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graphite Opinione inserita da graphite    27 Gennaio, 2023
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L'intelligenza in punta di penna

Tra le tante certezze che gli arguti quanto spinosi ritratti dei personaggi di Jane Austen ci forniscono, la prima, almeno in ordine di lettura, è quella di una percentuale di donne ignoranti, maligne, superficiali e meschine ben più alta rispetto a quella degli uomini. Lati della personalità che, seppur deprecabili, risultano più che giustificabili in quel mondo e in quell’epoca. Soprattutto viste le poche, se non nulle possibilità che il genere femminile aveva, allora, di studiare. Ed anche in casi specifici, come quelli di donne provenienti da famiglie con ampie disponibilità economiche, i soli insegnamenti ricevuti riguardavano qualche infarinatura di disegno, musica e danza, il tutto condito da ampie specializzazioni sul ricamo. Qualche fortunata cui Madre Natura aveva concesso una bella voce poteva cimentarsi nel canto. Ma raramente si andava oltre.

Ben più rari erano i casi in cui, ad una famiglia ricca, si aggiungeva un padre illuminato che possedeva e curava in modo razionale una biblioteca di famiglia e che permetteva alle figlie di usufruirne in maniera libera. Ma anche questo non bastava perché una donna colta e libera e con ampi mezzi rischiava di perdere la propria indipendenza economica con il matrimonio. Jane Austen di questo ha piena consapevolezza così come è perfettamente cosciente del fatto che quella che ai suoi tempi era una donna che si rispetti, non doveva abbassarsi a lavorare. E chi lo faceva era oggetto, nel migliore dei casi, di commiserazione.

Basterebbe questo per capire la volontà della Austen di non voler firmare i suoi libri. Nella piccola nobiltà di provincia come anche nella famiglia di un pastore anglicano, sarebbe stato troppo sconveniente. Ma sconveniente non era, invece, la piacevole sensazione di avere soldi propri, utili non solo per le piccole spese quotidiane ma anche come possibili risparmi da investire. Ed è in questo frangente che la Austen si rende conto del fatto che le necessità della vita e la volontà di una propria indipendenza economica non possono venire a patti con la ristretta visione di una società che imponeva alla donna il solo ruolo di angelo del focolare e custode della famiglia.

Una famiglia spesso troppo numerosa per permetterle non solo di avere una vita propria ma anche di ricoprire qualsiasi altra mansione. Un compito, quello di madre, tanto impegnativo da costringere a dover ricorrere all’aiuto di una domestica, anche nelle famiglie non certo benestanti. Indubbiamente la gestione di una casa e la totale assenza di quelle che per noi sono ovvie comodità (lavatrice, acqua calda e acqua corrente) rendeva il disbrigo delle faccende domestiche una vera e propria impresa fisica.

Ma proprio qui la grande Austen è capace di compiere la sua magia, quella, come ha notato più volte Virginia Woolf, di riuscire a dare dignità alle donne evitando il pericoloso veleno della rabbia. Un rischio evitato grazie ad un antidoto che non tutti sono in grado di comprendere ed ancora meno di gestire: l’ironia. Sottilissima. Talmente sottile che è spesso impalpabile ma sufficientemente forte da permettere ai suoi personaggi di camminare nel microscopico solco che la divide dalla banalità, per di più senza cadere nel cupo risentimento e nell’astiosa rivendicazione. Un percorso funambolico che la Austen riesce a fare con delicatezza e soprattutto con magistrale agilità stilistica.

Pur non volendo soffermarsi sulla trama, che risulta essere ad una prima, superficiale lettura, un vero ricamo caratterizzato da un perfetto ed equilibrato incastro degli eventi, non si possono dimenticare alcune caratteristiche specifiche dei personaggi. Il pomposo ed irritante Mr. Collins, ad esempio, è il classico archetipo di chi, vuoto di ogni valore e privo di ogni spessore caratteriale, vive celebrando pedissequamente le ricchezze altrui, incapace di distinguere la differenza tra le cose che hanno prezzo (da lui preferite) e quelle che hanno valore (da lui ignorate). Sulla stessa falsariga Mr Collins celebra anche quella che, nel caso di Lady Catherine De Bourgh, lui definisce generosità ma che, invece, altro non è se non squallido utilitarismo.

