Opinione scritta da marialetiziadorsi

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    29 Gennaio, 2025
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Un romanzo adolescenziale

Forse arrivavo da un libro molto bello e particolarmente originale, ma sin dalle prime pagine di questo Acciaio la sensazione è stata di essere piombata in un fotoromanzo di bassa lega.
La storia in breve: la vicenda si svolge a Piombino nel quartiere dove abitano gli operai che lavorano nelle acciaierie, e lo sfondo è quindi quello di un Italia operaia ma dignitosa. Via Stalingrado, questa la zona, è vicina al mare che d’estate viene vissuto e goduto dai giovani di queste famiglie. Di fronte al mare si staglia l’Isola d’Elba, frequentata d’estate da turisti benestanti.
Due ragazzine quattordicenni molto amiche, una bionda e l’altra mora, vivono praticamente in simbiosi. Uno screzio, una mancanza di dialogo e la loro amicizia si tronca all’improvviso anche se le due continueranno a sentire la reciproca mancanza fino alla fine del romanzo. Qui mi fermo, il resto lo lascio a chi vorrà leggerlo.
Si tratta davvero di una storiella, senza approfondimenti e molto scontata, che si svela pagina dopo pagina nella sua ovvietà. Il linguaggio è scolastico senza nemmeno un tentativo di guardare verso l’alto. L’autrice cerca di inserire altri argomenti (la lotta operaia, la violenza sulle donne), ma tutto è abbozzato e lasciato lì senza andare da nessuna parte.
Leggo in copertina che “Acciaio” vuole essere un romanzo di formazione: ecco, non ve l’aspettate, perché queste ragazzine sono e restano quello che sono fino alla fine, e l’autrice sembra essere una di loro, adolescente che ha l’ambizione della scrittura nella quale concentrare i propri amori giovanili e le proprie amicizie.
Un romanzo molto modesto senza nessun approfondimento psicologico, che si legge per intero solo per trovare conferma di quanto si è capito già dalla prima pagina pur nella sofferenza di dover si confrontare con uno stile tanto adolescenziale.
Si tratta di un’opera prima, quasi un tentativo, quindi la scrittrice avrà poi avuto modo di maturare e far crescere creatività e stile. Come tale va presa senza aspettarsi nulla.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    08 Dicembre, 2024
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Eccesso di disgrazie

“Certi soprannomi ti trovano e tu gli corri incontro come un cane, fino al giorno della tua morte, e te li scrivono persino sui documenti accanto al nome vero che nessuno ricorda più”.
“Essere un bambino è una cosa tremenda, non puoi decidere niente. Se superi quella fase e diventi adulto, è più facile dimenticare quel periodo miserabile e fingere di avere sempre saputo cosa stavi facendo. Sempre che tu sia diventato qualcuno di cui andare fiero.”
“Eppure avevo cominciato come qualsiasi ragazzino per bene, dicevo grazie e per favore, facevo i compiti a casa e cercavo di guadagnarmi un sorriso da tutti. Giocavo per vincere con tutto il mio minuscolo orgoglio e i miei piccoli sogni. Che importava se erano sogni da seconda squadra.”

Una vita di sfortune quella del protagonista di questo romanzo premio Pulitzer 2023 che annovererei proprio fra i libri ai cui protagonisti non manca nessuna delle sfortune del mondo. L’ispirazione dichiarata è al David Copperfield che nel raccontare le sventure del protagonista è in realtà un romanzo di denuncia sociale.
Lo stesso vuole essere questo Demon Copperhead che richiama vagamente il romanzo di Dickens anche nel titolo. Qui la denuncia è alla società americana di fine anni 90 che ha lasciato che la diffusione di oppiacei proposti come antidolorifici e che creavano invece dipendenza si sia fatta strada nelle provincie povere del paese (qui siamo nella regione degli Appalachi, depredata dallo Stato e poi abbandonata a degrado e povertà). Questo ha generato morti e conseguenti stuoli di ragazzi orfani seguiti in maniera discutibile dai servizi sociali, sfruttati da chi li ospitava solo per ricevere il sussidio dallo Stato.
Il protagonista è Demon Copperhead, che nelle disgrazie non si lascia abbattere e attraversa con una discreta leggerezza le terribili situazioni che la vita lo costringe ad affrontare. Una delle sue valvole di sfogo è il disegno: racconta infatti le situazioni della sua vita ed i personaggi che incontra in fumetti fantasiosi.
Demon Copperhead, che è il suo soprannome, è dovuto ai suoi capelli rosso intensi ereditati da suo padre defunto (copperhead = testa di rame), nasce in casa da una madre diciottenne alcolizzata e drogata aiutata per caso a partorire. Vive tra una madre in perenne tentativo di disintossicazione e parenti vicini di casa che gli offrono scampoli di vita normale e si pongono come i nonni che Demon pensa di non avere.
La madre si sposa con un uomo violento, Stoner, che la porterà a riavvicinarsi ad alcol e oppioidi fino a venire ricoverata e, alla fine, a morire. Demon viene quindi affidato ai servizi sociali in quanto orfano e passerà da diverse famiglie affidatarie interessate solo al contributo che ricevono per tenerlo con loro e che lo faranno vivere in ambienti sporchi e degradati oltre a costringerlo a lavorare nonostante sia ancora un bambino.
Stufo di questa alternanza di famiglie impossibili Demon decide di fuggire per cercare la nonna e per sapere qualcosa di quel padre del quale non gli è stato lasciato neanche il nome perché la madre gli ha dato il suo.
Riuscirà fortunosamente a raggiungerla e verrà da lei affidato al coach delle più famosa squadra di football del paese.
La sua vita sembra avere finalmente svoltato la curva giusta: la casa è molto bella, i soldi non mancano, il cibo è finalmente più che sufficiente e Demon trova perfino una “sorella”, la figlia del coach rimasta orfana di madre piccolissima. La nonna veglia da lontano su di lui.
Il coach vede in Demon doti sportive e ben presto entra a far parte della squadra dei riservisti e riprende con profitto la scuola.
Tutto bene? Ovviamente se il romanzo vuole collezionare disgrazie no e Demon conoscerà il baratro delle dipendenze, degli affetti persi, e di quanto di peggio si può pensare.
Saranno di sostegno i pochi punti fermi della sua vita.
Il romanzo è lungo, circa 700 pagine, forse per descrivere quanto il libro racconta si sarebbe potuto tagliare almeno in parte senza nuocere all’impianto complessivo.
Ho trovato (e non ho apprezzato) la quantità di problemi che Demon deve affrontare e che pare tirarsi addosso direttamente, almeno talvolta. Non mi spiego anche come una persona in quella situazione e con il suo spirito non possa afferrare subito le braccia tese per aiutarlo che spesso si vede proporre.
Poco mi sono anche spiegata la leggerezza con la quale Demon affronta quando di peggio gli avviene, benché sia ciò che alla fine lo salva tenendolo in piedi.
Ho trovato alla fine ripetitivo nel susseguirsi di disgrazie la storia che alla fine ha un unico tema e filo conduttore. Tenerlo per 700 pagine senza aggiungere altri elementi è sì, forse un po’ troppo.
Sicuramente le pagine scorrono e si leggono facilmente pur risultando un po’ monotematiche. Alla lunga la storia mi ha un po’ annoiato e la figura del protagonista non mi ha completamente coinvolto e convinto.
Una luce invece sulla figura dell’amico Tommy che è riuscito in quel percorso di uscita dalla disgrazia per forza nella quale l’autore invischia il protagonista.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    16 Settembre, 2024
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Un caso di cronaca nera



Una storia vera questa raccontata da Maria Grazia Calandrone. Si tratta di un fatto di cronaca del 2004: una donna, Luciana Cristallo, sposatasi giovanissima e per scelta con un ragazzo Calabrese, Domenico Bruno, più grande di lei, e divenuta in fretta madre di quattro figli, uccide il marito dopo anni di violenze nel corso di una violenta discussione.
Si erano ormai separati ma ad un ennesimo incontro lei si rende conto che stavolta sarà l'ultima e che l'ormai ex marito intende davvero ucciderla e non lasciarle solo qualche livido. Trova sul tavolo a tentoni un coltello (paradossalmente quello con il quale la madre di Domenico tagliava i fiori) con il quale lo uccide. Con il nuovo compagno butterà il cadavere nel Tevere che restituirà il corpo tempo dopo. Entrambi allora confesseranno spontaneamente.
Luciana Cristallo verrà assolta sia in primo sia in secondo grado perché il fatto non costituisce reato (in pratica per legittima difesa) dopo due gradi di giudizio nei quali, in modo molto toccante, racconterà l'intera storia delle violenze subite sin dall'inizio della sua relazione con Domenico Bruno.
La storia è raccontata in maniera molto ricca di dettagli e di drammaticità e trova le sue fonti dall'intero processo trasmesso in televisione da un giorno in pretura e dai diari stessi della Cristallo.
L'autrice cerca di raccontarci in maniera piena i sentimenti della donna che sentiamo a noi molto vicina. I figli ci sembrano vittime di vicende ben più grandi di loro che verranno anche chiamati a raccontare al processo.
Addentrandosi nel romanzo il lettore si chiederà più volte perché la Cristallo non abbia lasciato il marito molto prima di quando si è decisa: si tratta tuttavia di un meccanismo caratteristico e purtroppo ricorrente nei casi di violenza domestica.
La storia è sicuramente appassionante, benché si sappia già da subito come sono andati i fatti; i personaggi sono ben raccontati.
L'autrice cerca di addentrarsi anche nella personalità di Domenico Bruno a partire dalla sua storia: Domenico è figlio illegittimo del padre notabile in Calabria e nato dalla relazione con una sua domestica visto che la moglie sembra essere non fertile. Il bambino crescerà tra le attenzioni della domestica e di quella che vorrebbe essere sua madre. Alla morte della matrigna il padre di Domenico sposa la domestica potendo quindi adottare finalmente e in modo ufficiale il bambino.
Cresciuto quindi in modo disarmonico, Domenico probabilmente teme l'abbandono in maniera patologica.
La Calandrone non ha alcun atteggiamento di giustificazione per Domenico, pur cercando di andare alla radice del male da lui inferto alla moglie Luciana.
A questo si aggiungono ampie parti del libro che ci raccontano da un punto di vista sociale e politico il periodo dalla fine anni '80, nel quale questa storia nasce e si sviluppa.

La Calandrone sa scrivere, sicuramente. Ha uno sguardo poetico e profondo, come nei suoi lavori precedenti. A mio parere però in questo caso si è lasciata un po' prendere la mano: è tutto troppo, ecco. Il romanzo perde la necessaria scorrevolezza e l'opportuno equilibrio nelle ripetizioni sicuramente ben scritte ma spesso eccessive. Lo sfoggio di bella scrittura non giova alla bellezza complessiva del romanzo.
Allo stesso modo forse la parte dedicata al racconto socio-politico di quegli anni sarebbe potuto essere più breve perché di fatto queste parti ne interrompono lo scorrere.
Dal mio punto di vista ho apprezzato molto di più il romanzo precedente della stessa autrice anche se questo mi ha mosso la curiosità di leggere e guardare i video disponibili sulla vicenda Cristallo.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    19 Luglio, 2024
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La figura paterna

Mio padre non mi parla più. Da questo inciso parte un lungo soliloquio dell'autrice che parla, o meglio immagina di parlare, al padre che da molti anni non le parla più, che ha scelto consapevolmente di renderli due estranei.
A un certo punto dell'esistenza sua e di alcune delle sue sorelle e fratelli il padre Achille ha smesso di parlare ad alcuni di loro. Senza un motivo, senza che fosse successo niente di particolare. Gli altri membri della famiglia si parlano tra di loro, hanno addirittura una chat in comune, e più ancora il figlio di Ilaria parla e vede il nonno per il quale però questa figlia è ormai come se non esistesse. Quanta invidia prova Ilaria per quel figlio che vive una figura, suo padre, che a lei manca così tanto.
Achille evidentemente non soffre per questa figlia persa, ma Ilaria continua a sentirsi figlia di suo padre, e nel corso del libro cercherà di capire da dove sia nata la situazione di silenzio nel quale vivono, perchè a lei quel padre manca tantissimo.
Ilaria è stata avviata alla boxe proprio dal padre che le aveva anzi regalato un bel paio di guantoni. Li ritrova e decide di invitarlo, insieme a parenti, amici e conoscenti, ad un incontro di boxe che possa sancire una ripresa dei rapporti. Si prepara ad un grande evento.
Inutile dire che il padre non solo non risponderà come sempre al messaggio (i suoi messaggi non hanno neanche la spunta della lettura) ma non si presenterà neanche.
Ilaria inizia però ad allenarsi, a preparare tutto meticolosamente e con costanza per quella giornata, manda gli inviti. L'allenamento è puntuale e preciso tra pugni nel vuoto, e immaginari.
E intanto, nel corso della lunga conversazione con se stessa, ripercorre parti della sua infanzia e poi tutto il periodo successivo permeato da questo grandissimo dolore per aver perso un padre. Cerca di capire, di trovare il momento, l'avvenimento, la causa. Ma tutto rimane chiuso nel non capire il perché.
Il romanzo è permeato dal dolore che attraversa l'intera vita di Ilaria a partire da quando Achille non ne ha più fatto parte.
Ho ascoltato questo romanzo nella versione letta da Sabrina Impacciatore che, va detto, renderebbe un capolavoro anche l'elenco del telefono.
Questo per dire che in realtà il romanzo non è riuscito comunque ad entusiasmarmi (chapeau alla Impacciatore che ne ha trovato una chiave interpretativa davvero particolare). Il tema è chiaro, ma è sempre quello e non ha sviluppi, è come se continuasse ad avvolgersi su se stesso senza trovare una via per fare passi in avanti. Lo stile è sicuramente ricercato, ma non basta.
L'argomento è interessante, anche per la scelta di far partire l'analisi da se stessi e della mancanza che si prova, dall'assunto che "il dolore non esiste", ripetuto come un mantra all'interno del romanzo.
Quanto può segnare la mancanza improvvisa di un padre che sceglie di defilarsi dalla sua funzione paterna? Tantissimo, e Ilaria Bernardini ce lo racconta senza veli.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    24 Giugno, 2024
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Un capolavoro

E’ uno dei libri più belli che io abbia mai letto nella mia vita, un’emozione assoluta e un capolavoro indescrivibile. Difficile infatti decidere da quale parte iniziare a raccontare questa meraviglia le cui 700 pagine scorrono tra la voracità del voler continuare a leggere ed il dispiacere perché ne rimane sempre meno. Confesso che non appena chiusa l’ultima pagina ho provato a ricominciarlo da capo. Lo farò sicuramente, però non subito. Si tratta infatti di un libro in grado di parlarci in qualsiasi momento della storia umana ed è bello lasciarlo sedimentare e poi riprenderlo.
Il titolo potrebbe essere fuorviante, può far pensare che la storia qui raccontata sia la storia dei grandi che l’hanno determinata. Fra l’altro il racconto è ambientato in un periodo denso, quello tra la nascita del fascismo fino ai primi anni del dopoguerra. La scelta della Morante è invece diametralmente opposta: la storia, quella vera, è la storia dei piccoli, degli umili, quella di chi subisce vicende molto più grandi senza poterle cambiare. O meglio: la Morante distingue tra la Storia con la maiuscola, riportata di tanto in tanto durante il libro in un corpo più piccolo e che aggiorna brevemente su quanto succede negli anni raccontati: è sostanzialmente una triste cronaca di guerre qua e là nel mondo con tutti i morti che si portano dietro. E poi c’è la storia, la vicenda narrata dal libro, quella delle gente comune che viene appena lambita dalle vicende politiche che sono troppo al di sopra di loro se non per i danni che la Storia con la maiuscola provoca.
Ecco quindi che la vicenda è quello di una madre, oscura insegnante elementare di origine ebrea, Ida, rimasta vedova con un figlio, Nino, bulletto di periferia, e che a causa della violenza subita da parte di un soldato tedesco rimane incinta di un secondo figlio, Giuseppe, di fatto sempre chiamato Useppe con la sua stessa pronuncia infantile e fatto nascere con l’aiuto di una levatrice ebrea nel ghetto. Non sono molti altri i personaggi che ruotano attorno a questa famiglia. Il principale è sicuramente Davide Segre, di famiglia borghese scappato fortunosamente alla fucilazione in quanto evreo: un altro emblema di figura umile e debole che esprime compiutamente il pensiero della Morante, ne è il primo portavoce all’interno del libro.
Ida è premurosa e protettiva verso i figli, attenta ai bisogni primari, così difficili da soddisfare in tempo di guerra, fa di tutto per riuscire a sfamare i figli anche quando la fame è stata sofferta da tutti o quasi in Italia, soffre in silenzio per la paura per se stessa e la sua famiglia e per quel che vede succedere intorno. Così come soffrirà per le scelte del figlio maggiore.
Nino lascia presto la scuola, è un ragazzo sempre allegro e decisamente scapestrato che passa dalle fila dei giovani fascisti a quelle della resistenza (con lo pseudonimo di Assodicuori) per dedicarsi poi ad attività illecite come il contrabbando.
Useppe è un bambino che rimane nel cuore: piccolo e delicato, due enormi occhi azzurri in un corpicino che fatica a crescere. L’epilessia di cui è affetto, che si manifesta dopo i primissimi anni, all’epoca fa paura, il suo sorriso aperto e cordiale è sempre pronto a cedere il passo ad una rabbia inspiegabile. Useppe è uno dei più bei bambini mai raccontati nella letteratura.
Poi ci sono gli animali: i cani, prima Blitz, rimasto sotto le macerie della casa di famiglia e poi Bella che diviene amica indivisibile di Useppe e che è umanizzata all’estremo. Ma il racconto è popolato di animali descritti tutti con attenzione: gatti, canarini, cicale, un coniglio e persino un criceto, tutti funzionali alla storia.
Ida, Nino e Useppe (aggiungerei anche il cane Bella, che seguirà il destino della famiglia), Davide, sono personaggi splendidi che rappresentano l’umanità intera e portano il peso del male che pure non hanno commesso. Ida ha vissuto la fame, la paura, l’essere sfollata, la povertà estrema, il dolore. Useppe apparentemente ha vissuto tutto come un gioco, ma porta su di sé le cicatrici degli abbandoni e di ciò che ha solo intravisto sulle copertine dei giornali in edicola.
Arrivati alla fine della guerra e alla liberazione la storia apparentemente si ferma, quasi a voler riannodare tutti i fili del racconto attraverso, soprattutto, il lunghissimo soliloquio di Davide Segre, che mai come in questa parte rende il libro una dichiarazione di pensiero sul potere ed i suoi mali, sul dolore, sugli errori del mondo. Qualcuno potrebbe ritenere questa parte troppo lunga: io l’ho trovata splendida per il dolore e la rabbia che riesce ad esprimere e che lascia nel lettore.
Una piccola storia, in fondo, ma che è stata la storia di tutti. E’ un libro sul dolore dell’uomo che vuole parlare a tutti, anche agli analfabeti, come recita l’incipit della Morante. E la scelta stilistica è molto precisa. La Morante ha un passo narrativo da grande romanziera: non c’è fretta nel racconto, c’è respiro, c’è l’andamento di chi sa come raccontare.
La Storia è un libro che non si dimentica, che arriva all’anima illuminandola e che andrebbe letto almeno una volta nella vita. E’ un romanzo immortale, ed Elsa Morante una scrittrice grandissima che non ringrazieremo mai abbastanza per averci regalato questo meraviglioso interrogativo con la risposta al suo interno alla storia dei grandi che è il suo romanzo. E’ un saggio in forma di romanzo, perché i personaggi si muovono nell’unico modo possibile, quello che risponde al pensiero dell’autrice, come molti grandi romanzi di scrittori con forte personalità e convinzioni.
Chi non lo ha ancora fatto legga La Storia: regalatevi almeno una volta nella vita tanta bellezza.

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L'isola di Arturo
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Gialli, Thriller, Horror
 
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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    14 Giugno, 2024
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Un thriller senza tensione

Una vera delusione questo thriller di Joel Dicker. Ne avevo letto come di una storia mozzafiato e almeno il thriller me lo aspettavo. Invece è una storiella anche piuttosto scontata e senza alcuna tensione narrativa.
La storia si svolge a Ginevra con parti a Saint Tropez. Due coppie protagoniste. Una conduce una vita più agiata ed è formata da Sophie, avvocato, e da suo marito Arpad Braun, che lavora nella finanza di una importante banca e che, all’insaputa della moglie (ma il segreto durerà poco) è rimasto senza lavoro da sei mesi. Vivono in una ricca villa nel bosco, la cosiddetta “casa di vetro” perché ha le pareti trasparenti. Hanno due figli e i genitori di lei vivono a Saint Tropez. All’apparenza la famiglia perfetta.
Poi, ad un gradino più basso della scala sociale ci sono Greg e Karine, lei commessa in un negozio e lui poliziotto della squadra speciale ossessionato da Sophie che spia attraverso le pareti della villa portando il cane nel bosco. Anche loro con due figli, vivono nel cosiddetto “obbrobrio”, case più popolari della casa di vetro. Le due famiglie sono amiche, le mogli in particolare.
Spunta però un personaggio che ha fatto parte della vita passata prima di Arpad e poi anche di Sophie e un po’ alla volta il passato tornerà alla luce fino a diventare presente, portando sconquasso nella loro famiglia e di riflesso in quella di Greg, che si convince a indagare su di Arpad convinto che stia per commettere una grossa rapina insieme proprio a Fauve.
Alla fine il gioco si riduce ad un terzetto che comunque lo si combini non è inaspettato. Anzi diviene via via più scontato.
Il romanzo è un continuo avanti e indietro tra il giorno della rapina, che quindi sappiamo da subito che avverrà, e un passato vicino o remoto, con tutte le possibili distanze temporali dal giorno della rapina. Non è difficile seguire la trama però i continui flashback diventano presto fastidiosi.
Non c’è un personaggio di questa storia che sia credibile, a partire da Sophie, che si è tatuata una pantera che dovrebbe rappresentarne il carattere e che della pantera non ha proprio niente. Arpad risulta incomprensibile con il suo segreto che in una famiglia come la sua non ha ragion d’essere.
Greg è ugualmente un personaggio senza spessore: la sua ossessione per Sophie si dissolve ben presto spazzata via dall’idea che Arpad stia per commettere una rapina. Il suo spiegamento di forze in autonomia per indagare da solo senza senso. I personaggi sono tutti piatti e ben lontani dalla tridimensionalità.
La storia non ha nulla del thriller. Non c’è tensione, che non solo non viene costruita durante il romanzo ma non arriva neanche alla fine, quando si arriva finalmente alla presunta rapina. Le incongruenze ci sono, le assurdità altrettanto. E’ tutto decisamente poco credibile e coinvolgente.
Altrettanto senza senso è il finale della coppia di Greg e Karine, che non anticipo ma che davvero si fatica non a capire ma almeno a giustificare.
La vicenda non lascia nulla, neanche la piacevolezza di una scrittura ricca. Mi sono trovata spesso ad anticipare nella testa le parole che avrei trovato sulla carta poco dopo.
Se si cerca un libro mozzafiato è meglio guardare altrove.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    28 Mag, 2024
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Un amore distruttivo

“Sono Tollak di Ingeborg. Appartengo al passato”

Tollak è un uomo ormai anziano, vedovo (la moglie Ingeborg è sparita nel bosco molti anni prima e mai più tornata), i figli Hillevi e Jan Vidar non lo amano e vivono ormai lontano, in città, quasi senza contatti con il padre. Tollak vive in un certo modo da eremita insieme a Oddo, un ragazzo con un ritardo cognitivo, da tutti considerato “lo scemo del paese” che ha accolto in casa sin da quando era bambino perché la famiglia originaria non poteva mantenerlo. Lo ha praticamente adottato e fatto crescere con i suoi figli che hanno sempre faticato a capire questa scelta paterna.
Nonostante il forte desiderio di Ingeborg di trasferirsi in città Tollak, che ha rilevato una fattoria e una segheria che non fa buoni affari pur di rimanere a vivere ai margini del bosco, si rifiuta categoricamente di abbandonare la sua casa e la sua vita. E nulla riesce a farlo desistere da questa scelta.
Il romanzo è un lungo soliloquio di Tollak, in primo luogo, con la moglie Ingeborg, amatissima, dai bei lineamenti dolci, e che ha sempre ricambiato il suo amore. Ma Tollak parla anche con se stesso e con le persone via via venute in contatto con lui per le necessità della vita.

