Opinione scritta da Miriam Di Miceli

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Miriam Di Miceli Opinione inserita da Miriam Di Miceli    19 Gennaio, 2025
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IL TRADUTTORE PIÙ FEDELE DI SÈ STESSA

Che non si incorra nella malsana e ottusa opinione di inserire gli scrittori dentro una cerchia univoca, come se tutti fossero capaci di scrivere qualunque cosa e cimentarsi in qualunque genere. Se vogliamo parlare di impronta, alla base delle tante variabili possibili, esistono scrittori destinati alla prosa e scrittori destinati alla poesia. Sylvia Plath è una poetessa. E lo è perché per lei non c'è nulla da inventare nella scrittura, con essa cerca soltanto di essere il traduttore più fedele di se stessa, avendo il dono di trasferire l'epifania, il sacro parto della mente, su fogli destinati ad essere squarciati dal suo crudo ed emozionante realismo. Ho sempre pensato che le più belle poesie non possano prendere forma fisica, che la loro nobiltà stia nel fluttuare dalla mente al corpo, destinate ad essere intrappolate nella voce misterica di una conchiglia, ma fortunatamente mi sbaglio e qualcuno ci riesce. Sylvia Plath è un percorso, una folgorazione di femminilità tenera, tremenda e tremante. Se partiamo da tutto questo, allora credo che la poesia di Sylvia Plath, innanzitutto, sia di più quanto sliricato ci possa essere, perchè la scrittura striscia insieme a chi la partorisce come un verme che cerca il buco della terra per entrare nelle sue stesse viscere. La forma del contenuto poetico diventa solenne perché nobili sono i suoi sentimenti, ma la scrittrice è investita dal fango, è macchiata dalla sua primigenia forma di bruco ed è solo un inesorabile ciclo naturale a far diventare le sue poesie divine farfalle, non esiste nessuna menzogna, non esiste nessun artificio retorico. Questo romanzo mi ha stravolto perché mi ha fatto capire come la Plath non si sia mai sentita farfalla nella sua vita e mi commuove molto pensare quali capolavori riesca a creare il dolore di un bruco. Ho conosciuto Sylvia Plath leggendo prima i suoi "Diari" e poi le sue poesie, più o meno cinque anni fa. A quel tempo la cercai perché iniziava l'estate e io avevo bisogno di un riparo dalla presunzione del sole. Adesso l'ho ricercata perché volevo la compagnia di una donna vera, qualcuno che mi sorridesse debolmente, con il corpo sporco di una terribile umanità e che avesse capito che nella vita si parla di "vuoto" solo per dissimulare e non sentire la vertigine che apre al terremoto psichico della tenerezza.
"La campana di vetro" è una solitudine che stramazza. Ha una razionalità raggelante e, nel mio soggettivo e debole parere, credo che la scrittrice volesse cercare la verità più profonda del suo dolore. La scrittura è da intendere come archeologia, mentre il romanzo non è nient'altro che emergenza, un'esigenza carnale, non c'è sperimentalismo, nessuna prova di narratività; penso davvero sia nato soltanto dall'urgenza del caso. Se volessi prelevare un segmento, solo un piccolo pezzettino di tutto questo romanzo, cercando di ricostruire un quadro filologico che potesse poi rispondere alla totalità del testo, io farei affidamento all'entfremdung (alienazione, straniamento): tema concepito nell'800, ma protagonista indiscusso del Novecento e che in Sylvia Plath sembra quasi aver preso struttura ossea che non trova pace. Questo tema è diventato un vero e proprio catalizzatore letterario di dispersione quando gli scrittori hanno cominciato ad avere fede nell'abbandono e ad intraprendere questa nuova via di pellegrinaggio. La nausea, tra tutte, è forse la sensazione più forte che la scrittrice mi abbia trasmesso. In questo romanzo l'autrice cambia prospettiva e prova a guardare, a volte, l'interno dall'esterno, intenta a scavare spiegazioni su spiegazioni, con una ferocia animalesca e una naturalezza selvaggia di chi, con le parole, sta cercando terra.

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Miriam Di Miceli Opinione inserita da Miriam Di Miceli    18 Gennaio, 2025
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ODISSEO E LA FOLLIA

Mentre le fila di Penelope si incontrano e si disfano ad Itaca, allo stesso modo le parole di Odisseo si intrecciano nei suoi racconti e si dipanano nel mare. L’architettura narrativa è densissima ed essa stessa fa arte al complesso miscuglio tra tempo della storia e tempo del racconto: ci si ritrova nel presente della vicenda impersonata subito dalla Telemachia, nel passato dei viaggi compiuti da Odisseo e che il protagonista stesso racconta agli stranieri che di volta in volta incontra, si viene travolti nel passato ancora più remoto dal canto degli aedi, i quali ricalcano l’impronta della memoria delle gesta di Troia, nell’imperfetto, che è causa di tutte le colpe commesse in precedenza e che ogni personaggio si porta dietro, fino al raggiungimento di un destino che gli è toccato in sorte e lento attende il suo compiersi, e infine in un futuro, dettato da profezie e saggi consigli. Tutti abbiamo sentito parlare spesso di Odisseo, ma chi è realmente? In una visione completamente soggettiva, in cui mi sono concentrata principalmente in certe parti del racconto, che ho staccato e ricostruito nel mio immaginario, Odisseo mi è parso certamente l’uomo astuto di cui sempre si parla, l’uomo dal multiforme ingegno, ma pur sempre un uomo e il cuore di un uomo solo non può sopportare e patire così tante pene se non è accompagnato da un dio. Sopra tutte le divinità, è Atena che lo protegge, lo guida e gli appare in varie forme, e questo è un privilegio non da poco per un essere umano. Odisseo è davvero un uomo di raffinato ingegno, con una notevole fermezza, ma non gli sono estranei tratti riconoscibilmente inquieti e in costante allerta. Ho voluto cercare qualcos’altro in questo personaggio quindi, tra le pagine, ho incontrato anche un uomo la cui intelligenza è stata tanto gloriosa quanto sfrenatamente lungimirante e consequenzialmente dannosa. Mi sono domandata se Odisseo conosca la gioia e credo di no: chi possiede il pensiero complesso difficilmente abita il presente nel suo istante, ma è questo che costruisce il fato per lui e, come sappiamo, nessuno può sfuggirgli. Il guardare sempre al di là porta ovunque e da nessuna parte. Odisseo ha un obiettivo, il suo ritorno in patria, ma da qualcuno ha già saputo che, una volta approdato nella sua amata Itaca, dovrà nuovamente rimettersi in