Opinione scritta da abyssenoir

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abyssenoir Opinione inserita da abyssenoir    16 Febbraio, 2022
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umiliati e offesi, derisi e...vincitori. SPOILER

Guizza alla mente, lampante, una curiosità, quale tutti legano in seno; Quando, uno scrittore, davvero riporta la realtà oggettiva dello svolgimento dei felici o mesti accaduti? E' una domanda che, scaturisce timida, inopportuna, incredula.
Menarsi entro un'aia, di un magno torsolo di carta, sottende a svincolarsi ancora in altri piccoli atrii. Quanti morsi ci vogliono ancora per addentarlo? Nel frattanto che, sono sazio, sono saturato dal torsolo, come posso ancora renderlo tale ad un giulebbe? Forse, posso almanaccare qualcosa, e farne un crogiolo assai saporito. Rendere ambo i sapori autentici, interscambiarli. Un frutto così purgato come la mela, naturale, che vien poi detrito, dalle intemperie della mente che vuol che sì, quel pasto diventi quantomeno agrodolce.
Il numinosissimo mestiere di scrittore è questo, come biblicamente realizza un profeta; trasformare, mutare, surrealmente qualcosa, in un altra cosa sommariamente utile, o comunque presso a poco così. Dostoevskij scrive nel 1861 Umiliati e Offesi, un'opera 'rozza', una bozza scaramantica di quel che poi saranno tomi di gran spessore; Delitto e Castigo (1866) e L'idiota. (1869). Umiliati e offesi nasce a scatti, una trama che vien pubblicata a macchia di leopardo su 'Vremja', come d'altronde ogni manoscritto ancor in nuce nella mente del nostro autore. Un mero Feuilleton russo; Dostoevskij s'ispira ai romanzi di appendice francese, ciò infatti gli costò diversi elogi o massacri; gremito di colpi di scena, ingarbugli e guazzabugli, fili conduttori e fili recisi, digressioni o vicende lasciate a metà e poi raggiunte più innanzi.
I personaggi sembrano molto caricati; cadauno rimarca o scema il parossismo dell'altro. Le due storie sono assolutamente un pantano di coincidenze, di assoluta vicinanza, di cupezza, di melliflua tribolazione. La teoria del doppio, la diaspora dell'io, l'andirivieni del carnefice-preda, le attente meditazioni, descrizioni dell'animo umano permeano la narratio dostoevskiana, come altresì circoscritto nel massimo esempio di narrativa; L'idiota.
Il titolo nomato, è uno dei più incisivi tra tutto il corollario romanzesco dostoevskiano. Umiliati e offesi, da chi? da chi l'onta? l'umiliazione? la prosternazione avvilente? dal popolo lubrìco, il popolo agiato, la gente già di per sé vilipesa che infligge ancor più infime malefatte ai deboli. ai degenti, fra i ricchi e i vigorosi. Un golfo di intristita esposizione narrativa, quasi sofferente, dacché spunta fuori la secondaria vicenda della piccola Nelly, o Elena; orfana, indigente, viene accolta nella casa degli orrori della Bubnova. Tra schiaffi, pugni, calci e invettive, epiteti ingiuriosissimi, la piccola ammutolisce sempre. Più la ferocia dell'ubriacona è violenta, ancor più insolente è il silenzio di nelly, finché un Ivan Petrovic -Dostoevskij stesso- non s'incappa sinché un Ivan Petrovic -Dostoevskij stesso- non s'incapperà da quel frangente in poi, nel secondo filo narrativo della tragica storia Nelly/Smith/madre di Nelly. Ivan, è uno scrittore in erba, da poco immolatosi al corpus della letteratura; si possono decifrare meglio i crucci, i rovelli, e i rudimenti della scrittura dostoevskiana; allude sottilmente, alle prime cuciture del romanzo ‘’Povera Gente’’ il quale, riesce a sublimare l’autore aderendo al panorama circoscritto. Il teatro ‘scritturale’ messo in gioco, sdilinquisce l’autore stesso –egli interagisce, patisce per la sorte delle proprie creature, rivela- ; i personaggi come dei sosia diversi, passivamente subiscono il sudore della penna, sono delle marionette che attingono il proprio ruolo alla realtà ingarbugliata con il sogno. Tutto sembra prender forma sotto la pressione della penna, Dostoevskij fornisce di che conoscere sul proprio modus operandi; ultima i romanzi e li consegna all’editore-fiduciario entro due notti, disvela l’attaccamento verso i libri, e il suo trasporto, paragona il poeta o scrittore ad una sorta di persona ingenua, sciocca per sua la condizione franca, bonacciona, fors’anche gaglioffa. Trasmuta ansie, ricordi, lavoro letterario. Il carattere analitico-apprensivo-meticoloso lo ritroviamo in continue interpolazioni descrittivo-costruttive, il costeggiare delle opere-sogni è sempre una preterizione subdola. ‘'mi pareva che tutto ciò accadesse in un sogno” elemento chiave di tutta l’opera omnia; un tale riecheggio trasognante, lo ritroviamo anche nella tenerissima, controfattuale, rimordente amara conchiusione del romanzo. ‘’Vanja! Vanja!, non era che un sogno!’’... ripeté Natasa.