“È con lei che parlo.
Le parlo più adesso di quanto non abbia mai fatto prima. Giro per la casa, in cortile, per i boschi e parlo con Ingeborg.”

Tollak è un uomo pieno di rabbia e di rancore, furioso con se stesso e con il mondo. Sembra non avere pace nella sua furia cieca e non trovare requie mai e in nessun luogo salvo nell’alcol.
Dopo la diagnosi di cancro decide di convocare i figli e di spiegare loro cosa è realmente successo nel loro passato, tutto quanto loro non sanno e che pensa che debbano finalmente venire a sapere. Ha bisogno di condividere alla fine i suoi segreti, le terribili verità che ha sempre tenuto nascoste.
Tollak nel corso del romanzo ci ricorda momenti di vita familiare passata: i figli bambini, tante scene di quotidianità con la moglie. Si avverte che in fondo ha amato tutti benché in modo decisamente distruttivo. Un amore scuro e profondo come la notte.
Il libro è però anche una lunga storia d’amore. Una storia triste e malinconica che riesce a trascinare il lettore nelle spire dei contorti pensieri di Tollak, nella sua linga confessione: è un uomo che non è mai riuscito ad accettare i progressi ed i passi avanti del mondo rimanendo ancorato ad una vita fuori da tutto, a lavorare in una segheria che non gli dà più lavoro, mentre la moglie ed i figli tendevano ad una vita al passo con i tempi. Lui considera invece corrotto tutto ciò che è contemporaneo, che è diverso dal suo mondo. Per questo non approva i desideri della moglie così come quelli dei figli lo lasceranno infatti solo, oltre la “prigione” nella quale lui li avrebbe voluti confinati. E gli daranno in cambio un forte carico di rancore e incomprensioni.
E’ un romanzo triste questo, senza scampo e senza pietà. E’ la parabola di un uomo che non ha mai saputo godere di tutto quanto la vita gli ha offerto e che ha, anzi distrutto con caparbia volontà.

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Baumgartner, di Paul Auster
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Romanzi storici
 
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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    13 Mag, 2024
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Un personaggio che non si dimentica

– Com’è che non piange? – chiedeva la sera mio padre.
– Piangerà. Le donne prima o poi piangono tutte.

Attratta da un post che lo definiva un romanzo potente l’ho acquistato e, data la trama, ho scelto di iniziare a leggerlo il 25 aprile. Ne sono rimasta affascinata. Talvolta ci si imbatte nella vera letteratura, e questo è il caso.
Il motore che tutto muove è la violenza da una parte, nelle sua tante e diverse forme, e dall’altra l’estrema fragilità che però nasconde la forza della giustizia. A dare plastica dimostrazione è il periodo storico scelto, il fascismo.
Protagoniste assolute, bellissima decisione, due donne, Redenta e Iris. L’ambientazione è Castrocaro, tanto cara all’autrice che ne ripercorre i luoghi con una attenta ricostruzione storica.
La prima e indimenticabile protagonista del romanzo, Redenta, nasce esattamente nel giorno del delitto Matteotti dopo che i fratelli maschi nati prima di lei sono mancati tutti più o meno al momento del parto. Redenta trascorre parte della sua infanzia dalla nonna Fafina (altro bellissimo personaggio di incredibile forza) perché la madre passa alcuni anni in carcere per aver ferito il marito che la tradiva. Dalla nonna, che accoglie bambini orfani, conosce Bruno, ragazzino magro e intelligentissimo e del quale diviene amica sin da piccola. I due sono inseparabili. Redenta inizia a parlare tardi perché ritiene che se non si ha niente da dire sia meglio starsene zitti, si prende la poliomelite che la lascerà storpia. In questo Bruno cercherà di aiutarla a non fermarsi nell’autocompatimento ma a fare tutto ciò che può per migliorare.
La madre ed il paese tutto sostengono sin da quando è nata che ha la “scarogna”. Eppure è una bella ragazza, molto intelligente, e continuerà a subire il fascino di Bruno.
Nel frattempo il fascismo assume sempre più vigore anche se Redenta non si occupa di politica e aderisce come molti all’inizio, suo padre compreso, a questo nuovo movimento che sembra promettere solo una vita migliore per tutti.
Bruno scompare e ricompare e in un’occasione per non essere scoperto nella sua attività clandestina ottiene l’aiuto di Redenta che ne esce però “disonorata” con grande disperazione della madre che teme di non poterla più accasare. Le sorelle di Redenta, Marianna e Vittoria prenderanno strade diverse, comunque interessanti e ben narrate, tutte da donne forti.
La storia passa attraverso il terribile matrimonio di Redenta con Vetro, milite fascista sanguinario e che la tormenterà sempre nella violenza considerandola una beota al suo obbediente silenzio.
Nel frattempo il romanzo racconta la vita di Iris, figlia di una maestra arrivata in un paesino dove nessuno sa leggere e scrivere. La maestra apre una piccolissima scuola e grazie all’aiuto di quello che diventerà suo marito e del paese intero insegnerà a moltissimi ciò che servirà loro per migliorarsi. Iris appena possibile aiuterà la madre a scuola fino a che verrà spinta a lasciare il paese per trasferirsi a Forlì dove potrà farsi strada. Inizia andando a servizio in una famiglia.
In breve Iris scopre che i suoi datori di lavoro sono oppositori al regime fascista, e diventerà subito parte attiva delle loro iniziative, spinta anche da un ragazzo come lei lavoratore in quella casa che già ne fa parte, Diaz, che diventerà poi capo della brigata armata omonima.
Le due storie ovviamente, quella di Redenta e quella di Iris, si intersecheranno in una storia via via più drammatica e che lascia un profondo segno nel lettore.

“Muori come ti pare, ma non per mano sua”

La forza interiore di Redenta, la grandezza del suo personaggio, pur nella sua tranquilla sottomissione, ha dell’incredibile.
La trama è complessa ma chiarissima, succede molto in questo romanzo. Anche i piccoli gesti sono parte della vicenda intera.
La scrittura mescola italiano a qualche raro termine dialettale che nulla toglie alla comprensione del testo. Il periodo storico che fa da sfondo alla storia è disegnato benissimo, con i giusti tempi e tratteggi.
Il personaggio di Redenta, di sua madre, di Bruno, di Iris così come degli altri è ricco di sfaccettature e ben fatto. Confesso che Redenta mi è rimasta dentro, un personaggio da quale è difficile staccarsi.
Lo sfondo storico non è un accessorio ma parte integrante della vicenda che è mossa proprio da quanto sta avvenendo. Una bellissima interazione.
La storia scorre velocemente, non ci sono momenti di noia o di rallentamento, il climax della seconda parte è notevole. Il bilanciamento tra gli elementi è perfetto, la storia non è mai scontata. Il sostegno delle donne fra di loro e la potenza che, seppur per strade diverse, viene tratteggiata, è un bell’ingrediente aggiuntivo. Lo sguardo sincero e disincantato su quanto avviene con al Resistenza è da apprezzare.
Un bellissimo quadro, senza sbavature, una storia bene in vista e ben narrata. Non avevo mai letto nulla di questa autrice, quindi una graditissima sorpresa.
Lo consiglio a chi ama la vera letteratura, tanto rara da trovare oggi.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    02 Mag, 2024
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La vita dopo la colpa

“Ci sono buchi che non puoi riempire. Che resteranno lì per sempre, neri e profondi. Però, se vorrai, potrai costruirci una vita intorno.”

“Il male che subisci è molto meglio di quello che fai. Dal male che fai non c’è via d’uscita.”

Due solitudini, due desideri di annullarsi e scappare dal mondo anche se per motivi diversi, si incontrano, si trovano e vivono in modo disperato uno scampolo d’amore che sentono loro concesso. Il resto della trama è facilmente prevedibile, lo schema è semplicissimo e già molto visto.
Emilia e Bruno, l’una scappata dalla vita “normale” per un delitto commesso in gioventù dopo aver pagato i conti con la giustizia e una lunga permanenza nel carcere minorile, l’altro sopravvissuto ad un passato che lo fa sentire in colpa pur nell’innocenza, si trovano in un microscopico borgo piemontese, Sassaia, del quale sono gli unici abitanti insieme all’anziano Basilio.
Il loro desiderio è sparire, pur mantenendo un piccolo desiderio di rinascita che li aiuta a trovarsi su questo minimo comun denominatore.
Emilia ha il padre che le è sempre rimasto vicino nel dolore e che vorrebbe una vita nuova per la figlia: la sprona, la aiuta, la supporta e la comprende.
Bruno è il maestro del paese vicino. E’ completamente solo ed è dirimpettaio di Emilia a Sassaia.
Emilia e Bruno vivono una intensissima storia d’amore che fugge dalle spiegazioni che sono vietate tra i due, come se il loro passato non esistesse, soprattutto per Emilia. Alla fine Bruno cede e si racconta. Ma chi è davvero Emilia?
Lei non è pronta, troppo forte la paura di perderlo di fronte ad una verità terribile per la quale non si è probabilmente mai perdonata e che sente la segnerà per sempre. Eppure il padre, Riccardo, cerca di convincerla che la verità non va nascosta, e che occorre onestà per costruire un rapporto solido. Il debito è stato pagato, e occorre saper guardare avanti. Ma Emilia non riesce, troppo forti i fantasmi del passato.
Quello dei protagonisti però, di Emilia in particolare, è uno scappare dal passato che non ha lo scopo di ricostruirsi, ma ha l’obiettivo di nascondersi per negare se stessi. Serve davvero, ha un senso?
Ini questa avventura Emilia è aiutata da Marta, amica conosciuta in carcere, che la accoglierà quando Bruno, una volta scoperta la sua storia, la caccerà in malo modo. Le insegnerà che non bisogna vergognarsi del proprio passato.
Il romanzo alterna la prima persona di Emilia a quella di Bruno, parti della vicenda a lunghi stralci della vita in carcere di Emilia e del suo rapporto con la direttrice e con l’educatrice.
Il libro è sicuramente avvincente in alcune parti, seppure non in modo omogeneo, in particolare le parti nelle quelli racconta in passato ristagnano un po’. Ma la trama è scontata, piena di stereotipi e di luoghi comuni. Ne sono due esempi lampanti la storia (felicità, rottura, ritorno) e il personaggio di Emilia che risulta davvero molto, ma molto stereotipato, ed è un peccato. Ma davvero una ragazza che ha un delitto sul suo passato deve essere raffigurata come una macchietta? Davvero non era possibile un personaggio diverso? E poi perché mai Emilia, solo per il suo passato, deve parlare in quel modo, quasi da ritardata? Non esiste davvero una diversa possibilità di rappresentazione di un personaggio che potrebbe invece essere molto sfaccettato e ricco?
E poi il vecchio Basilio, il saggio ovviamente, Bruno con la lunga barba che, ovviamente, si taglierà quando si sentirà meglio. E’ davvero tutto in questi particolari il negare se stessi?
E ancora Marta, la migliore amica di Emilia, e la direttrice del carcere, che si spende tanto per far studiare le ragazze e, ovviamente, si commuoverà al rivederle libere. Tutto è scontato, ovvio, senza un guizzo di originalità.
E’ ben triste che si pensi al mondo del carcere solo in questo modo, soprattutto in un romanzo.
Il tema è importante e poteva essere trattato con una ben diversa profondità anziché scadere nei più vetusti cliché. Non c’è un personaggio che non risulti banale macchietta di se stesso, che non aiuti il lettore a fare un passo in più.
Possibile infine che non si pensi a nessuna diversa alternativa di redenzione se non quella delle solitudini che sole riescono ad unirsi?
Un vero peccato, un messaggio, quello che si fa passare, che davvero non pensavamo, oggi, di dover più sentire.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    30 Aprile, 2024
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Una storia di famiglia

Ho iniziato questo romanzo attratta dalla valutazione quasi a cinque stelle dei lettori che ho trovato online. La vicenda è autobiografica, non c’è nulla da svelare perché è tutto già detto dall’inizio, e racconta la storia del padre dell’autrice e del loro rapporto da lei ricostruita poco alla volta con il racconto. In una storia del genere il senso sta proprio nel come racconti il rapporto e i sentimenti. Ma partiamo dalla vicenda.
Il legame padre figlia in famiglia è sempre stato molto forte, talvolta quasi al punto da escludere la madre, donna concreta e pragmatica.
Arianna adora il padre già da bambina e continua ad adorarlo anche da adolescente pur non capendo tutto di lui e non riuscendo a dare un nome a ciò che sembra divorarlo un po’ alla volta, al suo strano disinteresse sempre più marcato per il mondo, inteso come lavoro, famiglia, affetti e all’alcol che diviene sempre più presente nella vita del padre. Arianna non si rende conto, al contrario della madre, che che la quantità di alcol è decisamente troppa al punto da fare di lui un vero alcolizzato. Ma nessuna delle due ha le armi per fermarlo.
La storia inframmezza il racconto dell’infanzia di Arianna, soffermandosi anche sulle figure dei nonni materni e paterni, spiega al lettore come i genitori si sono conosciuti, amati e infine sposati. La madre manterrà sempre il suo carattere semplice ma pratico, e la parabola tra i due è inversa: tanto più la madre dimostrerà il suo attaccamento alla vita tanto il padre renderà sempre più presente in famiglia la sua perenne insoddisfazione per tutto e il suo allontanamento.
Il racconto passa poi a raccontare l’adolescenza della protagonista, che all’epoca si vedeva grassoccia, e il suo conseguente sforzo per dimagrire che l’ha portata ai limiti dell’anoressia.
Nel frattempo il rapporto tra i genitori si deteriora fino a giungere ad una separazione che tuttavia rientrerà ben presto.
Il fisico del padre di Arianna, forte fumatore oltre che bevitore, inizia però a risentire dello stile di vita portandolo a diversi ricoveri in ospedale fino a che si manifesterà il tumore ai polmoni. Non è possibile naturalmente opporsi a certe malattie, di sicuro però una diminuzione di alcol e fumo avrebbe potuto minare meno il fisico. Pare però che al padre di Arianna nulla interessi, neanche rimanere in vita. Sembra invece cercare a tutti i costi la morte.
Arianna all’inizio nega anche con se stessa la malattia del padre, quasi che a non nominarla non esista nel tentativo di non rovinare la sua giovinezza che vuole vivere a tutti i costi in modo sereno fino a che la finzione non sarà più possibile.
Non ho apprezzato particolarmente questo romanzo che non centra lo scopo che si prefigge. La parabola affettiva non è ben delineata e rimane in superficie, affidata alle poche parole che la descrivono senza riuscire a passare sotto lo strato esterno, senza far entrare il lettore dove i sentimenti abitano.
I rapporti umani tra le persone sono freddi e impersonali: lo sono stati davvero o c’è un deficit descrittivo?
La figura del padre, che sarebbe potuta essere più sfaccettata e cardine della storia, rimane anch’essa un po’ sullo sfondo. Cosa c’è in primo piano? Non sono in grado di dirlo. Forse nulla.
E’ una vicenda di famiglia questo “Parole nascoste”, che forse nasce da una comprensibile necessità umana della scrittrice che però lì si arresta non riuscendo a coinvolgere il lettore in una vicenda che, alla fine, non sente.
La struttura narrativa, fra l’altro, ha qualche illogicità, come l’investire sulla descrizione di nonni che non ha alcun impatto sulla storia nè, vorrei dire, particolare interesse.
Il linguaggio è semplice, senza fronzoli e non trasmette altro che non sia il racconto puro e semplice e nulla lascia al lettore salvo la comprensione della storia. Per la quale rimane il mio profondo rispetto ma che non mi sembra diversa da tante altre simili che probabilmente in molti sono costretti a vivere e che mai arriveranno sulla carta.
Mi dispiace sempre dover dire che mi sono pentita dei soldi spesi per l’acquisto, questo è però sicuramente uno dei casi.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    29 Aprile, 2024
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Novità dalla letteratura moldava

“Io, senza dubbio, stavo dalla parte delle cose, e non delle persone di quel mercatino. Anche io, come loro, ero sempre stato di troppo, mai necessario, il triste risultato di una trattativa momentanea e la brutta copia ingiallita di quel che, un giorno, sarebbe stato il Figlio. Quello normale, capace, degno, bianco e rubicondo come un uovo di Pasqua. […] Né amato, né desiderato né da buttare: una specie di lampada a forma di tulipano in una casa di ciechi”.

“Gli occhi di mia madre piangevano da dentro. “

“Gli occhi di mia madre erano le storie che non mi aveva mai raccontato. “

“Gli occhi di mia madre erano cicatrici sulla faccia dell’estate. “


Aleksy è giovane ed un vissuto familiare difficile. La sorella Mika, adorata da tutti in famiglia, è morta ancora bambina lasciando lui nel dolore e portando il padre a lasciare la moglie per un’altra donna. La madre, completamente annichilita dal dolore si è chiusa in sé stessa per diversi mesi nei quali ha completamente ignorato l’altro figlio ridotto a mendicare brandelli di affetto che non sono arrivati. I disturbi psichiatrici che Aleksy ha poi manifestato con fortissime crisi di rabbia distruttiva lo hanno portato in un istituto per malati di mente.
Una volta uscito, odia la madre dal più profondo di sé stesso: non riesce a trovare nulla di positivo o di bello nella donna che lo ha partorito.
Fino a che la madre, facendo leva sulla promessa di regalargli un’auto, riesce a portare il figlio con sé in una vacanza di tre mesi in un villaggio nelle campagne francesi durante i quali gli chiederà perdono e gli confesserà di avere un cancro e ancora poco tempo da vivere.
Aleksy all’inizio odia quella vacanza che lo ha costretto a rinunciare all’altra che aveva in programma con gli amici, ma il regalo promesso lo tiene ancorato al villaggio.
A seguito della confessione della madre inizia però a guardarla con occhi progressivamente nuovi, finalmente positivi, a partire dai suoi splendidi occhi verdi. Osserva il suo continuare a pensare al futuro, nonostante la consapevolezza che quel futuro per lei non ci sarà. Il dialogo che per così tanto tempo è mancato finalmente si apre mano a mano, la vita lentamente inizia a fluire e Aleksy si sente responsabile di sua madre, i ruoli in qualche modo si invertono.
Quanto tempo hanno perso madre e figlio prima di ritrovarsi, quanta vita mancata per volontà di entrambi.
Ma gli ultimi mesi costituiscono uno spiraglio di luce in un rapporto che troverà la sua pienezza nel poco tempo rimasto per viverlo.
Lo stile del romanzo segue gli avvenimenti. All’inizio durissimo e senza scampo per il lettore, dominato dall’odio di Aleksy per la madre, diviene pagina dopo pagina più riflessivo, delicato e introspettivo. Il passaggio è estremamente graduale e va di pari passo con il desiderio di Aleksy di curarsi per poter essere di aiuto e di supporto alla madre.
Quell’estate rimarrà poi come un segno indelebile sulla vita di Aleksy.
Il romanzo della scrittrice moldava è gradevole, fatico però a capire l’entusiasmo con il quale da alcuni è stato accolto. La storia è molto esile, lo stile non indimenticabile.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    29 Aprile, 2024
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Una donna che odia il mondo

«la volontà di porsi sempre in maniera contraria a quella di qualsiasi interlocutore reale o immaginario, e se proprio non c’è nessuno che si oppone è lei a contraddirsi da sola, per non essere d’accordo neanche con se stessa»
«il qualunquismo, il razzismo, il classismo, l’egoismo, l’opportunismo, il trasformismo, la mezza cultura peggiore dell’ignoranza, il rancore…»

Il romanzo è autobiografico, l’autore ci parla di sua madre, donna che odia il mondo e che non sopporta gli altri, che ha un carattere davvero impossibile e da lui detestata al punto da trasferirsi da Napoli a Milano già a 19 anni pur di allontanarsene: cambiare città voleva dire stabilire anche una distanza fisica oltre che emotiva da colei che l’ha generato.
Ma da dove nasce l’odio che questa donna si porta dentro? Quali radici ancestrali ha? Forse in una malintesa cultura meridionale? L’autore cerca di scavare nella vita sua e della madre per andarle a cercare queste radici.