Con Mr Collins siamo di fronte ad un personaggio talmente meschino da arrivare ad avanzare una prima, tortuosa, proposta di nozze alla sventurata Elizabeth, per di più evidenziando il fatto che la povertà della sua famiglia le avrebbe evitato altri futuri pretendenti. Un discorso misero come chi lo pronuncia e durante il quale non si fa alcun riferimento a nessun tipo di sentimento. Nemmeno un minimo accenno dettato, più che da una reale presenza, per lo meno dalla necessità di salvare quelle apparenze di cui lui stesso tanto si cura. Ma sul fronte del matrimonio, spesso nucleo pulsante di tutte le eroine austeniane, neanche Elizabeth riesce ad essere perfettamente oggettiva. Infatti nel momento in cui scopre, o per meglio dire, le viene riferito da Charlotte Lucas del suo fidanzamento con Mr Collins, Elizabeth non può fare a meno di restare delusa ed amareggiata per quello che considera una atteggiamento meschino, solo parzialmente giustificato dalla necessità di accasarsi.

Diverso, invece, sarà il suo atteggiamento nel momento in cui si accorgerà che Mr Wickam ha iniziato a corteggiare una ragazza da poco divenuta ricca ereditiera. In questo secondo caso, forse offuscata da un sentimento ancora latente, Elizabeth non solo non trova alcun biasimo ma arriva addirittura a pensare che “anche i belli, come i brutti, devono trovare di che vivere”. Forse la nostra cara Jane, pur nella sua modernità, è ancora vittima del perbenismo dell’epoca?

Ma durante la lettura i motivi di critica non mancano per nessuno, nemmeno per quel padre che, in apertura, appariva così piacevolmente sarcastico ma che, con l’avanzare della storia, si rivela essere un uomo la cui progressiva indolenza in tutti i campi ha portato allo sfacelo sia economico che educativo della famiglia. Tutti i protagonisti e gran parte dei comprimari denotano mancanze e vizi. Gli unici ad uscirne senza macchia? I Gardiner, ovvero gli zii di Elizabeth, gli unici sui quali la Austen, forse per mancanza di tempo, si è dimenticata di spargere un poco del suo delizioso, catartico veleno.

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graphite Opinione inserita da graphite    18 Settembre, 2022
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Quando una storia incontra la Storia

Cosa accade quando una donna che ha fatto la Storia ma che forse non l’ha vissuta, incontra le persone che dalla Storia si sono fatti travolgere e l’hanno scritta? Potrebbe forse accadere che quella donna, che nel nostro caso altri non è che la Regina Elisabetta II, prenda coscienza del suo ruolo come semplice attrice di uno spettacolo, comparsa di un eterno cerimoniale il cui scopo dovrebbe essere quello di rassicurare il popolo. Ecco allora che la Sovrana lettrice diventa un romanzo in cui un personaggio, a tutti gli effetti reale, potrebbe aver detto o pensato cose che, a causa del suo ruolo, si è sempre trovata a dover negare a tutti. Forse anche a se stessa.

Pochi sono in grado di confermare o meno l’amore di Sua Maestà per la lettura (tra le poche certezze ci sarebbe, come sempre il condizionale è d’obbligo, una simpatia per i gialli di Agatha Christie). Ma a prescindere da questo, l’Elizabeth di Bennet, non potrà mai essere quella reale, in virtù proprio della punta di diamante di tutto il libro: la battuta finale. La stessa battuta di fronte alla quale il lettore, che finora avrebbe potuto prendere per reale tutta la narrazione, capisce che si tratta di finzione. Nulla, infatti, è più lontano, e lo è stato per 70 anni, dalle intenzioni della reale Elisabetta II. Ed è perciò proprio in questo punto che il personaggio rivela la sua finzione. Indubbiamente sarcastica, la Regina, quella vera, avrebbe potuto pronunciare quella frase con il solo scopo di sorprendere e stupire i suoi ospiti. Magari per far sudare freddo uno dei 15 Primi Ministri da lei nominati durante il suo lungo regno.

