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Menti55 Opinione inserita da Menti55    09 Aprile, 2024
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La disperazione in una plumbea Glasgow

Opera prima di Douglas Stuart e vincitore del Booker Prize 2020 “Storia di Shuggy Bain” si inserisce in quel filone narrativo che esplora la condizione della working class inglese nel periodo della Tatcher. Per gli amanti del cinema le atmosfere sono quelle tipiche dei film di Ken Loach. Ambientato nei sobborghi poveri e squallidi di una Glasgow grigia, quasi sempre piovosa, il romanzo, che ha forti connotati autobiografici, narra del rapporto e del grande amore tra una madre, Agnes, e un bambino, Shuggy. Shuggy, vezzeggiativo di Hugh, è il figlio nato dal secondo matrimonio di Agnes con l’omonimo padre Shug Bain, tassista e impenitente donnaiolo. La famiglia inizialmente vive a Sightill (il quartiere di nascita di Stuart), insieme ai genitori di Agnes, Lizzie e Wullie. Stanco della gelosia - fondata - di Agnes e delle sue richieste di avere una casa tutta per loro, Shug “confina” Agnes, Shuggy e gli altri due figli di Agnes, avuti dal precedente matrimonio, Catherine e Leek, a Pithead. Quartiere abitato dalle famiglie dei disoccupati creati dalle politiche liberiste della Tatcher, in Pithead lo squallore e la miseria regnano imperanti. Scritto con grande realismo Stuart non minimizza, non nasconde ma, anzi, descrive i luoghi, i personaggi, la comunità in cui essi sono calati con dettagli minuti che altrimenti sarebbero passati inosservati. L’intento dell’autore è quella di condurre il lettore per mano “dentro” il romanzo senza lasciare alcuno spazio all’immaginazione.
Nella sua narrazione Stuart assume il punto di vista delle donne poiché, come dichiara egli stesso, “cresciuto in mezzo alle donne, mia mamma e le sue vicine, ho sempre avvertito che la struttura portante della città si poggiava su di loro…e quindi volevo che questa fosse una riscrittura dal loro punto di vista…perché se gli uomini sono vittime (in questo caso dei licenziamenti) sono le donne e i bambini a sopportarne le conseguenze”.
E infatti, nella comunità di Pithead, le protagoniste pressoché esclusive sono le donne; gli uomini restano ai margini e quando appaiono mettono in mostra tutte le loro frustrazioni, la perdita di dignità conseguenza della mancanza di lavoro.
Agnes è una bella donna dotata di grande forza, ambiziosa, che sogna una vita diversa, migliore e che, come molte donne nelle sue stesse condizioni, affoga le sue delusioni nell’alcol.
La dissoluzione di Agnes progressivamente prende sempre più corpo e causa l'allontanamento da sé prima di Catherine, poi di Leek e, infine, di Eugene, l’unico uomo che sembrava poterla ricondurre alla “normalità”. L’unico che con tutte le sue forze fa da contrappeso e tenta di frenare questa discesa nell’abisso dell’alcolismo è Shuggy. Un legame profondissimo caratterizza il rapporto tra Agnes e Shuggy. Un amore profondo, incondizionato, in cui la massima aspirazione reciproca è la normalità: per Agnes l’abiura dall’alcol, per Shuggy essere come gli altri ragazzi. Nonostante l’alcolismo renda impari il rapporto madre-figlio l’amore tra i due raggiunge vette poetiche altissime. Da un lato Agnes vuole “emancipare” Shuggy dai modelli maschili di cui è circondato trasmettendogli il senso di dignità di cui lei stessa è permeata anche nei momenti più drammatici. In questo sforzo Agnes asseconda le tendenze omosessuali di Shuggy comprandogli bambole, insegnandogli a ballare e facendogli assumere un tono di voce che, però, diventa motivo di sfottò per i suoi coetanei. Per Shuggy, invece, l’amore sconfinato per la madre diventa una missione per farla uscire dall’ alcolismo. Sono momenti di poesia pura la cura con cui Shuggy cerca di “aggiustare” la madre: le pettina i capelli, canta e balla per lei, la sveste per metterla a letto vegliando sul suo sonno. In entrambi emerge prepotente un bisogno di amare e di essere amati che si esplicita in un rapporto impermeabile agli sguardi esterni, che li rende complici spesso involontari. Un tratto a mio avviso fortemente caratterizzante è che nel romanzo di Stuart vi è la assoluta mancanza di giudizio non solo nei confronti di Agnes ma anche nei confronti delle altre donne della comunità vittime dello stesso dramma. Il romanzo scorre su binari paralleli in cui la dissoluzione di Agnes procede di pari passo con l’evoluzione di Shuggy. Ma la crescita del bambino/ragazzo è complessa e resa dura da questa ricerca della “normalità” che a Shuggy non appartiene. Inseriti a pieno titolo in un mondo di esclusi dalla società, in un contesto di disgregazione sociale senza via d’uscita in cui emerge solo la sopraffazione tra pari, madre e figlio sono oggetto ambedue di emarginazione da parte degli altri: Agnes per la sua bellezza, per la sua voglia e capacità, anche nella miseria, di essere sempre elegante è oggetto di invidia da parte delle altre donne cui non pare vero di poterla trascinare sempre più a fondo grazie all'alcolismo; Shuggy, anch’egli diverso per l’assenza di mascolinità, per il suo parlare forbito, è oggetto delle angherie dei suoi compagni di scuola. Questo li rende simili e accomunati da un dolore infinito seppur diverso: vergogna e sensi di colpa per Agnes, voglia di “evadere” e speranza per Shuggy.
La bellezza del romanzo di Stuart, oltre che nella storia, sta anche nella capacità di indagare senza fronzoli e orpelli inutili ma, come dicevo all’inizio, con puro realismo gli anni peggiori della recente storia inglese e, in particolare, della working class senza indulgere in falsi stereotipi, senza inutili pietismi, senza manipolazioni ma con l’asciuttezza tipica dell’osservatore che descrive la realtà che lo circonda. Con un plus di non poco conto: questa realtà Stuart la racconta dall’interno per averla vissuta in prima persona.


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...a chi non ama chiudere gli occhi e a chi ama il cinema di Ken Loach
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Menti55 Opinione inserita da Menti55    09 Aprile, 2024
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Un libro di formazione (secondo P. Roth).

Considerato da P. Roth tra i 5 romanzi (gli altri quattro sono: “Le confessioni di Nat Turner” di Styron, “Il nudo e il morto” di N. Mailer, “Tutti gli uomini del re” di Penn Warren e “Furore” di Steinbeck) di formazione per i giovani ma anche come introduzione e comprensione della moderna narrativa americana, Sister Carrie è forse il primo romanzo di realismo esplicito o, quantomeno, è il primo romanzo che rompe con la genteel tradition di cui Henry James è stato il massimo e più noto esponente ponendosi al limite ultimo tra questa e la corrente letteraria susseguente del reticent realism. In verità, come scrive Riccardo Reim nella sua introduzione al romanzo, prima di Dreiser vanno ricordati John William De Forest con The Ravenel’s Conversion from Secession to Loyalty, e soprattutto, William Dean Howells con “la sua scoperta dell’uomo della strada, delle ferrovie sopraelevate, dei ristoranti italiani, degli ambulanti e degli scioperi dei tranvieri”.
Ma lo stile di Howells, pur mantenendosi fedele al suo credo di non “propinare menzogne sulla vita”, non riesce ad uscire da una narrazione che oggi definiremmo polically correct, cioè semplice, vera ma garbata, senza elementi di reale rottura rispetto alla genteel tradition tanto “che i propri romanzi si possono leggere nella cerchia familiare senza che gli adolescenti abbiano ad arrossire” (Izzo, La letteratura nordamericana); appunto la corrente letteraria definita reticent realism.
Varcando in maniera decisa il confine tra i due generi Dreiser racconta la storia e l’ascesa sociale di Caroline Meeber, Carrie, senza veli, senza inutili orpelli o abbellimenti, nella sua cruda realtà. Carrie è una ragazza di provincia, di una bellezza che la povertà da cui sta scappando non riesce a far emergere in tutte le sue potenzialità. In fuga dalla famiglia e dalla miseria la giovanissima Carrie si reca a Chicago alla ricerca di un lavoro che la renda autonoma e le consenta di realizzare tutti i suoi sogni. Ma la sua ingenuità si infrange contro la realtà della grande città che poco ha a che vedere con le sue aspettative. Frustrata nei suoi sogni da lavori faticosi e mal pagati, mal sopportata dalla famiglia della sorella presso cui si è sistemata, Carrie finisce per cedere alle lusinghe di un commesso viaggiatore di successo, Drouet, andando a vivere con lui. Ma la “foto” con cui Dreiser ritrae Drouet ce lo mostra come un personaggio anaffettivo, un donnaiolo che ama la vita, cui piace ostentare il proprio successo, frequentare i luoghi dei ricchi, apparire. Ben presto anche la bella Carrie diventa poco più che un trofeo da mostrare agli amici. È così che Drouet la presenta a George Hurstwood, affascinante direttore di un lussuoso caffè di Chicago. Hurstwood conduce una vita brillante godendo della stima degli amici, dei ricchi avventori e, soprattutto, dei due proprietari del locale. Ma l’attrazione per Carrie fa emergere, in Hurstwood, tutta la stanchezza di una noiosa routine familiare. Così, pur di ottenere i favori di Carrie, non immune dal fascino di Hurstwood, questi si impossessa dell’intero incasso di una serata e, con un sotterfugio, costringe Carrie a seguirlo. Rifugiatisi dapprima in Canada e poi a New York le strade dei due amanti si divaricano fino a dividersi. Mentre Hurstwood, costretto a restituire gran parte dei soldi rubati per non essere denunciato, si avvita in una spirale di autodistruzione, Carrie intraprende con sempre maggior decisione la strada del successo diventando una attrice famosa e osannata. Il realismo di Dreiser si evidenzia dalla totale assenza di critica, di giudizio o condanna morale nei confronti della protagonista che, al perbenismo dell’epoca, sarebbe potuta apparire come una semplice arrivista capace di costruire la sua ascesa sociale servendosi dei suoi due uomini, pronta ad abbandonarli al loro destino una volta raggiunti i suoi scopi. Né, tantomeno, vi sono giudizi sul furto compiuto da Husterwood; Dreiser si limita a descriverne i fatti. In queste descrizioni asettiche, algide si riflette la formazione dell’autore che era arrivato povero e giovanissimo – a soli 16 anni – a Chicago con la sola forte determinazione di avere successo. Dopo aver svolto tanti mestieri umili il futuro scrittore approda al Chicago Globe e, successivamente, al ST. Louis Globe-Democrat iniziando la sua attività di giornalista. L’esperienza decennale accumulata e la incessante lettura dei grandi scrittori europei (Zolà, Balzac, Hugo, Dickens, ecc.) rivela le origini della prosa di Dreiser. Leggendo Sister Carrie, infatti, si ha spesso la sensazione di trovarsi di fronte a scatti fotografici, cioè di fronte a vere e proprie istantanee. Non solo. Ma a far da sfondo al romanzo c’è anche la crisi sociale che attraversa il paese in quegli anni: povertà, scioperi (e qui è evidente l’influenza di Howells), il contrasto tra società benestante e miseria, la nascita delle prime organizzazioni assistenziali verso diseredati. Ed è da queste esperienze, da questa presa di coscienza, attraverso una catarsi della sua vita trasmutate nelle vicende di Carrie, senza pietismo, senza giudizi morali, senza lieto fine che nasce, potente, il realistico romanzo di “Sister Carrie”.