“Benché da molti sia considerata una bella donna, mia madre puzza”

Già questa frase è spiazzante considerando che normalmente la madre è sempre adorata dai figli.
Dopo un’infanzia difficile Angela, originaria di Benevento e che pure in età giovanile era riuscita a coltivare qualche amicizia come qualsiasi ragazza, si sposa ed è come se con questo passaggio chiudesse irrimediabilmente con un passato più o meno normale dal punto di vista affettivo per passare ad un’età adulta che non prevede rapporti di amicizia o di stima con nessuno. O, per meglio dire, non prevede proprio rapporti.
Sposa un uomo più anziano di lei e che è il suo opposto: riservato ed educato, scorrerà silenziosamente per tutta la sua vita accanto alla moglie e, forse, la amerà davvero.
Il pessimismo è lo stile di vita di Angela e si accompagna ad un profondo disprezzo per qualsiasi altro essere umano, anche il più normale. Insulta tutti, seguendo in questo l’insegnamento di sua madre con la quale infatti ha vissuto una vita di scontri.
Nulla piace ad Angela, di nessuno ha stima, neanche dei figli. Non sopporta i vicini di casa, non apprezza nulla, maltratta chiunque. Urla, strepita, offende.
Tra i figli due rifiuteranno le sue intromissioni, la terza, più timida e riservata, la lascerà fare ed Angela si approprierà della sua vita decidendo tutto per lei. Diventata grande alla fine questa figlia avrà un rigetto per la madre con la quale taglierà i ponti lasciando anche il lavoro che la madre le aveva creato.
L’autore si trasferisce a Milano dove creerà la sua carriera professionale ma sarà costretto ad accogliere la madre ormai anziana nell’appartamento accanto al suo accudendola insieme alla sorella.
L’età non ha addolcito Angela, che è rimasta tale e quale. L’autore e la famiglia saranno costretti ad uscire di casa passando dalle cantine per evitare di essere visti e colpiti dai suoi strali. Prigionieri in casa propria.
Molti sono i personaggi del libro, ma al centro c’è sempre lei Angela, che svetta su tutti e si prende il centro della scena.
Il romanzo è stata una gradevole sorpresa, ben scritto e ben costruito, il personaggio di Angela sicuramente notevole. Non vuole raccontare vicende mirabolanti ma la cruda storia di una donna qualunque che ha odiato il mondo rovinando la vita a se stessa e agli altri. Metterlo su carta non era semplice: l’autore c’è riuscito regalandoci un romanzo che si legge senza rimpianti. Non indimenticabile, non un capolavoro ma sicuramente piacevole.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    09 Aprile, 2024
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Verità è finzione

“Come avevamo fatto ad arrivare al punto in cui ciò che volevamo dirci fluttuava nelle pause che dominavano la conversazione?”

Valeva la pena aspettare 13 anni per avere un nuovo romanzo da Bret Easton Ellis dopo il suo capolavoro, American Psycho! Anticipo subito che a me questo “Le schegge” è piaciuto moltissimo.
Il romanzo, di mole consistente (oltre 700 pagine) è un thriller psicologico che si potrebbe definire di autofiction. Difficile dire dove una sconfini nell’altra. Siamo in uno dei più rinomati licei di LA, la Buckley School, nell’autunno del 1981. Protagonista Bret e un gruppo diciassettenni studenti che tra una festa, un film, tanti alcolici, droga a fiumi e amori promiscui ma nascosti inizia a scoprire e a riconoscere impulsi omosessuali e a farci i conti nella vita dell’epoca. L’ambiente è molto ricco, impregnato da un forte senso di noia, i passatempi costosi, le case sono ville con piscina e servitù, i soldi e le auto di lusso sono la normalità. L’inutilità del vivere sempre in sottofondo insieme ad una narrazione diversa da parte di ciascuno. Ognuno fa la sua, non ci sono rapporti veri. Lo stesso Bret ad un certo punto impone a se stesso una diversa narrazione, comunque falsa. Tutto è vero e tutto è falso. La storia e i rapporti tra i ragazzi sono un gigantesco castello di carte pronto a crollare non appena il sottile filo di finzione che li tiene insieme cederà.

“La giornata diventava semplice una volta che fingevi, anzi, diventava più vera grazie al fatto che avevi cambiato atteggiamento; la recitazione diventava la realtà e influenzava ogni cosa in un modo che sembrava positivo. In effetti, era preferibile alla realtà.”

I protagonisti sono molto amici e vivono insieme la vita scolastica ed il tempo libero con molto in comune, sinceri solo all’apparenza. Falso è infatti il racconto che ciascuno fa all’altro e forse anche a se stesso. Questa sovranarrazione è molto bella e rende speciale l’atmosfera del romanzo. Tutto è narrato con estrema chiarezza, le scene di sesso non lasciano nulla all’immaginazione (proprio nulla), eppure è realmente la verità quella che scorre nelle pagine?
La storia procede, i fatti avvengono, ma non spostano di uno spillo l’immobilità del tutto. E la descrizione dello sfondo, che sfondo che tale non è, passa in primo piano, con la stessa importanza dei fatti. Ed è fatta benissimo.
La notizia all’inizio è che sta per arrivare in classe un nuovo compagno, Robert Mallory. La cosa passa sottotono, non desta interesse particolare nel piccolo gruppo di amici del quale Bret fa parte (due coppie, Bret e Debbie, Susan e Tom e alcuni altri compagni che gli girano intorno). Si pensa addirittura di organizzargli una festa di benvenuto.
Inizia poi a sparire una ragazza, non fa però parte del gruppo e non ci si fa troppo caso. I dettagli, macabri e terribili, vengono tenuti riservati dalla polizia che sta indagando. L’assassino viene soprannominato “il pescatore a strascico”.
Nel frattempo il protagonista, Bret, inizia a sentirsi a disagio e disturbato dal nuovo compagno che pare inseguirlo e controllarlo fino a crearsene una vera paranoia. E mentre Bret vive in modo nascosto la propria omosessualità, dissimulandola grazie al suo presentarsi al mondo con Debbie, Robert Mallory sembra volerlo ostacolare anche in questo percorso con gli amici. Bret inizia a supporre che quanto racconta Robert in merito al suo passato non sia vero e che anzi nasconda molto che non racconta, anche del presente, al punto da averne quasi paura.
Poi scompare un compagno, Matt, con il quale Bret aveva avuto una storia sentimentale e sessuale. Viene ritrovato cadavere in condizioni orrende. Bret ritrova dettagli, indizi, e tutti e tutto porta a Robert Mallory. Nulla però inchioda definitivamente Robert, e il mondo legge supposizioni di Bret come un’ossessione. Robert infatti per il resto del mondo è un bravo ragazzo di bell’aspetto, gentile ed educato.
Bret inizia ad avere seriamente paura e al contempo impone a sé stesso di ritornare felice, entusiasta, senza alcun sospetto.
La storia è una continua raccolta di indizi: tutto porta a Robert e Bret ne è sempre più convinto anche se i suoi amici considerano follia la sua ipotesi e temono per la sua sanità mentale.
Come sempre però in questo genere di romanzi, nulla è vero di ciò che sembra. Ma quale è alla fine davvero la verità?
In alcune scene l’autore riesce a creare una tensione narrativa notevole e anche quando si rientra nella “normalità” la tensione che pervade il romanzo non cede. Il lettore si immedesima in Bret, si sente Bret, si convince con lui, legge gli indizi allo stesso modo.
Alcuni lettori hanno criticato l’eccessiva lunghezza del romanzo. Poteva “Le schegge” essere più breve senza perdere forza narrativa? Forse sì, forse una sforbiciata di 200 pagine non avrebbe penalizzato il romanzo lasciandone intatte le caratteristiche. Però la storia non pesa mai, anzi scorre e affascina esattamente così com’è, in perfetto equilibrio e tensione narrativa. Il lettore si immerge in un mondo tanto normale quando distopico, tanto tranquillo quanto pauroso, tanto vero quanto falso, dove si perdono i riferimenti tra normalità e ciò che non lo è.
Bello questo “Le schegge”, davvero molto bello e consigliato.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    26 Febbraio, 2024
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È possibile rinnegare se stessi?

Può una donna essere costretta a rinnegare se stessa, le proprie origini, la propria religione, il suo aspetto fino al suo stesso nome? A questa domanda cerca di dare risposta soprattutto la storia della prima delle tre donne protagoniste di Ti rubo la Vita.
Nel 1936 Miriam, donna araba sposata con Ibrahim e con una figlia piccola, Yasmin, si trova ad assistere al massacro dei padroni di casa, ebrei, uccisi brutalmente nel cortile della loro stessa casa insieme alla figlioletta, più o meno della stessa età di Yasmin. Superato lo sgomento iniziale Ibrahim, che ha alle spalle una storia di fallimenti professionali e che aveva in essere un contratto di acquisto merci con il mercante ebreo Azoulay matura la decisione di assumere l’identità dell’ebreo, di fingere adesione alla religione ebraica e di trasformarsi anche nell’abbigliamento e nell’aspetto al mercante ucciso. Tutto questo deve però avvenire anche da parte della moglie. Miriam però non vuole rinnegare se stessa e cercherà di opporsi per quanto le è possibile a questa trasformazione. Alla fine non riuscirà a sopportare il peso della negazione di sé stessa mentre la figlia crescerà senza ricordare chi è stata.

La seconda delle tre donne di cui il libro narra è Giuditta, ebrea originaria di Ancona che si trova a vivere nel periodo di inizio della dittatura fascista. Espulsa da scuola, cacciata dalla squadra di nuoto nella quale eccelleva, con la madre morta ed il padre al confino, Giuditta e suo fratello dovranno cercare di sopravvivere in un mondo sempre più ostile. Scapperanno, continueranno a nascondersi tra mille stratagemmi pur di evitare la cattura insieme al ragazzo di cui Giuditta è innamorata, Giovanni, cristiano e che ha lasciato l’esercito.

La terza storia ha come protagonista Esther, figlia di Giuditta, ebrea per nascita e cristiana di formazione, che si sente in un mondo di mezzo tra ebraismo e cattolicesimo senza essere compiutamente né l’uno né l’altro. Riceve però una strana offerta di matrimonio previa firma di un contratto da parte di un ricco avvocato ebreo che desidera una moglie ebrea che gli consenta di creare una famiglia e di avere figli. Esther, pur tra mille dubbi, si lancia nell’avventura di questo strano matrimonio combinato.

Al termine del libro questa terza storia si ricongiungerà con la prima creando un rapporto circolare tra le tre vicende.

Il libro è molto scorrevole, avvincente soprattutto nella prima parte, e lavora molto sul sentire di donne che per motivi diversi non riescono ad essere del tutto o in parte ciò che vorrebbero. Sono donne forti, determinate, che sanno chi sono e vedono per sé stesse un avvenire che non sarà quello che la sorte ha preparato per loro. Eppure lottano con tutte le loro forze per realizzare non un sogno ma semplicemente la loro vita.

La prima delle tre storie è sicuramente quella che mi ha coinvolto di più e che mi è parsa avere più potenza narrativa. Di fatto però più che la storia di Miriam il libro racconta la storia di Azoulay, suo marito, uscendo quindi un po’ dal sentiero narrativo. La vicenda è interessante, bella e potente benché un po’ già sentita, ma si perde la centralità della figura femminile che in questa prima storia rimane decisamente sullo sfondo.

Giuditta, protagonista della seconda storia, è una donna forte, la vicenda però, è dal punto di vista di piacevolezza un po’ sfilacciata. Questo non vuol dire che perda di capacità di tenere avvinto il lettore, è un fatto però che si arrotoli un po’ su se stessa.

La terza storia, quella di Esther, lascia intendere al lettore un finale che sarà poi diverso da quanto immaginato ma che forse dà un senso alla storia nel suo insieme. La scrittura è fluida e sempre molto piacevole. Il libro si legge volentieri.

Ho avvicinato questo romanzo dopo aver amato molto il successivo della stessa autrice (Vieni tu giorno della notte) e devo dire che mantengo la mia preferenza per l’ultimo. Cinzia Leone è comunque un’autrice da seguire per capacità narrativa e stilistica, sperando che la maturità della sua ultima opera ci regali in futuro ancora buoni frutti.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    06 Febbraio, 2024
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Uno stravolgimento del giallo classico

Un giallo diverso dal solito e che stravolge il genere, ben costruito, avvincente, con uno stile fluido e dire quasi “nebbioso” per l’atmosfera ricreata, comunque di piacevole lettura.
La storia si svolge in Svizzera e si parte dall’omicidio di una bambina di sette anni e da un commissario, Matthai, di carattere freddo e di grande intuito ed ingegno, che non si rassegna all’accusa di colpevolezza che viene rivolta verso un ambulante in qualche modo costretto a confessare il delitto e che si suiciderà poi in carcere. Per tutti il caso è chiuso, non per il commissario che quando ha dovuto comunicare il delitto ha promesso ai genitori della piccola di trovare l’assassino.
Matthei è raffigurato come un uomo che non ha vita privata, vive in albergo, completamente dedito a quella che sente come una missione, la ricerca della verità ad ogni costo.
Il commissario non solo non è convinto dell’identità dell’assassino imprigionato ma crede si tratti in realtà di una catena di omicidi tutti opera della stessa mano che non è quella che la polizia ha identificato con l’ambulante. Il caso per Matthei non è chiuso.
Il commissario inizierà quindi una sua indagine personale anche perché viene allontanato dal commissariato nel quale operava e che lo porterà a prendere in gestione un distributore di benzina e ad accogliere in casa una donna con una bambina che assomiglia a quella uccisa con lo scopo di attirare in trappola l’assassino. Non riuscirà nell’intento per una pura casualità e la fermissima convinzione razionale di conoscere la verità da una parte ed il fallimento dall’altra lo porteranno alla follia.
La soluzione, in fondo scontata, verrà trovata anni dopo. Il commissario non sbagliava, ma non è riuscito ad avere la soddisfazione che avrebbe meritato.
Molto televisivo da una parte, dall’altra diverso dai gialli classici alla Agatha Christie o dei grandi della letteratura del genere, “La promessa” mantiene un pessimismo di fondo che il lettore avverte sin dall’inizio. Come è possibile che solo il commissario, considerato un genio delle indagini per la sua estrema razionalità, veda una verità così lampante e che solo troppo tardi si arrivi a scoprirla? Come può non essere creduto?
Ed è infine ragionevole che un uomo arrivi ad impazzire nel tentativo di dimostrare la sua verità che ha il solo scopo di salvare vite?
Il romanzo è una negazione totale del giallo classico perché anche la deduzione più accurata e perfetta può non portare alla risoluzione del caso perché razionalità e destino del singolo possono non coincidere e portarci a non arrivare mai alla verità. Alla fine sono il caso, la sorte a sovrintendere alla vita degli uomini, caso e sorte beffardi che condannano l’uomo alla follia.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    23 Gennaio, 2024
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L'elaborazione del lutto

Si respira la bellezza delle relazioni in questo romanzo intimista di Paul Auster che rappresenta una originale interpretazione dell’elaborazione del lutto.
Baumgartner è un ex professore universitario ordinario ora in pensione, vedovo dell’amatissima moglie Anna che lo ha lasciato circa 10 anni prima in circostanze tragiche.
Anna era una poetessa che però non amava far leggere i suoi lavori per il suo carattere introspettivo e riservato, traduttrice di professione, sportiva appassionata morirà proprio travolta da un’onda troppo grossa. Sarebbe stato giusto fermarla da parte del marito per il pericolo al quale andava incontro? Baumgartner non lo ha ritenuto ragionevole per la libertà che ha sempre costituito la base del loro rapporto e per la passione sportiva della moglie.
Distratto e ancora appassionato dei suoi studi Baumgartner lavora ad un saggio, vive ora tra gli ordini di libri che mai leggerà chiesti solo per fare quattro chiacchiere con la persona che glieli viene a consegnare a casa e altre chiacchiere con chi incontra sulla sua strada, a partire dall’addetto alla lettura del contatore.
Anna è morta da ormai molto tempo ma Baumgartner le parla ancora e la sente ancora, in qualche modo non lo ha mai davvero lasciato.
Cerca di innamorarsi di nuovo di Judith, l’opposto caratterialmente della moglie, ma probabilmente ciascuno dei due cerca nel rapporto qualcosa di diverso dall’altro.
La storia ha una svolta quando Baumgartner decide di ospitare una giovane che intende studiare le poesie della moglie.
Per il resto la storia alterna lunghi flashback sulla vita dei protagonisti, Baumgartner e la moglie Anna e delle loro famiglie al tempo della storia in modo da farceli conoscere.
Baumgartner è un romanzo sulla costante presenza di chi ci ha lasciato e che tanto abbiamo amato, sulle relazioni, sulle semplici relazioni che instauriamo nella vita di ogni giorno, e ci dimostra quanto anche una semplice chiacchierata con chi incontriamo sulla nostra strada di ogni giorno possano essere ricche e possano portarci alla scoperta di altri individui in grado di colmare la nostra solitudine. Baumgartner è solo ma non lo è davvero, perché la sua esistenza è popolata da uomini e donne che per lui sono importantissimi.
E’ un romanzo senza grossi colpi di scena, perché in fondo le vite normali grandi colpi di scena non li hanno. E Baumgartner, con il suo dolore silenzioso e la mai sopita voglia di vivere non fanno eccezione.
Un bel romanzo che però non mi ha entusiasmato. Complessivamente lento non ho trovato spunti che abbiamo reso la lettura da ricordare.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    23 Gennaio, 2024
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Una dissacrante descrizione dell'ambiente accademi

Che bel romanzo davvero!
I temi sono principalmente due, prima separati e che poi si intrecceranno: la descrizione, dissacrante e ironica, dell’ambiente accademico ed il racconto, più denso e spesso intimista, di come nacquero i movimenti terroristici negli anni ’70. Ma andiamo con ordine.
Sin dalle primissime frasi il romanzo rivela la sua prima cifra stilistica: brillante e spesso sarcastica quando parla del mondo della ricerca universitaria. E’ infatti una divertente descrizione dell’ambiente accademico che non ha mai momenti di cedimento. Il mondo della ricerca sembra un moderno medioevo tanto è stratificata di schiavitù e servilismi verso i baroni nei quali è difficile districarsi per un non addetto.
Alcuni momenti sono indimenticabili: la spiegazione del senso di scrivere un articolo accademico, dell’importanza delle note e della classificazione delle citazioni sulla base di amicizie e inimicizie, non proprie ma del proprio mentore è davvero memorabile così come la parte dedicata alla preparazione del congresso di italianistica.
Il protagonista è Marcello Gori, trentenne, laureato in lettere dopo ben 10 anni di frequenza, sostanzialmente disoccupato e che vive ancora con la madre non potendosi mantenere. Fa qualche lavoretto per raggranellare pochi euro, non ha e non cerca un lavoro stabile. Insomma un perenne adolescente che non si è ancora deciso a crescere).
Marcello ha una fidanzata, Letizia, che è il suo contrario. Studentessa di medicina, perfettamente in corso, orientata al suo futuro e ben saldamente ancorata con i piedi per terra. Per entrambi la relazione è solo la casella “fidanzato/fidanzata” da riempire, come dice l’autore. La loro relazione ha in fondo lo scopo solo di dare un senso al sabato sera e a qualche weekend. Nulla di più. Tanto è vero che quando Letizia proporrà di fare il passo verso la dimensione adulta Marcello si sentirà mancare la terra sotto i piedi.
Per caso o per ripicca Marcello si iscrive al concorso per una borsa di studio per un dottorato all’Università di Pisa e altrettanto per caso, non essendo nella rosa dei prescelti, vince il concorso e si ritrova assunto. Non è sicuramente il prediletto del professore che gli rifila una tesi su un autore a Marcello completamente ignoto, Tito Sella, che, da una ricerca su Wikipedia, scopre essere stato un terrorista viareggino che ha però anche avuto una discreta produzione letteraria. Il protagonista si dedicherà quindi alla scoperta della sua opera e prima ancora della sua vita, tra un colloquio e l’altro con il collega di dottorato, più esperto e scaltro di lui, e con un amico più avanti nella carriera universitaria che un po’ alla volta gli sveleranno i segreti per fare strada nello strano mondo che sono le Università.
Il romanzo passa quindi a raccontare la storia di Tito Sella e dell’ambiente storico nel quale è nata la brigata viareggina Ravachol (tutto frutto di fantasia). Un gruppo di giovani di estrazioni diverse e che non voleva in fondo fare male, che sperava in un mondo più giusto per tutti e i cui membri si ribellavano all’idea della violenza considerando sufficienti le azioni dimostrative. Tito aveva studiato, era religioso e aveva letto molto sull’argomento. Per questo nei suoi scritti si trovano diversi parallelismi con il sacro. All’inizio sembra strano trovarli nei testi di un terrorista ma va considerato che si trattava di terroristi un po’ sui generis, benché sempre spinti dall’idea che la giustizia potesse farsi strada anche attraverso vie non consuete e non legali.
Il gruppo utilizza la parrocchia come copertura per avere i locali nei quali riunirsi e organizza le prime azioni.
In questa parte il racconto si fa serio e circostanziato, talvolta molto intimo. Si respira l’aria degli anni ’70, lo stile è completamente diverso in questa parte ma non perde in piacevolezza e interesse. In particolare l’autore porta il lettore nel sorgere della necessità di ribellarsi al sistema, non ai fini di un arricchimento collettivo ma semplicemente di giustizia sociale per tutti all’interno di un’ideologia anarco-marxista connotata da una sua originalità e anche da una notevole dose di improvvisazione. Le azioni si susseguono, tutte con esito fortunato. E’ interessante questa parte, anche per i diversi caratteri dei componenti della brigata, che devono trovare un minimo comun denominatore all’interno dei paletti che si sono posti. Alla fine di questa parabola Tito Sella sarà condannato all’ergastolo.
Il romanzo narra poi la vita del protagonista a Parigi dove si recherà per studiare l’archivio di Tito Sella ed il suo successivo rientro a casa. Le due storie (quella di Marcello Gori e di Tito Sella) un po’ alla volta si intrecciano, tra colpi di scena e stili diversi che si avvicendano tra loro in modo perfettamente equilibrato. Il lettore è sempre più trascinato dal racconto.
Ho molto apprezzato questo “La ricreazione è finita”, sia, come ho già detto, per la molteplicità di stili, per la ricchezza di citazioni, per l’equilibrio interno della storia, per la piacevolezza e, non ultimo, per la perfetta definizione di tutti i personaggi che per tutto il libro e senza sbavature si muovono e parlano esattamente come l’autore li descrive. Ci sono personaggi di minor peso, non ci sono personaggi non perfettamente tratteggiati.
Un bellissimo romanzo, davvero da consigliare.