Ed è proprio da questo punto che ci si può ricollegare, con raziocinio, al gioco di specchi e al paradosso all’interno dei quali, come detto, il lettore non riesce più a distinguere la finzione (gusti letterari, presenza più o meno gradita di valletti, scambi di osservazioni e critiche letterarie con i Primi Ministri) dalla realtà (incontri politici, discorsi, fatti storici tra l’altro solo accennati). I due binari della Storia (vera) e della storia (narrata) si intersecano continuamente per poi dare l’unica certezza solo alla fine. Letteralmente.

Come sappiamo la Regina ha voluto mantenere la parola data al suo popolo, ovvero quella di restare sempre al servizio della Corona, fino alla fine dei suoi giorni. L’abdicazione, infatti, non è mai rientrata nella sua logica ma è stato proprio per questo che Elisabetta II è stata una persona che c’era come istituzione. Ma che non c’è mai stata come persona. Questo perché al di là del suo ruolo non si sa praticamente nulla, d certo,su di lei. Sempre nascosta dai “si dice”, ogni notizia che filtrava, e che rasentava la semplice curiosità, come ad esempio il contenuto della sua borsetta, è sempre stata fornita dalle famose “fonti di palazzo”, puntualmente anonime. Nessun giudizio, nessuna opinione, nessun intervento oltre il cerimoniale.

Elisabetta II ha rappresentato un mondo che per i giovani contemporanei e ancora di più per le future generazioni, resterà sempre incomprensibile perché ritratto di una serie di valori, insegnamenti e priorità ricevuti dal passato. Una Regina che, come nella Storia, è sempre stata un simbolo e non una persona. Ogni suddito, perciò, ha sempre avuto il diritto di immaginare Lilibeth (e non la Regina) come preferiva. Un doppio binario che l’8 settembre si è interrotto. Elisabetta II è per sempre, Lilibeth non è più.

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graphite Opinione inserita da graphite    05 Settembre, 2022
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Un ritratto della dignità

Suite francese non è un libro ma un viaggio nel tempo e nello spazio. Uno di quei viaggi che solo i grandi libri ci permettono di fare. Un percorso mentale, ancora prima che letterario, che appassiona chi lo attraversa e che segna l’anima. Colpisce prima di tutto lo stile neutro, intendendo con questo termine una scrittura dallo stile assoluto, asciutto e non riconducibile, nell’analisi, ad un uomo o ad una donna (ammesso e non concesso che una scrittura di genere possa esistere).

Il luogo comune vuole che un libro debba il dovere di catturare il lettore già dalle prime battute ma personalmente ritengo questa regola una sorta di esigenza del marketing moderno. Il lettore dei nostri giorni è abituato, nel migliore dei casi, a calarsi immediatamente, o quasi, nella situazione. Si tratta, come è facile capire, di un’esigenza dalla quale il passato, privo di televisione, internet e caratterizzato da ben altri ritmi, era esente. Ma Suite francese, pur non essendo un testo nato per la moderna industria letteraria (è stato scoperto e rivalutato solo recentemente come tutta la produzione della Nemirovsky) permette già dalle prime battute di disegnare con tagliente precisione già un primo profilo del tono e delle situazioni, personaggi compresi. Anzi, nel loro caso la citata “tagliente precisione” si trasforma spesso in una particolare ferocia priva di rabbia. L’esempio arriva nel momento in cui, nella seconda parte, l’autrice mette in risalto l’umanità dei tedeschi.

Un particolare non da poco soprattutto se si considera che la Nemirovsky, ebrea, doveva, proprio in quel periodo, sfuggire alle persecuzioni naziste, come confermato anche da alcuni suoi appunti ritrovati successivamente alla sua morte, avvenuta in un campo di concentramento nel 1942. In quelle pagine si legge infatti “Giuro qui di non riversare mai più il mio rancore, per quanto giustificato, su una collettività di uomini”. Lo stesso equilibrio richiama alla mente i suggerimenti di Virginia Woolf a proposito del romanzo. La scrittrice inglese, in particolare, lodava Jane Austen proprio per l’assenza pressoché totale, di livore verso quella società patriarcale e maschilista che, in quanto donna, l’aveva costretta alla povertà e all’ignoranza. Oltre che ad una perenne dipendenza economica dai suoi fratelli.

La delicatezza che traspare dalla scrittura della'autrice di Suite francese si avverte anche in altre opere, racconti come La sinfonia di Parigi o Giorno d’estate.