Natasa/Alesa/i genitori di Natasa/il principe o padre di Alesa è il primigenio intreccio narrativo, contrassegnato da cliché romantici, languide esposizioni di amore, il perir d’amore di una protagonista degna di eroismo romantico. Natasa, doppio di Nelly, è ben discrepata dall’attinenza fuggitiva della seconda. Ritroviamo una Natasa angusta all’interno di tuguri, pallida, meditabonda, ben indulgente con Alesa, che quasi masochisticamente –come Ivan- trovano una sorta di godimento nella propria condizione grama e insofferente. Alesa è designato come un bambino eterno, ingenuo, puerile, puro di sentimenti e intenti. Ama Natasa, ma è mal accoppiato con quest’ultima. Natasa ne è cosciente, segue difatti una lettura immersa in sfoghi sentimentali, di lacrime variopinte di quest’amore così malconcio, eppur sì forte; ella, si configura una ‘delirante’, una folle d’Amore per Alesa. Cela sovente il malcontento, la delusione, la tristezza, l’esosa ira dacché scopre gli innumeri tradimenti di Alesa; non solo carnali, bensì elettivi. Alesa ne è conscio, ma ambo i due amanti invizziti sembrano doversi pasteggiare, miscelare, confrontarsi per porre rimedio alle perpetue assenze, fuoriuscite e pantomime trite e ritrite amorose. Nelly, invece è l’estremo tangibile di Natasa; Si aggira per le strade Pietroburghesi, bighellona qua e là, fugge scappa e rifugge, dimentica della perigliosità del proprio eremitaggio. E’ solo una bambina, derelitta, una preda comune per tutte le persone assetate di un’intaminata anima, che alla sua età, ha già a usura scorto tanta umana ignominia. I prodromi iniziali, la scomparsa di Smith, la degenza dell’io narrante che presagisce una morte sicura, una vicenda apparentemente regolare che attivamente subisce delle deformità, congiungono all’avvento di fatti appurati, incidenti e scontri. L’elemento gotico permea quasi in tutto il discorrere su Smith; un vecchio decrepito, languido, schivo, infermo quale con il suo cagnolino Azorka –salvato dalla figlia di Smith dall’esecrante viltà di perfidiosi ragazzini-appare esser un cenobita terrificante, che infatti non riconosce la luminescente essenza del perdono. Ivan, dunque fa da spola, annaspa qua e là, è foriero di cattive e buone imbasciate ai genitori di Natasa (Nikolaj Sergeic e Anna Andreevna) la separazione, o abbandono della figlia non è affatto vissuta di buon animo. Il padre, un gomitolo di amore, di venerazione verso la figlia, si sente umiliato e offeso da quest’ultima; la maledice, proprio come Smith riversa a sua figlia, la quale scappa con l’avveniristico padre di Nelly, abbandonata poi, da questi in pregnanza. Natasa, altresì subisce la vessazione di figlia fedifraga, ingrata, indegna e così dice addio ai suoi, con lacrime sincere e nostalgiche di casa –legge la poesia di Polonskij, la sonagliera- sciorinando continui malanni, pallidume e affanni.
Ma la maledizione è troppo fiacca. Non ha effetti, seppur la causa grava. Le sorprendenti passioni umane delle quali D. incanta spassionato, riescono a diramarsi, a proliferarsi, cosicché ambo le due storie avranno due distinti destini. Alla ribalta, mi costerna farlo, eppure debbo; Il principe Valvovski è uno di quei personaggi statici, viene presentato esattamente così com’è, durante la narratio diverse volte, e in occasioni più o meno ambigue o indesiderate staglia una ludica, impudica, rude verità del parlare, l’antipode del morale, l’incresciosa caduta di stile dell’essere umano, insomma. Ciascheduno, ingloba una metamorfosi; Nelly si lascia affocare dal meridiano dell’amore, si scioglie pur provando temenza, vergogna, a quelle che sono le buone attenzioni, Natasa accetta, svilita ed esangue, l’abbandono di Alesa con Katja (i ben accoppiata) risospingendosi dai suoi, ritornando a far parte di quel nucleo familiare, quell’involucro che dapprima la opprimeva e che or ora la riammetteva, anche se deprivata della propria sessualità, quantomeno. Il principe Valvovski, allorché avrà adito all’incontro a cena con Ivan, ostenterà tutto quel barile di umana scelleratezza, nefandezza nera.
‘’-se potesse avvenire, dico, che ciascuno di noi fosse obbligato a rivelare i lati più nascosti di se stesso, ma in condizioni tali da non temere di far luce non soltanto su tutto ciò che non direbbe mai agli uomini...ma persino su ciò che non osa confessare a sé stesso, ebbene, in questo caso, nel mondo si spargerebbe un tale fetore da soffocarci tutti quanti.” Prosegue rivelando il grimaldello che il lettore, presumibilmente, avrà già indovinato qualche pagina fa. Parte terza, cap X. Interessante è l’incrinatura della morale, dissacrante e rudimentale è la voce della malvagità che rabbuffa ciò che oggi rinomiamo eticamente giusto, o moralmente sbagliato. L’auspicio, s’intende, è quello di ponzare, liquefarsi, arrovellarsi, contorcersi e porre nel cartellario cerebrale una duplice visione della realtà.