“L’accademia è un mondo psicotico affetto da una grave dispercezione della realtà, popolato da individui dotati di fama estremamente limitata(..) che operano in un settore marginale e assolutamente indigente come quello della cultura, e che nondimeno si sentono delle rockstar, e hanno ego e comportamenti commisurati a questa loro convinzione.”

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    02 Gennaio, 2024
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Non convince

Non completamente convincente questo nuovo lavoro di Donatella di Pietrantonio. Protagonisti una madre, Lucia, una figlia, Amanda, e un terribile fatto di cronaca realmente avvenuto, l’omicidio di due ragazze.
Da questo fatto la storia prende spunto e lo immagina successo nell’età della giovinezza di Lucia. Tania e Virginia, le due vittime, erano ospiti di un campeggio costruito non lontano dal Dente del lupo, la montagna al centro di quella zona d’Abruzzo immaginata di proprietà del padre di Lucia. Solo la terza ragazza, Doralice, amica di Lucia, era riuscita a scampare all’assassino.
La storia si svolge all’epoca del primo lockdown, quando Amanda, che era andata a studiare a Milano, torna a casa con uno degli ultimi treni disponibili, senza libri, e si chiude in un potente mutismo nei confronti della madre che non riesce a trovare la strada per riprendere a comunicare con lei che ha, evidentemente, interrotto gli studi.
Quando andrà a Milano a sgomberare la casa affittata dalla figlia Lucia capirà che qualcosa lassù è successo, e che forse la figlia avrebbe avuto bisogno di lei che invece, per rispettare il suo bisogno di indipendenza, forse le è stata poco vicina. Dove passa il confine tra necessità di far camminare i figli con le proprie gambe, di dar loro autonomia e capacità di affrontare anche la parte brutta e difficile della vita e vicinanza con loro? Lucia se lo domanderà, chiedendosi se alla figlia non sia mancata la presenza materna quando forse le sarebbe stata più necessaria.
Il libro alterna la storia del rientro a casa di Amanda a lunghi racconti del passato: dal delitto delle due ragazze ai processi, soffermandosi anche sull’amica di Lucia, Doralice, figlia dei gestori del campeggio che dopo il delitto non è più stata quella di prima, rosa dai sensi di colpa e dalla difficoltà di ricostruirsi. Andrà per questo a lavorare lontano.
Il racconto della di Pietrantonio è in realtà un racconto di silenzi e di incomunicabilità tra tutti i protagonisti: tra Lucia e suo padre, tra Lucia e Amanda, tra Lucia e l’amica Doralice, e anche con il marito da cui è separata. Nessuno qui riesce a parlarsi davvero, a confrontarsi con sincerità, a dire quelle parole che aiuterebbero a vivere meglio, ad essere più vicini, a capirsi. In questo racconto delle diverse incomunicabilità il romanzo mi è piaciuto molto: l’autrice lo sa rendere davvero bene.
La storia nel suo complesso invece mi ha convinta poco. Le due vicende, passato e presente, si incastrano poco tra di loro e gli spazi destinati alle due storie sono forse poco equilibrati. Amanda ci rimane in fondo estranea, difficile empatizzare con lei, forse è difficile per il lettore capirla davvero. Ben presente invece lo smarrimento di Lucia nel suo rapporto con la figlia.
La tematica della necessità di un rapporto compiuto genitori e figli all’interno di un percorso di autonomia non è approfondita come dovrebbe. Gli altri personaggi sono sullo sfondo.
La scrittura è funzionale al racconto, non suscita reazioni, non scalda.
Un romanzo, per me, riuscito a metà.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    29 Novembre, 2023
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Storia di umanità

“La mamma aveva ragione quando diceva che al mondo c’è chi è bravo a parlare, chi a raccontare, a convincere, a cantare o incantare, ma a me veniva bene la cosa più rara: ascoltare”
La scoperta dell’America è stato davvero un passo avanti per l’umanità? Se sì a che prezzo?Questa è la storia della scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo dal punto di vista, modernissimo, dell’ultimo mozzo della Santa Maria. Ma, soprattutto, è un grande romanzo di mare, vero protagonista dalla prima all’ultima pagina e metafora della vita.
Non siamo di fronte a un capolavoro, questo va detto subito, però il romanzo rimane godibile e, per quanto riguarda me, l’ho letto volentieri.
Se qui l’originalità non è nella scrittura, che non affascina ma si lascia leggere, lo è a mio parere molto il punto di vista di un uomo contemporaneo (tale è immaginato Nuno, il protagonista) su un fatto del 1492 tanto rivoluzionario.
Figlio di una ex prostituta che sa leggere e scrivere, Nuno impara quest’arte insieme a lei al porto di Palos, dove la madre, che ha lasciato la professione alla nascita del figlio, scrive lettere d’amore su indicazione dei marinai di passaggio.
Costretto a lasciare Palos per la persecuzione di chi non era di religione cattolica Nuno si trova per un caso non voluto ad essere assoldato come ultimo dei mozzi sulla Santa Maria, la più grande delle tre caravelle in partenza verso mari e terre sconosciute con altissimo rischio di non tornare mai più. Proprio lui, che ha sempre amato rimanere attaccato alla terra come i granchi!
Il Capitano Colombo scopre che Nuno sa leggere e scrivere e lo assolda durante il viaggio come suo scrivano per tenere il diario di bordo.
Il romanzo, nel descrivere il viaggio, narra anche dell’umanità persa che è a bordo delle caravelle (molti sono condannati a morte che tra la morte certa e la morte probabile hanno optato per quest’ultima), nell’attesa, nella paura, nello sconforto e nel desiderio di tornare a casa, se mai ciò fosse possibile, fino all’arrivo in un’isola sconosciuta e all’incontro con gli indigeni. Popolazione buona e che li adora come divinità, pronta a regalare ai nuovi arrivati ciò che per loro è più prezioso, benché nulla di tutto questo abbia valore per Colombo e gli altri.
I naviganti continueranno a cercare ciò di cui a loro parere le Indie, dove credono di essere arrivati, dovrebbe essere ricca, l’oro. Non trovano invece nulla che a loro parere meriti ma si accorgono di quanti frutti, alimenti e cose nuove le isole dove sono arrivati siano portatrici.
La bellezza, il mare limpido, la pace di queste isole le rende comunque un paradiso che Colombo e i suoi non vedono l’ora di fare proprie, conquistare e saccheggiare, considerando gli indigeni loro proprietà, quasi oggetti.
Nuno si innamorerà perdutamente di una di loro, assisterà al male che possono fare gli uomini ad altri uomini incolpevoli, soffrirà questo processo con lo sguardo sgomento da ultimo tra gli ultimi ma che vede più lontano degli altri.
Oro puro ci accompagna poi nel travagliato e periglioso viaggio di ritorno fino ad accennare alle spedizioni che seguiranno quella di Colombo mentre Nuno invecchia e si domanda come diversamente sarebbero potute andare le cose.
Il racconto non vuole essere una precisa ricostruzione storica ma solo un romanzo che nel narrare un evento di così grande portata, in mezzo a tante luci ha avuto anche molte ombre. Non va cercata quindi la precisione dei fatti ma va letto con l’animo di chi vuol provare a leggere la scoperta del nuovo mondo con gli occhi disincantati di chi è consapevole di quanto male possa fare l’uomo nel suo progresso. Ma Oro puro è anche una grande storia di umanità perché sono proprio tutti gli uomini con i quali Nuno avrà a che fare, ad essere protagonisti della storia.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    09 Novembre, 2023
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Non il migliore della Ardone

La storia inizia alla fine degli anni ’70, nel periodo di discussione e poi di introduzione della legge Basaglia ed ha per protagonisti un giovane medico, Fausto Meraviglia, che crede fermamente nei nuovi principi, ed una giovanissima, Elba, nata in manicomio perché figlia di una ricoverata giudicata come molte donne non sana di mente. A quell’epoca bastava poco per finire tra i cosiddetti matti, costituiva un sistema semplice per liberarsi di una moglie infedele o di un parente sgradito. Nulla a che vedere quindi con le malattie mentali vere, eppure curate come se tali fossero veramente e con metodi arcaici e dannosi come l’elettroshock.
Elba trascorre la vita a compilare e catalogare le malattie mentali riscontrate nel “mezzomondo”, come lei chiama il luogo dove si trova, e a chiamare con soprannomi che ne indicano il ruolo o l’atteggiamento il personale e le ricoverate. Non a caso Lampadina è l’infermiere che pratica l’elettroshock.
Il giovane medico si rende conto che Elba tutto è fuorché matta e quando i manicomi non saranno più luoghi chiusi la fa trasferire a casa sua, dove diviene parte della famiglia, e la fa studiare fino a vederla sparire, non si sa perché e dove. Eppure Elba è l’unica figlia che si è scelto e ha voluto, proprio lui che un buon padre non è mai stato. E il dott. Meraviglia è per Elba la famiglia che lei non ha mai avuto, madre a parte: piena di vizi, di difetti, ma anche di bellezza e di umanità. Perché così è fatto l’uomo. E il dott. Meraviglia da tanti difetti non è certo immune.
Elba si porta dietro un dolore enorme, non solo quello per sua madre, che scopre essere stata ricoverata solo perché tedesca rifugiata politica, incinta senza essere sposata e quindi adultera, poi ridotta in stato catatonico dai troppi trattamenti con l’elettricità ricevuti, al punto da non riconoscere neanche più sua figlia. Il dolore che sente Elba è universale, per tutte le donne (a queste soprattutto si rivolge il libro), alle quali è stata negata una vita normale in base a principi senza alcun valore né fondamento. A queste dedica i suoi studi e i suoi interessi, e questo dramma Elba lo incarna e lo vive ogni giorno.
Il racconto è diviso in sezioni, e dopo una prima parte che si svolge in manicomio, vede alternarsi momenti di vita successiva con Elba che studia e che vive inserita nella famiglia del dottore a periodi successivi con il dottor Meraviglia ormai anziano e solo (la figlia vive da sola con un figlio, il maschio si è fatto prete ed Elba, appunto, se ne è andata alle soglie della laurea).
Fili conduttori i soprannomi che Elba dà all’interno del mezzomondo e dalle suore dove è stata mandata a fare i primi studi dell’obbligo (lampadina, gillette, la sposina, le suore culone, Nana la cana, eccetera), e le frasi del dott. Meraviglia, apparentemente suoi pensieri consolidati (“la famiglia è un concetto sopravvalutato”), il suo essere un donnaiolo e un mentitore, benché in fondo sincero.
Da estimatrice della Ardone (mi sono piaciuti tantissimo sia Il treno dei bambini sia Olivia Denaro), ho trovato questo Grande Meraviglia un po’ discontinuo. La prima parte non mi ha entusiasmato, più avanti invece ho trovato momenti davvero all’altezza di questa scrittrice in grado di regalare pathos e bella prosa.
Ho faticato ad empatizzare con i protagonisti: il dottore, visto a sezioni ora anziano, ora giovane, ora di nuovo anziano, rimane sempre un po’ staccato dal lettore forse per questa frammentarietà: eppure quanto sarebbe bella ed umana la sua figura!
Elba, allo stesso modo, ci appare sempre un po’ distaccata, il turbine di sentimenti che dovrebbe attraversarla, il lettore fatica a sentirli e a viverli con lei.
Ci sono fortunatamente nella seconda parte momenti nei quali la Ardone riesce a portarci con sé negli avvenimenti, a trascinarci dentro il momento descritto: e sono le parti più belle e intense, all’altezza di questa scrittrice.
Quindi un bel libro ma non tanto come i primi due. In una ipotetica classifica dei romanzi della Ardone questo sarebbe quindi per me al terzo posto.
Merita di essere letto comunque, per la tematica e perché, in fondo, rimane un bel libro.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    20 Ottobre, 2023
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L'elaborazione del lutto in un romanzo di grande a

“Inizio dalla fine. Dalla mia fine. Non importa l’ora, la data e nemmeno l’anno. È il mio ultimo giorno e questo basta. Indosso la divisa e non sono solo. La nostra è una storia complicata, due come noi avrebbero dovuto essere nemici e invece siamo diventati amanti, ovvero i migliori nemici”
Una bella scoperta questo ultimo lavoro di Cinzia Leone.
Micol e Daniel, coppia di origine ebraica che vive a Roma e da tempo separata, riceve la notizia che il figlio Ariel, da tempo trasferitosi in Israele su impulso della nonna Stella e arruolatosi nell’esercito, è morto in un attentato kamikaze. E’ morto per inseguire un sogno e un ideale.
I due ex coniugi si precipitano a Tel Aviv e dopo le formalità di rito sono costretti ad attendere che i resti del figlio vengano separati da quelli dell’attentatore al quale Ariel si trovava molto vicino al momento dell’esplosione.
Micol e Daniel vivono in modo diverso la voragine di dolore che li consuma, Daniel riuscendo anche a trovare spazio per il suo lavoro da pubblicitario, Micol nel tentativo di ricostruire la vita di un figlio che ha scoperto di non aver mai conosciuto davvero. E ne scopre i sentimenti, il suo essere stata sentita davvero come madre, anche se era lontano. Scopre come il suo Ariel sia stato capace di un amore in grado di superare i muri di odio e di pregiudizi costruiti dagli uomini.
Si avvicina anche alla madre Stella, con la quale da tempo non si sentivano più, e al suo sentire, alla sua vita, a cosa poteva aver tanto affascinato il figlio.
Il lutto unisce, come ci spiega l’autrice, e anche se ognuno lo vive a suo modo, l’enorme sofferenza che si prova riesce a creare legami anche improbabili.
A Micol e a Stella, vere protagoniste del romanzo, si uniscono in un nodo indissolubile Tariq, il compagno di Ariel, Sharon, la sua migliore amica e Malak, il gatto.
Dalla morte si possono far nascere nuove vite e nuove relazioni in nome di quelli che si è perso? Può la morte consentirci di non solo di riprendere a vivere ma regalarci una vita rinnovata?
Il romanzo ci accompagna nella lunga elaborazione del lutto dei protagonisti, vissuta da ciascuno in modo diverso e originale ma che li porterà tutti alla ripresa piena della vita nel nome di chi hanno perso.
Sullo sfondo del romanzo una caldissima Tel Aviv, moderna e piena di contraddizioni nel suo conservare tracce del passato e la perenne ostilità tra israeliani e palestinesi. Un romanzo in qualche modo profetico.
La scrittura è elegante ma concisa, ragionata, dettagliata per quanto basta, mai banale e molto ricca. I sentimenti narrati con profondità. L’amore, indipendentemente da chi ne è l’oggetto, non ha bisogno di molte parole, basta venga avvertito.
Un bel romanzo, perfettamente equilibrato e ben scritto. Un originale percorso di riscatto di validità universale.

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L'attentato
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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    19 Ottobre, 2023
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Profetico

Una storia mozzafiato sullo sfondo del conflitto mediorientale
“A che serve la felicità quando non è condivisa, Amin amore mio? La mia gioia si spegneva ogni volta che tu non la condividevi. Tu volevi dei figli. Io volevo meritarli. Nessun bambino è al sicuro senza patria… Non odiarmi. – Sihem”.


Molto bello e avvincente questo romanzo di Yasmina Khadra, pseudonimo di Mohamed Moulessehoul, ex ufficiale dell’esercito di origine algerina. Chiede di essere letto tutto in fiato tanto la storia sa trascinare con sé.
Amin Jaafari è un affermato chirurgo di origine araba ma naturalizzato israeliano che vive e lavora a Tel Aviv. Si trova a soccorrere i feriti di un attentato provocato da un kamikaze terrorista imbottito di esplosivo. Scopre poi che non solo la moglie tanto amata, Sihem, non era andata a trovare la nonna come aveva raccontato a lui ma è morta nell’attentato. Non solo, dai rilievi effettuati risulta essere proprio lei l’attentatrice.
Come è possibile che una donna così adorata, felice almeno in apparenza, piena di sentimento nei confronti del marito e che lui stesso pensava di conoscere così bene, che mai aveva lasciato capire di aver preso la strada dell’estremismo integralista potesse aver ucciso ed essersi uccisa? Come ha potuto commettere un gesto così atroce?
Inizialmente Amin rifiuta l’idea ma poi, dopo aver ricevuto una lettera scritta dalla moglie prima dell’attentato si deve rassegnare ai fatti. Gli rimane però il terribile senso di colpa per non aver capito, per non aver colto quei segnali che sicuramente, a suo parere, la moglie deve per forza avergli lanciato, perché un dubbio, almeno uno, deve averla attraversata prima di arrivare ad una scelta così radicale e terribile.
Aiutato quindi da Kim, amica di vecchia data per quanto il racconto mostra innamorata di lui, e con l’amicizia di un poliziotto al quale però non rivela nulla, parte alla volta di Betlemme, città dalla quale è partita la lettera. Vuole ripercorrere gli ultimi passi percorsi da sua moglie, vuole capire perché abbia compiuto un atto così estremo ma, soprattutto, conoscere chi l’ha vigliaccamente spinta a quel gesto rimanendo ipocritamente vivo. A Betlemme ha parenti, quindi parte da lì.
Non otterrà granché in apparenza, ma il dubbio continua a tormentarlo. Proprio lui, che sempre si è rifiutato di prendere posizione sul conflitto, si trova ora a doverci fare i conti.
Ho trovato la narrazione molto capace di tenere avvinto il lettore in qualsiasi situazione: anche quando Amin discute della differenza tra l’approccio di chi uccide e di chi cura, di come cercare di mantenere in vita sia meglio di dare la morte, il dialogo, profondo, mantiene avvinti. E le riflessioni che l’autore offre, attraverso le parole di Amin, così vere e così sentite, rimangono impresse.
La scrittura e veloce, cruda, il ritmo molto elevato e mozzafiato.
Chi legge è totalmente trasportato dalla figura di Amin, dai suoi stati d’animo, dal suo percorso interiore e dal suo smarrimento per non aver capito ciò che chissà, forse avrebbe potuto sospettare se il suo amore fosse stato amore e non adorazione, idealizzazione. Se solo si fosse reso conto di quanto stava avvenendo, la storia sarebbe stata ben diversa. Ma cosa stava realmente avvenendo?
E quanta sofferenza anche in Kim, l’amica, che vorrebbe allontanarlo dalla sua folle ricerca, che lo spinge a riprendere a vivere, ad elaborare il lutto, senza però ottenere risultato.
E anche l’amico poliziotto soffre con lui.
La storia apre a riflessioni profonde su un problema ben noto, il conflitto arabo israeliano, per il quale non si riesce a costruire la via per una pace giusta ma si continuano a condannare a morte innocenti da parte di entrambi gli schieramenti. Amin poi, si è sempre posto come ideale modello pacificatore tra le due parti del conflitto mediorientale: forse è proprio questo a rendergli ancora più intollerabile l’evento. E l’idea era che sua moglie fosse con lui in questo modello. Quanto lontano era dalla verità!
Una lettura molto consigliata, un libro da leggere.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    18 Ottobre, 2023
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Non entusiasmante

“Il padrone diceva che l'unica cosa più pericolosa di un negro con la pistola è un negro con un libro in mano.”
Un po’ deludente questo romanzo di Colson Whitehead. Forse le mie aspettative erano troppo alte dopo aver letto I ragazzi della Nickel. E’ avvincente e avventuroso di sicuro, forse però sarebbe stato più azzeccato intitolarlo “Le avventure di Chora”, perché di questo alla fine si tratta.
Giovane schiava nella Georgia del 1800, Chora, rimasta senza madre perché fuggita prima di lei e mai ritrovata, vive cercando di difendersi in una vita fatta di violenza e sopraffazione. Si lascia attrarre dal sogno di fuga di un altro giovane schiavo che le parla della ferrovia sotterranea, una rete ferroviaria appunto che serve agli schiavi in fuga per rendersi invisibili. Non manca poi il desiderio di cultura da parte di una popolazione nera tenuta volutamente nell’ignoranza.
Il viaggio di Chora verso la libertà, inframmezzato da catture, nuove fughe e violenze di ogni genere, è la sostanza di questo romanzo che si conclude con l’ennesimo tentativo di fuga del quale non conosciamo l’esito.
A parte qualche divagazione che ne rallenta il ritmo per il resto il racconto è piacevolmente avvincente ma nulla di più. La violenza non manca nella sua descrizione più cruda, esercitata verso i neri e verso i bianchi che li aiutano. Impiccagioni, stazioni della ferrovia devastate, case incendiate. I cacciatori di schiavi sono spietati e interessati solo al denaro che possono ricavare dal loro lavoro.
L’autore ci ha sicuramente lasciato un manifesto di denuncia sociale nel quale i buoni sono nettamente e chiaramente diversi e separati dai cattivi, nel quale la libertà è intesa nel suo senso primordiale e pieno, che non lascia dubbi sulla parte dalla quale occorra stare.
Eppure, nonostante i buoni ingredienti, al romanzo manca qualcosa. Sicuramente non si riesce ad empatizzare con la protagonista con la quale, se non per i principi, non si riesce a lasciarsi coinvolgere fino in fondo. La scrittura non impressiona, non aggiunge e non lascia nulla al lettore. Alla fine il romanzo risulta ripetitivo perché nulla di completamente nuovo arriverà a modificare la sostanza della vicenda.