Continuando nell’analisi prettamente stilistica del testo, risalta anche un’altra particolarità: il meraviglioso contrasto tra un paesaggio che, sebbene caratterizzato da una serenità quasi mistica durante l’estate e da una rabbia violenta d’inverno, trasmette comunque la rasserenante certezza di essere “nella sua Natura”. Infatti, agli angosciosi spostamenti di massa, ai bombardamenti, alle scene strazianti che si creano durante l’esodo e in cui l’essere umano si trova costretto, per sopravvivere, a dover tornare allo stato ferino, fa da contraltare una Natura che continua, nel suo svolgersi immutabile. Serafica, placida e incurante degli orrori creati dall’essere umano, appare quasi conscia della sua superiorità. Il Tempo, infatti, procederà implacabile come ha sempre fatto nella Storia e la grande tragedia di una guerra mondiale, che proprio nel flusso dell’eternità e dell’evoluzione rappresenta un batter di ciglia, riguarderà solo il genere umano.

Volendo, invece, soffermare l’attenzione sulle sensazioni dei vari protagonisti non può essere ignorato un altro elemento: il cibo. O per meglio dire l’ossessione e la descrizione minuziosa e ripetuta che viene fatta del cibo negato, immaginato e di quelle provviste spesso nascoste. Tutto questo non deve stupire. Come detto, il quadro che l’autrice ci offre è quello di una popolazione disperata e in fuga, una popolazione variegata che si trova a dover lottare per la sopravvivenza. E che, ora, si trova anche a dover affrontare la fame, quella vera; una sensazione che molti di loro, esponenti dell’alta società, non aveva mai avvertito.

Una fame che, patita nello stesso periodo e per lo stesso motivo (la guerra) pativa anche un’altra donna, anche lei scrittrice: Dacia Maraini. Anch’essa chiusa, da bambina, in un campo di concentramento, anche se in Giappone, ricorda con parole ugualmente angosciate la fame patita e soprattutto la perdita e l’annientamento della dimensione umana e della dignità, visti durante la prigionia. E della fame ne parla la Nemirovsky, questa volta, però, in alcune sue lettere (in alcune edizioni presenti in appendice) nelle quali chiede agli amici di procurale del cibo per lei e per le sue due figlie.

Grande merito della Nemirovsky, infine, quello di aver reso l’orrore della guerra senza cadere nella facile tentazione della scena truce ma riuscendo a svelare la meschinità degli esseri umani, soprattutto quelli che nella “società civile” risultano essere, spesso, i più rispettati. Solo pochi, in questo caso i coniugi Michaud, modesti impiegati di banca, riescono a preservare il meraviglioso, sublime e spesso dimenticato dono della Dignità.

Un dono che l’autrice, donna di grande cultura, conserva anche nella vita reale. Lei stessa, infatti, scriverà al direttore letterario della sua casa editrice, Albin Michel “Caro amico… non mi dimentichi. Ho scritto molto. Saranno opere postume, temo, ma scrivere fa passare il tempo”. E da donna di grande cultura, appunto, non chiederà agli amici solo cibo e soldi, ma anche libri. Quelli che, una volta finiti, fanno sentire il lettore come se avesse detto addio ad un amico.

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graphite Opinione inserita da graphite    10 Aprile, 2022
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La Follia come unica Verità della vita

Provare a fare una recensione sull’Elogio della Follia di Erasmo da Rotterdam equivale a fare una recensione sul perché della vita. Anzi, proprio sulla vita stessa. Questo testo, infatti, potrebbe essere la classica dimostrazione di quanto diceva Italo Calvino e cioè che un classico ha sempre qualcosa da dire.
Sebbene il testo nasca con intenti ironici, almeno ad una prima lettura, non è certo ironica l’idea secondo la quale tutta la vita sarebbe contraddistinta dalla Follia. E forse è proprio alla Follia che si deve qualcosa di così complicato come la Società umana e tutte le regole, spesso assurde, che la contraddistinguono. Non esclusa la Religione. O per meglio dire Le Religioni, come la Storia insegna. Un interessantissimo esempio di come quello che a noi sembra del tutto normale lo abbiamo in un piccolo libro, quasi ignorato: Papalagi, testo del 1920, il cui autore è Tuiavii, un capo indigeno delle isole Samoa. Senza dimenticare il più famoso esempio di Follia citato nel Don Chisciotte. Ma anche in questo caso una riflessione è d’obbligo: il grande Don Chisciotte, visto da tutti gli altri personaggi del romanzo come un folle, non era forse l’unico, tra loro, ad essere veramente felice? L’unico a trovare in tutte le sue (tante e spesso inutili) sofferenze, un lato nobile e consolatorio? Forse lo era perché aveva capito, prima e meglio degli altri, che, come diceva Seneca, la cosa più importante della vita non è renderla più lunga, ma più ricca.