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A chi ama la letteratura americana fin de siecle (fine '800);
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Menti55 Opinione inserita da Menti55    28 Marzo, 2024
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Le aberrazioni dell'amore

La Oates, in questi quattro racconti, indaga da par suo la mente umana evidenziando le aberrazioni che un malinteso senso dell’amore può generare. Il filo conduttore che lega i racconti, attraverso una narrazione di crudo realismo, ? l’assenza di qualsiasi limite ai comportamenti che un essere umano può raggiungere in nome dell’amore. Non ci sono classi sociali, età, situazioni esenti dalle sopraffazioni che la Oates mette in scena. Comportamenti malsani che si ritrovano nelle situazioni più disparate; nello stereotipato rapporto di coppia tra persone adulte o nelle infatuazioni giovanili; all’interno di una classica famiglia con figlio unico della piccola o media borghesia così come all’interno di una dinastia nota, affermata, di successo.
Il primo racconto, “Malocchio”, è un vero e proprio “dipinto” dell’animo umano in cui è descritta la trasformazione che avviene nell’uomo dopo la “conquista”. Un noto intellettuale, molto più anziano della protagonista, grazie ad un’acuta sensibilità conquista una sua discente, Mariana, salvandola da una grave depressione causata dalla perdita di entrambi i genitori. Ma, come purtroppo spesso accade nella quotidianità, immediatamente dopo il matrimonio con Mariana, la quarta moglie, l’uomo, pavoneggiandosi di un passato di cui appare fiero, mostra la sua vera natura di persona irascibile, misogina, egocentrica.
La inattesa visita della disinibita prima moglie, Ines, insieme alla nipote Hortensa, farà emergere la reale natura del docente costituita da una volontà di sopraffazione psicologica non disgiunta neanche da episodi di violenza.
In “Così vicino. In ogni momento. Sempre”, la giovane ma “bruttina” Lizbeth, sedicenne un po’ disperata per l’assenza di interesse da parte dei suoi coetanei, mentre studia in biblioteca tocca il cielo con un dito nel rendersi conto di essere il centro della attenzione di un ragazzo. Ma la realtà mostra ben presto tutta la forza distruttrice del giovane uomo. “L’esecuzione”, invece, investiga all’interno di una normale famiglia piccolo borghese costituita da un padre più o meno rigoroso, e da una madre accecata dall’amore per il suo unico figlio. È il racconto più cruento dei quattro in cui l’amore di una madre per il figlio psicopatico la rende orba, non solo metaforicamente, negando e, anzi, ribaltando la realtà. L’ultimo racconto scandaglia invece la negazione del dolore e come la sua apparente rimozione possa trasformarsi nell’incapacità di lasciarsi andare, nell’impossibilità di amare. Le violenze domestiche subite da bambina all’interno della sua altolocata famiglia, una vera e propria dinastia di alto lignaggio, hanno creato una frustrante inibizione in Ceille. Sarà solo grazie alla comprensione e alla complicità del suo compagno se ella tornerà a vivere. Ma a quale prezzo? Questo “sarà il nostro segreto”. Nelle diverse situazioni raccontate, accomunate dal perpetuarsi di atti di violenza sulle donne, la Oates è pienamente calata nella realtà contemporanea.
Con una suspense degna del miglior Edgar Allan Poe i racconti si susseguono ad un ritmo incalzante, senza respiro, tenendo inchiodato il lettore fino all’ultima pagina.

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Ama la narrativa americana, ama il genere introspettivo della mente umana.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Menti55 Opinione inserita da Menti55    01 Luglio, 2023
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Un classico della narrativa gotica

La vita sembra scorrere tranquilla nel Castello dei Blackwood con il tempo scandito dal rituale quotidiano colazione, pranzo, cena. Gli abitanti sono solo 3: Constance, la sorella Mary Katherin (Merricat) e lo zio Julian, fratello del padre; a loro si aggiunge il gatto Jonas. In realtà nulla è come sembra. Già dal fulminante incipit si intuisce che Merricat ha qualche “problema”: “…con un pizzico di fortuna sarei potuta nascere lupo mannaro…Detesto lavarmi, e i cani, e il rumore. Le mie passioni sono… e l’Amanita phalloides, il fungo mortale. Tutti gli altri membri della famiglia sono morti”. Constance, dopo essere stata scagionata dall’accusa di aver avvelenato la famiglia con l’arsenico 6 anni prima, non esce più di casa per il terrore di incontrare persone; Julian, paralizzato su una sedia a rotelle, conseguenza del veleno che ha ingerito in minima parte, è piuttosto svampito. Aiutati dall’alta recinzione che costeggia la magione, i Blackwood vivono isolati dal resto della comunità tranne per gli approvvigionamenti che Mary fa in paese (fra grandi turbamenti mentali) e per il tè settimanale con l’amica di famiglia Helen Clarke. La Jackson, come sempre, è maestra nel delineare le diverse personalità ma si supera nella descrizione di Mary (l’Io narrante del romanzo). Infantile, psicotica, Merricat vive in un mondo fantastico a suo agio solo nel parco che circonda il castello facendo della natura circostante il suo habitat naturale. Ma Mary ha anche un sesto senso e quando d’improvviso si presenta e si stabilisce in casa il loro cugino Charles, figlio di un altro fratello del padre, intuisce che questa presenza è pericolosa per il precario equilibrio familiare. Charles, infatti, fa colpo su Constance prospettandole una nuova vita da cui né Mary né lo zio Julian sembra debbano farne parte. Merricat prova ad opporre a Charles i suoi amuleti, le sue parole magiche, i più fantasiosi sortilegi per allontanarlo, invano, dal Castello fino al drammatico epilogo finale. La Jackson, in questo breve romanzo, torna ancora una volta sui suoi dilemmi classici: qual è il confine tra il bene e il male? Dove risiede la cattiveria umana? Solo nelle azioni delittuose o non piuttosto nello scherno della comunità nei confronti di qualcuno? È lecito aver paura degli altri (i concittadini nel loro insieme in questo caso) o bisogna aprirsi agli altri come i Clarke, i Wright, i Carrington?

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La lotteria della Jackson, a chi ama la letteratura gotica, un po' thriller...
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Menti55 Opinione inserita da Menti55    25 Giugno, 2023
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Padre e figlio alla ricerca di una speranza.

Ho amato molto la trilogia della frontiera di McCarthy, oltre a “Non è un paese per vecchi” ma, inspiegabilmente, non avevo ancora letto quello che è considerato il suo capolavoro: La strada. L’avevo in casa, comprato un po’ di tempo fa e, in “onore” della sua recente scomparsa, l’ho finalmente letto e devo dire che i giudizi della critica, mai come in questo caso, mi trovano perfettamente concorde.
L’oceano come spartiacque, punto di arrivo per il padre, l’inizio di una nuova vita per il ragazzo metaforicamente il fuoco da cui può risorgere la vita (“Perché noi portiamo il fuoco, vero papà?”). Un passaggio di consegne tra un genitore che rappresenta il vecchio mondo spazzato via da un’apocalisse (nucleare?) e il nuovo mondo che il ragazzo può e deve rappresentare. Un monito a non arrendersi mai, un insegnamento a resistere alle avversità, anche a quelle più drammatiche che travalicano ogni immaginazione, un invito alla speranza che un padre trasmette al figlio in un viaggio verso il mare oltre il quale, forse, c’è ancora vita. E l’itinerario per raggiungerlo è “La strada”, da non abbandonare mai. Ci potranno essere deviazioni, imprevisti, rallentamenti ma “La strada” è l’unica certezza per raggiungere l’obiettivo in un mondo che di certezze non ne ha più spazzato via da un evento che ha annientato l’intera umanità: uomini e donne, animali, natura. In una terra popolata solo da morte e distruzione, in cui i pochi sopravvissuti si aggirano come alieni trasformandosi anche in cannibali pur di sopravvivere, padre e figlio si muovono alla disperata ricerca di un orizzonte di vita. Trascinando un malandato carrello di supermercato, simbolo di sopravvivenza perché custode di qualsiasi cosa possa servire per sopravvivere – stracci, qualche coperta, pochi residui alimentari, un camion giocattolo, emblema di un’infanzia negata – il padre cerca di trasmettere al figlio il senso della vita. Il capolavoro di McCarthy ha una potenza narrativa dove ogni parola, ogni frase, ogni dialogo padre-figlio scuote il lettore nel profondo, colpendolo al cuore e allo stomaco. Tanto forte appare la narrazione che lo stesso autore sente il bisogno di staccare ogni frase, ogni periodo con qualche riga in bianco perché se è vero che è difficile staccarsi dalle pagine del racconto è altrettanto vero che tale è l’angoscia che traspare che ogni tanto c’è bisogno di aria, di prendersi una pausa, di respirare. C’è tutta la grande letteratura americana in McCarthy: dalla cruda descrizione della realtà di Steinbeck alla lotta per la sopravvivenza di Hemingway; dalle introspezioni psicologiche di Roth alla violenza che lo stesso McCarthy descrive nella sua trilogia della frontiera o nel romanzo “Non è un paese per vecchi”.
E parafrasando il titolo di quest’ultimo romanzo chi si accinge a leggerlo sappia che La strada “non è un libro per stomaci deboli”.