viaggio. Nonostante la perseveranza, la tenacia e la costanza, può essere sempre forte quest’uomo? No, non lo è. Una manifestazione di grande disperazione è vissuta dal protagonista sull’isola della dea Calipso che, innamorata, trattiene l’eroe per sette lunghi anni. Odisseo piange tutto il giorno guardando il mare, ha perso i compagni e la speranza va sempre più scemando, eppure resta intatta la sua nobiltà d’animo. La dea offre all’uomo l’immortalità se lui accetterà di restare accanto a lei per sempre, ma Odisseo rifiuta ogni volta una condizione di vita che, per quanto preziosa, non gli appartiene. È un uomo che soffre molto e parla poco dei sentimenti perché possiede poca fiducia nel prossimo. Come potrebbe un uomo fidarsi degli altri, quando è lui per primo a ordire inganni? Ancora una volta mi sono chiesta se Odisseo potrebbe essere definito un personaggio dal contorno complesso e paranoico. Cosa succede ad Odisseo quando non è accompagnato dal dio? È lì che ho sentito l’abisso di un uomo in una delle scene più sazie e più folli del poema: mi riferisco a quando Odisseo scende nell’Ade. Ma Odisseo scende davvero nell’Ade? Ecco come l’indefinitezza di un segmento narrativo racconta il mito più a fondo. Odisseo scava una fossa, avvia la libagione, si siede e rievoca i morti, questa pratica si chiama nekyia, che molto spesso viene confusa con la catabasi. Le immagini più atroci gli si affollano intorno, accompagnate da voci angoscianti di dolore, rimpianto e tremenda tristezza: sono le ombre dei morti, anime tristi di giovani, donne, guerrieri morti in battaglia, vecchi agonizzanti, compagni con cui l’eroe ha combattuto a Troia. Che cosa significa tutto questo? Cosa significa scavare una fossa? È vero che il consiglio di entrare in contatto con il mondo dell’Ade è stato un suggerimento della maga Circe, ma prima di allora Odisseo sembrava aver perso il suo obiettivo nell’isola di Eea, sembrava aver dimenticato del suo ritorno in patria, sarà infatti un compagno, con parole di rimprovero, a ricordargli la loro ultima destinazione. È possibile che un uomo tanto astuto abbia dimenticato il suo agognato ritorno ad Itaca? Secondo me sì. Ho letto questo undicesimo libro dell’Odissea sotto un profilo estremamente fragile e mi sono chiesta cosa cerchi realmente Odisseo quando, scavando il solco da solo, cerca di mettersi in diretto contatto con il regno sotterraneo. La profezia di Tiresia è la risposta più immediata, ma la risposta può non essere univoca. Non c’è mai un singolo responso perché il mito ne porta sempre di nuovi. Tra i possibili, ho immaginato che quest’uomo, per un istante, grattando la terra, stesse cercando la sua morte, in preda alla disperazione, come se l’uomo dall’acuto ingegno avesse perso momentaneamente il senno. Odisseo non ha particolare reazione alla profezia di Tiresia, il suo immediato desiderio è parlare con la propria madre, intravista tra le anime vaganti che la tremenda Persefone invia dall’oltretomba. La figura materna sembra essere l’approdo più sicuro per un uomo in balia di un tormento divoratore. Sarà proprio la madre di Odisseo a invocarlo verso la luce: "ma tu cerca al più presto la luce, però tutto qui guarda per raccontarlo poi alla tua donna". Pulsioni di vita e di morte si intrecciano in questo episodio magnifico e complesso. Odisseo guarda attentamente le anime che gli stanno attorno e la sua forza dinamica, che sempre lo porta a un costante autocontrollo, si disperde nell’abisso di una stanchezza psichica. Cosa proietta in tutte quelle anime? Forse la miseria della vita quando si perde la speranza, forse il pentimento di certe sue azioni compiute antecedentemente e, in tal senso, significativa è la presenza di Aiace, che non perdonerà Odisseo neanche dopo la morte. Forse, guardando tutte quelle anime femminili, osserva il loro patire e si immedesima in quel dolore che egli stesso ha causato alla moglie amata, al figlio abbandonato ancora in fasce, alla sua stessa madre Antìclea, morta per le pene insopportabili a causa di un figlio troppo lontano e considerato ormai morto, e sarà la stessa genitrice a informare il figlio sulle condizioni del padre, il nobilissimo Laerzio, che, senza ormai più vigore e straziato dal dolore, preferisce l’isolamento nei campi, vestendo stracci e poco altro. Un nucleo familiare, una terra intima che è andata in frantumi, i cui cocci isolati diventano singoli membri, ma l'uomo antico non è in grado di sopportare il peso della solitudine ed è per questo che cade nel disegno della follia.
L’Odissea è un’opera che ha molto da dire, una reale trattazione può essere composta solo dopo aver impiegato uno studio lungo, concreto e accurato da parte di un professionista. Io ho solo portato alla luce una piccola scintilla che mi è venuta in mente solo dopo aver letto più volte l’undicesimo libro dell’opera e, a questa miccia, ho accostato la rappresentazione del pittore di Dolone di un cratere a calice, a figure rosse, un vaso lucano del 380 a.C., che raffigura un Odisseo stanco, dallo sguardo insensibile e vuoto, ed è lì che le domande hanno cominciato a prendere forma dentro la mia testa, affascinata, come sempre, dalla potenza del mito e di quanto ancora abbia da raccontare.

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Miriam Di Miceli Opinione inserita da Miriam Di Miceli    31 Dicembre, 2024
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LA CONDANNA DELLA BELLEZZA

Elena di Sparta? Elena di Troia? Elena colpevole? Elena innocente? Elena distruttrice? Elena figlia di Leda? Elena rapita da chi? Molte sono le domande che accompagnano questo personaggio straordinario e molte le versioni del mito che riprendono la sua storia e hanno voglia di raccontarla. Concentrerò quest’opinione soltanto sulla protagonista, partendo da considerazioni riguardanti la tragedia che porta il suo nome, cercando, però, di dare un punto di vista complessivo del personaggio e riflettendo sui vari aspetti che la sterminata letteratura mette in luce. Ciò non significa affatto che il personaggio di Menelao, preso singolarmente o all'interno del rapporto matrimoniale, sia di meno importanza, anzi, completamente il contrario e tengo a precisarlo proprio riconoscendone una parte fondamentale. Allo stesso tempo, però, mi rendo conto che scriverei un'opinione estremamente lunga che difficilmente troverebbe un punto finale, ma per fortuna studiosi di tutto rispetto gli hanno reso e continuano a rendergli le giuste considerazioni.
