata come un dato di fatto, descritta attraverso gli occhi di un figlio chiacchierone e magrolino, troppo attento per la sua età. La storia della giovinezza della madre, però, risulta fon dal primo momento diversa da quella degli altri personaggi: Oz la racconta attraverso la voce della zia Sonia, sorella della madre, non parlando quasi mai in prima persona. Come se non ci riuscisse, come se parlare della madre fosse ancora un tabù. La storia di Fania resta così appesa, dice che si è suicidata senza spiegare come, quando, perché. Il libro procede raccontando la vita di Amos bambino in tutte le sue tappe, il rapporto con il padre, le favole “fantasiose” della madre, l’incontro con la scrittura, l’accettazione di essere uno scrittore. Eppure la vita non si snocciola fino alla fine dei suoi giorni: alla sua vita nel kibbutz Hulda (che è durata ben 30 anni) sono dedicati pochi capitoli; alle guerre combattute in trincea, neanche una riga. Tutto è concentrato in quei primi anni di vita, e la storia della madre, della sua malattia, del lutto, fa capolino tra i capitoli, alternandosi alle vicende del giovane Oz. Fino alle ultime pagine, quando finalmente l’autore racconta il momento della morte. Parla prima della malattia, poi del lutto, e l’ultimissima pagina è dedicata a quella notte tra il 6 e il 7 gennaio del 1952, quando la madre assunse una dose eccessiva di sonniferi nella stanza degli ospiti a casa della zia Haya. Allora è chiaro che tutto il libro, tutte le storie in esso raccontate, non sia altro che l’ultimo tentativo di un figlio di fare pace col passato, di elaborare quel lutto taciuto e illacrimato (per stessa ammissione di Oz) per oltre 50 anni. Il lutto che lo aveva portato ad allontanarsi dal padre, a cambiare cognome, a vivere lontano da Gerusalemme alla sola età di 14 anni. Un lutto che ancora oggi gli impedisce di lasciare oggetti sparpagliati per casa: il disordine fu il modo in cui lui e suo padre manifestarono il dolore. L’incuria della casa fu l’unico modo in cui i due uomini, che non ne parlarono mai, esternarono il dolore immenso per quella perdita che non sarà mai rimpiazzata.
Nessuna parola sulla matrigna, poche righe sull’amatissima moglie, solo qualche accenno ai figli nati da quella longeva unione. L’intero libro è il racconto di dolore di quel figlio che a 12 anni si sentì così impotente e arrabbiato per quella madre che non era riuscito ad aiutare.
Nel frattempo Oz ci insegna la letteratura ebraica, le correnti politiche interne al sionismo, la difficile convivenza con i vicini arabi, la gioia per la creazione del nuovo stato di Israele, le contraddizioni legate a questo delicato momento storico.
È un libro potente, colto, difficile, estremamente umano. Ti tocca l’anima, e si può dire solo grazie.
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DONNE, NATURA E LIBERTÀ
ATTENZIONE: CONTIENE SPOILER
Weyward racconta la storia di tre donne (o, forse, di tutte le donne) a cavallo tra tre secoli: Altha, incantevole guaritrice del 1600; Violet, irriverente adolescente del 1940; Kate, insicura donna londinese degli anni Duemila.
Ciascuna di loro vive un’esistenza ai margini, pagando lo scotto della propria diversità. “Weyward”, come spiega anche l’incipit filologico-letterario tratto da una breve citazione di Macbeth (poi sostituita nell’edizione finale), significa proprio “bizzarro, stravagante, strano”, esplicitando il modo in cui tutte le donne appartenenti alla casata W. siano percepite dalla società in cui vivono.
Una società che, a prescindere dall’epoca storica, è fatta dagli uomini per gli uomini. Uomini che tentano di sopprimere e reprimere donne forti e indipendenti per natura, imponendo loro decisioni e destini al fine di ridurle ancora una volta sotto il loro potere.