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Steinbeck, La trilogia della frontiera di McCarthy, a chi non è impressionabile
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Menti55 Opinione inserita da Menti55    18 Giugno, 2023
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Grande affresco della Russia ottocentesca

Grande affresco della Russia ottocentesca. Protagonista è l’apatico Ilia Ilyic Oblomov, che pur di non affrontare i problemi li elimina letteralmente dalla propria mente quasi come se il non pensarci risolvesse il problema di per sé. Auto confinatosi nel proprio appartamento, anzi nel proprio studio, spostandosi dal letto al divano, neanche la notizia che le sue rendite stanno diminuendo riesce a smuoverlo per tentare di ammodernare l’amministrazione dei propri possedimenti felice, anzi, che l’inchiostro nel calamaio si sia seccato così può evitare di alzarsi dal divano per impartire nuove disposizioni. Un antieroe per il quale sembra che il mondo fuori dalla sua stanza sia immutabile. Siamo nel 1859, dalle pagine di Gonciarov emerge una denuncia forte – per quanto fosse possibile all’epoca denunciare – dello stato di arretratezza socio-economica del paese e della classe di latifondisti che da questa arretratezza trova la sua linfa vitale. Assimilabile forse al crudo realismo di Gogol o alla dura condanna sociale che è presente nei racconti di Turgenev “Memorie di un cacciatore”. Nell’immensità della steppa russa la nobiltà contadina viveva, con i suoi servi, nel nulla crogiolandosi in una sorta di torpore mentale in cui qualche critico individua la vera malattia nazionale. D’altronde lo stesso Paolo Nori (profondo conoscitore e traduttore di scrittori russi), nella sua introduzione, sottolinea come il ceto colto, intellettuale, più avanzato della Russia dell’epoca, nonostante le conoscenze che avevano acquisito viaggiando in Europa (in quegli ambienti il francese era pressocché la prima lingua, vedi i romanzi di Tolstoj, Dostoevskij, Puskin) erano convinti che non c’era granché da fare. E Oblomov, infatti, non fa niente nemmeno per curare i propri interessi.
La rappresentazione della realtà russa in cui si colloca il romanzo, più che Oblomov, ce la racconta il suo alter ego, il suo amico Stol’c. Stol’c è l’opposto del protagonista: pieno di vita, di interessi, di curiosità, cerca disperatamente di smuovere il suo amico dalla sua pigrizia. Ma Oblomov non pensa affatto che la sua sia pigrizia piuttosto un vero e proprio ideale di vita: “E in che consiste l’ideale della vita secondo te? Non è esso l’oblomovismo? domandò egli senza slancio, timidamente. Che non tendono forse tutti a quello che io sogno? Ti prego! - aggiunse egli più arditamente. Che forse lo scopo di tutto il vostro affaccendarvi, delle vostre passioni e guerre, del vostro commercio e della vostra politica non è il raggiungimento della calma, l’aspirazione a questo ideale di paradiso perduto?”
Anche il pensare, per Oblomov, è una fatica perché presuppone che dopo l’articolazione di un pensiero debba seguire un’azione. Non a caso Oblomov delegherà a Stol’c la verifica della conduzione dei suoi possedimenti.
Ma la critica che Gonciarov muove al proprio paese si palesa tra le riflessioni morali che attraversano la mente di Oblomov, i giudizi che dal suo divano emette sulla società ipocrita, debosciata dove “sono tutti dei cadaveri, degli addormentati, peggio di me, questi membri della società o del mondo! Cosa li guida nella vita? Va bene, essi non stanno sdraiati, ma vanno e vengono ogni giorno, come mosche, avanti e indietro, e che ne vien fuori?... Si riuniscono e si offrono l’un l’altro da mangiare senza cordialità, senza bontà, senza reciproca simpatia! Si riuniscono a pranzo, danno una serata come se andassero all’ufficio, senza allegria.” Oblomov, in buona sostanza, non crede negli uomini e, di conseguenza, non crede in alcuna possibilità di cambiamento e per questo che ogni sforzo, qualsiasi azione gli appare inutile.
Quando ho letto questo straordinario romanzo, che si inserisce a pieno titolo nella grande letteratura russa (ma non solo), sicuramente con una certa forzatura, non ho potuto fare a meno di assimilare l’oblovismo ad alcune archetipiche caratteristiche nostrane (diventati luoghi comuni) quali una rassegnata apatia, un indolente fatalismo. Qualcosa poi smuoverà (poco) Oblomov ma per non spoilerare evito di parlare del finale.

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Dostoevskij, Tolstoj
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Menti55 Opinione inserita da Menti55    18 Giugno, 2023
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Sogni, desideri, paure, egoismi in una famiglia am

Il titolo del romanzo di Franzen ha diversi rimandi che tornano continuamente durante la narrazione. Ancorché ambientato a New Prospect, (Chicago), nel nord degli Stati Uniti il titolo rimanda anche al profondo sud. Come ben sanno gli appassionati di blues e R&B Crossroad, infatti, è il mitico incrocio tra la 49 ? e la 61 ?highway, contrassegnato da due grandi chitarre di colore azzurro, che segnala l’ingresso alla cittadina di Clarksdale in Mississippi. È a quest’incrocio che la leggenda vuole che il vagabondo di colore Robert Johnson abbia stretto un patto con il diavolo per suonare la chitarra come nessun altro; uno dei brani che ci ha lasciato Johnson è, appunto, Cross Road Blues diventato poi un classico riproposto da tutti i più grandi interpreti della musica blues e rock. E il brano ritorna spesso nel romanzo come cavallo di battaglia di Tanner Evans uno dei coprotagonisti del libro, valente ma poco ambizioso chitarrista, tra i primi a portare capelli lunghi e pantaloni a zampa di elefante. La storia, siamo nei giorni dell’Avvento del 1971, si impernia sulla famiglia Hildebrant. Le vicende vedono coinvolti Russ, il capofamiglia, pastore di una locale chiesa, sua moglie Marion, con un passato inconfessato e inconfessabile che continua a tormentarla tra rimpianti e sensi di colpa e i 4 figli Clem, Becky, Perry e Judson. Snodandosi attraverso le vicende dei diversi componenti Franzen racconta da par suo i sogni e le frustrazioni, le paure e le angosce, le gelosie, gli egoismi e i sensi di colpa che si generano all’interno del nucleo familiare e tra ognuno di loro e la comunità in cui vivono. Gli Hildebrant, infatti, non sono altro che il microcosmo dove nascono e proliferano sentimenti universali di un paese in cui ancora non si è spento il ricordo dell’ultimo conflitto mondiale e già si trova immerso nel dramma della guerra con il Vietnam. Ma il titolo del romanzo richiama innanzitutto l’omonimo gruppo spirituale, rivolto ai giovani, in cui si affrontano prove volte al sostegno reciproco, in cui si cerca di fortificare l’emotività di ognuno insegnando il rispetto per l’altro e dedicando tempo alla solidarietà verso chi più ne ha bisogno. Il gruppo è guidato da un altro pastore, Rick Ambrose, più carismatico e più giovane di Russ ma piuttosto ambiguo che, almeno inizialmente, è a lui subordinato. Ma ben presto tra i due si arriva ad una sorta di resa dei conti che porta i due a dividersi: da un lato Rick con la comunità giovanile di Crossroads e dall’altro Russ con la First Reformed rivolta agli adulti. In un continuo rimbalzo narrativo tra i diversi protagonisti, che raccontano in prima persona le loro vicende passate e presenti nonché i loro sogni, desideri e speranze, il romanzo delinea la personalità di ognuno e pone in luce l’ipocrisia tipica di un mondo piccolo borghese dove nulla è come appare. Contrariamente a ciò che il gruppo giovanile di Crossroads si propone, infatti, ognuno dei componenti vive in maniera più o meno drammatica la frattura tra i dogmi della religione (non importa quale) da un lato o, se si preferisce, la comune morale, e le umane, terrene passioni che vivono gli esseri umani dall’altro. Ci sono tanti spunti narrativi che possono svolgere la funzione di filo conduttore del romanzo. Uno di questi è, a mio avviso, il cambio di prospettiva e, con essa, il cambio nei rapporti umani che genera in ognuno l’incedere del tempo. È questo un elemento che attraversa tutte le età ed è con grande maestria che l’autore evidenzia le screpolature che si affastellano nella personalità di ognuno. Non a caso cambiando le proprie prospettive e i loro obiettivi nel passaggio dall’adolescenza alla gioventù Clem e Becky mettono in crisi il loro fortissimo rapporto fraterno; non da meno l’avvicinarsi dell’età matura fa nascere pruriginose voglie verso la bella e avvenente “parrocchiana” Frances in Russ e risveglia la nostalgia del primo amore in Marion che finora si era appiattita, fino a rendersi invisibile, ad annullarsi nel ruolo di moglie/madre. Franzen, riprendendo le tematiche interne alla famiglia già sviscerati ne “Le Correzioni” sembra dirci che ogni età ha i suoi “spettri”, i suoi fantasmi, le sue problematiche. La paura o la voglia di bruciare le tappe che porta Perry nel tunnel della droga non è diversa dalla paura di invecchiare di Russ o di Marion; la paura di essere assimilato ad un comune borghese che porta Clem, pacifista convinto, a cercare di arruolarsi per il Vietnam non è diversa dalla fuga dalla propria famiglia di Becky. Ma Franzen non da giudizi, non ci sono buoni o cattivi, non c’è chi ha ragione o torto; ognuno ha le proprie ragioni, ognuno ha i suoi torti esattamente come in una normale famiglia borghese di ogni angolo della terra. Ma, soprattutto, ognuno ha le sue umane debolezze e i suoi momenti di “eroismo”. Un romanzo lungo (oltre 600 pag.), complesso per le articolazioni anche psicologiche tra i vari protagonisti ma che proprio per questo vive di grande intensità rendendo la lettura sicuramente impegnativa ma estremamente piacevole e avvincente. Dopo la (personale) delusione di Purity, mi sembra che Franzen sia tornato alle altissime vette narrative de “Le Correzioni” e poiché Crossroads è il primo di una trilogia attendo con giuste aspettative l’arrivo degli altri due romanzi.