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I ragazzi della Nickel
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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    05 Settembre, 2023
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Una saga berlinese da scoprire

Grande saga familiare di Gabriele Tergit (pseudonimo di Elise Hirschmann) che ambisce di eguagliare i Buddenbrook (che rimane però un capolavoro ineguagliato nel suo genere).
La storia si svolge in Germania in un arco di tempo che va dal periodo di Bismarck alla seconda guerra mondiale e all’interno del mondo ebraico dell’epoca.
Coinvolge due famiglie, essenzialmente però la famiglia Effinger il cui capostipite è orologiaio a Kragsheim. Tra i tanti figli i due protagonisti, Paul e Karl, che si imparentano con la famiglia Goldschmidt, storici banchieri, sposandone due delle figlie, Annette e Klara. Entrambe le famiglie, gli Effinger e i Goldschmidt sono comunque piuttosto numerose, come usava all’epoca. I destini di entrambe le famiglie a partire dai due matrimoni sono uniti per sempre.
Intraprendenti e con fiuto per gli affari, Paul e Karl si trasferiscono a Berlino e fondano una fortunata fabbrica di automobili.
La lunga storia raccontata dal libro attraversa periodi diversi, dalla ricchezza del periodo di Bismark, alla crisi economica che colpirà la Germania fino a sfociare nelle perdita di tutto dovuta all’ascesa al potere di Hitler.
Diversi sono gli atteggiamenti di partenza delle due famiglie: la ricchezza da generazioni dei Goldschmidt e l’oculatezza e la propensione al risparmio degli Effinger, artigiani commercianti.
E così l’autrice ci conduce tra ricche dimore e feste di famiglia, dalla nascita di nuovi amori ai matrimoni alle nascite di figli e, talvolta, alla loro morte date le conoscenze mediche dell’epoca.
La famiglia si allarga ed in questo è utile l’albero genealogico riportato all’inizio benché la storia non sia complicata da seguire perché i personaggi hanno tutti un’identità e un sentire ben preciso. Tante le sfumature e le differenze anche profonde tra i personaggi che riescono però a dare il senso di un’unica famiglia che guarda al futuro con sguardi diversi ma comuni nella direzione.
Ho apprezzato molto le differenze tra i personaggi, e seguire l’incrocio dei loro destini all’interno della storia della Germania e della famiglia è stato coinvolgente..
I tempi però cambiano progressivamente e “Gli Effinger” ci conducono per mano attraverso nuovi modi di considersi parte dello stato, di praticare la politica e la vita civile, soprattutto nel contrasto tra il pensiero liberale del vecchio Waldemar, dei Goldschmidt, al pensiero nazista e all’antisemitismo ormai dilagante. E in mezzo la prima guerra mondiale e i giovani chiamati e vivere gli orrori di una guerra insensata e poi, molto più terribile, la persecuzione degli ebrei.
La storia non ha momenti di cedimento, è ben strutturata e organizzata, ha ritmo, le vicende si susseguono una all’altra senza indugiare troppo e senza autocompiacimenti dell’autrice che rinuncia ad una facile retorica anche quando il racconto lo consentirebbe. E’ proprio questa caratteristica che dà al lettore la sensazione che gli eventi siano concatenati come la vita che va avanti sempre, senza soste. E’ come se un filo fosse tirato dalla prima all’ultima pagina e porta chi segue la storia al finale senza che le quasi 1000 pagine pesino.
Certo sarebbe stato facile cadere nel vittimismo, nella descrizione di eventi tanto tragici, eppure l’autrice rimane salda nel principio che comunque c’è un domani, sempre. E non è così necessario al lettore il racconto dettagliato di ciò che già si sa.
E il finale, nella sua delicatezza, è uno dei momenti più alti del libro.
Uno dei massimi capolavori di tutti i tempi? No. Un libro molto bello e consigliato? Sicuramente sì.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    10 Agosto, 2023
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Sopravvalutato

Sopravvalutato. Non riesco a trovare altre parole per questo nuovo romanzo di un autore molto osannato. Ascoltato su Audible, ho trovato la scrittura banale e prevedibile, le similitudini e le metafore fanno talvolta sorridere tanto sono poetiche nelle intenzioni, ma solo in quelle. Voluto? Forse.
La storia vuole essere di attualità: la donna, “schiava” della propria apparenza nei confronti del proprio pubblico e incapace di guardarsi dentro e trovare la strada per una vita soddisfacente e soprattutto propria e che rispecchi chi siamo indipendentemente da come ci percepisce la community. Il marito della protagonista ovviamente questa strada, pur se a modo suo, l’ha trovata nel potere e ci sguazza. Ma la donna, ovviamente, no.
Da qui parte il processo di liberazione. Il tutto raccontato volutamente molto sopra le righe, in modo spesso comico (scelta dell’autore, ovviamente)
Molte le domande che sorgono. Siamo davvero sicuri che una “influencer” non possa in alcun modo trovare un proprio percorso di vita e affettivo soddisfacente? Siamo davvero sicuri che la community unita alla ricchezza costituiscano una schiavitù? Occorreva trovare il facile aggancio ai social e al marito-uomo di potere per trattare un tema così universale?
Riconosco all’autore la capacità di creare una leggera ansia nel lettore in modo da spingerlo a proseguire sempre nella lettura, che però lascia con un profondo senso di aver letto una storiella che nulla lascia. Certo, anche le storielle bisogna saperle scrivere, ma tali rimangono, senza pretendere che siano altro.
Mi permetto in chiusura una considerazione sul fatto che non è così scontato che un uomo-scrittore possa immedesimarsi in una donna, crearla per come la immagina e pretendere di farla assurgere a modello, negativo in questo caso, almeno in partenza, poi redento. Quando gli uomini smetteranno di parlare di donne sarà sempre troppo tardi.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    04 Agosto, 2023
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Ci sono cose che si fanno e cose che non si fanno

Un romanzo che ci porta diretti in una Sardegna anni ’50 ancora legata a riti e tradizioni in parte arcaici, in difficoltà nel confronto con la modernità incipiente. E’ infatti ancora in uso la pratica dei “figli dell’anima”, bambini cioè che vengono passati da una famiglia che fa fatica a sfamarli (sono spesso gli ultimi figli) a una donna sterile e che gli farà da madre, pur non essendolo da un punto di vista di legge.

"i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità dell'altra"

Maria Listru, quindi, ultimogenita, viene ceduta dalla famiglia biologica a Tzia Bonaria Urrai, sarta del paese, che la alleva come figlia con l’obiettivo di assicurarle educazione, istruzione e futuro. E affetto, per quanto la società dell’epoca in quella Sardegna consentisse di esternare.
Maria cresce esattamente così, brava a scuola, bella e intelligente. E perfettamente consapevole della sua situazione di figlia-non figlia.
Nota di quando in quando strane uscite di Tzia Bonaria la notte, ma non ottiene alcun chiarimento nonostante le domande.
Scoprirà poi, dopo la morte di un ragazzo del paese rimasto con una sola gamba a seguito di un incendio appiccato per vendicare un torto, che Tzia Bonaria è l’Accabadora del paese, si occupa cioè di garantire una morte pietosa a chi la chiede perché in condizioni di estremo dolore e impossibilità a proseguire oltre una terribile agonia.
Si tratta di un’opera di carità, non di un omicidio. La morte e la mano che la porta possono essere pietose.

Quando Maria lo scoprirà non lo accetterà, perché “ci sono cose che si fanno e cose che non si fanno”, e questa è una di quelle che non si fanno.

Con l’aiuto della sua insegnante lascia la Sardegna e va a lavorare in una casa privata a Torino. Quando però riceve una lettera che la avvisa che Tzia Bonaria è gravemente ammalata, dopo aver anche perso il lavoro a Torino ritorna in Sardegna e assiste la madre adottiva fino all’ultimo.
Capirà quindi in quel lungo periodo il senso di ciò che fa l’Accabadora, capirà che la morte può essere un gesto di pietà dovuto a chi soffre e lo desidera.

E aveva quindi ragione Tzia Bonaria a dirle “Non dire mai: di quest'acqua io non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata.”

Il romanzo mette sul piatto diversi temi, primo tra tutti quello dell’eutanasia e delle sua implicazioni, tema di stretta attualità. Non faccio qui riflessioni in merito, non sarebbe giusto trattandosi di un tema etico sul quale possono esistere sensibilità diverse. La Murgia spiega e declina bene l’argomento in differenti sue possibili accezioni e non occorre aggiungere altro. Certe sue frasi, anche quando decide di negare una morte perche non sarebbe opera di carità, dicono e insegnano moltissimo, o quantomeno dovrebbero far riflettere. Perché, questo vuol dirci la Murgia, per giudicare occorre comprendere.
Benché non tanto approfondito (non era il tema principale) c’è poi il tema dell’adozione. Maria sa di non essere figlia di Tzia Bonaria, eppure la sente ormai come una madre, colei con la quale confrontarsi sui temi importanti della vita, alla quale si ritorna e per la quale si è importanti. Non gli ultimi, come si è invece sempre sentita Maria.

La scrittura è densa, nessuna parola è usata a caso, alcune aggiungono particolare pathos alla storia.
L’ambientazione è molto bella, la ricostruzione di una Sicilia arretrata e che si forza di progredire è molto ben fatta e ce la sentiamo addosso mentre leggiamo. Non c’è particolare descrittivo o atmosfera che non sia curato, ho apprezzato in particolare quella del lutto.

Cosa non mi è piaciuto? Sicuramente la parte che Maria trascorre in Piemonte. Necessaria ai fini della storia non riesce a mio parere a saldarsi bene al resto, rimane qualcosa che il lettore vorrebbe si concludesse al più presto per tornare alla storia che sente come “vera”, quella in Sardegna. Non so come, ma forse si sarebbe potuta trovare una diversa soluzione.
Inoltre, nonostante sia al centro della storia, il lettore non riesce a sentirsi davvero accanto e solidale alla figura di Maria che ci rimane sempre un po’ staccata da chi lette, non si riesce ad empatizzare con lei. Fredda, forse, non lo so. Di fronte al suo amico di infanzia Andrea Bastiu che, pur nella disperazione per la morte del fratello, le dichiara il suo amore, Maria non riesce ad essere davvero lì con reazioni umane, è invece fredda e compassata come in un rito imposto.
Di fatto il lettore di sente molto più vicino a Tzia Bonaria, vera protagonista pur nella sua apparente freddezza. Ma è una freddezza tutta esteriore: Bonaria è una donna di immensa profondità, sente cosa è giusto e cosa non lo è aldilà di qualsiasi precetto, è comunque attraversata da mille dubbi ma avverte la pietas e agisce di conseguenza.
Ho letto questo libro in due giorni, la storia, salvo la parentesi torinese, è appassionante. Non perfetta, certo, di sicuro una bella storia che chi ha a cuore in modo aperto il tema del fine vita può leggere.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    01 Agosto, 2023
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Lo sguardo della meraviglia

«Le faceva molta impressione la sua capacità di distrarsi all’improvviso, di venire risucchiato lontano. Per lei era un po’ come se spiccasse il volo per andare in un altro, pericolosissimo mondo».

“Un giorno anche io mi comprerò un aereo e insieme sorvoleremo Saint-Maurice, e tutti applaudiranno il coraggioso aviatore”.

«Avrei continuato a volare per sempre».

Estasi è il termine che credo riassuma meglio l’atmosfera di questo libro. E le citazioni sognanti potrebbero continuare a lungo.

Ma andiamo con ordine.

E’ particolare questa biografia di Antoine De Saint-Exupéry, noto come autore del celeberrimo (e altrettanto discusso) “Il piccolo principe”. Credo però che per scrivere una recensione di questo “Rubare la notte” sia opportuno dimenticare l’associazione al Piccolo Principe e godersi la lettura di una storia così speciale.
La vita che viene ricostruita è quella di un uomo diviso tra la scrittura, la passione per l’aviazione, l’affetto per la madre e l’incapacità di trovare una donna che potesse amare davvero.
Antoine, soprannominato Tonio, nasce da una famiglia aristocratica e, pur rimasto giovanissimo orfano di padre, vive un’infanzia felice e tutto sommato spensierata, nonostante la perdita di un fratello tanto amato, fatto però che per l’epoca non era inusuale.
Negli anni dell’infanzia l’affetto per sua madre si fa viscerale e tale rimarrà anche nell’età adulta. Madre alla quale scriverà (non so se nella finzione letteraria o nella realtà) molte lettere da tutte le parti del mondo nelle quali si troverà e che ci aiutano a conoscere meglio il personaggio e a vedere con i suoi occhi perennemente stupefatti la realtà.
La passione per il volo nasce prestissimo, da quando inizia ad andare a seguire il lavoro dei meccanici che operano sugli aerei. E quello diviene il suo sogno: poter pilotare un aereo.
La madre, spaventata, cerca di dissuaderlo ma niente può fermare una passione così grande. D’altra parte sono anche anni nei quali gli aerei vengono sempre più utilizzati per trasportare posta, per esempio, settore nel quale Tonio lavorerà a lungo.
Nel suo girovagare per il mondo si innamorerà molte volte, ma senza riuscire mai a trovare un approdo definitivo. E si renderà conto di questa sua incapacità. L’unica donna alla quale si sentirà in qualche modo legato nonostante viva nel frattempo altre storie è la moglie Consuelo, artista eclettica e personaggio molto particolare.
E nel frattempo scrive non appena ha tempo quelli che saranno successi letterari, perché si tratta di un autore prolifico anche se noi ne ricordiamo quasi una sola opera.
Antoine morirà nei cieli sopra Marsiglia in una notte del 1944 durante un volo di ricognizione alla fine della seconda guerra mondiale. La sua vita insomma finirà tra le stelle, là dove ha sempre sognato di essere.

Quello che colpisce in questo libro è l’atmosfera: il protagonista in fondo rimane sempre bambino e con gli occhi di un bambino guarda il mondo: quel periodo della vita è stato talmente sereno e intenso da non volersene liberare e questo in qualche modo lo porta a rifiutare l’età adulta. Forse da qui nasce la difficoltà ad innamorarsi veramente.
Rubare la notte è un romanzo che si legge con gli occhi sgranati del protagonista che così vede il mondo dall’infanzia fino a tutta l’età adulta. Tutto lo stupisce positivamente, tutto è bello ed esaltante, il progresso è una magia. Il mondo, in fondo, è una splendida magia.
I temi principali sono l’amore per il volo, l’affetto per la madre e il controverso rapporto con le donne, intorno ai quali ruota la storia di questa esistenza.
Ho particolarmente apprezzato lo sguardo sognante con cui Romana Petri ha scritto “Rubare la notte” che riesce a rendere benissimo pensieri e sensazioni del protagonista dalla prima all’ultima pagina senza mai cedere passando attraverso l’amore per l’aviazione, le tante lettere alla madre e gli amori di così breve durata.
Credo però che questo non basti a renderlo un romanzo memorabile: dopo un po’ l’insieme risulta ripetitivo e anche un po’ noioso.
Non si tratta quindi di un libro che rimarrà nella storia della letteratura ma se si vuole scoprire di più di un personaggio così originale e del suo modo di vedere il mondo con occhi fiabeschi può valer la pena di leggerlo.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    21 Luglio, 2023
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Un confronto con la disabilità

Vincitore del premio Strega 2023, per quel che può valere, in Come d’aria l’autrice, Ada D’Adamo, racconta la sua storia con una figlia disabile molto grave e portatrice di una malattia genetica rara.
Ammalatasi di tumore metastatico Ada D’Adamo è morta quest’anno prima della proclamazione del premio al quale quindi era ormai predestinata.
E’ un libro che racconta il dolore questo, o meglio è un libro di dolore, secondo un filone già molto ricco. Il dolore può essere raccontato, può costituire uno sfogo da parte dell’autore che sente la necessità di metterlo su carta, può essere però anche sublimato e dar luogo ad altro, letterariamente più interessante. Qui ci fermiamo al racconto del dolore, sincero e che va rispettato, certo. Non riesco però a trovare traccia di grande letteratura. Alcuni dettagli stilistici mi hanno persino infastidito.
Fanno eccezione le parti nelle quali si parla di aborto nelle quali il racconto si fa orazione civile sicuramente di livello più alto.
Ma veniamo alla vicenda. Nonostante gli esami prenatali la disabilità di Daria, la figlia dell’autrice, non risultava, o forse qualcuno non ha saputo leggere correttamente gli esiti, chi lo sa. Smarrita di fronte ad un evento non previsto, l’autrice racconta il suo essere messa da parte già in ospedale all’atto della nascita, il suo sentirsi da subito isolata per qualcosa che nessuno voleva nominare e di cui nulla le veniva spiegato.
E questo senso di isolamento, di riprovazione da parte di chi non sa, di essere secondi, diversi, è un peso che si aggiungerà sempre a un altro peso.
Unica luminosa eccezione sono i bambini, che guardano con curiosità positiva a quella bambina diversa da loro.
Come sempre questi figli divengono totalizzanti, richiedono assistenza continua e pazienza infinita: cambiano del tutto la vita che diviene altro da prima. Eppure Daria, questo il nome, cresce ed è bella: forse, chissà, la sua disabilità non è stata notata proprio perché all’esterno non si nota molto.
Nel frattempo all’autrice viene diagnosticato un cancro al seno metastatico che la porterà alla morte quest’anno, ed ecco che ai problemi di salute della figlia la madre debba aggiungere i suoi.
Cerca Ada, cerca in internet, cerca altre madri, cerca gruppi nei quali confrontarsi. Non per cambiare la situazione, impossibile, ma almeno per capire, per condividere la disperazione.
Sullo sfondo le amicizie, il rapporto con il compagno/marito, e un passo più avanti il cancro e le preoccupazioni per l’avvenire.
Questo “Come d’aria” vuole essere uno sguardo nell’abisso dei sentimenti di una madre che si trova di fronte a ciò che non avrebbe mai voluto, che mette tutta sé stessa per fare ciò che può, che si sente sola di fronte alle difficoltà del quotidiano. Eppure finisce per esserne la cronaca, senza profondità.
Lo stile è essenziale anche se si avverte l’infinito dolore dietro le parole dell’autrice che cerca di razionalizzare la situazione. C’è una madre che si aspettava e ha desiderato tutt’altro, eppure ama quella figlia imperfetta che le ha portato via gli ultimi anni di vita.
Dispiace dover valutare un libro come questo che meriterebbe di essere letto come testimonianza, senza dover per forza esprimerne un giudizio.
Quindi sì, ne consiglio la lettura perché l’ascolto di un genitore di un figlio disabile è un grido al quale va prestata attenzione. Mi fermo però prima di dire che si tratta di grande letteratura.

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La vita di chi resta, di Matteo B. Bianchi
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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    06 Luglio, 2023
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Un bel romanzo di denuncia sociale

“Dobbiamo credere nel profondo dell'anima che siamo qualcuno, che siamo importanti, che meritiamo rispetto, e ogni giorno dobbiamo percorrere le strade della nostra vita con questo senso di dignità e di importanza.”

Premio Pulitzer per la narrativa nel 2020 e vincitore del National Book Award, “I ragazzi della Nickel” è un racconto di fantasia che prende però spunto da fatti veri (la storia di un istituto correttivo della Florida chiuso solo nel 2011 e nel quale si svolgevano fatti raccapriccianti, abusi e torture testimoniate da chi lo ha vissuto e dai resti ritrovati) ed è un romanzo di forte denuncia sociale.
Lo scopo del riformatorio sulla carta era aiutare i giovani a rimettersi sulla buona strada restituendo alla società persone migliori, di fatto era un luogo nel quale i continui abusi e le violenze che bambini e ragazzi dovevano sopportare, se resistevano e sopravvivevano, li rendeva persone ormai completamente finite e svuotate, destinate a una triste fine.
I racconti emersi dopo le denunce, anni dopo, hanno descritto questo riformatorio come un vero e proprio luogo degli orrori.
Se l’inferno esiste, questo era laggiù.

Siamo all’inizio degli anni ’60, quando la lotta per i diritti delle persone di colore si sta ormai espandendo in Florida come negli altri Stati ispirata dalle parole di Martin Luhter King. Ma tra le parole e la pratica ci vorrà ancora molto tempo per ottenere una vera parità di diritti, e forse ancora oggi questo tempo non è stato ovunque sufficiente.
Elwood, il protagonista, è un bambino mite e molto sveglio. Abbandonato dai genitori, vive con la nonna. Studia e allo stesso tempo svolge un lavoretto in un negozio riuscendo a guadagnarsi la stima non solo degli insegnanti ma anche del suo datore di lavoro che una volta intuitene l’attenzione e l’intelligenza se ne fida completamente.
Elwood ascolta e riascolta le parole registrate di Martin Luther King che divengono il suo faro e la sua fonte di formazione. In particolare coltiva la fiducia nel suo sogno in un mondo diverso nel quale finalmente tutti siano veramente uguali senza dover passare attraverso la violenza ma solo mediante l’amore.

Ottiene ottimi risultati a scuola e, ormai proiettato verso il college, che avrebbe iniziato nella stagione successiva, Elwood accetta un passaggio da uno sconosciuto per arrivare prima. Ad un controllo l’auto risulta rubata ed Elwood, che pure è estraneo al fatto, viene condannato al riformatorio, la Nickel appunto.

Si trova quindi catapultato in un universo di violenza e sopruso al quale cerca di fare fronte come può, da “resistente” e sognatore, come viene definito dal suo amico. Elwood rimane convinto che una vita migliore esista e che avrà la meglio sulle violenze. All’inizio lascia affiorare il suo senso di giustizia ed agisce di conseguenza. Questo non lo aiuta e viene destinato a forti punizioni corporali che lo fanno finire in ospedale. La vita, purtroppo, è talvolta molto diversa da come noi la vorremmo, ed Elwood cerca di mantenere un basso profilo con l’unico scopo di uscire il prima possibile.
All’interno del campo, come ovunque, i neri hanno un trattamento diverso dai bianchi: ricevono meno cibo e di minore qualità, gli alloggi sono peggiori, vengono puniti più spesso. Ingiustizia si somma a ingiustizia.
Alla Nickel fa amicizia con Turner che pur con meno convinzione, ne condivide idee e speranze e con lui la storia proseguirà.

Con la trama mi fermo non senza fare cenno al finale, pura poesia, che confesso di essermi riletta più volte non perché non fosse chiara ma per la bellezza di un cerchio che, finalmente e dopo tanta sofferenza, si chiude.

E’ un romanzo potente e di valore universale questo di Colson Whitehead che tiene attaccati alla pagina. La scrittura non cede mai alla facile retorica o alla lacrima, ma è asciutto e molto diretto mantenendo la barra sempre diritta sulla denuncia sociale di cui si fa portatore.
Questo però non vuol dire che si tratti di un pamphlet politico sociale: siamo invece di fronte a vera, grande letteratura.

La storia scorre rapida, trascinando il lettore in una vicenda che fa male ma dalla quale non si può prescindere. Un bel tratteggio dei caratteri, non solo del protagonista, con il quale il lettore arriva a congiungere quasi il respiro tanto si è coinvolti nella sua storia. Un disegno complessivo perfetto e che merita di essere letto.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    13 Giugno, 2023
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La sofferenza della condizione umana

"È nella natura delle persone immaginare che il vinto debba aver fatto qualcosa per meritare la propria rovina. La gente vuole che il mondo sia giusto. Ma il mondo su questo non si esprime".

«La sofferenza fa parte della condizione umana e bisogna accettarla. Ma l’infelicità è una scelta».