Fa da uccel di bosco anche il cibo; un’anoressia indotta percorre il racconto, tutti sembrano nutrirsi SOLO di bevande, minestre, e vivande alcoliche. La guantiera gremita di piatti opulenti, sembra esser sempre intonsa, mai presa d’assalto da alcuno stomaco
E Dostoevskij è un alacre persecutore della penna proprio in questo; rappresentare ogni fattezza umana in quel che è, non camuffare alcunché. Assommare nell’arcoscenico di scrittura i corrotti e i semifolli; tutti, annesso Maslobojev, vecchio compagno di studi di Ivan, che sebbene viva di espedienti, ragionamenti ostici e bagordi, è una sorta di agente che vien soggiogato dall’esborso di ingente danaro...
Umiliati e offesi è una pullulante risposta che senza batter ciglio, vuole escutere i propri lettori, in un certo modo vuole offender essi, li vuol pizzicare, li vuol tener legati a corde di canapa. Ognuno è asservito dal brutto vizio dell’universo: La nefasta condizione degli umili tirannica, intomba questi neofiti del male nel calvario dell’etanolo, del danaro, del puntiglio avamposto alla ragione, dell’orgoglio leso dinnanzi ai propri affetti, che non perdona, e che esima ricordare.

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Lettura consigliata
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Ribadisco; quasi l'opera omnia Dostoevskiana.
Di certo, questa non è un'opera minore, come d'usanza si suol credere!
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abyssenoir Opinione inserita da abyssenoir    06 Gennaio, 2022
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dostoevskij, e la Russia semifolle- ALERT SPOILER!

La matrice civile, umana, del suddetto si evolve, diventa irrespirabile un ambiente laddove l’uomo non si raccapezza dal circondario in cui pesticcia i piedi. L’idiota racconta di un principe tanto buono, Lev Nikolaevi? Myškin, un Cristo moderno del 19esimo secolo. Il quale, s’incappa di già in treno d’arrivo-ritorno verso la Russia, con i due co-protagonisti sul vagone: Rogozin -la metà di Myskin, il doppio-, e Lebedev, un funzionario, dappresso dall’essere irritante, servile e alquanto apocrifo. I personaggi prendono tutti parola, parte, corpo, e azione all’interno della Creatura-libro.
Cos’è la doppiezza, l’essere moltiplicato, decuplicato, bipartito? Non è altro che una diaspora dell’essere, nel mondo. Nell’orditura del telaio-opera-libro; il doppio perde la propria metà, anfanato, prova a riacciuffarla novellamente, ma invano e senza successo. Il primo doppio, beninteso, come il secondo, resterà sempre consentaneo e morboso alla propria ontogenesi; quanto, è probante. Eppure, tutte le prerogative che il primo vuole trafugare al secondo, o viceversa, si avvicendano in incontri-scontri, frasi non dette, e divari sentimentali, se la prima metà rappresenta l’odio, l’amore, il disprezzo, il rifiuto, il secondo non farà altro che conglobare queste lacune mancanti, torchiando il primo per divenirne più riavvicinato, tale da trasmutarsi carnalmente nel primo, e viceversa. Il doppio cerca nell’altro i propri golfi vitali privi di fonte d’acqua. A ben vedere, ciò accade attraverso un desiderio; il desiderio di ottenere l’oggetto trasversalmente dal mediatore. Rogozin viene ingemmato come un essere sulfureo, meschino, un mero assassino; benché sia un essere completamente infelice e solo, ottiene il suo oggetto del desiderio dacché tenta di fare un attentato con il coltello a Myskin, d’improvviso. Il noto omicidio, per esattezza, il noto suicidio (Entrambi sono la stessa persona, in letteratura il doppio di uno equivale a una persona nell’intiera complessione formale) tende a ricongiungere i disgiunti avversari. Myskin desidera Rogozin, come Rogozin desidera Myskin.
Si sfuggono, non si riconoscono, eppure si arraffano avidamente gli indumenti per sfiorarsi.
Da questo giorno innanzi, le peripezie avranno dimora tra due città principali: Mosca e Pietroburgo. La narrazione Dostoevskiana ha una peculiare lacuna verso il tempo: non si ha percezione di esso, non esiste, non è presente. Il lettore si interfaccerà con una catasta di avvenimenti all’interno di UN giorno qualunque; questa è una propria ‘’opera-sogno’’-consiglio ad oltranza di spuntare i nomi, si avrà difficoltà nel ricordarli di passo passo-. Andando a monte, Il principe-profeta, il messianico ‘’straniero’’ giunto in Russia, dalla Svizzera, con il suo timido fagottino, -indice di bontà, quasi di una puerile incertezza, viaggiare con una sorta di mottino, o peluche. Oggetto unico rimastogli- decide di conoscere l’ultima discendente del lignaggio Myskin; Lizaveta Prokofyevna, moglie del Generale Epancin. Sulla strada di ritorno, Myskin è reduce di una battaglia, una sorta di nemesi invisibile: il mal caduco, -l’epilessia, la cui vera analisi clinica non era attendibile all’epoca- caduco, perché era intermittenza fra un accesso di estasi, tremori vari e sconquasso corale, la vittima cadeva a terra come fulminata.