Nella tragedia di Euripide, Elena, per prima, prende subito parola con l’intenzione di raccontare tutti i suoi mali. Scopriamo che, fin da subito, Elena è al contempo individuo e molteplice. Il suo nome girovaga ovunque, corre veloce per le bocche di tutta la Grecia e oltre, dichiarandola il peggiore dei mali, eppure il suo corpo è uno e si trova in Egitto, luogo che, in un tempo voluto e determinato dagli dei, ha avuto il compito di proteggerla, ma adesso rappresenta solo prigionia, esilio e obliata speranza. Infatti, il suo vero protettore, Proteo, vecchio re dove le acque del Nilo scorrono calme e bellissime, è morto e la donna passa intere giornate sopra la terra in cui è sepolto, cercando, davanti la tomba, conforto nel paese straniero. Nessuno sa dove si trovi veramente Elena, ma tutti sono pronti a sputare sentenze su di lei per la famosa colpa commessa e per tutto il sangue che è stato versato a causa sua. Ma siamo sicuri sia stata proprio Elena a scatenare (o a muovere pretesto per) la guerra di Troia? Euripide, e così autori prima di lui e dopo di lui, ci pone di fronte a una complessa cifra enigmatica, scomponibile tra verità e opinione, autenticità e inganno. L’Elena che è andata a Troia, tradendo la stirpe degli Atridi, e consequenzialmente, secondo il famoso giuramento di fedeltà fatto a Menelao, tutta quanta la Grecia, non è l’Elena di Sparta, ma solo un simulacro, un doppio, che la dea Era ha voluto costruire con un frammento di cielo, messo in vita da un soffio d’aria, vendicando sé stessa per l'oltraggio subito dalla vittoria di Afrodite, avvenuta con il giudizio di Paride. Tutte le varianti del mito che riguardano il personaggio di Elena si presentano alcuni con degli episodi aggiuntivi, altri, spesso, contraddittori tra loro, altri ancora, come nel caso di questa tragedia, nettamente differenti dall’opinione maggiormente conosciuta dal pubblico. Eppure, nonostante questa varietà di contenuto, l’elemento distintivo di questo incredibile personaggio femminile è che in qualsiasi incognita variabile venga a trovarsi, rimane sempre identica a sé stessa. Elena è una donna coraggiosa, prende con la forza della giustizia qualsiasi diritto alla vita che spetta, per nascita, ad ogni essere umano: abbraccia lo spazio per gli errori, sa difendere sé stessa, non ha paura di giudicare le sue azioni che spesso apostrofa con violenta ira, senza mai raggiungere l’avvilimento, ma, al contrario, trasformando quell’accanimento in una rabbia costruttiva, a tal punto da saper affrontare i rimorsi con il coraggio, il desiderio di ritornare indietro e la forza di farlo. Di questo è fatta Elena e queste sono le sue più grandi e significative battaglie. Quanto coraggio ci vuole per ammettere un errore e ritornare indietro? Questa, per esempio, è una di quelle domande che il mito ha regalato all’eternità e su cui ognuno di noi può riflettere. Elena è padrona del tempo vissuto, del tempo che vive e di quello che ancora l’attende. Il tempo della necessità è sostituito dalla naturale transizione e dal sapersi muovere con destrezza nella mutevolezza degli eventi; tutto è ancora recuperabile per lei, così come tutto ciò che desidera doveva avvenire perché voleva avvenisse. Il simulacro di Elena è, dunque, esempio paradigmatico di questo temporale gioco ad incastro a cui la reale Elena decide di non sottostare, confermando, ancora una volta, la sua forza motrice. In quanto donna della scena tragica, però, non può fare a meno di scontrarsi con la vertigine liminale e profonda della solitudine, non appena scopre che i suoi affetti più cari sono morti per quel suo doppio, che pur non abitando il suo corpo è come se la tenesse legata, lei stessa, infatti, dirà: “non ne ho colpa, eppure è colpa mia”. Elena, “in un canto triste che non vuole la gioia della lira”, invoca la Musa per cantare e piangere insieme le pene che il destino le ha inflitto, ma la sua dinamicità cerca immediatamente di risolvere questo momento terribile con il pensiero salvifico della morte, ed è molto importante sottolineare che non è di una morte qualsiasi quella a cui fa riferimento l’eroina. La donna, infatti, riflette su quale sia una morte degna e valorosa quella a cui valga la pena aspirare. Il suo linguaggio, al pari di quello di un eroe, è estremamente lucido e vaglia criticamente le morti miserabili da quelle nobili, ed è sulla spada nel petto che cade la scelta di questo personaggio inarrestabile. È di estrema importanza riprendere un altro aspetto che tende ad essere presente in ogni Elena del mito: il rapporto con la bellezza che, personificata nello spazio del racconto greco, ha nome Afrodite. La bellezza di Elena è onnipresente perché intrinsecamente connessa alla sua natura esteriore e interiore, ma la protagonista sembra avere un rapporto sinistro e conflittuale con la dea. Sia nell’Iliade che nell’Elena di Euripide sono parole di sfida, funeste e ostili, quelle che la donna rivolge alla divinità, chiamandola “assassina” e denominandola come causa prima di tutti i suoi mali. Eppure Elena, senza quella bellezza, da lei stessa definita “tremenda” e "disgraziata", non avrebbe alcun valore, sarebbe il nulla, perché solo essendo protetta da Afrodite, e a lei sottomessa, Elena è capace di muoversi liberamente e di godere di tutti quei privilegi che altrimenti le sarebbero tassativamente esclusi, in quanto donna greca. A questo proposito, bisogna aggiungere che la libertà di cui Elena gode ha a che fare sia con la sfera pratica sia con quella intellettiva. Non è possibile pensare Elena senza menzionare l’uso e l’arte del linguaggio, i raffinamenti retorici, i dispositivi metateatrali e affabulatori che, anche nella tragedia che prende il suo nome, questo geniale personaggio mette in atto. Se non fosse, infatti, per l’astuzia di Elena, Menelao rimarrebbe esule e spogliato della sua gloria in terra straniera. Questo, però, è un particolare a cui bisogna prestare molta attenzione e, soprattutto, è necessario fare uno sforzo per tentare di trovare la giusta chiave di lettura interpretativa, perché quella che per noi moderni potrebbe risultare una grande emancipazione femminile, in realtà nel mondo greco si presenta come lo specchio misogino che riflette una donna severamente additata come prima portatrice di mali e capace di tramare e tessere inganni e ordigni di ogni genere. Credo sia un’opinione ormai consolidata, oggi, quella che rende omaggio ad Euripide per avere una visione più ampia del mondo rispetto ai suoi predecessori tragici, ma credo anche che definirlo “progressista”, sia, forse, un’opinione un po’ azzardata. Euripide, in quanto scrittore e tragediografo, ha un’innegabile apertura mentale e porta novità di contenuto sostanziale alle sue tragedie, che determinano una grande rimessa in discussione su alcuni valori consolidati, pensiamo, per esempio, all'importanza concettuale nel ridimensionamento dell'intervento divino, ma è bene ricordare che rimane comunque un uomo del suo tempo, dentro un clima culturale che proprio in quegli anni, ad Atene, subisce enormi trasformazioni di grande complessità. Dunque, spetta sempre a noi moderni la responsabilità e il desiderio di avvicinarci e incontrare il passato, ma mai il contrario.