Inoltre (un po’ come ad esplicitare il legame ancestrale e atavico tra forza generatrice delle donne e quella della natura), le Weyward manifestano una particolare inclinazione alla magia: non un semplice legame viscerale con la terra e i suoi abitanti del mondo animale, quanto una vera e propria capacità di governare la natura entrando in sintonia con essa. Tale diversità, così manifesta, costituisce la disgrazia e allo stesso tempo la fortuna di una intera stirpe, personificando, dal punto di vista narrativo, l’animo indomito e fiero del genere femminile.
E così Altha, che ha ereditato le sapienti doti di guaritrice da sua madre, crea ungenti e pozioni per curare gli abitanti del suo villaggio, in aperta opposizione con i metodi del medico della valle. Per questo subirà un processo per stregoneria (di cui ci racconta i dettagli in prima persona), durante il quale viene torturata, umiliata e seviziata in vari modi da uomini morbosamente attratti dalle sue capacità.
Violet Ayres, che vive con suo padre e suo fratello Grham in una tenuta signorile nella campagna fuori Londra, sarà sedotta, illusa e infine stuprata da un suo cugino in congedo dalla guerra. Rimasta incinta, dovrà scontrarsi con le ire del padre, pagando con l’estromissione dall’eredità il prezzo del suo rifiuto.
Infine, Kate Ayres vive in una prigione dorata nel centro di Londra dove, tra lusso e ricchezza, è vittima del suo compagno e aguzzino Simon. La sua è una storia di violenza domestica del ventunesimo secolo: lui la picchia, la stupra, la priva di qualsiasi forma di libertà, impedendole persino di andare a fare la spesa senza il suo consenso. Quando Kate rimane incinta, decide di scappare nel cottage ereditato da sua zia Violet (di cui ricorda a stento le sembianze), dove riscoprirà le sue origini e troverà la forza di iniziare una nuova vita.
Tre storie collegate da un fil rouge, quello del patriarcato nudo e crudo, in cui le donne appaiono per la prima volta protagoniste assolute della loro storia. Non c’è spazio per uomini giusti, nel romanzo della Hart: Grahm (nonno di Kate e fratello di Violet) avrà un piccolo riscatto nel finale, ma nell’universo Weyward non esiste una presenza maschile in grado di suscitare le simpatie del lettore. Perfino l’amore romantico è escluso in questa visione dei rapporti uomo-donna: Altha, anche se non dichiaratamente, vivrà tutta la propria vita all’ombra del suo amore per la vecchia amica Grace; Violet e Kate, nonostante ci raccontino le sensazioni di una iniziale infatuazione per i loro uomini, subiscono velocemente la rottura dell’incantesimo in favore di violenze e abusi, decidendo di proseguire ciascuna la propria vita in solitudine, lontane dal rapporto con l’altro sesso.
Questa visione così polarizzata dell’esistenza femminile, insieme alla forzatura dell’esperienza magica, fanno storcere leggermente il naso di fronte ad un romanzo che risulta complessivamente ben scritto e ben costruito. L’espediente narrativo del finto manoscritto di Altha, chiuso in un cassetto di una antica scrivania opportunamente aperto al momento del bisogno, aiuta a mantenere insieme tutte le donne Weyward, guidate nel loro agire dalla comune antenata; le vicende che porteranno Violet a scoprire gli abusi del padre sulla madre, e quelle che condurranno Kate a scoprire la maledizione di cui è vittima il vecchio Friedrick, sono tutti dei piccoli misteri che tengono il lettore incollato al romanzo durante l’intero svolgimento del racconto. Anche il finale, in cui le storie di Violet e Kate si sovrappongono nel momento cruciale della morte del padre di quest’ultima, aiuta a simpatizzare con il senso di “sorellanza” che l’autrice vuole comunicare (tra le donne W. in primis, e successivamente tra tutte le donne del mondo).
Eppure, resta qualcosa di poco incisivo; qualcosa di quasi surreale e allo stesso tempo molto prevedibile, che non consente una reale identificazione con nessuna delle protagoniste del racconto (nonostante si percepisca chiaramente che l’intento dell’autrice sia quello di accomunare in un unico cerchio di abusi e violenze tutte le donne di tutti i secoli).
In conclusione: un buon libro di esordio, che fallisce nella sua pretesa di essere un racconto “universale” dal momento che racconta una visione estremamente personale e parziale del rapporto uomo-donna e di quello tra donne e società.
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