Difficile avvicinarsi a quest’ultima fatica di Cormac McCarthy senza aspettative. Dopo un capolavoro come La strada, è impossibile non avere un riferimento al quale paragonarlo di continuo.
E invece questo Il Passeggero è spiazzante tanto è diverso. L’unico punto di incontro a mio parere è nell’atmosfera che l’autore riesce a creare. Nel passeggero di tratta di disincanto, senso di oppressione, di impossibilità di superare la mancanza di una persona che si è amata, di vita in fuga non si sa dove e non si sa perché. Ma gli ingredienti di questa atmosfera sono anche molti altri.
Partiamo dalla trama, benché essa rimanga alla fine sullo sfondo e insoluta anche in quelli che dovrebbero esserne gli aspetti fondamentali. Ma non è lì il senso del libro ed è per questo che alcune parti non trovano una spiegazione perché non interessante.
Siamo nel 1980 e Bobby Western, di professione sommozzatore di recupero, scopre sul fondo del fiume Mississippi un piccolo aereo adagiato sul fondo. Nove persone tra passeggeri ed equipaggio. Eppure, scoprirà poi, ne manca uno, a quanto pare fondamentale. E manca anche la scatola nera.
Inseguito per ciò che in realtà non sa da due agenti di ignota provenienza (FBI?), Bobby Western si trova costretto a fuggire, benché non ne capisca il motivo.
Conto in banca bloccato, auto sequestrata. Un po’ alla volta non ha più niente se non i suoi amici strani e colorati ma che alla fine sono quelli che gli rimarranno sempre fedeli.

Va aggiunto che il protagonista oltre che essere un sommozzatore ha come padre un fisico che ha contribuito allo sviluppo della bomba atomica che distruggerà Hiroshima. Ed è anche studioso di matematica e pilota di formula 1. E questo rende il personaggio così complesso e sfaccettato e le conversazioni che intesse così varie.

E poi c’è la sorella Alicia, che viene ritrovata morta suicida nelle prime pagine del libro e con la quale Bobby da sempre ha avuto un rapporto incestuoso. Grande studiosa di matematica e ottima violinista Alicia è malata di schizofrenia. I capitoli che la riguardano sono in corsivo e sono quelli nei quali riceve le visite di strani personaggi frutto della sua fantasia.

I lunghi dialoghi che affollano il libro sono concisi e serratissimi, inclini al pessimismo, spesso fatti apposta per far perdere al lettore la cognizione di chi stia dicendo cosa. Ma in fondo non è così importante. Il senso è nel discorso che dal dialogo scaturisce.

L’atmosfera del protagonista in fuga, braccato, senza speranze e pieno di pessimismo, è ciò che ho più apprezzato.

Certo, c’è moltissimo altro in questo libro: ci sono colti rimandi letterari, ci sono dissertazioni di fisica, di filosofia, c’è un profondo nichilismo, e poi ancora e ancora. Più di così in un romanzo non credo si potesse far stare. E in questa parte non mi addentro lasciandola a chi ha già analizzato a fondo il romanzo anche perché non è forse in questo il senso di una recensione rivolta a chi è interessato alla lettura.

Il passeggero è un libro molto pieno e difficile, bello nella sua complessità ma spero di non essere sacrilega nel dire che forse non è così bello come La strada che io ho amato tantissimo. Va però dato atto a Mc Carthy di avere provato a 90 anni ad arrivare là dove nessuno, neanche lui, si era mai spinto, con un romanzo potente e complesso. Voleva arrivare oltre, e ci è riuscito
C’è chi ha detto che gli scrittori a venire saccheggeranno questo romanzo. Possibile, di sicuro.

C’è però una domanda molto semplice ed essenziale che credo occorra porsi di fronte a qualsiasi libro e la cui risposta può arrivare da mille motivazioni.
Mi è piaciuto? Ecco, sì mi è piaciuto ma credo che l’esperimento non sia totalmente riuscito. Non basta affastellare tanto, avere una prosa studiata, essere un grande scrittore per ottenere la garanzia di un capolavoro. Per me quindi, indipendentemente dalle ragioni che la generano, la bellezza sta nell’equilibrio (o nel disequilibrio, a seconda). Qui Mc Carthy non raggiunge il capolavoro che è La strada.

Vorrei chiudere con la frase che mi rimarrà impressa credo per sempre e che lascio a chi mi ha letto:

«Condividere la lettura anche di solo qualche decina di libri costituisce un vincolo ben più potente del sangue».

E ora aspettiamo con molta curiosità Stella Maris, il seguito de Il passeggero.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    02 Mag, 2023
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Scappare dalla guerra, e poi?

"Cosa facevo io mentre durava la Storia? Mi limitavo ad amare te." Izet Sarajli

La guerra in Bosnia, ed in particolare l’assedio di Sarajevo, fanno da sfondo a questo romanzo che ci racconta la storia ed il rapporto tra quattro ragazzini scappati da una Sarajevo nella quale risuonano le bombe.
Vivono tutti in un orfanotrofio e si decide di tentare di metterli in salvo facendoli scappare in Italia con un pullman che riesce superare tra non poche difficoltà tutti i controlli di sicurezza.
Tra questi bambini ci sono i due fratelli Sen e Omar, la cui madre li andava a trovare tutte le settimane e che Omar ricorda averlo incitato a scappare in occasione dello scoppio di una granata e che, da allora, è sparita. Omar non smetterà però mai di crederla ancora viva e di aspettarla.
Poi c’è Danilo, un ragazzo leggermente più grande affidato dalla famiglia al pullman nella speranza che si salvi almeno lui.
E infine Nada, niente, come dice il suo nome, con gli occhi azzurri e alla quale manca un dito di una mano. Orfana di entrambi i genitori, ha smesso di aspettarsi promesse mantenute dalla vita, una delle tante le viene fatta proprio da Danilo, durante il viaggio. Ha un fratello più grande, Ivo, che rimane in Bosnia per arruolarsi a combattere.
Tra i tre (Sen rimane sempre un po’ sullo sfondo) nasce un bel sentimento di amicizia, seppure diversamente declinato, che non si perde quando arriveranno nell’orfanotrofio in Italia.
La madre di Danilo verrà poi in Italia dalla Bosnia e lo porterà a vivere con lui, Sen e Omar verranno adottati. Nada, di carattere complesso, non troverà una famiglia disponibile ad adottarla. I protagonisti crescono e la storia procede con ciascuno di loro che seppur in modo diverso si porta dietro il suo passato.
E’ ben costruito narrativamente il diverso adattamento dei quattro (includendo anche Sen) alle vicende personali ed è proprio questa parte del racconto a mio parere ad indurci alla riflessione su quanto sia difficile coniugare il passato con il presente, gli affetti che non si vogliono abbandonare anche se non ci sono più e quelli nuovi che la vita ci offre. E anche quanto il passato incida sul presente.
Dobbiamo essere felici per forza o è un nostro diritto cercare chi ci ami come noi crediamo sia giusto?

E ancora: quanto un paese nuovo ed i suoi abitanti possono aiutarci a dimenticare il passato se noi vogliamo chiudere con la nostra storia una porta da non aprire mai più? O solo chi ha vissuto storie simili può davvero capirci e consentirci una giusta elaborazione del nostro tempo passato ed una serena accettazione del presente?
Le storie dei quattro protagonisti saranno alla fine tutte diverse. Il finale, che vuole riappacificare tutti pur in un nuovo equilibrio, mi ha lasciata insoddisfatta, forse mi attendevo una conclusione meno frettolosa, ma tant’è.
Ho inoltre trovato ben fatta la descrizione della famiglia adottiva di Sen e di Omar, così attaccata alla religione da renderla totalizzante, anche a scapito di chinarsi ad ascoltare le necessità dei figli che hanno adottato. Triste realtà purtroppo.
Il romanzo si inserisce nel solco delle riflessioni su adulti e bambini scappati dalle guerre, non è né il primo né, credo, sarà l’ultimo. Già allo Strega del 2022 l’argomento era rappresentato. Questo “Mi limitavo ad amare te” non rimarrà negli annali della letteratura, è tuttavia di piacevole lettura.

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Per tutti coloro che amano ragionare sulle famiglie separate dalle guerre.
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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    02 Mag, 2023
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Un romanzo di formazione

Ha un bello stile Olga Campofreda in questo suo “Ragazze perbene”.

Racconta la storia di Clara e Rossella, cugine e amiche sin dall’infanzia, quasi sorelle gemelle si direbbe. Crescono a Caserta in un ambiente familiare che le vuole “ragazze perbene” secondo un clichè femminile ormai stereotipato e che soprattutto a Clara va stretto. Trovare un marito, mettere su famiglia, accudire i figli. Così vuole la tradizione e così sarà sempre.
Per questo proprio Clara, la voce narrante, perennemente alla ricerca di un suo personale equilibrio, lascia la casa dei genitori a Caserta per andare a insegnare italiano in Inghilterra lontano da tutto quanto possa farle ricordare il mondo di origine. Cerca più volte su Tinder l’amore che le manca cercando di districarsi tra incontri usa e getta e la speranza che arrivi qualcosa di più. Mendica l’amore che vorrebbe e vive rapporti insoddisfacenti.
Nel frattempo Rossella, la bellissima cugina invidiata da tutto il paese per la sua perfezione, divenuta modella di abiti da sposa, annuncia il suo matrimonio e Clara ritorna a casa per prendervi parte.
Clara si ritrova così nel mondo della sua infanzia e delle sua amicizie di tanti anni prima a partire dalla festa di addio al nubilato di Rossella.
Rossella però scappa prima del matrimonio e Clara, sperando da una parte di trovare tracce, dall’altra di sapere qualcosa di più di Rossella, ne legge il diario.
Trova così risposta anche alla sua inquietudine e al suo personale desiderio di libertà che è in fondo anche quello della cugina. Per questo l’equilibrio tra le due si rompe quando i nodi esistenziali alla fine vengono a galla. Ognuna delle due sarà dare risposta ai propri desideri e alle proprie aspirazioni in modo diverso e troverà la sua strada.
Il romanzo parla di adolescenza, di giovinezza, di amore, di crescita e di necessità per ciascuno di sviluppare liberamente ciò che è. E’ sincero e vero, sicuramente adatto ad un pubblico giovane e in crescita.



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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    27 Aprile, 2023
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Storia di una madre mancata

Un libro necessario questo per squarciare un velo su una situazione frequente, troppo facilmente giudicata dall’esterno con tanti luoghi comuni e sulle sofferenze che porta con sé il fatto e i facili giudizi.
Antonella Lattanzi sceglie di raccontare se stessa e l’esperienza della sua mancata maternità così come l’ha vissuta, in tutta la sua tragicità. Dopo due aborti voluti perché si sentiva troppo giovane e con la carriera da scrittrice ancora da costruire, incontra alla fine Andrea con il quale inizia un rapporto stabile. Passano gli anni e di rimando in rimando il campanello dell’età biologica a 38 anni in qualche modo avverte che per avere un figlio occorre muoversi. Però il bambino non viene.
Inizia quindi la fase della medicalizzazione della maternità con la peregrinazione tra specialisti, ospedali, esami, farmaci, rapporti frequenti e a comando nei momenti “giusti”. Tutto inutile.
Lo step successivo, con lo sfondo del Covid e della pandemia alla loro massima espansione, sono le stimolazioni ormonali, i monitoraggi, i farmaci e alla fine i tentativi di fecondazione assistita. Dopo il primo fallito ecco che il secondo pare andato a buon fine. E’ uno, poi no, sono due gemelli, anzi alla terza ecografia sono addirittura tre.
Ecco quindi che la protagonista oscilla tra felicità e umane incertezze (saprò essere madre? E la mia carriera di scrittrice? Riuscirò ad avere il tempo? Lo voglio davvero?) e il rifiuto (e se sono due? E con tre come faccio?). Ma c’è un problema ulteriore. Non solo sono tre gemelli, ma condividono la stessa placenta con distinti sacchi amniotici, sono gemelli monocoriali triamniotici. Quindi una gravidanza rarissima ed estremamente difficile e pericolosa, per i bambini, che potrebbero non vedere mai la luce, e per la madre.
Il rischio si fa ancora più concreto e pulsante, la speranza si riduce al minimo. I medici suggeriscono, per mantenere accesa la fiammella della possibilità, seppur remota, che possano nascere, di effettuare una “riduzione”, in pratica di abortirne uno.
Con la storia qui mi fermo anche se la scrittrice il finale ce lo racconta subito: se qualcosa poteva andare male nelle varie fasi di questa storia è andato sempre e senza esclusioni male, anche peggio di quanto sarebbe potuto andare.
Il racconto è drammatico e oscilla continuamente tra il desiderio che i bambini nascano, i giudizi terribili di parte del personale ospedaliero, i problemi legati al lavoro, una candidatura allo Strega da firmare, le presentazioni del libro alle quali partecipare, il covid e le sue restrizioni. Il lettore non è chiamato a giudicare, perché tutte queste preoccupazioni sono concrete e vere, soprattutto se leviamo alla maternità l’alone della favola. Una donna è e rimane una donna con la sua vita da preservare anche quando nasce un figlio. E la paura di non farcela e di vedersi la vita stravolta è umanissima.
In tutto questo La protagonista sceglie di non raccontare a nessuno cosa sta vivendo salvo ovviamente al compagno e a due amiche fidate.

“Ci sono cose che non si raccontano per vergogna, rabbia, troppo dolore, e perché se non le racconti, in fondo puoi sempre credere che non siano successe.”

Un tentativo di allontanare sofferenza e contraddizioni. Non è però purtroppo così e quanto sta avvenendo è tutto drammaticamente vero.
Nel frattempo il rapporto di coppia si fa complesso, lei aggrappata alla speranza e al desiderio insopprimibile di diventare madre pur tra mille contraddizioni, lui che cerca di essere tranquillizzante.
Tutti o quasi gli altri all’esterno ignorano ciò che sta avvenendo.

Il racconto si configura come un lungo soliloquio nel quale la scrittrice dialoga con se stessa con una lingua parlata, semplice, immediata e molto drammatica. Non ci sono rifiniture, ricercatezze, pensieri profondi o periodi complessi. La lingua sgorga come il pensiero, le emozioni e il dolore vengono a galla nella storia.
Non c’è volutamente grande profondità psicologica nei personaggi. Al centro c’è lei, la protagonista, unica figura sulla quale la scrittrice indaga e accende con estrema spietatezza una luce fortissima.
Il romanzo è costruito con il ritmo di un thriller, del quale in realtà sappiamo già tutto dall’inizio, ma la scrittura è tesa, ritmata, emozionante e non lascia scampo al lettore che non riesce a staccarsi dalle pagine perché sente in esse una straordinaria verità e tanta vita vera. Non ci sono svolte, sorprese dietro l’angolo che non ci siano state annunciate, eppure vorremmo non smettere di leggere fino all’ultima pagina.

Credo che questo ultimo romanzo della Lattanzio fosse necessario perché affronta un argomento sempre taciuto circa la maternità. Quanto è essenziale e necessaria per sentirsi pienamente donne? Si può vivere una vita felice anche senza un figlio? Quanto possono essere pesanti, sfiancanti e lasciare il segno i tentativi di maternità? Come vengono vissuti all’interno della coppia?
A queste domande si cerca di dare risposta attraverso una storia molto dolorosa e che sentiamo risuonare dentro di noi mentre leggiamo. Un bel romanzo del quale consiglio la lettura.

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Qualsiasi libro sul desiderio di maternità
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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    17 Aprile, 2023
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Affascinante!

Un gioiellino questo romanzo di Gian Marco Griffi candidato al premio Strega per la sua grazia, la leggerezza, la sottile ironia che lo pervade insieme a momenti di puro lirismo.
Non si tratta di un romanzo “facile”, arriva da una piccola casa editrice e difficilmente lo si troverà promosso sui mezzi di comunicazione più popolari sui libri. Merita però sicuramente di essere avvicinato dal lettore più appassionato e che cerca sempre qualcosa che lo porti fuori dalla consuetudine, anche nel narrare storie. E proprio qui il vero lettore trova pane per i suoi denti. Niente facile retorica, nessuna storia strappalacrime, nessun bisogno di trovare stranezze per affascinare.
Ferrovie del Messico è il classico romanzo corale che potrebbe essere senza fine tale è la capacità narrativa dell’autore. La vicenda è di estrema semplicità. La storia si svolge ad Asti e vede il milite della Guardia nazionale Repubblicana ferroviaria Cesco Magetti, tormentato dal mal di denti che mai risolverà per la sua paura del dentista, che riceve l’assurdo ordine di preparare in una settimana una mappa dettagliata delle ferrovie del Messico. Ovviamente il protagonista non sa da dove cominciare. Inizia quindi la sua ricerca, con capitoli che talvolta tornano indietro nel tempo con lunghi flashback per approfondire le storie di alcuni personaggi che il protagonista incontra nel corso del suo difficilissimo tentativo di trovare un libro che dovrebbe aiutarlo nella compilazione della mappa. Lo troverà? Gli servirà? Riuscirà nell’intento? Questo lo lascio al lettore. Anche se in fondo non è in questo il vero scopo e il senso del libro.
La galleria di personaggi incontrati è infatti il cuore del libro. Ciascuno con la sua particolarissima storia viene narrato dalla penna agile e leggera dell’autore che ce li rende umani e vitali regalandoci quando un momento di comicità ed un sorriso, quando pagine di vera commozione. E ne nasce la perfezione di un romanzo narrato da tutti coloro che il protagonista incontra.
Altro punto di forza è l’infinita capacità narrativa dell’autore. Il romanzo infatti termina quando l’autore decide di farlo finire, ma potrebbe ancora proseguire, le storie si avvicendano e legano perfettamente una all’altra. E in fondo in fondo al lettore dispiace lasciare una storia in grado di stupirlo e portarlo con sè in mondi e storie che trascinano nel loro divenire.
Consigliato? Senz’altro, a veri lettori. Felice della sua candidatura allo Strega. Completamente meritata.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    15 Aprile, 2023
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Il rapporto padre è figlio

Non avevo mai letto nulla di Missiroli (Fedeltà l'ho letto dopo) e questo l'ho ascoltato in versione audiolibro.

"Avere tutto" narra di un figlio con il vizio del gioco d'azzardo che va a trovare il padre anziano e condannato da una malattia inguaribile a Rimini, loro città natale.
Il racconto si snoda quindi tra i ricordi dell'infanzia di chi scrive, ora impiegato in un'agenzia pubblicitaria, della giovinezza dei suoi genitori, provetti ballerini, e il momento attuale nel quale il figlio sta trovando il modo per accompagnare il padre negli ultimi frammenti di vita. In aggiunta il figlio, Sandro, sta cercando di abbandonare il vizio del gioco che tanto dolore e preoccupazione ha sempre generato nella madre ormai defunta e nel padre ora in procinto di lasciarlo.
Nel racconto sono presenti gli amici d'infanzia di Sandro, il narratore, la sua ragazza riminese, e altri amici del padre.
Bello il carattere del padre, nel quale si sente l'amore per il figlio in una solo apparente rudezza, e la sensibilità del figlio che appare non completamente in grado di affrontare il difficile momento che sta vivendo.
Ammetto di aver un po' faticato a seguire i continui flash back e ritorni al momento attuale del racconto che si mescolano in un unico flusso narrativo. Non so se la lettura al posto dell'audiolibro mi avrebbero agevolato nella comprensione, di sicuro ho faticato a seguire la storia senza perdermi. Li ho comunque trovati dispersivi.

Ho particolarmente apprezzato lo stile e la scrittura, frammentata ma in grado di regalare al lettore la sensazione di esserci in quel momento della storia. La freddezza è la poca partecipazione alla vicenda sono il tratto tipico dello stile di Missiroli.
Di sicuro non un capolavoro ma pur sempre un romanzo godibile.

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Missiroli in generale.
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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    13 Aprile, 2023
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Non convince

Tutto nasce da un tentato tradimento di Carlo, con una sua giovane studentessa, Sofia. Il “malinteso”. Da qui si dipana una storia che, come dice il titolo, ha al centro l’idea della fedeltà, esplorata sia dal punto di vista di Carlo che da quello di Margherita, sua moglie.
E così scopriamo i due protagonisti come persone che hanno messo da parte le ambizioni professionali per dedicarsi Margherita alla vendita di case, e Carlo al tentativo di trovare un lavoro almeno sufficientemente redditizio.
Intorno a loro personaggi minori: Andrea, fisioterapista e appassionato di lotta con il quale Margherita avrà una fugace avventura, Sofia ovviamente, che deciderà di lasciare il corso e tornare a Rimini a gestire un negozio di ferramenta con il padre, e la madre di lei, Anna, unico personaggio realmente positivo di tutta la storia che spesso capisce la figlia e il genero anche senza che questi parlino e se ne duole.
Procedendo nella lettura scopriamo che Carlo ha tradito diverse volte Margherita pur se senza impegno sentimentale, e Margherita ha comunque pensato spesso alla possibilità di rapporti diversi oltre al marito dopo Andrea.
Fedeltà racconta nei dettagli i combattimenti di cani ai quali Andrea fa partecipare il suo cane e quelli tra umani ai quali prenderà parte dopo che il suo cane morirà. Grande il trasporto di Andrea verso il suo cane, anche se ci si domanda quanto sia possibile voler bene a un cane e portarlo a combattere.
Sofia rimarrà comunque nella mente di Carlo fino alla scelta, più o meno libera, di distaccarsene.
Il tutto in una Milano descritta in modo maniacale (nomi di supermercati, slarghi nelle strade, dettagli anche minimi e decisamente superflui) così come la storia è dettagliata in ogni aspetto all’estremo e fino a risultare spesso noiosa. Anche i rapporti fisici sono dettagliati, e molto. Perché? Cosa ci dice in più? Cosa ci trasmette? In realtà tutto questo non aggiunge nulla alla vicenda.
Il tema è bello, nel suo tentativo di ragionare su difficoltà a capacità di proseguire in un matrimonio dopo un tradimento, nei suoi risvolti emozionali, sulla precarietà di qualsiasi rapporto, sul perdono e sull’inganno. E’ possibile la fedeltà? E cosa è in fondo e davvero? Quanto è importante un tradimento di una sera nella vita di una coppia?
Nel romanzo però non c’è sentimento né emozione in nessuno dei protagonisti, neanche dove dovrebbe esserci, salvo in Anna. Tutto è freddissimo, la storia è come incisa su lastre di ghiaccio e nulla trasmette.Non c’è relazione vera tra i personaggi. Se vuole essere una riflessione su un argomento così complesso, come può esserlo senza uno sguardo sincero dentro se stessi?
L’eccesso di dettagli rende lenta la lettura e frammentata. Il risultato è un romanzo molto osannato ma decisamente poco convincente.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    12 Aprile, 2023
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Una piacevole sorpresa

Per molto tempo rimandata per una perplessità aprioristica non so a cosa dovuta (forse troppo successo) ho finalmente e con ritardo deciso di avvicinarmi a “Niente di vero” di Veronica Raimo, vincitore del premio Strega giovani.
Non avevo volutamente letto recensioni quindi non sapevo bene cosa avrei trovato. Devo riconoscere di essere rimasta piacevolmente stupita. La storia è quella di una famiglia fortemente disfunzionale e preda di ossessioni e manie di vario genere da parte dei genitori.