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Miriam Di Miceli Opinione inserita da Miriam Di Miceli    28 Dicembre, 2024
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IL GIOCO GRAMMATICALE

Dürrenmatt mette in scena un libro molto complesso, scritto, forse, con l’intenzione di allestire un linguaggio che simuli una vera e propria rappresentazione teatrale. L’autore invita il lettore ad assumere lo stesso sguardo del protagonista, il Minotauro, ma, soprattutto, lo sfida nella sua completa natura di uomo, nella totale appartenenza al genere umano, e in quanto tale a provare su di sé certi momenti di forte intensità emotiva a cui il Minotauro, al contrario, un essere solo parziale, è condannato, cercando in questa maniera di far incontrare, quanto più vicino sia possibile, due punti di vista distanti e inconciliabili tra loro. È necessario, dunque, che l’autore porti il lettore anche fuori dalla scena, cercando di spiegare i desideri, le paure e i sentimenti primitivi che l’essere mostruoso non è capace di comunicare e l’uomo non è in grado di comprendere. L’opposizione tra uomo e animale è la prima grande tragedia del Minotauro, proprio perché questa netta distinzione è la sua identità, è il suo essere e il suo essere unico: mezzo uomo, mezzo animale, una condizione destinata alla convivenza e alla profonda solitudine, dentro un altrettanto ambiente unico, esclusivo e costruito appositamente per lui. Labirinto e Minotauro, luogo e personaggio, in questo caso, sono perfettamente rappresentativi l’uno dell’altro, entrambi rispecchiano l’originario caos e il paranoico disordine, un momento esistenziale a cui nessun uomo vuole volontariamente avvicinarsi. Fortunatamente il lettore può entrare in questo spazio abbandonato, vedere cosa succede al suo interno, dal momento che dispone anche lui di un filo rivestito di parole, costruito di proposito per orientarlo e guidarlo senza il rischio di essere toccato dalla follia, ma riuscendo, al contrario, con una calibrata distanza, ad osservarla in tutta la sua potente manifestazione dentro quegli specchi in cui il Minotauro, all’interno del racconto, si guarda e non sa ancora di vedere se stesso. Si capisce, allora, come uno dei temi principali del testo sia la riflessione sul rapporto problematico tra l’io, il doppio e l’altro, trinomi costruiti tramite un lessico specchiato, nel quale agisce un geniale gioco grammaticale imperniato nel dolore del singolare, una volta avvenuta la rivelazione del singolo, nella gioia del plurale, fortemente condizionata dal desiderio euforico e illusorio di appartenere ad una collettività e nell’intimità del duale, un momento di alto tradimento narrato in una danza scenica degli opposti e degli uguali. Un libro brevissimo, meraviglioso e difficile.

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Miriam Di Miceli Opinione inserita da Miriam Di Miceli    27 Novembre, 2024
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Romanzi che sentono la necessità di morire giovani

Mi chiedo da giorni: come si può parlare di un personaggio letterario, se quel personaggio letterario uccide le convenzioni semantiche del linguaggio.
I lettori dovrebbero leggere questo romanzo, forse, consapevoli di dover accettare di possedere una misera porzione di libera interpretazione, che esaurisce il suo spazio nel momento in cui Modesta sigilla la scelta di trasformarsi in libera. Farebbe bene il lettore a riconoscere e abbracciare subito l’oracolo che viene pronunciato dentro il convento dal giardiniere Mimmo, che dichiara alla protagonista le seguenti parole: “principessa per capriccio di natura, che a volte si diverte a dare gambe storte a una principessa di sangue”.
In effetti, solo se si accoglie Modesta nei panni di una principessa, si entra perfettamente nel doppio inganno: l’uno appartenente all’arte del narrare, l’altro alla costruzione architettonica e sottile della protagonista.
La libertà, penso possa essere considerata, non solo il grande tema centrale del romanzo, non solo l’unico principio motore, capace di far avanzare la trama, ma anche il fine stesso della storia e, soprattutto, il senso ultimo della sua unità. Bisogna però prepararsi alla libertà che viene raccontata, perché non ha nulla a che fare con la libertà ideologica, la libertà di genere, la libertà individuale o parcellizzata in una qualche conquista e vittoria sociale.
Il romanzo si divide in quattro parti, eppure, dal mio punto di vista solo le prime due possono definirsi e vantarsi di una certa complessità, le rimanenti, invece, dal mio punto di vista, si reggono in un traballante equilibrio che vive di rendita.
La sottile creazione di un personaggio che crea se stesso a partire dall’infanzia fino alla giovinezza, si vuole forzatamente far entrare anche nella sfera adulta, attribuendole, addirittura, una sorta di modello sociale e politico. Ma ci sono romanzi che possono durare per una lunga vita e romanzi che sentono la necessità di morire giovani, e questo, sempre dal mio punto di vista, rientra in questa seconda categoria.
La rivendicazione politica e di lotta che viene attribuita al personaggio di Modesta, sinceramente rimane per me un breve accenno, raccontato come una sfumatura di cui se ne potrebbe fare a meno, e che, proprio per questa leggerezza, parrebbe un accidente ma non una categoria sostanziale, e invece questa rivendicazione diventa pilastro per attribuire a Modesta, la mastodontica virtù di coraggio per aver dato asilo politico e un riconoscimento tale da onorarla di una candidatura politica a Roma (che fortunatamente Modesta rifiuterà). L’unico “atto politico” che compie Modesta è un atto di vendetta, togliendo di mezzo, tramite l’aiuto del fidato Pietro, i tre assassini di Carlo. Non saranno di certo i finanziamenti segreti che invia al partito a renderla un’eroina (denominazione che fortunatamente Modesta rigetterà), ed una buona contraddizione a favore di questa tesi, secondo me doverosa, ma non so se voluta dall’autrice in questi termini, dal momento che sminuirebbe la sua protagonista, è la presenza e il personaggio di Nina, una donna del popolo che spicca per visibile contrasto accanto alla principessa e per cui il carcere si rivela nella sua crudele natura d’inferno, un luogo in cui gli interrogatori non si limitano ad essere logiche e funzionali chiacchierate, ma vere e proprie violenze e aggressioni fisiche.