Partendo da questi presupposti, quale filo sottilissimo potrà mai legare tutte queste realtà così lontane nel tempo e nello spazio? Ebbene quel filo è proprio la Follia. Una Follia che, si badi bene, Erasmo fa interpretare ad una donna. E forse non a casa. Infatti, secoli dopo, fu Clarissa Pinkola Estes che dimostrò al mondo, nel suo capolavoro Donne che corrono con i lupi, che le Donne (il maiuscolo è voluto) sono un mondo a parte. Un mondo magico e perciò per secoli ritenuto spesso folle.

Ma torniamo al nostro Erasmo ed alla sua Follia, circondata da adepti altrettanto deliziosi come Lei. Tra questi Filautia, ovvero l’amor proprio, definita la sorella gemella della Follia. Senza contare Kolakia, l’adulazione, Edonè, il piacere, Loto, l’oblio, Nigreton Ipnon, il letargo, fino ad arrivare a Misoponi, la pigrizia. Giusto per citare quelli a noi più noti. Ma a questo punto è la Follia stessa che preferisce chiarire immediatamente un punto: esistono due tipi di pazzia. La prima è quella violenta, figlia delle Erinni e con la quale non ha nulla a che vedere. L’altra, invece, è appunto la protagonista del libro ed è quella pazzia che affligge, in misura differente, varie categorie di persone e che dà origine alle tante anomalie della vita, spesso piacevoli, come l’Amore, o altre, più incomprensibili, come la Politica e gli affari di Stato. La dimostrazione? Nel primo caso, quello dell’Amore, non occorre portare esempi pratici: ce ne sono fin troppo, e troppo palesi, davanti agli occhi di tutti. Per la Politica, invece, basterà seguire il discorso illuminante, della protagonista.

Solo un folle, infatti, inizierebbe ad adulare il popolo per avere la sua approvazione. Solo un folle potrebbe desiderare di abbracciare tutte le incombenze politiche. E dal momento che è dalla Politica che nascono le città e le Nazioni, ed è in nome della Politica che si creano imperi e si fanno guerre, allora è dalla Follia che nasce viene regolata tutta la Storia del genere umano. Ma le guerre, come sappiamo, nascono anche a causa della Religione. Ed è in questo punto che Erasmo dimostra il coraggio delle idee che solo un grande uomo di cultura, e di pace, può avere: la Religione, per lo meno quella codificata da teologi e clero, è anch’essa frutto di Follia. Le parole pronunciate dalla protagonista contro la Chiesa sono un’accusa alla vendita delle indulgenze, all’adorazione delle reliquie e alle tante scelleratezze che un clero ormai corrotto e lontano dalla Verità di Gesù Cristo aveva inventato per ricevere soldi. O addirittura estorcerli con la paura delle fiamme eterne. Ma sono anche un’accusa ai dogmi ed alle fantasiose elucubrazioni pseudofilosofiche dell’epoca, elaborate da quei teologi che, volontariamente, hanno reso oscuro il messaggio originario del Cristo: la carità verso il prossimo. Non solo, ma anche la Fede, quella vera e sincera, potrebbe dimostrare varie affinità con la Follia, soprattutto se spinta ad un pauperismo inutile e ad un’autoflagellazione senza senso. In un’Europa dilaniata dalle guerre religiose, l’affermazione ha del rivoluzionario. Ancora di più se si considera che a farla è un uomo di Chiesa come, di fatto, era Erasmo.