La protagonista cresce quindi con un padre collerico, salutista e ipocondriaco aldilà dell’umanamente concepibile e che impone le sue manie ai figli, costretti a sopportare follie di varia natura. Costruisce continuamente muri fisici in casa ottenendo così microstanze nelle quali non entra neanche una finestra intera, li avvolge di scottex quando si convince che non devono sudare, li costringe a stare con le scarpe di cuoio in spiaggia per evitare che si feriscano ai piedi e altre amenità di varia natura.
La madre, con una forma di depressione che la porta a esternare la sua contrarietà a scelte del marito rimanendo a letto ad ascoltare radio 3, vive nell’adorazione del figlio maschio, considerato il genio della famiglia, costringendo i figli a subire la sua tempesta di messaggi sul cellulare perché se in due ore non riesce ad ottenere una risposta è matematico che sia successo qualcosa di irreparabile e attendendo che la figlia si decida a sfornarle un nipote.

Veronica, bambina, poi ragazza, giovane e adulta, cresce in questo folle ambiente tra mille soprannomi (Oca, è quello paterno), con l’unica abilità stabilita dalla madre di “amare disegnare”. Eppure Veronica sembra subire tutto senza porsi troppe domande pur liberandosi da questi atteggiamenti familiari appena potrà.

Il racconto si sposta avanti e indietro nel tempo senza tuttavia spaesare troppo il lettore. Il linguaggio è sintetico, le parole precise e che non lasciano spazio alle interpretazioni. Lo stile asciutto e fortemente ironico nella sua lucidità, brillante senza mai cedere a un calo di tensione.
Ho riso più volte per le follie raccontante con la massima serietà da chi le ha dovute subire.
I personaggi sono ben descritti e non vengono mai meno a ciò che sono. Lo stile si mantiene sul registro dell’ironia e del disincanto dall’inizio alla fine del racconto.
Non credo sarà un libro che rimarrà nella storia della letteratura, credo però che abbia molte carte da giocare sul registro del comico e valga la pena di essere letto, anche solo per regalarsi qualche ora di intelligente momento di ironia.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    11 Aprile, 2023
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Un bellissimo esordio

Un bell’esordio questo di Beatrice Salvioni con il romanzo di formazione “La malnata”. La storia si svolge a Monza nel periodo del fascismo, la guerra di Abissinia ormai alle porte. Protagonista è la voce narrante, Francesca, adolescente di buona famiglia, che appoggia il regime, va a Messa la domenica e partecipa alle adunate del popolo in divisa. Viene educata in un mondo di regole, deve stare lontana da compagnie considerate cattive e diseducative e soprattutto dai maschi. E non deve dimenticare di essere una femmina e seguire i clichè che la famiglia e i tempi impongono alle donne.
E poi c’è Maddalena, detta la “Malnata” perché di lei si dice che porti sfortuna. Ruvida, forte e fragile al tempo stesso, Maddalena è di famiglia modesta ma viva di quella che a Francesca appare finalmente vita vera. Vive in una zona popolare della città e le è morto tragicamente un fratellino da piccolo.
Francesca è attratta dalla Malnata e dai suoi amici in modo incontenibile: li vede andare a passare il tempo a piedi nudi sulle rive del Lambro rincorrendo gatti e lucertole, giocare a suonare i campanelli e scappare e, se capita, rubacchiare ciò che non possono comprarsi. Ed è proprio da un cestino di ciliegie che a Francesca non viene comprato e che Maddalena e i suoi amici rubano che nasce l’amicizia tra le due. “Io non ho paura di niente”, il motto della Malnata spesso ripetuto che continua a risuonare dentro Francesca che a poco a poco si distacca dal suo essere perfetta secondo le convenzioni e inizia a spendere bugie con la madre pur di trascorrere un po’ di tempo con Maddalena e i suoi amici, per andare anche lei sul Lambro e avere alla fine le ginocchia sbucciate e graffi qua e là che per lei sono segni dell’essere vivi. L’estate più bella che Francesca abbia mai vissuto, un’estate nella quale finalmente Francesca sente il profumo della libertà, di ciò che a lei è sempre stato proibito perché male per scoprire che male non è. E Francesca sente in modo evidente, pur senza ragionarci, che in quella libertà non risiede ciò che va rifuggito che va invece cercato altrove, forse nelle privazioni che le sono state imposte da convenzioni e nell’asservimento a un codice morale sbagliato e accettato supinamente.
E alla fine Francesca troverà la forza della ribellione alle ingiustizie in un bel finale in crescendo.
Non è il capolavoro della vita questo di Beatrice Salvioni, ma è sicuramente un romanzo ben congegnato, ben scritto e molto godibile.
Lo stile è piano e facilmente leggibile, i personaggi che ruotano intorno alle due protagoniste sono ben disegnati e funzionali al racconto. Bella a mio parere la figura del padre, il cui dissenso dalle convenzioni è molto tiepido ma sicuramente in linea con il racconto. O forse, più che di dissenso, il padre di Francesca è solo un uomo disilluso per aver capito ciò che è chiaro a molti ma che gli è necessario per mandare avanti l’azienda. Chissà. Contrariamente alla madre, che fin nel profondo soggiace a convenzioni e pregiudizi.
Belle le figure dei familiari di Maddalena e l’atmosfera semplice, accogliente e piena di sentimenti che sanno creare nella loro modesta casa soprattutto se confrontata con quella di Francesca.
E non tralascerei neanche Noè, il figlio del fruttivendolo, dalla parte di Francesca e della protagonista. Un ragazzo semplice e buono che vive le ingiustizie come sue ed è disposto a rimetterci in prima persona. Forse perché quel padre così burbero che ha alla fine si rivela più comprensivo di quel che si penserebbe.
E naturalmente i Colombo, l’altra metà, quella “cattiva”, perfetta rappresentazione di un mondo nel quale conta solo la classe sociale e l’appartenenza al fascio.
“La malnata” vale la pena di essere letto e rimane uno splendido inizio di un’autrice che ci auguriamo ci dia nuove soddisfazioni.

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Oliva Denaro
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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    11 Aprile, 2023
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Struggente, intimo, profondamente umano

"Le cose non sono mai belle come abbiamo sperato ma nemmeno brutte come abbiamo temuto”.
Solo alla fine questa verità sarà chiara per Roland, il protagonista dell’ultimo libro di Ian McEwan, all’inizio invece in apparenza davvero un perdente su tutti i fronti: famiglia, lavoro, affetti, ambizioni.
Nato da un padre militare e una moglie dolce ma sottomessa al marito, vive i suoi primi anni in una soleggiata Libia. Nel bel mezzo di anni di giochi in libertà è però costretto a seguire il volere del padre e a 11 anni viene mandato a studiare in un rigido collegio in Inghilterra, lontanissimo da casa e dalla amata madre che pur non volendolo è costretta a vederlo partire.
La madre di Roland è il primo personaggio femminile importante della sua vita. Una donna che soggiace al volere del marito che è talvolta anche violento con lei. Altro si scoprirà più avanti della coppia che in fondo ce la renderà anch’essa molto umana.
In collegio Roland, bravo e molto dotato in tutte le materie, subisce le morbose attenzioni di Mirian Cornell, sua insegnante di pianoforte, che costituirà ancora bambino il suo svezzamento sessuale e che instaurerà un perverso e malato rapporto affettivo con l’adolescente che ne subirà gli effetti al punto da trascurare lo studio. Il rapporto con Miriam è destinato a riprendere poi anni dopo. Si tratta quindi del secondo personaggio femminile negativo che influenzerà la sfera affettiva di Roland.
Messo in un angolo il pensiero della maestra di pianoforte, anni dopo si sposerà con Alissa dalla quale avrà un figlio, Lawrence. Alissa abbandonerà di nascosto entrambi e all’improvviso, senza spiegazioni, quando il figlio è ancora piccolissimo, per seguire l’ambizione di scrivere il romanzo della vita. Ambizione che Roland ha abbandonato per guadagnarsi da vivere scrivendo frasi a tema sui biglietti di auguri.
La storia procede con Alissa che diviene famosissima scrittrice, Roland che invecchia e Lawrence che cresce. Le vicende successive della vita di Roland hanno l’unico comun denominatore di un uomo che non riesce a prendere decisioni definitive e che vive in una perenne incertezza o attesa di poter compiere scelte definitive. In una costante provvisorietà, si potrebbe dire.
Sullo sfondo un lunghissimo periodo storico talmente recente da arrivare ad abbracciare anche l’esperienza del Covid, della pandemia e dei lockdown.
Il sentimento di Roland nei confronti di Alissa è altalenante: da una parte la odia per averli abbandonati, dall’altra la ammira per essere riuscita là dove lui ha fallito: trovare la forza di cercare ciò che potesse consentirle di scrivere finalmente qualcosa degno di essere apprezzato e di seguire le sue passioni, cosa che Roland ha totalmente accantonato.
Con il proseguire della storia però Roland ci si disvela come un personaggio a tutto tondo, non così diverso da tutti gli altri esseri umani e, in fondo, da tutti noi. Cercherà di risolvere quando rimane nella sua vita di ancora non concluso, di fare pace con il passato. Ci si manifesterà come spirito pieno di dubbi e di incertezze, come tutti. Ma anche con una grande capacità di amare e di capire. I rapporti con il figlio Lawrence, con la seconda moglie Daphne, con i figli acquisiti, ce lo rendono estremamente vicino e simile.
Lezioni è una lunghissima riflessione sulle scelte che compiamo nella vita, sull’influenza che gli altri hanno su di noi, di quanto male possano farci le loro scelte e le loro pretese sulle nostre fragilità, sulle nostre ansie e insoddisfazioni che accompagnano il nostro vivere, sulla nostra capacità di uscire da una situazione di sottomissione con quella forza di volontà che sembriamo non avere. In sintesi sulla nostra difficoltà a non limitarsi a subire la vita ma a viverla il più possibile.
Roland mantiene sempre la fiammella della speranza accesa anche se la forza sembra spesso venirgli a mancare facendolo rinunciare a molto di ciò che potrebbe imprimere alla sua esistenza la svolta che lui vorrebbe. E alla fine sarà la nipotina a tendergli la mano di finale riappacificazione con il suo passato, oltre che essere simbolo di una vita che continua con un poetico passaggio di testimone.
“Lezioni” è struggente, intimo, profondamente umano. E bellissimo

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    09 Aprile, 2023
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Commento

"La verità è che ognuno muore a modo suo, come sa e come riesce. Non esistono protocolli. Le confesserò una cosa: anch’io sono una principiante assoluta, ogni volta ricomincio da zero. È impossibile prepararsi, non ci resta che improvvisare.”
Paolo Milone riafferma con questo suo secondo lavoro la capacità di affrontare temi complessi ed eticamente pesanti con stile leggero e riflessivo al tempo stesso.
Qui si parla di morte, resa persona al punto da essere incontrata come un altro essere umano da chi, pur inconsapevolmente, quel giorno ha un appuntamento che gli è stato fissato dal momento nel quale nasce e che non può purtroppo essere ignorato e che, soprattutto, non viene dimenticato. Nella sua agenda la morte ha tutti gli appuntamenti ai quali implacabilmente non manca. E nonostante il compito ingrato non le fanno difetto la grazia ed un certo umorismo.
L’umanizzazione della morte serve a renderla accettabile o quantomeno sopportabile per noi che la dobbiamo subire. E’ talvolta descritta come in epoca medioevale veniva raffigurata, con falce, martello nero ed occhi profondissimi. Eppure non riesce a fare paura.
Il libro è strutturato in brevi storie, tutte tra loro diverse, nelle quali è narrato l’appuntamento di diverse persone con la morte. C’è chi ne è terrorizzato, chi la attende con pazienza, chi cerca di vincerla a carte per guadagnarsi qualche minuto in più, chi vuole precederne l’arrivo con un suicidio e così via. Tra una storia e l’altra l’autore inserisce qualche riflessione ulteriore, sempre con la sua consueta leggerezza.
Ogni vicenda ci fa pensare alla ineluttabilità del nostro agire, all’inutile nostro affannarci in attività per le quali non vale la pena di spendere una vita, al fatto, soprattutto, che noi viviamo inconsapevolmente, senza cioè pensare alla morte, e forse è meglio così. In sostanza la vita ci ridimensiona e ci dimostra quanto siamo impotenti di fronte al suo termine.
L’ultimissima parte del romanzo, da la “morte levatrice”, alla “morte ubriacona” fino alla “morte in villeggiatura”, completano la parabola di umanizzazione della morte, che addirittura contraddice se stessa aiutando a far nascere una nuova vita in caso di necessità e ad aiutare a recuperare mezzi di sostentamento ad una famiglia in difficoltà, fino al gioello della morte in villeggiatura, che ci racconta finalmente di una morte che prova sentimenti e soffre di fronte alla morte di un essere umano, arrivando quindi alla negazione del suo essere.
Paolo Milone dimostra ancora una volta di avere un suo personale stile narrativo, leggero e profondo al tempo stesso. Anche se devo ammettere che ho apprezzato di più il suo primo romanzo, “L’arte di legare le persone”, nel quale forse l’esperienza personale ha aggiunto una maggiore sensibilità al tema trattato e una più profonda partecipazione dell’autore al testo.

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L'arte di legare le persone
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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    01 Marzo, 2023
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Recensione

“Volevo semplicemente augurarle di sopravvivere a questa guerra per risvegliarsi fra vent'anni, ogni notte, urlando. Spero che lei non riesca a guardare i suoi figli senza vedere i nostri che ha assassinato.“
Un viaggio nell’inferno e ancora più in basso per capire fin dove possa spingersi la natura umana. Difficile e faticoso questo viaggio per il lettore, al quale viene richiesto di non tirarsi indietro di fronte ad un mastodontico racconto di quanto uomo possa perdere completamente la propria umanità.
Sin dalle prime pagine “Le benevole” colpisce per la crudezza, direi quasi l’asetticità del racconto che racconta il nazismo e i genocidi da esso perpetrati dal punto di vista del carnefice e non della vittima.
Protagonista è un tranquillo giurista, Maximilian Aue, appassionato studioso, che si ritrova per caso tra le fila delle SS. E deve obbedire: non gli è infatti di richiesto di pensare. Questo viene considerato non solo normale ma giusto.
Assiste e partecipa a crimini terribili. Sente, benché non chiaramente, l’illogicità e l’orrore di quanto viene compiuto, e, allo stesso modo, lo avvertono molti altri attori dei massacri. E’ forse questo il motivo per cui non nascono vere amicizie, a parte quella del protagonista con Thomas con il quale però Max non si apre mai completamente. Ognuno è solo con la sua personale riflessione e reazione ai gesti da lui stesso o da altri compiuti perché alternativa non ne esiste. Si crede al partito e quindi si agisce per “fede”.
Vietato affezionarsi (piccoli momenti come quello del ragazzo pianista o della bambina sull’orlo della fossa comune): non è previsto dal sistema, non si può. Al massimo si può chiedere al commilitone di uccidere in modo meno crudele. Capiamo così come chi agisce non è chiamato a giudicare le azioni che compie. L’autore non regala facile retorica: i massacri sono raccontati per come sono stati eseguiti, in tutto il loro orrore. Compresi i morti che non muoiono all’istante perché il colpo non è andato bene a segno (bisogna risparmiare pallottole e sforzo di morti da spostare). Un pugno nello stomaco. Pulito ma pur sempre un pugno.
La prima missione è la campagna di Russia. Non si possono lasciare ebrei dietro le milizie, quindi vanno metodicamente sterminati. Uomini e poi anche donne e bambini. Non c’è giudizio apparentemente da parte di chi scrive, ma questo non vuol dire giustificare. I fatti sono offerti al lettore per come sono. Il giudizio in fondo è già nella coscienza del protagonista, benché non del tutto consapevole.
Maximilien viene poi trasferito nel Caucaso e successivamente a Stalingrado, assediata, e che i Russi riconquisteranno. Ferito alla testa, si ritrova a Berlino dove opera negli uffici e viene successivamente assegnato alla reportistica ai fini di un miglioramento dei processi nei campi di concentramento ai fini dell’invio di lavoratori all’industria bellica.
Incontra e si confronta così con atteggiamenti molto diversi tra gli operatori dei campi di concentramento: c’è chi considera giusto e opportuno tutto ciò che si sta facendo, c’è chi, avendo affidate fabbriche che devono rendere in un periodo di guerra, non capisce perché la forza lavoro costituita dai prigionieri dei campi di lavoro non venga nutrita a sufficienza per essere in grado di lavorare e di produrre. E non capisce del tutto perché i campi di lavoro non lo siano veramente. C’è chi osserva con desolazione quanto sta avvenendo rendendosi conto dell’assurdità e, in fondo dell’orrore.
Ho trovato molto bella la riflessione sul perché i prigionieri vengano selvaggiamente picchiati oltre ad essere avviati alla morte: chi opera nei campi ha bisogno di convincersi della non umanità dei prigionieri. Non riuscendoci, perché questi sono umani come lui, li picchia cercando di fargli perdere la loro essenza, ma non ci riesce e alla fine li uccide, sconfiggendo così se stesso.
E non manca anche la riflessione sui problemi mentali che questo nuovo metodo di sterminio, sostituito al precedente (le fucilazioni di massa) per i problemi psicologici che generava in chi li operava, ne stia creando di nuovi e forse maggiori. E questo, dopo la guerra, costituirà un problema per la Germania, intravvede qualcuno.
La storia si alterna con i ricordi del passato del protagonista e della sua famiglia fino a che le due vicende si congiungono, all’epoca in cui si svolge la storia.
Proseguendo negli anni la disfatta tedesca si avverte sempre più vicina così come la paura che ciò che si è fatto venga scoperto.
Il racconto è fluido, normalizzante in qualche modo a dispetto delle atrocità descritte. Mette però a nudo una realtà, quella degli ufficiali delle SS, che non avevano sin qui trovato spazio narrativo così compiuto.
E’ una lettura che fa male attraversare, disturbante direi, ma che è necessaria per capire e avvicinarsi agli avvenimenti del passato in modo completo, non per accettare, impossibile, ma per capire come possa essere avvenuto.
Il libro rimane, in ogni caso, un capolavoro.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    16 Febbraio, 2023
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Commento

Di una bellezza davvero sfolgorante questo romanzo di Annie Ernaux, meritatissimo Nobel per la letteratura. Il racconto è quello di un aborto clandestino subito dall’autrice quando era giovane e quando ancora l’aborto era un reato. Era quindi necessario per le donne rivolgersi a chi praticava clandestinamente questa pratica, con tutti i rischi connessi per chi lo subiva.
Sin dalle prime righe il racconto colpisce e lascia attonito il lettore. Quasi un pugno nello stomaco.
Non c’è retorica sulla vicenda, non ci sono parole di troppo. Il racconto è asciutto, asettico e allo stesso tempo fortissimo. I personaggi della vicenda vengono indicati con le sole iniziali. In fondo non hanno importanza i nomi perché si sta raccontando una vicenda individuale che per come è raccontata diventa di valore universale. Qui risiede la potenza del romanzo. Non si tratta della vicenda di una donna ma di quella di tutte le donne che hanno dovuto subire i rischi di un aborto clandestino, la vergogna che le accompagna per il “crimine” che vogliono commettere, le frasi che vengono loro rivolte e che risuonano come condanne.
L’impressione è anche che l’autrice voglia uscire da se stessa e diventare altro per raccontare “l’evento” dall’esterno. Come se non fosse suo, se non l’avesse vissuto.
I compagni di università, il padre del bambino, il medico, la farmacista, la donna che praticherà l’aborto, il personale dell’ospedale dove verrà ricoverata per emorragia. Tutti presenti ma quasi trasparenti nella loro potenza espressiva e nel loro giudicare con magari una sola frase, terribile per chi l’ascolta. Benché ciascuno sia nel romanzo costituito da solo due iniziali.
Bella anche l’atmosfera parigina, città dove occorre recarsi per abortire. Il bar, la chiesa dove va a pregare di non sentire troppo dolore, luoghi e momenti scolpiti dalla scrittura della Ernaux e che risultano quasi immobili, fermi nel tempo e nello spazio.
Certo, successivamente scoprirà che c’è chi pratica clandestinamente aborti anche nel paese dei genitori, ma solo dopo, prima non la aiuterà davvero nessuno.
La sensazione è di entrare in un’atmosfera cupa benché vuota di personaggi che sentiamo carne e ossa, eppure piena della solitudine e della violenza psicologica che la protagonista dovrà subire per liberarsi da ciò che viene chiamato sul suo diario in molti modi per evitare di dargli il suo giusto nome: lei è incinta e aspetta un bambino. E questo diventa “il problema”.
La lettura attrae il lettore come una calamita ed è di incredibile racconto.
Questo racconto, così come è stato fatto dalla Ernaux non è solo splendido, era necessario. Qualcuno doveva scriverlo. Meglio della Ernaux non sarebbe stato possibile farlo.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    24 Settembre, 2022
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Un viaggio fantastico che avvolge e porta con sé

Una misteriosa oscurità sta avvolgendo la terra: come una moderna Apocalisse il buio porta con sé e annienta ogni traccia di essere vivente. L’autrice segue da un capo all’altro del mondo la rotta del buio che tutto trascina via, descrivendoci esseri indifesi, colti nelle loro attività quotidiane, impauriti da ciò che non conoscono e a cui affidano la fine della loro vita, tanto da rimanere talvolta immobili ad aspettare che si compia il triste destino di morte.
Nel frattempo un uomo, Laken Cottle, cerca disperatamente di tornare a casa per raggiungere moglie e figlia, preoccupato per il loro destino. Il racconto del suo stranissimo viaggio, popolato da creature fantastiche, si alterna con capitoli dedicati alla sua infanzia altrettanto popolata da strani esseri e strane vicende.