Questo titolo da paladina di giustizia viene, dunque, inculcato a Modesta, attraverso l’arrivo di Joyce, psichiatra tedesca, che, per me, rimane un aleatorio mistero, non solo perchè non riesco a trovare la sua funzione all’interno della storia, ma rimane incerto anche ciò che porta con sé, come, per esempio, una conoscenza ben approfondita di Freud, di cui, in un primo momento, Modesta, è vero, rimane affascinata, ma successivamenta rigetta. Il suo rifiuto, però, come descritto dal romanzo, forse a ragione, forse a torto, non è incline ad una debolezza data dall’ammissione di non poter comprendere le sottili tesi psicologiche, insomma, non è una sana sconfitta da parte di Modesta e non è neanche una dispersione di dubbio personale, ma sono solo sporche chiacchiere di “un vecchio medico stanco, malato da anni di cancro alla bocca” che la protagonista riflette e condanna per intero come una debolezza intellettuale del personaggio di Joyce. Mi sono chiesta, allora, forzando un po’ la mano, se fosse possibile reinterpretare in un senso altro la presenza di Freud e, soprattutto, trovare un modo per giustificarla, in una qualche maniera, rispetto al testo. Sarebbe possibile vedere un appena percepibile foro della quarta parete in cui la scrittrice, consapevole di non poter addomesticare il suo personaggio, tenta segretamente di mettersi in contatto diretto con il lettore, fornendogli un suggerimento e una chiave di lettura psicoanalitica per l’intera vita di Modesta? All’interno del testo, sembra esserci, in effetti, un alterco continuo tra la scrittrice, Goliarda Sapienza e la protagonista Modesta. Goliarda sembra voler far rientrare il personaggio di Modesta in una dimensione più umana, nel momento in cui capisce di aver creato un “monstrum” e tenta, attraverso alcune scene sovrapposte tra passato e presente, con alcuni personaggi, quali Tuzzu o Mimmo, che le rimangono accanto e invisibili, come amici fidati e fantasmi con cui confrontarsi per tutta la vita, o alcune parole tattiche, come per esempio “nostalgia”, che si presenta, in realtà come un ricordo vuoto e quindi una nostalgia ancora più profonda, perché cerca ciò che non ha mai vissuto, o ancora la riproposizione di una domanda innocente che Modesta ripete fin da bambina (“come facevo a saperlo, se nessuno me lo diceva?”), (tenta) di riportare il personaggio verso un passato che Modesta ha deciso di eliminare. La scrittrice, sembra, quindi, ogni tanto vestire i panni di una madre disperata, colpevole dei propri errori, che prova a tenere il personaggio per le corde con i pochi e deboli nodi del flusso di coscienza, ma Modesta, che, fortunatamente, sfugge a quello che sarebbe un gravissimo errore, tenta di vivere la sua intera esistenza come personaggio epico, la cui vita è fatta di movimento, azione e mai vera introspezione, e questo lo si può notare non solo nella posizione frontale con cui Modesta accetta qualsiasi tipo di morte pur di riuscire nei suoi obiettivi, ma anche nel tono stilistico del dialogo, prepotente nel romanzo e che ha, per sua natura, la necessità di un fine immediato. Il difetto di Goliarda Sapienza, qui, come a molti scrittori può capitare, è quello di essere troppo innamorata del suo personaggio.
La complessità del testo comincia fin dal titolo, “l’arte della gioia”, che rappresenta, in realtà il punto d’arrivo di tutto un percorso concepito da un seme fertile d’odio, piantato come atto volontario, auto-erotico, da cui sboccia, con una forza propulsiva ed erculea, un corpo femminile nudo, in una pratica di esplorazione sensoriale, sessuale e corporea, che, a poco a poco, lungo tutto il romanzo, comincia ad oscillare da una dimensione strettamente fisica a un potente lavoro di astrazione, per cui non si potrà parlare unicamente di sesso, ma per la maggior parte del testo, si dovrà ragionare di sessualità, come se ci fosse un filtro, in grado di riflettere un potente effetto di straniamento, ciò è chiaro fin dalle prime pagine del romanzo, in cui verrà subito svelato che il primo e unico atto di fede nella vita di Modesta è la masturbazione.
Le prime pagine del romanzo sono tempestate dalla parola “urlo”. Ma che cos’è l’urlo? Nella seconda metà del ‘700, un filosofo tedesco Johann Herder, affrontò il tema dell’origine del linguaggio, sostenendo che per comprendere la progressione della lingua è bene fare un passo indietro e riallacciarsi alla dimensione primitiva dell’homo sapiens, una specie nomade che si misurava con i pericoli della foresta e dal quale tentava di proteggersi. La prima reazione di difesa da parte di questi uomini è rappresentata proprio dall’urlo, un suono che è l’effetto prodotto dal pericolo che viene incontro e anche una dichiarazione della propria esistenza. Una volta che il suono primordiale viene memorizzato e registrato nella mente degli individui come l’oggetto del pericolo, ecco che l’emissione sonora, nella sua forma originaria si trasforma in qualcosa di più raffinato che è rappresentato, per l’appunto, dal linguaggio. Nella dimensione del romanzo, l’urlo si presenta come l’unica espressione linguistica adottata nelle primissime pagine dell’infanzia del personaggio: la madre “o taceva o urlava”, la sorella Tina, affetta da disabilità, taceva inerme a contatto con la madre, la sua unica garanzia di sopravvivenza, mentre, quelle rare volte, che veniva sottratta alla sua compagnia, scatenava urla implacabili dietro la porta del bagno. Proprio la porta del bagno simboleggia un confine spaziale e nettamente divisorio tra le due sorelle, partorite dalla stessa madre, ma che si presentano come due figure estremamente antitetiche. Ciò che permette un collegamento tra questi due personaggi è proprio l’urlo, nella sua sensibilità primordiale, che denota per entrambe una rivendicazione d’esistenza, ma che viene connotato, però, in due poli totalmente opposti. Se l’urlo di Tina è un urlo che appartiene alla dimensione del dolore, l’urlo di Modesta si affaccia alla dimensione del piacere, ma non è un piacere di per sé, in quanto eccitato dall’urlo di Tina ed esposto alle fantasticherie nell’immaginare che la sorella, dietro la porta, si stia auto-infliggendo comportamenti violenti e pericolosi. Un urlo, quindi, quello di Modesta, introiettato come disprezzo impietoso. Un ansimare di piacere, questo, che si registrerà nella sua mente, inconsapevolmente, come una forma d’odio, ma che agirà consapevolmente, nel suo unico linguaggio ufficiale, come volontà ad odiare. Questo seme dell’odio, nutrito da un piacere scaturito dal dolore, si apre nella prima pagina del romanzo come un atto di nascita, per poi essere ripreso circolarmente nell’ultima pagine del testo, in cui Modesta, che è un personaggio, a mio avviso, epico, e dunque statico e irremovibile ai più profondi cambiamenti, appunto, immaginerà che anche la morte non sia altro che una manifestazione d’orgasmo puro, puro perchè crede illusoriamente, o deve credere per necessità, che questo piacere, ottenuto come una conquista, e questa volta, davvero rivendicato come un diritto dopo una visibile lotta, debba essere incontaminato.