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A chi ha letto Le Correzioni di Franzen; a chi ama le saghe familiari.
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Menti55 Opinione inserita da Menti55    10 Giugno, 2023
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Comportamenti ancora attuali (purtroppo!).

Premetto che ho approcciato il romanzo della Ardone con un po’ di scetticismo: sapevo di cosa trattava e pensavo che l’argomento, ancorché di grande importanza e degno della massima attenzione, non era poi così originale essendo stato sviscerato in tutti i suoi aspetti non solo dalla letteratura ma anche, e forse soprattutto, dal cinema.
Invece ho scoperto un romanzo ricco di pathos, capace di sprigionare una forte e avvincente tensione emotiva in grado di catturare il lettore. La storia è ciò che mi aspettavo: una ragazzina siciliana, intelligente, con una enorme voglia di vivere ma con la paura di crescere che, a differenza delle sue coetanee, teme il momento in cui avrà per la prima volta il “marchese” temuto spartiacque tra l’adolescenza e l’essere “donna”. Inconsapevole di essere bella, Oliva Denaro è una ragazzina minuta, curiosa, che ama studiare, libera nell’animo e nella testa (cosa non facile nella Sicilia degli anni ‘60-‘70). Ma il “marchese” arriva e nonostante “…da quando sono diventata femmina sto come sotto una tettoia durante un temporale: non mi allontano per non bagnarmi…” Oliva diventa “l’oggetto del desiderio”, la “preda” sognata dal giovanotto del paese. Bello, ricco - ma di una ricchezza di dubbia provenienza - il giovanotto incarna il prototipo dell’uomo dell’epoca, un uomo che è padrone, è superiore, domina, che non accetta il diniego, che può prendere quanto desidera, e poi magnanimamente riparare. A Oliva accade ciò che tacitamente temeva e che accadeva sovente in quegli anni: deve subire prima le attenzioni e poi il rapimento e la violenza del giovanotto. Solo che in questo caso non si tratta della famosa “fuitìna” consensuale per imporre un matrimonio perché Oliva si nega, si ribella e, infine, denuncia il violentatore (che poi verrà condannato ad un solo anno perché all’epoca vigeva ancora il famigerato codice Rocco). Con questo atto Oliva rivendica il proprio diritto di scelta quasi istintivamente, per un innato senso di libertà prima ancora che per una personalità non ancora pienamente formata (ricordiamo che ha 16 anni). Ma di questa scelta Oliva ne subirà le conseguenze con l’ostracismo del paese che non capisce i motivi di tale scelta e soprattutto l’aver rifiutato il matrimonio riparatore, con l’abbandono della scuola cui l’obbliga la madre e, infine, con la perdita definitiva della spensieratezza, dell’adolescenza. E fin qui è un po’ quel che mi aspettavo. Ma ciò che permea il romanzo e dove esso compie il salto di qualità è nei rapporti che la Ardone riesce a tessere. Il rapporto di Oliva con la madre, con la sorella Fortunata (ma non nella vita) e con il suo fratello gemello Cosimino, il rapporto con il suo amico d’infanzia Saro che lei protegge dai loro coetanei che lo dileggiano per la sua zoppia e che alla fine sposerà (Saro è da sempre innamorato silente di Oliva ma sa aspettare e, come le dice la prima notte di nozze, “…chi ti vuole bene non ti strapazza, non ti intimorisce, non ti forza…”). Fondamentali i rapporti con tre donne che influiranno notevolmente sulla maturazione di Oliva e sul consolidarsi della sua coscienza di donna: la sua amica comunista Liliana, che arriverà, “come la Iotti che non è nemmeno sposata”, in parlamento; con la sua insegnante Rosaria e con Maddalena, una donna della UDI (Unione Donne Italiane) che viene dal continente per supportarla nella battaglia legale. Ma a mio avviso il rapporto che raggiunge livelli straordinari è quello di Oliva con il padre Salvo. Salvo è un lavoratore, un contadino, parla poco e malvolentieri ma il dialogo con la figlia, fatto di sguardi, fugaci contatti fisici, condivisioni di pensieri raggiunge livelli di comprensione e complicità altissimi, non sempre facili da trovare in un rapporto padre/figlia. Un padre che capisce prima della stessa Oliva i suoi pensieri, le sue volontà e le asseconda con delicatezza, senza apparire ma sostenendo le sue scelte e, anzi, incoraggiandola stando sempre dietro le quinte. Non a caso, in uno dei rari momenti di tensione di Oliva verso il padre, Salvo le risponde: “…mi hai chiesto cosa faccio. Questo faccio io…se tu inciampi io ti sorreggo…”. E alla fine Oliva riconosce la saggezza del padre “…ogni cosa viene per chi sa aspettare”. Questa comunanza è sottolineata magistralmente dalla Ardone nella quarta ed ultima parte del libro dove le voci narranti di Oliva e Salvo si alternano nei vari capitoli e in cui il pensiero di chiusura di un capitolo è lo stesso identico dell’apertura del successivo.
Un bel libro che si legge facilmente, tutto d’un fiato, che procede in un crescente coinvolgimento del lettore e che, mi auguro, leggano tutte le figlie e tutti i padri.

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Qualsiasi libro sulla emancipazione delle donne dalla violenza maschile.
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Menti55 Opinione inserita da Menti55    10 Giugno, 2023
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La grande depressione vista (e vissuta) da un giga

Contiene spoiler.
Il 1929 per Faulkner è un anno cruciale: vengono pubblicati “Sartoris” e “L’urlo e il furore”, scrive “Mentre morivo” (pubblicato l’anno dopo) e, come dice nella sua stessa famosa introduzione al romanzo, riscrive completamente “Santuario” (“…strappai le bozze e riscrissi il libro”). In realtà questa è solo una scusa che Faulkner propina alla sua amata moglie Estelle che aveva tentato il suicidio per i problemi economici in cui versava la coppia e, al tempo stesso, la creazione di un paravento dietro cui nascondere la sua a dir poco pessimistica visione del genere umano. Ambientato negli anni della Grande depressione e del proibizionismo, nel profondo sud della provincia americana tra Mississippi e Missouri, il romanzo non risparmia nessuno dei protagonisti. Tanto violento e crudo da indurre il suo editore Harcourt a rifiutarlo perché “finiremmo tutti e due in prigione”, la vicenda narra, infatti, di una diciassettenne, Temple Drake, che viene lasciata dal suo alcolizzato accompagnatore, il poco più che ventenne Gowan Stevens, in una casa «buia, desolata e meditabonda», in cui si nasconde una distilleria clandestina gestita da una banda di magnaccia e sbandati: Van, Tommy, Goodwin e sua moglie Ruby e, soprattutto, l’impotente Popeye.
«…non più proprio bambina, non ancora donna…Dritta come una freccia nel vestitino succinto…il cappellino spinto all’indietro a sprigionare quel che di licenzioso», Temple sarà l’”oggetto” di una tragica spirale di perversione e morte che coinvolgerà, in un modo o nell’altro, tutti costoro.
Dopo una notte in cui, aiutata da Ruby, deve difendersi da alcuni tentativi di stupro, Temple cade in uno stato quasi catatonico in cui si alternano i peggiori incubi e le più assurde speranze (risvegliarsi nel corpo di un ragazzo). Nel tentativo di sfuggire ai suoi carcerieri si rifugia nel granaio dove incontra gli occhi (“due grumi di gomma”) di Popeye che non esita a stuprarla…con una pannocchia. Dopodiché Popeye la porterà via, ancora in preda a forti emorragie di sangue, segregandola nel bordello di Miss Reba a Memphis.
Nel frattempo si scopre che nella Casa del vecchio francese (così si chiama la fattoria) Tommy è stato ucciso con un colpo di pistola alla fronte. Dell’omicidio verrà accusato l’incolpevole Lee Goodwin che verrà difeso dall’avv. Horace Benbow il quale intuisce che dietro quell’omicidio c’è molto di più. In una narrazione che si fa sempre più cruda, in un’atmosfera sempre più cupa (eccettuate le pagine inziali le scene si susseguono sempre in un interno: la fattoria, la stanza in cui si rinchiude Temple, il bordello, la prigione in cui è rinchiuso Goodwin, la stessa casa dell’avv. Benbow, ecc.), il lettore resta incollato alle pagine avvolto dal ritmo incalzante del romanzo quasi senza fiato fino alla fine.
Non a caso quando il romanzo verrà pubblicato nel ’31 da Jonathan Cape (come già “L’urlo e il furore”) avrà un immediato successo tanto che lo stesso Faulkner, qualche anno dopo, dichiarerà: “Sarò conosciuto sempre come l’uomo della pannocchia”.
Anche se non all’altezza dei suoi due capolavori, in “Santuario” Faulkner esprime tutta la sua esecrazione per l’intera umanità, per la società in cui vive, senza pietà per nessuno: ovviamente non ha pietà per i “cattivi”, il malvagio Popeye o il poco di buono Goodwin, ma non ne ha nemmeno per la disgraziata Ruby ed il suo innocente bambino – tutti e tre periranno in un rogo appiccato dai cittadini “assetati” di giustizia e emblema del disfacimento generale della società – non ne ha per i perbenisti e gli ipocriti (l’odiosa Narcissa, sorella dell’avv. Benbow, l’alcolizzato Gowan, i cittadini di Jefferson e di Oxford), non ne ha per l’idealista, ma stanco e sfiduciato avvocato, non ne ha per corrotti o acquiescenti come il senatore Snopes o il procuratore distrettuale Graham, non ne ha per i vinti come la stessa Temple.
Ma, coerentemente a quanto dichiarato nella citata introduzione, Faulkner, a mio avviso, non mostra pietà nemmeno per gli stessi lettori. Nell’introduzione (presente nell’edizione Adelphi cui faccio riferimento) Faulkner, dopo aver ricordato di lavorare come addetto al rifornimento del carbone, turno di notte, dalle 6 del pomeriggio alle 6 del mattino, dichiara esplicitamente la sua volontà di far soldi senza dover veramente faticare facendo lavori veri; “Cominciai a pensare ai libri come fonte di possibile guadagno, e decisi che tanto valeva guadagnassi qualcosa anch’io. Mi presi un po’ di tempo, meditai su quali cose una persona in Mississippi avrebbe ritenuto delle tendenze attuali, scelsi quella che mi sembrò la risposta giusta, e inventai il racconto più spaventoso che potessi immaginare…Feci un discreto lavoro e spero che lo comprerete e lo direte ai vostri amici, e spero che lo comprino anche loro”.
Nel momento stesso in cui il pubblico ne decreta il successo egli implicitamente li accusa di non capir nulla preferendo un libro che “Secondo me non è un granché, come idea, perché fu concepito unicamente allo scopo di far soldi”, a quelli che poi, solo successivamente, diventeranno i suoi capolavori: “L’urlo e il furore” e “Mentre morivo”.