Il racconto è onirico, immaginifico, talvolta si fa quasi mitologico tanto è pieno di creature fantastiche. C’è anche violenza nel viaggio e nella storia di Laken, sempre però vissuta su questo piano sognante e, anche, molto simbolico: la luce, il sole, gli occhi (spesso cuciti con un filo affinché non si aprano), i corvi.   Elementi che ricorrono in una realtà che tale non sembra.

La scrittrice spiazza, crea un intero universo parallelo, macabro per molti versi. Una giostra di emozioni dal quale non si ha scampo. Un sogno, o forse meglio un incubo per il protagonista e per il lettore che cerca tracce di normalità laddove questa non è contemplata.
In questo romanzo ci si perde, apparentemente ci si confonde come in un labirinto. Ci si chiede dove si sia finiti, se ciò che si sta leggendo possa avere una logica, in qualche modo. Nonostante questo straniamento la scrittrice riesce a tenere il lettore bene avvinto benché preda della confusione e incapace di comprendere e dare un senso a ciò che sta leggendo. Impossibile lasciare la lettura, una forza intrinseca al racconto ci trascina avanti.

Ma alla fine tutto torna e tutto diventa credibile. Tutto si spiega, nonostante la durezza della verità. Il cerchio si chiude, i tasselli vanno tutti al loro posto disvelandoci il senso di un viaggio sulla colpa e sulla responsabilità individuale che è un capolavoro unico e una storia totalmente inattesa.
Si deve arrivare al cuore del buio per avere svelata la verità.
Difficile definire questo romanzo, tante cose è contemporaneamente: non esiste una categoria alla quale ascriverlo. Si vorrebbe quasi entrare nella testa dell’autrice per capire come sia riuscita a regalarci un capolavoro di tale novità.

Memorabili, oltre al resto, l’elenco di scrittori ai quali chi scrive storie si ispira, e quell’inciso spesso ripetuto: “chi racconta le storie governa il mondo”.

E Tiffany McDaniel, autrice dalla penna magica e dalla fantasia inesauribile, ha scritto una storia potente e unica dalla quale, dopo l’Estate che sciolse ogni cosa e Il caos da cui veniamo, entrambi per me splendidi, non si può più prescindere se si parla di letteratura contemporanea.

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Romanzi autobiografici
 
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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    10 Settembre, 2022
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Recensione

Nel romanzo, autobiografico, l’autrice Tara Westover racconta la propria storia. Nata in una famiglia di mormoni tra le montagne dell’Idaho, Tara non viene registrata all’anagrafe, non va a scuola e riceve un’istruzione molto approssimativa. Non ha mai visto un dottore, vive preparando barattoli di pesche sciroppate e provviste varie in attesa di una fine del mondo che non arriverà quando previsto e non arriverà ovviamente mai. Eppure, convinta e psicologicamente soggiogata dal padre, dorme sempre con il sacco pronto per scappare accanto al letto in caso di sorprese. Lavora sin da piccola nella discarica del padre, uomo fanatico, affetto da disturbo bipolare e manipolatore della psicologia dei figli e della moglie, vero padre padrone della storia, sottoponendosi a lavori di fatica e molto pericolosi. La madre, completamente sottomessa al marito, fa la levatrice (non andando mai in ospedale i bambini nascono in casa, anche nei casi più a rischio) e prepara intrugli con le erbe usati a scopo curativo (le medicine sono bandite, si muore, piuttosto, se questa è la volontà di Dio). Tutto ciò che è normale, nella loro famiglia è opera del diavolo ed occorre tenersene lontani.
Tara vive violenze fisiche e psicologiche da parte del fratello Shawn, sempre negate dai genitori, che la spingono a crederle frutto della sua immaginazione.
Ciò che però è peggio nell’assurda realtà che Tara si trova a vivere, è la completa negazione di se stessa che il padre opera su di lei, rendendo i legittimi desideri e stimoli di una bambina e poi ragazza una colpa. Tara vive quindi sentendosi sporca, sbagliata, “puttana” come le dice il fratello. Qualsiasi tentativo di liberarsi dal giogo familiare sarà quindi vissuto da Tara come colpa sua personale.
Quando uno dei fratelli si allontana dalla famiglia decidendo di studiare, quella che era una curiosità per un possibile diverso modo di vivere inizia a farsi strada. Tara quindi supera l’esame di ammissione al college ed inizia il suo difficile percorso di emancipazione dalla famiglia. Certo è difficile il college per Tara che non è mai andata a scuola e ignora per esempio anche la parola e gli avvenimenti dell’Olocausto. Eppure studia, legge, impara e supera le difficoltà che trova di fronte a sé con testardaggine mantenendosi grazie alle continue borse di studio che vince. E continua a negare con compagni ed amici la sua realtà familiare, sempre accuratamente nascosta. Naturalmente non riesce ad instaurare neanche relazioni di coppia.
Fino all’ultimo, quando lei starà ormai scrivendo la tesi di dottorato a Cambridge e poi ad Harward, il padre tenterà di riportarla sulla strada della religione. Per Tara ogni ritorno a casa per le feste diviene un ritorno al passato dal quale fatica a staccarsi. Fino a che non capirà che diventare ciò che desidera e che si è costruita con tanta fatica, poter davvero pensare e decidere da sola, costruirsi una sua visione del mondo, per liberarsi dal giogo familiare e da quel modo di pensare insomma, dovrà staccarsene completamente, dovrà scavare un solco tra se stessa e la famiglia che ormai la rifiuta. Il percorso è doloroso ma necessario.
L’autrice racconta la propria storia senza indulgere a pietismi, narrando le fatiche di bambina ma anche il coraggio che si è sempre data in qualsiasi circostanza, anche la più difficile, anche quando aveva davvero paura. Le vicende familiari non prevedevano che si potesse avere paura, che ci si potesse rifiutare di fare ciò che il padre voleva per i figli. E spiega anche come per tanti anni sia stata combattuta tra le due realtà: quella normale, che si trovava a vivere al college, con amici normali che facevano cose normali, e la famiglia che costituiva una calamita alla quale era difficile resistere, perché lì si cerca l’amore dei genitori e di chi dovrebbe volerci bene.
Tara racconta con sincerità i dubbi e il suo sentirsi in colpa per esempio quando, in occasione di un mal d’orecchie, le è stato posto di fronte da un amico un banalissimo antidolorifico. E i tentativi di capire dove fosse finito quel male quando dopo mezz’ora è passato. Opera del diavolo, sicuramente, e sua immensa colpa l’averlo preso. Però quanto si stava meglio senza dolore!
L’educazione è un romanzo di formazione che si legge d’un fiato non senza soffrire con Tara, felici ogni volta dei suoi passi avanti nel suo percorso di emancipazione. Una donna fortissima che ha saputo liberarsi dal giogo di estremismo familiare e si è costruita come ha desiderato tra mille difficoltà. Impossibile non immedesimarsi e parteggiare per lei e la sua crescita.
Lo stile sempre diretto, senza fronzoli, sincero e introspettivo se serve ma senza indulgere a sentimentalismi lo rendono ben equilibrato, appassionante e coinvolgente. Una realtà che si fatica a credere vera e che è invece molto vicina a noi.



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Il caos da cui veniamo
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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    16 Agosto, 2022
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Recensione

Una scoperta questo romanzo. Dopo una parziale delusione che mi era rimasta dalla lettura di “Tre piani”, ho affrontato questo con diffidenza. Quanto mi sbagliavo!

Una solida struttura narrativa, una scrittura piana e facilmente leggibile, uno schema narrativo forse già visto ma ben strutturato e coinvolgente, un doppio finale che mi ha strappato le lacrime. Già era bello il primo di finale, il libro si sarebbe potuto chiudere così, ma la storia va avanti regalando un finale inaspettato e meravigliose suggestioni al lettore lasciando un bellissimo ricordo del romanzo.

La trama, in breve, descritta dalla voce narrante di uno dei protagonisti. Quattro amici strettissimi che stanno prendendo strade diverse, nel corso di una finale dei mondiali decidono di scrivere ciascuno tre desideri che vorrebbero vedere avverati per i mondiali successivi. Uno dei tre desideri lo condividono subito. Da quel momento il destino e la loro volontà inizierà a portarli su una strada che non necessariamente sarà quella scelta.

L’amicizia al maschile è descritta benissimo, è molto vera e coinvolgente, la storia di Israele rimane volutamente sullo sfondo perché non è quella che si vuole raccontare. Ci sono i quattro protagonisti al centro, il narratore in particolare. La storia è presente certo, non sarebbe possibile evitarla, ma non in primo piano. E i protagonisti sono parte di quella storia.

Il romanzo si arricchisce di invenzioni davvero geniali come l’amico che c’è e non c’è, Shachar Cohen. Sarebbe il quinto amico, ricco di mistero e con una sua storia che si intreccia a quella dei quattro protagonisti.

Come definire “La simmetria dei desideri” (bellissimo titolo, tra l’altro)? Struggente, dolce, pieno di leggera, malinconica tristezza. Consiglio di leggerlo cercando di andare aldilà del semplice racconto perché è aldilà della storia, pure bella, che il romanzo si dispiega in tutta la sua armonia.

Non voglio dire di più perché dovrei svelare parti della trama. Un solo consiglio: da leggere!

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    01 Agosto, 2022
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Occorre davvero fuggire per salvarsi?

Il romanzo ha come protagonisti principali una madre, Agnes, donna molto bella e curata ma alcolizzata e il figlio più piccolo, Shuggie.

Agnes viene abbandonata dal marito che non riuscendo a sottrarla all’alcol e tradendola continuamente, non sopporta più la convivenza, e appena riesce anche dalla figlia più grande che si sposa e va a vivere lontano, e più avanti nel romanzo anche dal secondogenito. Rimane Shuggie, che la ama più di se stesso e che soffre quando vede la madre preda dell’alcol per respirare invece una precaria aria di normalità quando lei non beve.

Shuggie, bambino educato, protettivo nei confronti della madre perché come la madre ha bisogno di essere amato, delicato nel parlare viene deriso dai compagni molto diversi da lui nella estrema povertà del periodo e del luogo in cui abitano. Viene presa in giro la sua andatura e viene considerato un bambino con attitudini omosessuali. Shuggie ovviamente ne soffre senza riuscire a capire cosa ci sia di sbagliato in lui.

L’avvicinamento agli alcolisti anonimi aiuta Agnes a liberarsi dall’alcol, purtroppo solo temporaneamente finché un uomo che dice di amarla non la costringe alla prova d’amore: provare a bere per dimostrare di essersi liberata dalla schiavitù dell’alcol. Ed Agnes, che beve per dimenticare una vita che non le piace, sprofonda di nuovo nella sua dipendenza.

La vicenda si svolge a Glasgow, nel periodo della chiusura delle miniere che causa un forte impoverimento nella popolazione che si ritrova in gran parte senza lavoro e senza fonti di sostentamento.

Nel libro si respira infatti una forte ed estrema povertà e una rassegnata disperazione da parte di tutta la comunità nella quale i protagonisti vivono. Agnes è una ex donna bellissima, sfruttata dagli uomini che la usano per i loro appetiti sessuali, ormai vestita con abiti che una volta erano lussuosi, almeno quelli che non ha impegnato per raccattare qualche soldo. Inganna il contatore recuperando le monete per avere un po’ di energia in più, acquista dai cataloghi non sapendo se e quando pagherà e spesso il cibo sulla tavola manca perché il poco denaro di cui dispongono viene speso per acquistare birra. E i suoi vicini non sono da meno. Eppure la solidarietà non scatta ed Agnes, sempre curata e truccata nonostante la povertà, è odiata dai vicini di casa.

Lo stile è scarno e racconta i fatti come sono, senza indulgere a sentimentalismi o eccesso di disperazione: è un mondo povero che si arrabatta per sopravvivere, un microcosmo dal quale pare non esserci via di uscita e che viene descritto per ciò che è.
Il senso del romanzo, più volte ribadito, è che occorre fuggire per salvarsi, perché nessuno verrà a farlo se non ci pensiamo da soli. L’alternativa è essere trascinati nell’abisso. Esiste la possibilità di una scelta e di un finale diverso se tutto viene fatto per amore?
Il romanzo riesce a trascinare il lettore in un mondo di miseria, ignoranza e cattiveria, nel quale Agnes a suo modo e soprattutto, Shuggie, un bambino, si caratterizzano per la loro differenza da tutti gli altri e la forza che emanano. Un libro da leggere e che non si dimentica.

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Le ceneri di Angela (Franck McCourt)
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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    27 Luglio, 2022
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Un bell'affresco di storia italiana

E’ una bella saga familiare, come oggi vengono denominati libri di questo genere.
La storia parte dal capostipite, Maurizio Sartori, che sul fronte della seconda guerra mondiale, per umanissima paura scappa e là dove si rifugia troverà la donna della sua vita che sposerà dando inizio alla storia.
Le generazioni si susseguono, i personaggi si moltiplicano (due figli, quattro nipoti e ancora avanti) ciascuno con la propria storia ed il proprio carattere, spesso tra di loro opposti. La vicenda è strettamente intrecciata alla storia del nostro paese ed alle sue vicende politiche dal periodo del fascismo ai giorni nostri. La storia non fa da sfondo ma è parte importantissima del racconto e delle vicende dei personaggi insieme al loro stesso sentire. Un tutt’uno insomma che risulta piacevole, interessante e in qualche modo necessario.

Lo stile è impeccabile, la prosa scorre fluida ed elegante. Forse per scelta l’autore non inserisce sé stesso e le proprie riflessioni. Sono le vite dei personaggi a parlare. A dispetto della mole (quasi 900 pagine), non si avverte la fatica e si legge volentieri. Il racconto non mette al lettore la fretta di scorrere le pagine per sapere cosa succederà nelle pagine successive: è una storia di vite umane e va seguita con il ritmo della stessa vita.
I caratteri sono tutti ben disegnati, ciascuno con le proprie caratteristiche e la propria unicità, al punto che persino ad un tentativo di paragone (Renzo al figlio Libero che viene paragonato al nonno) quest’ultimo dentro di sé si ribella sentendosi se stesso, diverso ed unico.

Ho trovato interessante ripercorrere i pensieri ed il sentire in anni in fondo vicini ma che avvertiamo irrimediabilmente lontani (gli anarchici, le lotte operaie, la nascita dei sindacati, i radicali).

Qualche considerazione da lettrice.
Se in un libro si cerca l’effetto “wow” non è la scelta giusta. Questa è una storia da gustare mano a mano che avviene, senza colpi di scena, bella anche per questo.

Eppure, nonostante la facile leggibilità, il bello stile, la storia interessante e tutto il resto, ho perennemente avuto la sensazione che al romanzo mancasse qualcosa. Mi sono più volte chiesta se alla fine mi avrebbe lasciato qualcosa per farsi ricordare o se non saremmo andati oltre una bella storia ben raccontata. La questione è che non si riesce ad entrare in vera empatia con i personaggi, quasi che il lettore venisse relegato a spettatore senza alcun coinvolgimento emotivo. Mi è spesso venuto da pensare che al romanzo mancasse “il sale”, in realtà manca il nostro essere “dentro la storia”, che scorre agile ma sostanzialmente fredda. Questa per me l’unica pecca del romanzo che per il resto mi sento assolutamente di consigliare come un grande affresco di storia italiana.

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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    28 Giugno, 2022
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La paura di essere neri

Vincitore del National Book Award 2021, il romanzo racconta la storia di un ragazzino di dieci anni magro, longilineo e dalla pelle nera come la pece, tanto da essere ribattezzato Nerofumo, nome che si porterà dietro per tutto il racconto.
Il ragazzino ha sulle spalle 10 anni di discriminazioni per il colore della sua pelle. Viene bullizzato dai compagni bianchi quando va a scuola, in particolare dal bullo numero uno, quello che ha la pelle bianca come il burro e un fisico quasi da adulto perché avvezzo a lavori faticosi in famiglia. E il nostro protagonista invece è così nero da portare pantaloni lunghi e felpa con il cappuccio tutto l’anno pur di nascondersi e nascondere il colore della sua pelle. A nulla serve un padre che cerca di consolarlo e che gli dice che è bellissimo. I fatti dicono altro.
Sin da bambino cerca di allontanare la consapevolezza di cosa significhi essere neri, detto meglio, la paura di morire per nulla altro che per il colore della propria pelle. Gli adulti cercano di rimandare sempre di più il momento nel quale saranno costretti a spiegargli la verità e a strappargli così i suoi sogni di bambino. Eppure la sua vita, con le notizie quotidiane, è già lì a dimostrare come stiano davvero le cose.
Nel frattempo sin da bambino sogna, sogna di poter diventare invisibile perché il suo colore non si veda più, per evitare di essere bullizzato. Sogna di poter sparire quando ne ha bisogno: per non essere in pericolo e per non soffrire. E ogni volta torna da questa invisibilità con la mente che ricorda meno di ciò che lo farebbe soffrire: una forma di autoprotezione. Ci sono limiti al dolore che l’essere umano può ospitare senza impazzire, e questa è la modalità scelta da nerofumo.
E poi c’è lo scrittore, la cui storia scorre alternandosi a quella del bambino con la quale si incontra spesso. E’ un esordiente di successo, anche lui nero, anche se la sua mente glielo ha fatto dimenticare, sempre come forma autoprotettiva, che soffre di una strana malattia per la quale realtà e fatti veri si mescolano ad altri frutto esclusivo della sua immaginazione. Il suo primo libro, “Che razza di libro”, ha avuto un enorme successo e lui è impegnato a girare gli Stati Uniti tra presentazioni nelle librerie e interviste. Aiutato in questo dalla sua agente e da un media trainer che non si cura del suo aspetto (questo lo fa già la sua agente) ma della sua preparazione psicologica e pratica alle interviste. Cosa deve dire? Ma soprattutto perché deve dirlo? Cosa davvero il mondo vuole sapere di lui? Memorabile la scena dell’incontro tra i due e la prima seduta e la scoperta che dovrà rispondere tutto salvo quello che davvero vorrebbe raccotnare.

Nel corso del tour di presentazione non si lascia scappare l’occasione di godersi la vita, per quel che può, mentre illude la sua agente di avere già iniziato la scrittura del secondo libro e di avere ancora da parte l’acconto ricevuto dall’editore. Ovviamente non è così.
Dopo il primo incontro con il bambino lo scrittore se lo ritrova spessissimo e nelle occasioni più strane, fino a capire che è l’unico a vederlo. E’ frutto della sua immaginazione o è il bambino che ha coronato il suo sogno di riuscire a diventare invisibile?
E il bambino e lo scrittore sono frutto dello stesso processo di rimozione di ciò di cui allontaniamo il pensiero per non soffrire? La verità è però sempre in agguato dentro di noi e prima o poi saremo costretti a farci i conti, ad affrontarla e ad elaborare quella sofferenza.
“Che razza di libro” è un libro sulla paura. Paura delle discriminazioni, paura del male che anche solo le parole possono fare. Paura di morire, perché basta poco o anche niente se si è neri per perdere la vita. E l’essere bambini non protegge. Paura del male, paura di soffrire. Impossibilità di reagire davanti alle ingiustizie.
Le domande che il racconto pone di continuo sono urgenti per il lettore che però, preso dalla storia, va oltre. Ma quelle ritornano.
E’ anche un racconto sullo scrivere e sulle tecniche di marketing per la promozione. Alle domande che gli vengono poste lo scrittore vorrebbe opporre l’unica verità vera: ha scritto perché sentiva l’urgenza di scrivere, niente altro. Eppure dovrà imparare a dare le risposte che il pubblico vuole davvero.
E in fondo anche lo scrittore ha trovato un escamotage alla sofferenza perché non diventi troppa, a partire dal suo dimenticare di essere nero. Ecco quindi che la sua reazione da nero ai neri uccisi riesce a non fare troppo male, a generare solo una tiepida reazione.
Circa il desiderio di diventare invisibili: essere visti serve solo come protezione o essere visti vuol dire essere riconosciuti ed accettati per ciò che siamo?
E la verità dello scrittore fin dove arriva quando si scontra con ciò che i lettori vorrebbero sapere? E cosa siamo disposti a fare pur di sopravvivere?
E noi, ci interroga il libro, quanto siamo in fondo fatti allo stesso modo? Quanto cerchiamo di non pensare per non doverci interrogare? Il racconto solleva davvero molte domande alle quali il lettore è chiamato a dare le risposte.

Nonostante il libro sia permeato da una triste sensazione di paura, nonostante la drammaticità dei fatti che talvolta vengono raccontati, lo stile è da subito allegro, scanzonato, divertente e si fa satirico quando l’attenzione si sposta sullo scrittore. Diviene però riflessivo e più poetico quando il punto di vista è quello del bambino e della sua storia in una bella alternanza di atmosfere allegre e tragiche passando talvolta ad un tono più lirico.
La pagina attrae e la lettura non stanca benché, a mio parere, qualche volta nella seconda parte si percepisca un po’ di ripetitività dei temi.
Probabilmente per scelta i caratteri sono approfonditi solo in parte: lo scrittore ha scelto di dare la precedenza all’atmosfera generale del libro e alla costruzione della storia, e in questo la prova è riuscita.

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Romanzi
 
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marialetiziadorsi Opinione inserita da marialetiziadorsi    23 Mag, 2022
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Da leggere

Dopo "L'estate che sciolse ogni cosa" che già tanto mi era piaciuto, ho scelto di proseguire con la stessa autrice.
Questo è uno di quei libri che rimangono nel cuore, uno splendido romanzo di formazione nel quale l'autrice riesce a coniugare la durezza della storia con la poesia dell'insieme.
Non è stata facile la vita di Bitty, la madre dell'autrice alla quale il romanzo, che ne racconta la storia, è dedicato. Una famiglia complicata, difficile, con fantasmi che arrivano dall'infanzia, anche violenta per alcuni versi, eppure...
Personaggi meravigliosamente disegnati, in particolare il padre, ma tutti lo sono, nulla è fuori posto. Una lingua asciutta è ricca al tempo stesso, un ritmo perfetto. Una storia di famiglia
Un regalo la lettura di questo libro, che a mio parere si merita tutte e cinque le stelle. Entra di diritto tra i libri più belli che ho letto quest'anno.

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L'estate che sciolse ogni cosa
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