Ma la Follia non guarda solo ai grandi peccati della società e della Chiesa. Il suo occhio risulta anche materno e benevolo. Infatti la Follia ha fatto anche dei grandi doni agli uomini: l’incoscienza e la risata.

Tipiche degli stolti, dei bambini e dei buffoni, permettono di dire la Verità senza dover incorrere nelle punizioni che i potenti infliggono a chi osa pronunciarla. L’antico adagio Castigat ridendo mores, ha ancora la sua valenza. Inoltre l’incoscienza permette di non avere contezza del Male presente nel mondo, come anche la Bibbia conferma. In Ecclesiaste, passo citato nel libro, si legge “Chi acquista sapere acquista dolore, e chi sa molto, vive in grande afflizione”. Un concetto ribadito poco più avanti con un’altra citazione dallo stesso libro: “Nel cuore dei sapienti dimora tristezza, in quello degli stolti letizia”. Da qui la possibilità, per chi non vuole cercare la sapienza, di avere, per lo meno, il grande, inestimabile, dono della serenità su questa Terra. Forti di questa speranza, continueranno a credere di avere la felicità a portata di mano. E quale miglior balsamo per l’anima, se non l’Illusione?

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graphite Opinione inserita da graphite    06 Marzo, 2022
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Un delicato acquarello d'altri tempi

Il libro di Bilenchi (Conservatorio di Santa Teresa) è uno di quei libri che offre al suo lettore sensazioni e colori, atmosfere e ovattati ricordi ancora prima che una storia vera e propria. Per questo un’analisi del testo tende istintivamente a focalizzarsi prima di tutto sullo stile e le tecniche di scrittura adottate dall’autore. Infatti lo svolgersi degli eventi appare volutamente lento. Una lentezza che, alla fine dei conti, è il fulcro della vera forza evocatrice del testo. Bilenchi riesce a creare una narrazione coinvolgente pur trattandosi di una proiezione continua della visione interiore del piccolo protagonista, per di più narrata in terza persona. Una struttura che, potenzialmente, rischierebbe di essere, per il lettore contemporaneo, lenta e pesante se non addirittura macchinosa.

Tante, forse anche troppe, le descrizioni dei paesaggi in una storia che, in linea di massima, potrebbe essere divisa in due parti complementari e paradossalmente anche antitetiche. Infatti se da un lato la prima parte è permeata di intimismo, in un quadretto contraddistinto da gelosie ed egoismi infantili, nella seconda si assiste ad un passaggio decisivo verso l’esterno. Il protagonista, Sergio, non è più solo, inizia prendere dimestichezza con i suoi coetanei, appropriandosi di una vita e di una quotidianità fatta di spazi propri e di propri ritmi con la differenza che, questa volta, saranno tutti descritti in funzione di una più ampia interazione sociale. Ebbene, proprio in questa seconda parte il lettore avverte, forse volutamente malcelata, una vena di morbosità o, di innaturale pudicizia per un ragazzo.

Ma la spiegazione potrebbe essere, invece, proprio sotto i nostri occhi. Sergio, ormai al limite dell’adolescenza (in realtà il dato lo si deve solo dedurre giacché nel testo non è mai esplicitamente dichiarato) ha sempre vissuto in una sorte di ampio gineceo nel quale, paradossalmente, la madre, Marta, si è trovato ad essere un personaggio relativamente defilato. La figura paterna, invece, complice la Prima Guerra Mondiale, è stata pressoché assente. Sensibile già per sua natura, Sergio si accorge che questa sua caratteristica non è la stessa avvertita anche dalle bambine del Conservatorio di Santa Teresa. Ecco allora evidenziato un disagio che Sergio aveva già avvertito con la zia, Vera, donna dalla vita sociale vivace, come vivace è anche il suo carattere. Vivace, ma forse anche bisognoso di affetto dal momento che le storie da lei vissute (anche queste semplicemente dedotte da quanto riferito sotto forma di scherno da Bruno, fratello di Vera e padre di Sergio ) coinvolgono uomini estremamente differenti tra loro sia per fattezze fisiche che per carattere. Un esempio potrebbe essere Giulio, amante morboso di Vera, che non esita a sorvegliarla.