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A chi ama la letteratura nord americana tra le due guerre.
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Menti55 Opinione inserita da Menti55    28 Luglio, 2022
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Cancellare il passato

Pur avendolo comprato appena uscito, nel 2021, solo da poco ho affrontato e letto le oltre 700 pagine de “I rondoni” di F. Aramburu. Inconsciamente, forse, avevo timore di restare deluso dopo aver tanto amato il precedente romanzo, “Patria”. In realtà i due romanzi sono totalmente (e giustamente) diversi: per ambientazione, per la storia, per il periodo e la realtà in cui sono calati; un libro tanto corale, storico e plurale il primo quanto individualista e introspettivo il secondo. Toni è un cinquantacinquenne docente di filosofia di un liceo madrileno, deluso da sé stesso prima ancora che dalla vita; volontariamente e caparbiamente solo dopo un matrimonio fallito. Le uniche presenze che con lui condividono attimi di vita sono l’amato cane Pepa, il suo amico Bellagamba (è il soprannome che a sua insaputa gli ha dato Toni dopo che Bellagamba ha perso un piede nell’attentato terroristico di Atocha), l’unico a conoscenza del suo proposito; poi c’è Tina, la bambola gonfiabile che gli ha regalato Bellagamba, e, da un certo punto in poi, appare pressoché dal nulla una sua ex, Agueda, incontrata casualmente nel mercatino sotto casa con una teiera che Toni aveva abbandonato nel mercatino stesso. Di tanto in tanto si fa vivo anche il figlio essenzialmente per bussare a soldi. È in questo quadro che Toni decide di programmare la sua dipartita perché “…cinquant’anni mi sembrano sufficienti. Ciò che fino ad allora la vita non ti ha dato è molto improbabile che te lo dia dai cinquanta in avanti”.
Ma Toni prima vuole prendere commiato dal suo passato e da sé stesso. Pertanto il suicidio – l’unico problema filosofico davvero serio come dice l’amato Camus – “il mio limite ultimo”, viene meticolosamente programmato perché avvenga esattamente dopo 12 mesi, la sera del 31 luglio dell’anno successivo. In questi 12 mesi, da agosto 2018 in poi, (a simboleggiare il tempo che passa e l’avvicinarsi della fatidica ora, i 12 capitoli del romanzo prendono il nome dei mesi che mancano), Toni programma, con grande serenità e freddezza, senza alcun dramma, di liberarsi fisicamente e metaforicamente del suo passato. Auspicando in cuor suo che possano essere utili ad altri – tanto a lui non serviranno più – comincia ad alleggerirsi delle sue cose lasciando gli oggetti di casa e i volumi della sua notevole libreria ovunque capiti: per strada, sulle panchine, negli androni dei palazzi, o gettandoli da qualche ponte cercando di farli cadere sui camion che passano sotto. Ma liberarsi della zavorra del suo passato è un po’ più difficile e per la prima volta decide di mettere a nudo sé stesso attraverso una sorta di diario personale in cui, alternando passato e presente, razionalizza senza infingimenti, senza ipocrisia ma con estrema lucidità e un pizzico di cinismo, la sua vita. Con una narrazione asciutta, propria di chi non ha più nulla da chiedere alla vita, con estrema sincerità, a volte con brutalità, spesso con ironia, Toni ripercorre le tappe della sua esistenza. Conosciamo così la sua famiglia di provenienza con un padre, temuto e ammirato più che amato, frustrato docente universitario di sinistra (il nonno era stato torturato durante il franchismo), manesco e alcolizzato; una madre che silente in apparenza rispetto alle violenze domestiche sputava nella minestra del marito; un fratello più piccolo, Raulito, se non odiato certamente mal sopportato; una ex moglie, Amalia, donna bellissima e “radical chic di sinistra”, commentatrice radiofonica di successo con cui ha ancora contatti per il figlio in comune; un figlio, Nicolas (Nikita), un po’ fuori di testa, oggettivamente limitato e per questo amato ma certo non stimato. Descritta così, sinteticamente, la vita di Toni sembrerebbe quasi giustificare il gesto finale che egli stesso ha programmato. In realtà questo dissacrante memoir è una rievocazione leggera del suo passato che presenta anche piccoli momenti di felicità che compensano quelli amari. È il bisogno, per Toni, “…di tirare fuori tutta la sporcizia accumulata dentro di me. Non voglio che mi ci seppelliscano, voglio essere in pace con me stesso e sentirmi pulito dentro nei miei ultimi istanti”. Nel momento in cui si appresta all’ultimo estremo atto Toni sente il bisogno di essere libero, libero dalle zavorre del passato, libero come gli amati rondoni che volano senza pause, senza tormenti esistenziali, pronti a migrare e a ritornare quando è il momento, senza altro impegno che quello di volare: eternamente liberi.

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Patria di Aramburu
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Menti55 Opinione inserita da Menti55    14 Luglio, 2022
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Una immagine diversa di Israele

Il primo suggerimento che mi viene in mente è: se iniziate questo libro fatelo avendo tempo a disposizione perché una volta cominciato sarà difficile interromperne la lettura. La Gundar-Goshen si inserisce a pieno titolo tra i nuovi talentuosi scrittori israeliani (Nevo, Keret, Baram…) eredi della vasta tradizione che fa capo ai grandi Agnon, Grossman, Oz, Yehoshua. SVEGLIARE I LEONI è il suo secondo romanzo e nel rapporto che si instaura tra i diversi (pochi) protagonisti principali emerge pienamente il suo retaggio culturale; l’autrice, infatti, è laureata in psicologia clinica all’Università di Tel Aviv. Non a caso il libro vive più di “pensieri” che attraversano la mente dei singoli attori che non di dialoghi realmente espressi in un rapporto dialettico tra gli stessi. Il dott. Eitan Green, brillante quarantenne neurochirurgo, vorrebbe denunciare il professor Zakai – suo maestro e nume tutelare – dopo aver scoperto che costui è incline a prendere “bustarelle”. Anche su consiglio della moglie Liat – ispettore di polizia e splendida donna – Eitan preferisce lasciare l’Università di Tel Aviv ed esiliarsi all’ospedale di Beer Sheva. Nonostante la delusione, la frustrazione di vivere in una “polverosa” ed arida città del sud di Israele la vita del dott. Green va avanti grazie all’amore per la famiglia (con Liat hanno 2 figli) e con la totale dedizione al lavoro. Ma, primo colpo di scena, una sera, durante il rientro a casa dopo una intensa giornata di lavoro Eitan, correndo a forte velocità con la jeep regalatagli da Liat, investe e uccide un eritreo, Assum. Preso dal panico fugge senza prestare soccorso anche perché, da medico, ritiene che non ci siano più speranze di salvare l’eritreo investito (vero? Una scusa raccontata a sé stesso?). Nonostante i sensi di colpa l’incidente potrebbe anche essere “dimenticato” se non ci fosse il secondo colpo di scena: la mattina seguente una bellissima donna eritrea – Sirkit – bussa alla sua porta restituendogli il portafoglio che ad Eitan era caduto sul luogo dell’incidente. Sirkit, che poi si rivela essere la moglie di Assum, prende a ricattare Eitan ma, contrariamente a quanto si può immaginare, non chiedendogli soldi ma imponendogli di curare la sua gente quasi sempre clandestini entrati illegalmente in Israele. La vita di Eitan viene completamente stravolta: inspiegabili assenze dall’ospedale, furti di medicinali dallo stesso ospedale necessari per curare gli eritrei che Sirkit, di volta in volta, gli porta; le menzogne sempre più improbabili che deve inventare per la moglie e per i figli per giustificare le lunghe assenze, anche notturne, da casa. Ma Sirkit è una donna bella e coraggiosa dotata di grande dignità e fierezza e questo, con il passare del tempo trascorso insieme, comincia nebulosamente a farsi strada nella percezione di Eitan. Il rapporto tra i due inizia a trasformarsi da ricattatrice a ricattato in un rapporto ambiguo in cui, lentamente, si fa strada una sorta di stima reciproca (Sirkit impara “guardando” tanto che Green le lascia finire una sutura ad un paziente), di attrazione inconfessata all’altro/a ma anche negata a sé stessi. Nel frattempo Liat sta indagando sull’incidente che ha causato la morte di Assum inconsapevole che il conducente dell’auto sia suo marito. Naturalmente la menzogna non può reggere al trascorrere del tempo anche perché la Ayelet ci fa conoscere, tramite la frequentazione forzata di Eitan con questa comunità eritrea, una realtà inimmaginabile per Israele: campi profughi, clandestinità, spaccio di droga. La situazione si ingarbuglia sempre più fino a che, in un crescendo parossistico e con continui colpi di scena, Sirkit non commette un delitto per salvare lo stesso Eitan (evito di dire di più per ovvi motivi) e, da quel momento in poi, per stessa ammissione di SIrkit, sono pari: sia Eitan che Sirkit hanno ucciso un uomo e quindi Eitan può riprendere la sua vita. Ma sarà la stessa di prima? La bellezza del romanzo della Gundar-Goshen sta, a mio avviso, come dicevo all’inizio, nei “non dialoghi”, nei desideri, nei sogni, nelle paure, nelle angosce che ognuno dei protagonisti vive senza riuscire veramente ad esprimerli, a confessarli all’altro. Il finale forse un po’ affrettato e tutto sommato “a lieto fine” non inficia la valenza di un bel romanzo.