La degenza durerà tutto il suo ultimo periodo trascorsosi in Svizzera. Sussiste poi, l’incontro con il segretario dei due coniugi, Gavrìla Ardaliònovi?. L’incontro fra questi è di straordinario e inaspettato scetticismo; Egli appare di una ambiguità clamorosa, con le ghette ai piedi, di bell’aspetto, e bonaria impressione. L’arco temporale è già delineato da una moltitudine di avvenimenti; La scena femminile staglia la sua bella eroina letteraria, Nastas’ja Filippovna. -D. ha il vezzo di utilizzare gli stessi nomi o patronimici, come se i personaggi fossero delineati da una vera ipseità, dai tratti fisiognomici autentici, una temperanza che brancica il lettore quando ne scorge l’orpello- Ella è una bellezza disarmante, Nastas’ja figura come una donna altèra, dagli occhioni nocciola scuri e fitti, fulgente di abiti ampollosi, la crinolina, i ricci bruni, e le acconciature ridondanti. Nastas’ja, non solo sembra ringuainata di bellezza, fascinazione, di venustà; la personalità ‘’peperina’’ trasfigura quel viso armonioso, in una turpe inquietante di una mente imprevedibile. E’ l’esasperazione della poetica romantica, è l’irriverenza dell’orgoglio, una conflagrazione di doppiezza. Ci si aspetta da lei una tenue misura, un atteggiamento che si confà a quei sembianti scolpiti da Fidia, e invece ne consegue una polarizzazione; -Ex: L’isteria della Generalessa che eredita la terza figlia, Aglaja- Tutti i personaggi femminili, la presenza ‘’rossa purpurea ’’pura di donna, non si roda al contesto, non è aderente, ognuno ha le proprie turpitudini psicologiche, nessuno sembra quel è. E’ questa l’impostura. D. raggira il proprio pubblico, mistifica la realtà, rappresenta la frammentazione dell’io, la doppiezza. Ciascheduno tallona l’Altro, ognuno incarna un paradosso, una vegliarda febbre di misconoscimento. Il doppio è endogeno, si alligna nell’oscurità meandrica dell’Altro. Questo marasma di persone, vorticano attorno il principe, annaspando in apnea nella continua ricerca dell’altro: -Dacché Ippolit, un ragazzino di lì a poco morente, affetto da tisi, nichilista, disquisisce della sua Spiegazione-digressione durante il compleanno del principe, alludendo a Colombo, con la scoperta dell’America.- Sopraggiunge il diletto non tanto della soddisfazione paga della scopritura di una nuova terra, quanto la perpetua, lunga via di ambagi che permette all’uomo di essere utile, di ‘’iscoprire’’ un senso, di essere antesignano di un qualcosa che neanche andrà mai a tastare o imbrigliare con i propri trabiccoli, o qualsiasi altra stramberia industriale; sta lì il senso della vita stessa, continua Ippolit trafelante, fra vari colpi di tosse ed emottisi per giunta, sostenuto dall’amico Kolja, figlio dell’altro casato del Generale Ivolgin, fratello di Gavrila e Varvara Ardalionovna; Kolja è un mero inserviente del principe, è fedele, un mero dedito ascoltatore e compagno. Nella conclusione, dopo la morte del padre -Il generale, decaduto, e ormai divenuto un alcolizzato, persecutore del dolore familiare, reca affanni alla moglie Nina, mentendo e levigando l’infinita commozione di una vita trascorsa all’insegna militare- Myskin lo descrive come un ragazzo compito, che forse diventerà una buona persona. Adelaida, Aleksandra, e Aglaja sono tre bellissime sorelle, cadauna più charmant di un’altra. La maestranza filiale, è spesso oggetto di biasimo da parte della madre, Lizaveta, la quale ha istruito loro nel modo più morigerato assoluto, dinnanzi una società oculata, soffiatrice e conservatrice, ove i matrimoni combinati dispensavano come indulgenze chiesastiche. Aglaja, è un’altra effigie di spicco, forse l’unica ad avvedere la vera natura del principe, si dichiara innamorata come Nastas’ja di questi, ma al contempo ama Ganja (Gavrila); Un trio amoroso, una filza di andirivieni che involverà anche l’oppressione di Rogozin, il quale è follemente -alla lettera- innamorato di Nastas’ja. Se non la otterrà con l’amore, allora differentemente la carpirà con l’impudenza, l’omicidio, l’aggressività, l’umiliazione, l’odio. Nastas’ja si tributa simile a la pece più lutolenta -cadendo nel delirio, nella semifollìa, nel vittimismo- E’ una silfide silvana che è impossibilitata a redimersi dal male-incantesimo, ma anzi il livello di essere truce è paritetico. Ma questa pienezza tronfia, sembra quasi allargare l’ego della donna, questo masochismo pare quasi giocondarla agli occhi di tutti, ritrovandosi colma, mai vuota, piena di sé e del suo doppio-gioco dell’obolo.