Questa è la forma iniziale della complessità del personaggio di Modesta, che riflette, per l'appunto, un cammino di separazione dal gruppo familiare, in cui il primo nemico della sua vita è proprio la sorella Tina.
Ma che cos’è l’odio? Nelle prime pagine del racconto un istinto di sopravvivenza e di resistenza, subito dopo un fertilizzante, una linfa vitale di cui Modesta si nutre. E allora, si potrebbe pensare in maniera, forse, anche un po’ scontata, che l’odio, in quanto cibo quotidiano, consumi anche il personaggio stesso. Ma riguardo a questo dubbio, la risposta è negativa, perché il personaggio subisce uno sdoppiamento in una prima e in una terza persona, che per l’appunto, sono funzionali a cibarsi d’odio, ma non ad odiarsi.
Lo sdoppiamento del personaggio, causato da un trauma a seguito di una violenza subita, da parte di un uomo, che si rivelerà essere suo padre, diventa una spaccatura incolmabile che trova agio, nel momento in cui viene eliminata la possibilità di una qualsiasi rielaborazione e addirittura un obbligo, da parte di Madre Leonora, a dimenticare. Ma sarà proprio questa invocazione all’oblio a trasformare l’odio in un inno. E qual è, dunque, il concetto originario di questo stato di ambiguità che resterà immortale nella vita di Modesta? La sua piena consapevolezza di essere stata innocente. L’innocenza, diventa per Modesta, immacolata autorizzazione e garanzia di poter agire sempre secondo le proprie necessità finalistiche, adoperando, senza alcun discrimine, qualsiasi forma di potere, proprio perché sgravata dal peso di una qualsiasi forma di analisi interiore.
Il primo potere e il più forte strumento che utilizzerà è la libertà. Una libertà assolutamente non convenzionale, che Modesta educherà secondo i dettami di una rigorosissima disciplina, che, escludendo i tre ostacoli più grandi nella vita di ogni uomo: “paura, umiliazione e dolore”, riuscirà a raggiungere, come una principessa merita, ogni suo desiderio, attraverso un metodo selettivo, munito di “forza dell’odio”, considerato da lei come un “esercizio di salute”, e un’ “astuzia di prudenza”, un’attenta e controllante vigilanza rivestita di “un ammasso di nervi e vene”, grazie al quale “in virtù di queste conquiste ora sapevo la fragilità della mia natura e di tutte le nature”.
Nello schema narrativo, quindi, la terza persona, questo strumento di governo che agisce, muove la prima persona, che, al contrario, agisce subendo, al fine di assorbire tutti gli insegnamenti da parte di quei personaggi, di cui la protagonista prova sentimenti ambivalenti di odio e ammirazione, ma, che una volta derubati delle loro personalità, verranno eliminati anche fisicamente. Si attua in questo modo un meccanismo di associazione e identificazione con le persone più pericolose della sua esistenza: Tina, madre Leonora, Gaia, lo zio Jacopo e, infine, Carmine. A loro ruberà atteggiamenti e parole che imparerà ad esercitare come proprie, “cercando in me o negli altri la chiave per non soccombermi”, affinché possa costruire architettonicamente una propria armatura, un modo d’essere, un indole artificiale che non le appartiene, ma che a tutti i costi dovrà risultare originale per poter praticare, con una tecnica disciplina, l’arte della gioia.
Uno dei pochi momenti in cui Modesta vive il terrore, in quanto potrebbe rivelarsi fatale per la sua stessa esistenza, è il il momento del parto, che viene vissuto dalla madre, come un’altra forma di violenza che il corpo è costretto a subire, e una guerra che non finirà finché uno dei due non sarà sconfitto. Ma è proprio questa violenza che permette a Modesta, in quanto personaggio epico, di ammirare come l’individuo, per natura, sia geneticamente pronto ad uccidere, pur di risvegliarsi alla vita. Modesta prova una forte paura perché conosce quella violenta auto-affermazione di vita e sarà invidiosa di essere l’unica, tra i due guerrieri, a sapere dell’esistenza dell’altro, perché nella lotta tra la madre e il figlio, il tentativo di difesa da parte di Modesta si rivela essere una misera sopravvivenza, rispetto al bambino, che, invece, spietato e indifferente al grembo materno, lacererà il corpo e vivrà, attraverso l’atto della separazione, fin da subito come un essere libero e senza macchia, perché se vincitore o sconfitto, sarà comunque innocente. Sopravvissuta Modesta a questa ulteriore violenza, memorizzerà questo schema di nascita, separazione e libertà, tutte le volte che vorrà rinascere, partorita da se stessa, passando per una “grande onda del dolore carnale”.
Possedere questo tipo di libertà significa per Modesta decidere autonomamente quando ha inizio la vita, ma soprattutto quando comincia il passato, perché il destino “è una volontà inconsapevole di continuare, quella che per anni, ci hanno insinuato, imposto, ripetuto essere l’unica strada da seguire” e la vita non ha alcun valore se non educata alla libertà.