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A chi ama i nuovi (e vecchi) narratori israeliani.
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Menti55 Opinione inserita da Menti55    09 Luglio, 2022
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La guerra fredda secondo Ian McEwan

Una storia di iniziazione ai sensi, alle emozioni, all’amore fisico; una storia d’amore; una storia di spionaggio; una storia d’orrore. Sono gli intrecci che danno vita a questo “vecchio” romanzo di McEwan (la prima edizione Einaudi risale al 1990).
Protagonista de “La lettera a Berlino” è un giovane inglese tecnico delle comunicazioni, Leonard Marnham, che nel 1955, catapultato nella Berlino della guerra fredda, si trova al centro di una operazione di intelligence, “Operazione Oro”, che i suoi connazionali stanno portando avanti per intercettare e decriptare i messaggi dei sovietici. Il suo compito è quello di immettersi sulle frequenze telefoniche sovietiche. Berlino è spaccata in due – ma non c’è ancora il muro – tra alleati da un lato e sovietici dall’altro che si guardano, si studiano, si spiano. Il progetto cui Leonard è chiamato a collaborare è ambizioso e vede schierati, non senza rivalità e diffidenza reciproca, i servizi segreti americani, la CIA, e quelli britannici, l’M16.
In una città che sta alacremente ricostruendo un tessuto urbano e sociale, ma in cui i segni della guerra sono ancora molto evidenti, Leonard conosce Maria, una bella donna tedesca, vivace, intelligente, esuberante e con una gran voglia di vivere. Ma Maria sta ancora combattendo per lasciarsi alle spalle Otto, un millantatore di gesta eroiche al fronte mai compiute, un ubriacone che continua a perseguitarla nonostante il fallimento del loro matrimonio.
Durante l’ardua impresa di spionaggio sono diversi i personaggi con cui entra in contatto Leonard: dall’esuberante americano Bob Glass, all’enigmatico e doppiogiochista George Blake, al suo capo Mac Namee.
La passione tra Leonard e Maria, scandita anche dai ritmi del rock’n roll, del boogie e della musica importata dagli americani, si trasforma molto velocemente in vero e proprio amore. Felici i due innamorati danno una vera e propria festa di fidanzamento con i pochi amici e colleghi. Ma proprio la sera della festa, al ritorno a casa di Maria, irrompe nella loro vita, ancora una volta, Otto. E qui, in un crescendo adrenalinico, McEwan descrive scene di puro orrore con alcune pagine piuttosto dure da leggere (una tematica analoga, sia pure in un contesto totalmente diverso, McEwan la riprenderà diversi anni dopo in Cortesie per gli ospiti).
L’episodio allontanerà Leonard e Maria che, probabilmente, si ritroveranno solo molti anni dopo quando, nel 1987, alla vigilia della caduta del muro, Leonard tornerà a Berlino per leggere lì, nei luoghi del suo grande amore, una lettera che Maria gli ha spedito da Cedar Rapids, Iowa, USA.
Con la consueta enorme abilità McEwan costruisce un romanzo denso di accadimenti uscendo, per una volta, dai domestici confini britannici e calandosi nell’atmosfera surreale della guerra fredda. Un romanzo sicuramente diverso dalla maggior parte dei suoi libri ma in cui, con la stessa “semplice”, fluida prosa narrativa lo scrittore riesce a catturare l’attenzione del lettore tenendolo avvinghiato al libro fino all’ultima pagina.

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Menti55 Opinione inserita da Menti55    09 Luglio, 2022
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Ciò che poteva essere, ciò che è stato, ciò che po

Amir e Noa, Moshe e Sima, Yotam e Saddiq e, sullo sfondo, Modi sono i protagonisti principali del romanzo di E. Nevo.
Già la scelta del luogo, Castel, sembra preludere ad un libro in cui la ricerca di identità, la nostalgia per ciò che è stato e/o per ciò che poteva o potrebbe essere, è il leitmotive che unisce i vari protagonisti. Castel è, infatti, una sorta di terra di nessuno; una volta enclave araba in Israele diventata poi una comunità di ebrei profughi dal Kurdistan. Una cittadina dove il tempo sembra scorrere lento, in cui non accade mai nulla ma tutti sono alla ricerca di qualcosa con domande, dubbi, desideri che restano nell’aria, sospesi e quasi sempre inespressi se non nei pensieri di ognuno. L’unico legame che questa cittadina mantiene con il resto del paese sono i notiziari televisivi da cui, a ritmo costante, arrivano notizie di attentati fino a quello drammatico dell’assassinio del premier Yitzhak Rabin. Amir, studente di psicologia di Tel Aviv, e Noa, studentessa di fotografia di Gerusalemme, giovani, belli e innamorati decidono di andarsene a vivere lì, a Castel, a metà strada dalle due principali città. Pur di iniziare la loro vita in comune Amir e Noa vanno a vivere in un piccolo appartamentino ricavato da una casa più grande dove abitano Sima e Moshe e i genitori di lui, Avram e Gina. Per errore però, prima di arrivare nella casa di Sima e Moshe, Amir e Noa capitano in un’altra casa dove è in corso una veglia funebre per Ghidi, un giovane israeliano ucciso in Libano.
Ma l’irrequietezza è dietro l’angolo: Amir è ossessionato dai tanti cambiamenti (di donne, di case) che ha già effettuato nella sua giovane vita; Noa, non sentendosi apprezzata dal suo insegnante, è sempre alla ricerca della foto perfetta. Dopo un primo periodo idilliaco, complice anche la ristrettezza degli spazi abitativi che li priva di qualsiasi autonomia (la tele devono vederla seduti ambedue in un’unica poltrona) le rispettive ansie, frustrazioni, voglia di evasione cominciano ad emergere e la tensione tra Amir e Noa inizia a crescere. Nel frattempo, però, grazie alla quasi convivenza con Sima – i rispettivi appartamenti sono divisi da un sottile muro che cela ciò che accade nelle rispettive abitazioni a sguardi indiscreti ma non certo all’udito – Noa si lega molto a Sima ed alla sua bambina offrendosi, spesso, di farle da babysitter. Contemporaneamente Amir stringe un’amicizia sempre più profonda con Yotam riuscendo a tirarlo fuori dall’apatia che sembra averlo avvolto. Il ragazzino, infatti, fratello minore di Ghidi, oltre a soffrire per la mancanza del fratello, di cui sente vivamente la mancanza, è in piena crisi di identità, svogliato, privo di energie, insofferente per l'abbandono dei genitori chiusi in un assurdo isolamento dopo la morte del figlio maggiore. Ma la perdita di identità, la nostalgia, non sono solo luoghi della mente, le assenze, sono anche lo sradicamento fisico dalle proprie radici. È il caso di Saddiq, un anziano operaio arabo che, insieme alla sua comunità e a seguito dell’arrivo dei coloni israeliani, ha dovuto abbandonare la propria abitazione, quella in cui adesso vivono i genitori di Moshe. Ma in quella casa la mamma di Saddiq aveva nascosto un bene prezioso senza il quale difficilmente i propri defunti troveranno pace. La nostalgia per ciò che una volta era suo, porta Saddiq a piccole, innocenti azioni sconsiderate; ma nel conflitto secolare tra arabi e israeliani nulla è innocente e Saddiq si troverà in mezzo ai guai. Se all’inizio della loro convivenza l’esuberanza sessuale tra Amir e Noa era difficile da confinare tra quelle sottili pareti e nascondere alle pur discrete orecchie di Sima, il periodo di crisi e di breve lontananza che subentra al crescere delle incomprensioni scatena in Sima stessa pulsioni e sogni erotici nei confronti del bell’Amir e ciò nonostante il suo amore per il marito Moshe: nostalgia per la gioventù? per il tempo che passa? per un rapporto di coppia senza bambini cui badare?
L’unico personaggio che non vive in questo microcosmo è Modi, irrequieto amico del cuore di Amir, in giro per il Sud America alla disperata ricerca di una sua identità, che gli sembra di trovare, di volta in volta, in un luogo, in una donna, fino a che, nell’ultima lettera ad Amir, preannuncia il ritorno a casa confessando, implicitamente, di essere vinto dalla nostalgia.
Un romanzo a più voci in cui spesso i momenti condivisi tra i diversi protagonisti sono descritti dall’angolazione propria di ognuno. Nel romanzo non ci sono buoni o cattivi, non c’è chi ha torto o ragione ma solo personaggi in cui è facile immedesimarsi per le loro debolezze, per le loro insicurezze che sicuramente sono terribilmente simili a quelle di ognuno di noi.
Fin da questo primo romanzo è evidente il pensiero di Nevo, le pulsioni che egli riporta nelle sue idee narrative: la ricerca di identità, la tolleranza, le incomprensioni, la necessità del confronto, l’apertura verso gli altri. La semplicità della scrittura di Nevo, il suo linguaggio discorsivo, accattivante sono la cifra che ha fatto di questo autore uno degli scrittori contemporanei più amati e più letti e il vero erede di quella straordinaria schiera di scrittori israeliani come Yehoshua, Oz, Grossman.