La figura di Giulio si contrappone a quella, sfortunata, di Edoardo, l’unico, tra tutti, per cui Vera sembri provare un sentimento di amore. Ma sarà anche l’unico che sarà Sergio apprezzerà, se non altro perché, proprio come avrebbe fatto Sergio, anche Edoardo rimane disgustato dalle canzonette oscene degli operai sulla spiaggia. Ed è proprio lui, Edoardo, che, con il suo profilo caratteriale, rientra pienamente all’interno del quadro delle delicate atmosfere che si avvertono per tutto il libro. Sola eccezione: la scena dell’accoltellamento di Edoardo, unico momento che coinvolge in maniera violentemente diretta i protagonisti.

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graphite Opinione inserita da graphite    14 Febbraio, 2022
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Un piccolo diamante dimenticato

Ad una prima analisi la struttura del libro sembra ricalcare i grandi predecessori del genere diaristico, da “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo, fino a “Diario di una scrittrice” di Virginia Woolf. Indubbiamente, la scrittura come forma di terapia introspettiva è senza dubbio il primo elemento che si presenta agli occhi di un lettore che vuole scavare a fondo sul significato, o per meglio dire, sui tanti significati e i tanti messaggi che questo romanzo porta con sé fin dalle prime righe.

L’incipit del libro, infatti, è già di per sé travolgente. Nelle prime due pagine, grazie anche alla tecnica della scrittura privata, l’autrice, Alba De Cespedes, ci offre il nucleo primigenio del testo: il senso di colpa della donna che osa fare qualcosa per se stessa. (“Ho fatto male a comprare questo quaderno, malissimo. Ma ormai è troppo tardi per rammaricarmene, il danno è fatto”). Qual è il peccato gravissimo commesso? L’aver ceduto ad un impulso, apparentemente inspiegabile, di comprare un quaderno sul quale annotare i propri pensieri. Ma la colpa che la protagonista si attribuisce va anche oltre: aver ceduto anche al bisogno interiore di ascoltare se stessa anche a rischio di trascurare la casa e la famiglia.

Il tutto per colpa di un quaderno. Sì, perché l’oggetto proibito, come dal titolo si evince, nulla è che un semplice quaderno. Assistiamo, dunque, già dalle prime righe alla presentazione di una donna, Valeria Cossati, la cui anima è letteralmente plagiata da secoli di ancestrale condizionamento sociale e culturale. Ma allo stesso tempo, proprio questo peccato (orripilante ai suoi occhi ma assolutamente innocente in una logica oggettiva) le permetterà, man mano che si svolge la storia, di prendere coscienza della sua effettiva situazione.

Ed è sempre nelle prime pagine che la De Cespedes ce lo fa intuire. Infatti Valeria, appena tornata a casa, con il quaderno opportunamente occultato sotto il cappotto, si rende conto di non avere a sua disposizione nemmeno un cassetto nel quale nasconderlo. Il motivo? Tanti, ma uno di questi è il fatto che Mirella, la figlia di Valeria, apre spesso armadi e cassetti per prendere i vestiti della madre in prestito. Un elemento che è sufficiente a farci capire come, oltre a qualsiasi spazio fisico, Valeria abbia da tempo, ed inconsapevolmente, rinunciato anche ad una sua precisa identità. Lei è la madre, o per meglio dire “mammà”, il nomignolo che il marito, Michele, le ha dato poco dopo la morte di sua madre, la suocera di Valeria. Una coincidenza fin troppo chiara per esigere ogni spiegazione di tipo psicanalitico.

Ma è l’atmosfera tutta che appare impregnata di una diffusa sottomissione femminile: la fioraia consiglia proprio poco prima dell’entrata in scena del quaderno, di comprare dei fiori perché “gli uomini le guardano certe cose”. Non è dunque Valeria, ma tutto il mondo nel quale vive (siamo nella Roma del 1950), e dal quale proviene, a forzare la mano su un’educazione che impone alle donne di anteporre la cura della famiglia alla propria vita e a qualsiasi pretesa personale. Fosse anche un quaderno sul quale annotare i propri pensieri.

Ci troviamo di fronte all’Angelo del Focolare di cui Virginia Woolf ha spesso scritto, descrivendolo come il peggior nemico della donna. Di qualsiasi donna che volesse (o anche dovesse) conquistare e poi difendere la propria indipendenza intellettuale ed emotiva, oltre che economica. Ma il personaggio di Valeria appare meravigliosamente sfaccettato. Infatti, sebbene schiavo di alcune convenzioni sociali estremamente radicate nel suo modo di ragionare, in realtà è una donna che lavora.