Ma se questi personaggi si rincorrono a vicenda, costruiscono dei rapporti pressoché parossistici, perversi, interscambiabili, cos’è che autenticamente scelgono? La risposta ne è una sola, senza altre e troppe filosofie socratiche. Non scelgono nessuno. Nessuno sceglie l’Altro. Sono immersi in questa bufera ininterrotta della ricerca del desiderio, e la sua sospensione, la sua stasi. Nessuno, sembra a ben vedere, interessato all’altro. E questo spasimo che attraversa l’ontogenesi, la ricerca dell’essere attraverso il paradosso, sembra addirittura vana. -sembra quasi una commedia Pirandelliana-
Prevarica il concetto di anacrisi e sincrisi; il primo, l’inganno mediante la parola o la situazione ad intreccio, il secondo, la polifonia dei diversi punti di vista. E gradatamente, ritroviamo uno spettacolo musivo di aporie umane intrapsichiche. D. esperisce una narratio moderna, per contro la narratio vittoriana, è novizia, sfornita di cliché, è propugnatrice di valori e apparenze controintuitive, che scardina l’usuale padrona di vita: La noia. Un’indolenza che viene eraldicata attraverso l’incito del dialogo; la narrazione è dialogica, analitica e polifonica. S’industria con la tecnica del pensiero contraffattuale, il controintuito, s’incammina per la via dell’incertezza, del condizionale, i costrutti fraseologici constano pressoché una frattura dell’ipotetico, i personaggi parlano sempre con quasi illazioni, sovente adoperano il connettivo ‘’come se’’, come se appunto, dietro questa ‘’visione’’ di vita, muta e ermetica sboccia la realtà dell’opposto. Il narratore prosegue oggettivamente, fa strano che neanche lui sappia bene cosa stia per accadere, e questo lo si può render noto quando sembra parlare direttamente al proprio lettore.
Questa dicotomia, Dostoevskij la riassume con l’ossimoro di ‘’Realismo fantastico’’. Egli, dichiara di intravedere molta più realtà nella fantasia stessa, ne ha edificato su un concetto di tutto punto straniato, come se sul boccascena presente nella mente, si fossero brulicate ideologie molto più reificate della realtà altra. L’incongruenza fra ‘’visione-realtà’’ comporta le idiosincrasie fra azione, pensiero, volontà dei personaggi –anche nel sogno vige una attinenza non ordinaria di detenere in egual modo la ragione mentre sonnecchiamo e siamo impetrati, eppure quando un nemico ci sta per attaccare, noi non reagiamo, restiamo solidali al nostro pacifico sonno, succede che a questi possiamo finanche divenirgli innocui o penosi-. Vige una legge oscura, di cui non si conosce bene la genesi misteriosa dell’umano: Dostoevskij è invece veterano nel saperle saggiare, eppure non si dichiara mai psicologo, nemmeno nei taccuini più intimi. Si dichiara come conoscitore di tutti i corruschi infernali dell’umana anima.
Furono molti, coloro che convalidarono la inattendibile e fallace ‘’per sentito dire’’ follìa dell’autore; Non bisogna dar credito ai singoli personaggi, ma alla complessione del circondario dei personaggi. Dostoevskij riversa in loro non proprio dei dati autobiografici, -eppure, sembrerebbe così, non è vero?-
Ma ne attinge macchie pezzate dalla vita, che propinava lui, a prenderne spunto per costruire i suoi ‘’eroi’’, gli bastava la verosimiglianza, un pulviscolo di ontica, per effondere l’impossibilità di discernere un’eventuale realtà. Il suddetto, a onta di tutti, mistifica di diventar pazzo, e a scapicollo si invaghisce di un sentiero il cui nome‘’arte’’, L’arte è l’alibi più usufruito, è la manna salvifica, il nepente degli emarginati, di chi nel mondo non trova romitorio adatto, chi si estromette da un plico di titoli e onoranze, dei reietti, degli scrittori, della sensibilità morale, di chi è stato abbrutito, rintuzzato, offeso e vilipeso. Da questa sofferenza, forse si potrà perfino estimare un finale tragico, quantomeno dignitoso.
Il nostro principe-profeta e/o principe-umile -voglio fruire di tale ossimoro-,è l’apparenza riboccante di umiltà, tale dal prorompere fino all’ultima goccia dell’orlo del vaso. Dostoevskij ci rivela, in una delle lettere a Majkov la difficoltà di rappresentare un uomo di tutto punto buono, soprattutto in vista dei nuovi tempi. Eppure, ci sono molti episodi che saltano all’occhio, sulla vera natura personale del principe; essi avvengono quando s’intrattiene nel parlare con Ippolit, Evgenij Pavlovic e Ganja. Ma altresì con Nastas’ja e Aglaja, egli sembra totalmente disinteressato alle due donne che presume di amare, ne diviene anche distratto, quello che gli balugina in mente è l’effigie demoniaca del pretto e blandito desiderio quale è Rogozin.