Un altro tema presente nel romanzo, è una totale distorsione dell’apparato sentimentale, un organo logorato e monopolizzato dall’istinto e dall’intenzione. Alla domanda “quante volte hai amato?”, Modesta risponde “tutte le volte che era necessario”, ma Modesta crescendo, impara di star sovrapponendo, in questa risposta, l’amore con il desiderio. Infatti, il concetto stesso di necessità, per sua natura, crea una prigione, una dipendenza che Modesta sa di subire con gli uomini e di esercitare con le donne. Che cosa c’è quindi di necessario nei suoi legami? La fama di essere desiderata e la fame di desiderare. Che cos’è il desiderio per Modesta? Un suo raffinatissimo oggetto di lavoro intellettuale, manipolato ad arte, che rallenta e indebolisce il reflusso del sangue, vissuto come un sogno, capace di risvegliare il corpo ai suoi cinque sensi. Ma Modesta rischia di subire un momento di sconfitta assoluta e di umiliazione, tramite il personaggio di Carmine, da cui subirà un inaspettato abbandono, vissuto da lei come un profondo pericolo e potenziale auto-annientamento, quando dirà che “le sue parole si sono impadronite di vivere senza il permesso della mia intelligenza”, proprio perché corre il rischio di sgretolare quel raffinatissimo oggetto di lavoro intellettuale, che assume la funzione erotica solo se partorito da un’affermazione mentale. Modesta impara con Carmine a godere dell’ atto sessuale, che seppur intenso, non è e non sarà mai un atto condiviso. Solo in questo caso, quindi, la dimensione astratta della sessualità diventa concreta e fisica, al punto che Modesta, nella sua fase di giovinezza, invece, non sa di scambiare e sovrapporre l’amore a questa profonda esperienza del corpo. Il desiderio di Modesta per Carmine è profondo tanto quanto “le fessure buie” della sorella Tina o il “pozzo” del convento dentro il quale voleva morire. Carmine è un personaggio negativo nella vita di Modesta, perchè da una parte, in un’inconsapevolezza che si risveglia dall’infanzia, avviene la riproposizione di un transfert che incolla sulle spalle di Carmine la figura del padre di Modesta, un chiarimento, questo, che puo’ forse legittimare questa tremenda debolezza che la donna non è in grado di controllare, dall’altro perché nella Modesta ventenne, Carmine incarna tutti i vecchi valori generazionali che lei detesta e cercherà di cancellare, dice di odiarlo, e lo odia veramente, ma quasi obbligandolo, gli chiederà di ripetergli più volte di amarla, perché, in una spiegazione molto complessa, qui resa spicciola, difficilmente un ideale, che pur si difende con ardore, con la vita e con la morte, potrà essere più forte di un durissimo trauma non ancora risolto.
Però esiste un momento, un solo momento d’amore nella vita di Modesta, e sarà tracciato da un filo che collegherà gli uomini della sua vita al mare, l’unico desiderio dolce e infantile, che la protagonista ha imparato dalle parole di Tuzzu e ha conosciuto e attraversato insieme a Carlo, l’unico ragazzo che, forse, non a caso, proponendole “nuove favole” da raccontare per far sorgere un nuovo mondo, sarebbe stato capace di accogliere quella parte bambina della protagonista; ma innamorarsi, significherebbe abbandonarsi all’amore, quindi allentare la presa del controllo e perdersi in un sé sconosciuto, un assoluto divieto che non è possibile permettersi.
Una domanda, però, a cui non so ancora rispondere è questa: ma in fin dei conti Modesta è colpevole o è innocente?

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Miriam Di Miceli Opinione inserita da Miriam Di Miceli    05 Ottobre, 2024
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L'isola che non c'è

Una storia in frantumi ma senza lacrime. Elsa Morante è stupefacente nel lasciarci tra le mani un romanzo dal fiato spezzato, avviluppato in un terribile nodo alla gola che non si scioglie mai in pianto. Ha tutte le ragioni per farlo, perché l’età vissuta dal protagonista che mette in scena, si muove tra l’infanzia e l'adolescenza, un momento dell’esistenza che appartiene al sogno e si avvia, pian piano, al gioco sregolato dell’avere e del perdere di continuo, indirizzato verso una strada che parte da un bivio e irrimediabilmente arriva ad un altro bivio, in quanto ignorante, giovane e, di conseguenza, troppo indifferente ancora alla capacità autodeterminata nel prendere qualsiasi tipo di scelta. Inevitabilmente, nel percorso di Arturo Gerace, come il romanzo seguirà a raccontare, crescere significa diminuire la proporzione fantastica delle innumerevoli possibilità del mondo dell’infanzia, fino a ridurre la visione del reale ad un'inquadratura dolorosa e insopportabile, che chiede ostinatamente di sconfessare quelle “Certezze Assolute”, viste come i primi comandamenti di vita. Fin dall’inizio, il lettore è catapultato in un principio di favola. Arturo, detto il “moro”, grande avventuriero dalla mente affollata di terre lontane, profumi orientali, pirati all’arrembaggio, spedizioni nobili e lotte giuste, spera ben presto di partire per un meraviglioso viaggio al fianco del padre, Wilhelm Gerace, capitano fiero e superbo, che anima vivacemente la fantasia e l’amore del figlio.
Arturo vive come un selvaggio, solitario, nell’adorazione mitica di un padre, che ai suoi occhi si presenta come l’eroe più straordinario di qualsiasi leggenda mai raccontata.
Fino all’ultimo, e oltre la storia, Arturo, con il cuore ormai a pezzi, non riuscirà mai ad abbandonare quest’illusione mitica, che fin da bambino gli ha tenuto compagnia nei suoi giochi solitari. Dunque, solo come un bambino è capace di fare, Arturo costruisce ad arte, mistificando la realtà, il carattere egoista di Wilhelm, disperatamente malinconico, aggressivo e indifferente alla vita e alle cose, adattandolo ha un’enciclopedia mitica, portatrice di misteri profondi e nobili. Ogni vizio e difetto del padre si trasforma in un’inconoscibile e incontestabile virtù dell’eroe. Arturo, innamorato del prezioso mistero del padre, lo carica di magnificente santità, perché, nelle difficili contraddizioni del reale, è proprio l’assenza del padre e la leggenda del padre che costituiscono per lui la vera e unica figura paterna che adempie alle sue funzioni di paternità, dentro il godere di questo mondo fantastico.
Procida vive su una dimensione sospesa nel tempo, anch’essa affascinante protagonista di questa storia, non semplice sfondo, ma isola viva e parlante. Una Procida sempre al fianco di Arturo, che mostra i suoi segreti, i suoi spiazzi, le sue alte vedute, i suoi colori fiammeggianti, i suoi inverni superbi, le sue onde, a volte quiete, altre burrascose che si infrangono sugli stessi punti di quelle rocce consumate e antiche. Una Procida dal carattere contraddittorio, che mostra i suoi vicoli, gli ampi spazi e alcune curiose strade, che al principio del romanzo avanzano e ritornano di continuo, come figure familiari e che, durante la crescita di Arturo, arretrano e si nascondono alla vista, quasi venissero misteriosamente assorbite dall’isola stessa. Procida si rivela come un’amica sicura e, tuttavia, nasconde oscuri presagi, in una soporifera calma che, lunga tutto il tempo che Necessità richiede, attende la rivelazione e il compimento della profezia pronunciata alla nascita del protagonista. Arturo, infatti, più che vivere una vita, sembra camminare verso quell’unica via di destino profetizzata, miserabilmente distruttiva eppure unico agente identitario a cui sente di appartenere, come se al mondo esistesse un solo specchio capace di ricambiare il suo riflesso, e in questi pochi termini misterici e intraducibili si presenta l’intera furia tragica di questo romanzo.