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Agli amanti di Nevo e degli scrittori israeliani
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Novello Tolstoj?

Ho avuto la fortuna di leggere “Vita e Destino” pochi mesi dopo “Guerra e Pace”. Vasilij Grossman ripercorre le orme di Tolstoij e molti critici hanno sottolineato le grandi similitudini tra i due romanzi. Lo stesso Grossman, nel 1960, dichiara “dopo 10 anni di lavoro ho appena finito di scrivere un grande romanzo” e in molti passaggi del suo libro cita esplicitamente il suo illustre predecessore. D’altronde come confutare queste argomentazioni avanzate da critici “veri” (certo non come il sottoscritto che è solo un appassionato lettore). Il plot narrativo è assolutamente identico: nel primo l’invasione dell’URSS da parte dello straripante esercito nazista e l’epica resistenza di Stalingrado che segna l’inizio della fine del nazismo; nel secondo l’invasione della Russia zarista da parte delle armate napoleoniche e la grande battaglia di Borodinò che, nonostante l’apparente vittoria di Napoleone (i russi si ritirarono), in realtà segnò, come disse il generalissimo Kutuzov, l’inizio della fine dell’esercito francese e della sopravvivenza stessa di Napoleone e del suo Impero; le gesta epiche in ambedue i romanzi dei generali e dei loro eserciti, l’intrecciarsi di storie familiari, la morte del giovane ufficiale diciassettenne Tolja in Grossman e quella del sedicenne Petja Rostov in Tolstoij; il dipanarsi di amori vissuti o impossibili: in “Vita e Destino” la bellissima Evgenija, “Zenja”, che rinuncia al suo grande amore Novikov per restare accanto al marito Krimov, stalinista convinto e delatore professionale, imprigionato nei gulag staliniani, o l’amore, corrisposto ma non vissuto, tra lo scienziato Strum e Maria Ivanovna moglie del suo collega Sokolov; in “Guerra e Pace” il grande amore incompiuto fra Natas? Rostov (che poi sposerà Pierre Bezuchov da sempre innamorato di lei) ed il principe Andreij Bolkonskij o quello felice tra Nikolaj Rostov e Maria Bolkonskij.
Ma il parallelismo con cui Grossman costruisce il suo romanzo seguendo in maniera pedissequa la struttura narrativa del romanzo di Tolstoij non riesce, a mio avviso, ad emulare il grande pathos di “Guerra e Pace”.
Dopo un inizio molto promettente e alcune pagine di elevato lirismo la prosa di Grossman, da un certo punto in poi, diventa farraginosa, molto “impegnativa” da seguire, confondendo il lettore nei parallelismi piuttosto ingarbugliati delle varie vicende sociali e nella miriade di storie personali degli innumerevoli protagonisti.
Probabilmente il mio giudizio è influenzato dalle aspettative piuttosto alte che avevo nei confronti del romanzo di Grossman ma raramente ho trovato tanto faticoso leggere un romanzo. D’altronde, almeno per me, le circa 1.600 pagine di “Guerra e Pace” sono corse via con grande facilità rispetto a “Vita e Destino” che di pagine ne conta la metà.
Sia chiaro parliamo comunque di un eccellente romanzo ma credo che il parallelismo con “Guerra e Pace”, al di là delle somiglianze accennate in precedenza, abbia nuociuto a “Vita e Destino”.
I pregi del libro sono tanti. Grossman finisce il libro nel 1960, ancora in pieno regime comunista, e denuncia con grande forza il male che si annida, esplicito, anche nel sistema politico di quel regime. Non a caso il libro viene sequestrato e vedrà la luce solo nel 1980 in Svizzera. Grossman, infatti, pur individuando nel nazismo il peggiore di tutti i mali, non inneggia, come Tolstoij, alla grandezza del popolo russo tout-court; anzi non esita a denunciare lo stato di oppressione che attraversa l’intera popolazione delle repubbliche sovietiche e il progetto staliniano di creare uno stato totalitario che annulli le libertà individuali e fondi la sua stessa ragion d’essere sulla delazione di tutti contro tutti. Emblematici sono il caso dell’ufficiale Mostovskoj che prima è imprigionato in un lager nazista e poi, accusato di aver collaborato con il nemico, in un gulag sovietico o del prof. Strum, grande scienziato autore di geniali scoperte nel campo della fisica nucleare, che nonostante l’ostracismo della sua comunità scientifica e la messe di delazioni cui è sottoposto, sceglie di mantenere integro il suo nome rifiutandosi di firmare una autoconfessione; riabilitato da una telefonata dello stesso Stalin viene reintegrato nelle sue funzioni ma trovatosi nuovamente di fronte ad una scelta che, questa volta, non riguarda lui ma alcuni onesti colleghi incarcerati con ignobili accuse, non riesce a mantenere nuovamente intatta la sua rettitudine morale accettando di firmare una delazione contro costoro. Ma di episodi del genere il libro è pieno riuscendo a dare uno spaccato estremamente realistico delle condizioni di vita esistenti nel periodo staliniano.
Oltre che nella denuncia delle ingiustizie un altro valore che va sottolineato del libro di Grossman risiede nella sua laicità. Mentre il romanzo di Tolstoij è intriso di profondo spirito religioso (esempio massimo, tra gli altri, è il personaggio di Maria Bolkonskij, ma anche lo stesso principe Andreij, soprattutto durante la sua agonia) questo misticismo è totalmente assente in “Vita e Destino” dove la “Vita” è rappresentata dai soprusi, dalla sopportazione, dalla guerra, ecc., ma dove i protagonisti, attraverso le loro scelte individuali, sono gli artefici del proprio “Destino”.

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Guerra e Pace di Tolstoj, Stalingrado di Grossman
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Menti55 Opinione inserita da Menti55    02 Giugno, 2022
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Ai prodromi di un grande scrittore

La breve vita di Robin è segnata da innumerevoli opportunità negate, non colte, non vissute. Il platonico amore idealizzato per Kate mai espresso e mai confessato se non a sé stesso, l’antica amicizia (?) per il vecchio compagno di studi con cui non ha più nulla da dirsi, l’indecisione perenne nel trasformare il rapporto con Apurna in qualcosa di più solido, la disillusione verso il suo avvocato Emma che per opportunismo muta la sua strategia difensiva dall’ingiusta accusa di pedofilia di cui Robin è accusato, l’incapacità di terminare una tesi per il dottorando che da 4 anni non vede scritta una sola riga, l’insicurezza con cui egli stesso accompagna i racconti che scrive fanno sì che la fine verso cui si avvia Robin sia irrimediabilmente segnata fin dalle prime righe del libro. In questo secondo romanzo di Coe ci sono tutti i prodromi del suo stile narrativo che faranno dello scrittore britannico uno dei più affermati narratori contemporanei. Ironia e umorismo alternati alla drammaticità della vita, l’attenzione alle politiche thatcheriane ed alle sue nefaste conseguenze sociali (anche se in questo romanzo sono molto sullo sfondo e poco esplicitate), l’intrecciarsi delle storie dei protagonisti che si intersecano tra loro sono tutti temi che faranno di Coe uno scrittore cult. Certo in questo romanzo sono temi appena accennati, ancora acerbi e che troveranno ben altro spessore nei romanzi successivi e ben più noti.
Ciononostante il libro è molto godibile con dei tratti di ironia che strappano più di un sorriso soprattutto nei racconti di Robin che i protagonisti, in momenti e per ragioni diverse, leggono. Il significato del titolo va, a mio avviso, ben oltre quello che lascia immaginare; in questo caso l’amore va declinato nella sua accezione più ampia oltre quello dell’uno verso l’altra/altro.
Comprensione, attenzione, tolleranza, rispetto dell’altro, credere e “ascoltare” ciò che il prossimo ha da dirci; ecco se solo qualcuno di questi sentimenti, di queste pulsioni fosse stata espressa nei confronti di Robin forse l’epilogo della storia sarebbe stato diverso.
Un libro che va letto soprattutto per chi non conosce Coe e vuole approcciare uno scrittore piacevole, godibile ma, al tempo stesso, attento e critico osservatore della sua (e nostra) contemporaneità.