Anche se il lavoro è stato scelto e vissuto non come una realizzazione personale ma come uno strumento per aiutare economicamente la famiglia. Ed è questa la vera chiave di volta di tutto il racconto perché si comprende come ogni cosa possa avere due facce. Se accorge anche la protagonista nel confronto con le sue amiche, le stesse che, parlando tra loro, danno l’idea di recitare una parte per sembrare sempre felici, ricche ed appagate all’interno di matrimoni che, in realtà, sono stato stipulati come una sorta di contratto.

Per loro, infatti, un marito è letteralmente una fonte di reddito, utile solo per riuscire ad avere denaro, villeggiature pagate e conti saldati a fine mese. Per avere questo, però, sono costrette a rinnegare loro stesse, a temere di venire scoperte, ad inventare scuse di tutti i tipi per riuscire ad avere dei soldi per le loro spese quotidiane. Sono loro a tremare per il timore di fare tardi nel rientrare a casa oppure di essere scoperte dai mariti ai quali avevano mentito per giustificare una visita fuori casa.

La vera donna libera, in questo gruppo, è Valeria. Paradossalmente quella compatita dalle amiche perché (“poverina”)è costretta a lavorare. Ma di questo lei se ne rende conto solo grazie alla scrittura e all’esame, attraverso le pagine del diario, della sua situazione. Ma questo punto offre anche un’occasione perfetta alla De Cespedes per raffigurare un meraviglioso triangolo generazionale, quello tra Valeria, sua madre e sua figlia.

La seconda, infatti, ferma nel suo tempo, compatisce la figlia per essere stata “la prima donna in famiglia” ad essere stata costretta a lavorare. La terza, Mirella, invece, perfettamente conscia della rivoluzione dei sessi già in atto tra le nuove generazioni, decide consapevolmente di studiare (su suggerimento della madre) e di lavorare. Sarà proprio questo, infatti, a permetterle di andare a vivere lontano, anche rischiando di infrangere le leggi morali perbeniste della madre. Ma lei di questo non ha paura perché ha pienamente coscienza dell’importanza dell’indipendenza lavorativa e, soprattutto, di quella mentale. Con lei l’Angelo del Focolare ha perso.

Solo in quest’ottica comprendiamo un’altra realtà dei fatti: Valeria è una donna dilaniata tra il passato nel quale è stata allevata ed il futuro con il quale si trova a vivere. A farle prendere coscienza di questa situazione sarà ancora lui, il quaderno, lo strumento diabolico che ha infranto tutte le sue illusioni, aprendole gli occhi. Lo stesso strumento, la scrittura, che ha dato la possibilità a molte donne, nella Storia, di capire e riflettere.

Chi invece sorprenderà tutti, in negativo, sarà Riccardo, l’altro figlio di Valeria. Giovane ed inesperto, con una visione estremamente maschilista della donna, sceglierà come fidanzata Marina donna caratterialmente sottomessa e apparentemente non molto brillante. La stessa Valeria, incarnando lo stereotipo della suocera, sospetta che Riccardo sia stato ingannato e che l’innocenza della ragazza, sia stata, in realtà, solo una messa in scena. Ma anche in questo caso non è necessario soffermarsi ulteriormente sul rapporto tra madre e figlio.

Per capire la reale natura della sottaciuta morbosità di Valeria, basta semplicemente la considerazione che lei fa nel momento in cui prende coscienza di un bimbo in arrivo. Il nipote, infatti, per stessa ammissione della protagonista, non sarà visto come di Riccardo e Marina, ma di Riccardo e Valeria. La prova arriverà sul finale, quando lei, Valeria, decide di ignorare la sua “ultima possibilità di essere giovane”. Una possibilità inaspettata che si offre a Valeria e che la De Cespedes traduce in un magistrale colpo di scena proprio nelle ultime pagine del libro. Ma anche in questo caso la donna deve piegare nuovamente la testa e rinunciare. L’Angelo del Focolare ha fatto la sua ennesima vittima.

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