Aglaja, sussiegosa confessa al principe che in lui non vi è alcuna parvenza di compassione, ma solo di misera e cruda verità; Sembra più che umile, un agglomero di mitezza, di perspicacia scarno di empatia, anche se dimostra di possedere una falla di compassione nei riguardi della sofferente Nastas’ja, tale da mutuarla nel sentimento di amore. Ma la verità non può essere che un sostrato di crudivore rivelazioni. Il principe, è sicuramente molto schietto, anche quando si esima, si restringe e cerca di divenire ‘’normale’’ tacendo. Ma la legge in questo mondo romanzato dostoevskiano, è di essere buffi, perché solo i buffi, i ridicoli, hanno tutt’al più una vera espressione, al di là dei ‘’normali’’. -come rivela dacché si reca dagli Epancin- ‘’la materia viva’’ .I normali sono impersonali, ed essi per Dostoevskij sono asettici. Il nostro principe-paradosso, viene ‘’smascherato’’ non solo dai suddetti, nel corso della lettura, altresì dal più vanaglorioso uomo-salottiero del libro ossia: Evgenij Pavlovic, il quale fa una rappresaglia al principe ‘’egli non ama ambo le donne. Non le ha mai amate, si era solo convinto di farlo!” ed è attualmente così. Un altro episodio è esplicitato dalla scena in cui Ippolit s’accinge a spararsi davanti ad un drappello di persone, al contrario, succede invece che la pistola non spara, s’incaglia con i colpi, e tutti sembrano ridere, un rabbuffo improvviso sconcerta il pubblico. Persino il principe rimane di stucco, non fiata, non per laconicità di parole, chiaramente. Sottilmente, esprimerà senza filtri il pensiero su Ippolit; nient’altro che un invidioso in procinto di morire, mentre Myskin, scevro dal pensiero della morte, si prepara per i celebrativi ante dal matrimonio previsto. Altri richiami avvengono con i nichilisti Keller – il quale scrive un articolo caustico sul principe, e sulla sua presunta idiozia, il lascito destinatogli dal tutore- Burdovskij -figlio illegittimo del tutore di Myskin, il quale pretenderà da quest’ultimo tutta la sua eredità cedutagli- Keller resta quasi allucinato da quella franchezza disarmante, che rescinde la parola agli altri interlocutori. ‘’l’uscire di senno, per una semplicità tale, un’innocenza tale che… zac! Affonda come una cuspide nella carne, nella tua mente!’’ Il principe, nondimeno l’opinione altrui, non asseconda mai l’altro. E’ profondamente innestato nelle sue idee, che queste prenderanno forma e statura in nome della Religione. L’idiota non è altro che un’esemplificazione di un’opera laica; tutt’altro che religiosa. Lo stuolo dei pensieri rifratti gallati dalla duplice visione che si ha di Cristo; il tutto confluisce con il quadro di Holbein, del ‘’cristo-morto’’ una pittura tutt’altro che paleocristiana, che si avvicina ad un realismo macabro, profano; il corpo di Cristo tumefatto, percosso, esanime, con il viso divelto dalle tribolazioni, gli insulti, sputi, e colpi di frusta.
Ebbene, questa visione ‘’laica’’ di un corpo che apparentemente è morto, non è risorto, ma ha inglobato dentro di sé l’immondezza dello stesso mondo che forse è stato addirittura creato affinché il Salvatore potesse comparire -spiega Ippolit- secondo alcune congetture, potrebbe rivelare il più grande dubbio del nostro autore: L’esistenza effettiva di Cristo. Dostoevskij, è attratto dalla figura di Cristo, lo ama incondizionatamente, crede che sia l’esemplare di perfezione eburnea, ineccepibile fra tutti i personaggi divini. Non metterà tanto mai in dubbio la sua figura, quanto la sua epifania. Un dubbio che ha sfiorato il limbo della consunzione, dell’attrito insoluto. Così si riverbera lo sproloquio sull’inefficienza della teocrazia papale di sfondo cattolica-romana. Myskin evince della vera forma di ateismo, che provenga da quei credenti, quei fanatici, quei belluini fraudolenti chiesastici appartenenti ad una chiesa sconsacrata, dissacrata da Cristo; il papa che brandisce l’elsa di una spada, è fuori dalla simbologia effettiva di ‘’Fede’’, o meglio la fidanza in qualcosa, in qualcuno. La rescrudescenza della questione religiosa inalbera Myskin, l’ignoranza conduce ad un mondo deprivato di valori, onori, gratitudine che conduce all’ateismo; la Chiesa romana è vessillifera di angherie, di delitti, di violenza (allude alla Rivoluzione Francese, -Fratenité ou la mort!) Dunque, l’avversione al cattolicesimo è avvivata dall’ingiustizia, dallo stravolgimento della naturale semantica, dalla pregnanza del vero significato patrociniato, che viene terribilmente vessato. Myskin si reputa credente, ma simultaneamente è reticente nelle sue medesime esperienze vissute. Ma l’eristica dialogica tuttavia, si fa prepotente nel corso di tutta la narrazione; le opere dostoevskiane contengono delle chicche che ridisegnano l’imponenza di un tale autore che, non potrà mai essere soverchiato dal castro della mente. Il ‘’principe-povero’’ (ereditato da Don chisciotte) è un principe serio, triste, non c’è nulla di parodistico, di ridanciano. Egli non è nemmeno un Cristo, ma nemmeno un cavaliere, Egli è la carne, il sangue d’ogni pagina strimpecciata dell’autore gravido di accessi maniacali sui romanzi da concepire. In primo luogo, va assolutamente dispensata una lode al nostro scrittore per lo straordinario taumaturgico potere di concepire più storie, più romanzi e compendiarli in un’univoca trama; era adusto a scrivere a iosa, e a non sapere quale fosse potuta essere la successione, il prosieguo. L’assioma partorito sarebbe stato quello di sternere su carta le più idee possibili e fumide d’attrito, egli commetteva il peccato di affidarsi alla scia d’inchiostro della penna, meditabondo sull’accettazione, il successo, l’avallo da parte dei suoi lettori. ‘’o la va, o la spacca!’’ L’aire decisivo fu anche la coniuge stenografa Anna, alla quale il marito soleva leggerle ad alta voce gli scritti. Questo, gli consentiva di dare la pantomima adatta alle sue figure, di incorniciare nella mente gesti, tenori e atteggiamenti.