Quell’Arturo che sembrava un’entità eterea e senza età, dalla pura essenza di un forte slancio verso forme di idealizzazione e trasfigurazione del reale, si avvia verso un cambiamento concreto, che si mostra immediatamente nella metamorfosi fisica di un corpo allungato, una voce irriconoscibile e che, una volta uscito dall’infanzia, porta gravosamente in cuore, all’improvviso e con terribile lucidità, tutto il peso dei suoi anni. La migrazione dal regno fantastico verso la via del reale, è segnata da un vento violento che lo spinge a far naufragio e lo costringe all’incontro con un nuovo, altro da sé, il quale assume le fattezze di una donna ancora acerba. La prima apparizione di questa figura femminile, si presenta come aliena e distante da Arturo, e quel pomeriggio d’inverno, attraccando a Procida, oltre a portare pochi bagagli con sé, conduce nel palazzo dei Gerace, con un vano tentativo di ripetizione, i racconti personali di un’intima esperienza familiare, la quale, al contrario, sembrava, fino ad allora, tenere severamente le distanze da Procida. In questa difficile esplorazione, in Arturo sfogano pulsioni conflittuali di gelosia, maternità e amore; tutte parole sconosciute, che danno vita a comportamenti istintivi, a cui il protagonista non riesce a dar nome. Il primo incontro tra Arturo e Nunziata è un ritrovarsi tra bambini, che sembra realizzarsi oltre un territorio fisico e localizzato, forse, ancora una volta un’isola, ma un’isola che non c’è, luogo in cui si produce innocenza, curiosità, dispetto, degnazione velata e scontro inarrestabile per la difesa delle cose più personali e a loro care.
L’incontro - scontro tra i due è simbolicamente rappresentato dalla condivisione di Wilhelm Gerace, uomo per lei, eroe per lui. La condivisione obbligata di questo essere, dapprincipio unico, porta Arturo ad un odio irrefrenabile nei confronti di quella che assume, per lui, il ruolo di “matrigna”, ma nello stesso tempo, agisce in lui con la forza propulsiva di un pendolo, che lo spinge, dall’altra parte, verso la curiosità di conoscere una natura femminile ancora inesplorata. La condizione tripartita di donna, nemica e madre sembra trovare risvolto nella notte del parto. Come un sogno impossibile da conservare, Arturo sovrappone alla figura della matrigna l’immagine di sua madre, in una notte che ha già vissuto ma non può ricordare. Proiettandosi nel passato, il protagonista, in quella notte annebbiata e terribile, correndo per portare soccorso alla donna, riavvolge il filo della propria esistenza e cerca di porre rimedio alla colpa originaria della sua nascita, la cui luce, ha portato in eterna ombra la sua giovane madre biologica.
La gelosia di Arturo si allarga ancora un po’ e sfocia in acque pure e incontaminate, il cui suono allo schiocco di baci, fino ad allora sconosciuti alla sua vita, ardono, adesso, di desiderio d’intimità e riconoscimento, come chi esige di appropriarsi di un onesto diritto di fronte alla giustizia per un'esistenza che chiede di esser degna di vivere.
Ma come può un essere umano destreggiarsi nelle cure e nelle attenzioni amorevoli di qualcuno, dopo aver abitato e vissuto una così grande solitudine? E’ una risposta difficile da dare, misteriosa, che aleggia in Arturo come un richiamo profondo di una voce estranea, che viene da chissà dove.
Questa voce interiore spinge il ragazzo a provare, per la prima volta, sentimenti palpabili, reali, mescolati nella confusione vorticosa del vuoto, del pozzo, metafora di un nulla che instilla in lui il nuovo desiderio di riempire e di colmare mancanze primigenie. Anche Arturo Gerace, come un valoroso eroe dell’epica, attraverso potenti farmakos, fa esperienza dell’al di là, nell’esplorazione di un regno inabissato che per lui non vale nulla, non ha significato alcuno, ma che gli è funzionale e di cui si mette al servizio, per cercare nel buio sotterraneo la strada dell’amore attraverso il mistero della morte.
In questo romanzo è presente uno dei baci più vertiginosi ed enigmatici della nostra letteratura. Queste labbra di fanciulli che si avvicinano, poi si incontrano e si premono fin dove la sazietà lo chiede, contiene il sapore dell’erba, dell’acqua del mare e del desiderio di vita. Lo si potrebbe definire un bacio colpevole? Ci sono tanti baci colpevoli nella letteratura, ma questo è forse uno tra quelli d’innocente colpevolezza, perché racchiude all’interno tutte le presenze dell’incontro con l’altro. E’ un bacio, infatti, travolto dalla forza materna e dalla pulsione erotica, due categorie impossibili da comprendere, se osservate come elementi separati, ma che agiscono in una forza complementare, quasi indistinta e mimetica, la cui reciprocità esplode in un’unica dinamo circolare, in cui il moto dell’una, trova all’interno la forza dell’altra. Un incontro tra la Madre e l’amante in un principio di contraddizione amorosa, inseparabile e folle.
Arturo, dunque, si separa dalle vaghezze di sogni lontani ed esplora le esperienze empiriche rivolte alla sessualità, al proprio dolore, al pianto altrui, al mistero della Madre e alla verità delittuosa del padre, le cui sembianze dell’uomo in carne ed ossa, visto e riconosciuto per quello che è, spinge Wilhelm Gerace ad uccidere, nell’unico duello epico che abbia mai combattuto in vita sua, quel doppio immaginifico, quell’eroe idilliaco, che il figlio aveva rivestito di un’armatura scintillante. La morte dell’eroe, spazzato via come un granello di sabbia, trasforma la favola di Arturo nel primo inganno originario, nella sua più potente tragedia. L’incapacità di Arturo di onorare e dare degna sepoltura a quell’eroe, da lui inventato, porta il suo cammino verso quel destino che Procida tanto attendeva, e che, come un Edipo accecato, con gli occhi nel buio, abbandona in un confine oltre la storia del romanzo stesso.

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