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A chi non ha ancora scoperto Coe
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Menti55 Opinione inserita da Menti55    25 Mag, 2022
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Per la ricerca di una pacificazione del conflitto

Apeirogon si inserisce nel filone narrativo di chi, da tempo, si batte per la fine del conflitto palestinese. A differenza della gran parte degli scrittori israeliani o palestinesi – fra tutti A. Yehoshua (Fuoco amico) e Susan Abulawa, (Ogni mattina a Jenin) – Colum McCann è uno scrittore irlandese-statunitense. Il romanzo ripercorre le vicende di Rami e Bassam le cui vite sono segnate dalla perdita, rispettivamente, di Smadar e di Abir, le loro figlie. Smadar uccisa a 13 anni da un attentato palestinese e Abir, uccisa a 10 anni da un soldato israeliano che le spara alla testa da una autoblindo. Rami e Bassam, dopo un incontro fatto di diffidenza prima e di amicizia dopo, diventano portatori di un messaggio di pace invocando energicamente, in tutto il mondo, un processo di distensione e di coesistenza pacifica tra i due popoli. Come il poligono da cui prende il nome il romanzo, con mille sfaccettature, è struggente, duro, impietoso contro chi, da ambedue le parti, ostacola volutamente, per interessi o ideologia, qualsiasi processo di pace. La testimonianza, sempre la stessa e sempre diversa, che Rami e Bassam portano in giro per il mondo, è così potente nella sua semplice drammaticità da infondere nel lettore un vivido messaggio di speranza. Il susseguirsi incalzante di paragrafi molto brevi (uno di sole 3 parole) sembra quasi voler richiamare, nel ritmo narrativo, la sequenza di scariche di mitra e/o della quotidiana violenza che quei popoli vivono. Il limite è che è un po' troppo intriso di buonismo. Far emergere la voglia di pace attraverso solo la “buona volontà” delle parti rende riduttiva e alquanto "semplicistica" una questione che si dipana da troppo tempo. Pur non nascondendo la violenza che i palestinesi subiscono McCann sorvola troppo sulle responsabilità dell’occupazione israeliana... e chi ha visitato Israele ha potuto toccare con mano che la vera violenza è proprio nella “normale quotidianità” cui i palestinesi sono costretti a vivere. Da leggere.

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Fuoco amico di Yehoshua; Ogni mattina a Jenin di Susan Abulawa; chiunque auspica la fine del conflitto tra ebrei e palestinesi.
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Romanzi autobiografici
 
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Menti55 Opinione inserita da Menti55    23 Mag, 2022
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La lotta per la democrazia e la libertà

Già alcuni anni fa, attraverso una meritoria iniziativa di un quotidiano nazionale, mi sono imbattuto in questo titolo che mi ha consentito di conoscere Héctor Abad. Colombiano di nascita, nato nel ’58, Abad racconta in prima persona, attraverso la storia della sua famiglia, la Colombia degli anni 70 e 80. Il momento più drammatico del racconto è l’assassinio del padre, Héctor Abad Gomez, avvenuta nel 1987. Uomo colto, docente universitario, tollerante, equilibrato e non dogmatico, un medico inviato dall’OMS in giro per il mondo, sempre proteso ad insegnare (ma anche ad attuare) come migliorare le condizioni igienico-sociali dei paesi; un giusto che si professava “cristiano di fede, marxista in economia, liberale in politica”. Mite, dal carattere allegro, non poteva sopportare il dilagare della violenza, gli assassinii degli squadroni della morte che fecero, in quegli anni, oltre 400.000 morti non risparmiando nessun ceto sociale: attivisti di destra e di sinistra, comunisti e conservatori, docenti universitari, teologi, scrittori, medici… Ciò che mi ha colpito, in un libro peraltro molto bello, è stato innanzitutto rendersi conto di come, a volte, si conosce così poco di altri paesi, di altre storie. La Colombia è sempre stata associata, nel mio immaginario perlomeno, alla grande produzione di droga, al cartello di Medellin, alla dittatura. Scoprire un mondo fatto anche di eroi borghesi che si sono opposti a costo della loro stessa vita ad un regime autoritario e connivente con la malavita organizzata è stata una piacevole sorpresa sia pure nell’amarezza di scoprire un mondo di violenza, brutalità e morte. Riscoprire cioè che, come diceva Machado alla vigilia della capitolazione di Barcellona nella guerra civile spagnola: “Si ignora che il coraggio è la virtù degli inermi, dei pacifici – mai degli assassini –, e che alla fine le guerre le vincono sempre gli uomini di pace, mai i sostenitori della guerra. È coraggioso solo chi può permettersi il lusso dell’animalità che si chiama amore per il prossimo, che è cosa specificatamente umana”.
Il secondo aspetto che balza agli occhi attraverso la descrizione di un ventennio di storia che Abad tratteggia con la sua cronaca familiare è (ri)scoprire come alcuni valori non hanno confini, non hanno latitudini; sapere che in qualsiasi parte del mondo, ovunque esista una dittatura, un regime oppressivo esistono frange più o meno ampie di resistenza, esistono persone che si oppongono e non si rassegnano né si piegano. Nelle pagine finali Abad spiega il motivo per cui, dopo quasi 20 anni (l’omicidio del padre è del 1987, la prima edizione del libro è del 2006) racconta l’assassinio del padre, la sua storia familiare e la storia della Colombia: cercare di confutare le parole dell’amato Borges “Già siamo noi l’oblio che saremo…” (Epitaffio) invitando direttamente il lettore ad avere “memoria”. E allora mi è tornato in mente l’incipit della Apologia della storia di M. Bloc: Papà, a che serve la storia? Ed eccola in Abad una possibile risposta: “Se le parole trasmettono in parte le nostre idee, i nostri ricordi, i nostri pensieri, se le parole tracciano, attraverso i libri in cui si trasferiscono, una mappa approssimativa della memoria collettiva, se attraverso queste parole (attraverso la storia) troviamo degli alleati, dei complici, capaci di far risuonare con le stesse corde quella cassa scura dell’anima che è la mente che la nostra specie condivide allora saremo in grado di riscuotere l’anima dal sonno e fare sì che l’oblio che saremo si protragga il più lontano nel tempo lasciando che la storia viva in chi verrà dopo di noi". Perché, parafrasando Sepulveda, un paese senza memoria è un paese senza futuro.

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Libri inneggianti la democrazia, la lotta per la libertà, a chi ha amato Patria di Aramburu.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Menti55 Opinione inserita da Menti55    23 Mag, 2022
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Alla ricerca della "poesia".

La recensione contiene spoiler.
Il romanzo di Bolaño è diviso sostanzialmente in due parti: una parte, costituita dal primo e dal terzo capitolo, cronologicamente conseguenti, che vede agire in prima persona i cosiddetti “detective” Arturo Belano e Ulises Lima e il secondo capitolo, la parte centrale e più ponderosa del romanzo – occupa circa 460 delle 680 pag. complessive di cui è composto il libro – in cui i due non appaiono mai direttamente. Ambientato agli inizi degli anni ’70 Arturo e Ulises pur proclamandosi depositari di un movimento letterario (di poesia) denominato realvisceralismo fanno risalire le radici di tale movimento ad una “poetessa” di alcuni decenni precedenti, Cesárea Tinajero. Di costei però vi sono solo frammenti di ricordi, non si hanno certezze della sua stessa esistenza e sembra essere rimasta un’unica poesia che più avanti si rivelerà un semplice “enigmatico” disegno. Il primo capitolo si apre con la voce narrante del giovane Garcia Madero, giovane di belle speranze con nessuna voglia di completare gli studi di giurisprudenza cui lo zio l’ha avviato. Appassionato di letteratura, e lui stesso aspirante poeta, si avvicina al mondo di Arturo e Ulises “vergine” e con una gran fame di vita. “Perditempo”, guidato dalle sue velleità di scrittore, si aggira per la sua città tra bar, prostitute, gangster, sedicenti poeti e scrittori, insomma persone di varia e diversa umanità. All’interno di questa umanità, in questo peregrinare senza meta, affascinato da un mondo con poche regole, Garcia finisce per imbattersi anche in Arturo e Ulises nei cui confronti tutti sembrano avere una sorta di adorazione/soggezione. Il primo capitolo si conclude con la partenza di Garcia, Arturo e Ulises che scappano in auto per mettere in salvo Lupe, una prostituta in fuga dal suo magnaccia, Alberto. Il secondo capitolo costituisce la parte straordinaria del romanzo di Bolaño e si sviluppa con uno scarto temporale che arriva fino a metà degli anni novanta. In questa parte centrale il lettore sembra immerso in una bolla da cui entrano ed escono un gran numero di personaggi (un critico lo ha definito un treno da cui salgono e scendono persone). Ognuno di loro racconta il suo rapporto con i protagonisti e con la presunta, mitica fondatrice del realvisceralismo. Il fil rouge del lunghissimo capitolo è dato proprio dai ricordi dei personaggi che si affastellano in questo secondo capitolo. L’aleatorietà che circonda l’esistenza di Cesárea fa sì che gli stessi ricordi di questi personaggi si confondono tra realtà, fantasia e invenzione. Ognuno, a modo suo, descrive le vicissitudini di Arturo e Ulises in giro per il mondo contribuendo a delineare la personalità dei due. Nel terzo capitolo Bolaño torna alla fuga con cui si era concluso il primo. Fuga che nel frattempo si è tramutata in un viaggio alla ricerca di Cesárea o, quantomeno, di prove che testimonino della sua esistenza. È da questa ricerca di indizi, prove, tracce al confine tra Messico e Sud America che, a mio avviso, scaturisce il titolo stesso del romanzo. Il ritrovamento di Cesárea manda in frantumi la figura mitica che circondava la “poetessa”. A fronte di un quadro che nel corso del romanzo aveva idealizzato il personaggio, i quattro – Arturo, Garcia, Lupe e Ulises – trovano, in pieno deserto, in un paesino di pochissime case, (la città degli Assassini) una donna enormemente grassa, sciatta, intenta a lavare i panni. Nel frattempo, quasi nello stesso momento, nel paesino arriva anche Alberto, il magnaccia di Lupe, che non aveva mai smesso di inseguirli, determinato a riportare Lupe all’ovile. Ma nella lotta corpo a corpo che si sviluppa tra Arturo e Alberto interviene Cesárea che, nello scontro, perde la vita insieme ad Alberto stesso. L’immagine di Cesárea che ci regala Bolaño, in una sorta di catarsi, è una fine eroica che riscatta la deludente figura anonima che avevamo visto al momento dell’apparizione della stessa. Un cerchio che si chiude su Cesárea attraverso un percorso che dal mito svela una deludente realtà e, con l’ultimo atto di eroismo che salva Arturo e strappa Lupe dalle grinfie di Alberto, la riconsegna al mito.

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La letteratura "on the road" americana e non solo...
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