Le febbri, la nerezza, le luci dell’opera compongono una controfinestra musiva che contrassegna la firma d’autore. Si può addirittura credere fermamente, che, la sofferenza, l’accorazione fisica, la stanchezza molle che riduce inesorabile in un cencio sporco, limoso, abbia prosciolto i piedi legati dalle catene di ruggine di Dostoevskij. Egli si è liberato, non appena è partito per la Siberia. La possa di un tale trauma, la ferale incursione dalla vita semplice, pastorale e ridondante quanto una poesia barocca e frondosa, si commuta meramente nelle fattezze di una prigione senza alcuna massima, che come un Purgatorio espunge, catalizza il carcerato a mondarsi; sfiduciato dal tempo, dalle sue energie fisiche, dalle sue preghiere e litanie. Come il testo del salterio, dovrà ripercorrere ogni passo, dovrà sembrare invitto alle rimostranze degli altri condannati a morte, o semplicemente condannati alla pazzia, all’oligofrenia.

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abyssenoir Opinione inserita da abyssenoir    27 Settembre, 2021
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ATTENZIONE! RISCHIO SPOILER!

Recensione basata sul libro di Fëdor Dostoevskij: Delitto e Castigo.
Dostoevskij nasce a Mosca nel 1821; il padre, un medico russo, un uomo molto dispotico e intransigente. La madre, invece, fu una donna più accostevole, che avrà sempre cara in cuor suo. Insegnerà lui, -già in piena fanciullezza- le letture di Puskin quelle religiose della Bibbia, in quanto questi era una credente ferrata.
Dostoevskij non nasce già come un letterato, anzi, egli dapprima apprende studi concernenti l'ingegneria militare -imposti dal padre- ma che non vanno a buon esito. La passione per le letture, la fragilità di una famiglia rumorosa e disgregata, la morte -l'omicidio, o l'apoplessia- del padre, il repentino evento di epilessia, - il quale accompagnerà Dostoevskij per l'intera vita- la curiosità smodata di osservare attorno a sè la natura umana; connotano una delle personalità letterarie più sature, imperdibili e imprinte nella storia della letteratura russa, ed europea, internazionale.
La vita di Dostoevskij è segnata altresì da un altro evento cruciale: la mancata fucilazione al plotone d'esecuzione, grazia concessagli dallo Zar Nicola.
tale evento, comporta il trauma di scatti epilettici. Egli fu accusato di cospirazione per aver preso parte ad una società segreta, deleteria nei riguardi del governorato; in effetti, Dostoevskij non era un membro fisso dei raduni, ma solo un ascoltatore qualsiasi che andava a crocchio con altri. Ciò nonostante, si ritrova prigioniero nel penitenziario dei santi Pietro e Paolo, quando d'improvviso un soldato lo desta mentre il detenuto si ritrova ammantato da una calda coperta: -Per non aver denunciato, dunque non aver collaborato e inoltre, peccato di reticenza alla disvelazione dei nomi dei cospiratori!- ... ivi, il rullo di tamburi sortirà la vita dell'autore, che tra meno di cinque minuti verrà accoppato, senza obiezioni. Già summenzionato, una manna piomba dall'alto: è la liberazione dall'uccisione efferata, pari tempo è la condanna obbligatoria ai lavori forzati in Siberia; Omsk, il nome della città cui egli non potrà mai lavare via dalla pelle, dalle mani stanche, dalle vene varicose, e dal viso -Dostoevskij si profila così- emaciato, pressoché tisico. A seconda dei gradi, ai condannati venivano affidate le categorie: miniere, fortezze o fabbriche da sbrigare.
Quando si crede che la vita di un autore non influenzi le proprie vicissitudini, non si crede sbagliato, poiché possono esservi alcuni stoici che braccano le proprie incontinenze emotive costruendo immaginari fittizi, per imbastire una realtà quasi comoda, o più compenetrante ai propri ideali, più saporita, più sporca, più speziata; Dall'altra sponda vi sono coloro che vogliono tornire la propria definizione di vivere figurandosi storie tanto meste quanto la loro stessa esistenza, addirittura riportare posti, sensazioni, filosofie apprese lungo la via.
Non è di certo la prima volta che tocca il fondo, durante la prigionia riesce ad ergersi e a sottostare alle stentoree ingiunzioni; è acquiescente, tacito. Un uomo dagli occhi scavati, penetranti, dal viso un po' giallognolo malaticcio, dalla fronte solenne. Tant'è che con l'intercorrere degli anni, l'iride dello scrittore diverrà quasi ipertrofica.
Ma cos'è che nasce in Dostoevskij? perché oggi è ritenuto come la quintessenza dei classici da non perdere d'occhio? chi è, in effetti costui?
Inverosimilmente, egli pasce un sentimento di compassione per l'animo umano, o meglio dire, gli esseri umani. Si crede folle per narrare di essi, scrutarli, esasperarli e raccontarli attraverso iridate sfumature di umano mistero. Egli prova curiosità e quasi un patriottismo per questo 'mistero' poiché anche egli è un uomo. E' la sua missione, e ci impiegherà l'intera vita per spiegare a sè stesso e noialtri, il mondo. Rintuzza qualsivoglia titolo di nobiltà, per dedicarsi alla campestre e stentosa vita da scrittore, si autoproclama come proletario della penna, rammenta la memoria di Puskin e Gogol raccapezzandosi della laboriosità di questi, malgrado l'apporto di una vita connotata da miseria e fame. L'irresolutezza tra obiettivo e necessità, oscilla; egli ha bisogno di denari, ma sviluppa una certa avversità per gli accumulatori, i mercanti, e i borghesi.
Egli preferirà donarli ai poveri, ai mendici, o sfortunatamente precipitare nel vizio debosciato del gioco d'azzardo; tale da appunto, diventare un romanzo ''Il giocatore.''
Ma '' Povera gente'' raffigura la decisione di dipingere la vita degli infelici, quei tapini disgiunti dagli sfortunati. Un povero può essere opulente di sentimenti nobili, ma nella miseria, invece, spetta la più sbieca disperazione umana, ostile ed infedele a tutto quello che possiamo ricondurre all'umanoide. La versione dei romanzi scritti, non è assolutamente divaricata dall'esperienza empirica e sensibile dello scrittore. Cristallizzandoci su Delitto e Castigo, non potremmo assolutamente non dare uno sguardo ai cenni autobiografici dell'autore, commutato dall'effigia del protagonista: Raskolnikov, uno sparuto studente universitario, che fatica a pagarsi l'università e l'affitto, tanto da eludere sempre dai grossi problemi incarnati in persone: La padrona di casa, la vecchia usuraia, e l'evanescente, inciuccata gente di San Pietroburgo. Nasce il tema dell'alienazione, della sofferenza ormai già messa alla berlina su un patibolo ben visibile, ritroviamo un protagonista tetro, fuggente, malnutrito che si astrae derelitto da qualsiasi affetto familiare; pari tempo è una persona ben profilata, che bighellona nelle meste visioni di questa città fantasma, laddove si ritrova faccia a faccia con vecchi ubriaconi come il signor Marmeladov, il quale usurpa dei soldi di Sonjia; sua figlia. Sonjia rassomiglia ad un angelo biondo, raggrinzito dalla via, o dal tesserino giallo che testimonia un'urgenza, o dagli scossoni di Katerina Ivanovna, moglie di Marmeladov, che morirà gravemente di tisi, dopo essere stata cacciata dalla bettola in cui viveva assieme i suoi piccoli. Terribile, raggelante sono i molteplici episodi che Dostoevskij riporta, dagli strepiti dei bambini che vengono percossi da una madre alla luce fuori di sé, all'umiliazione dell'elemosina in pubblico di bimbi vestiti in costume e una donna che si scaglia contro quelli dall'orpello costoso, che come cariatidi sembrano essere impassibili. Raskolnikov, sovente sembra dissociato al cospetto di queste tribolazioni. Tace, ed è riflessivo quasi come presente nella sua assenza compendiata in silenzi, sguardi bui, labbra interrate. Al suo fianco, Razumichin 'razum' ossia, ragione, il suo più grande amico goliardico, giulivo e spigliato, è lui che da brio alla narratio. Appresso la madre -ingenua, credente e follemente legata al figlio- e la sorella, donne dilaniate dalla condizione del fratello e figlio, sono per niente servili, sono due co-protagoniste gremite di caparbia, tanto da discacciare il ricco, supponente, altero Luzin, -un uomo che cerca di irretire attraverso il bottino, le richieste perentorie dal tenore austero le due donne- promesso sposo di Dunjia. -sorella di Raskolnikov-. "il nero serpente dell'amor proprio ferito gli aveva succhiato il cuore tutta la notte!.."
Appare curioso invece, il personaggio di Svidrigailov, reduce dell'omicidio di Marfa Petrovna, ex moglie che apparirà nei frangenti meno rilucenti dell'uomo. Egli, parla di fantasmi, come onirico, esoterico " I fantasmi sono, per così dire, brandelli e frammenti di altri mondi"... un uomo sano non ha motivo di temerli, perché mondano, terrestre, s'adagia alla vita di ogni giorno (potremmo dire l'uomo comune, come medita Raskolnikov) ciò nondimento, l'uomo incrinato è intieramente sommerso all'interno di una cavità malata che affluisce poi, si scapicolla in un altro mondo (quello dell'uomo fuori del comune, probabilmente) Ergo dunque, Svidrigailov è un uomo empio, malvagio da come ne viene contrassegnato, eppure durante tutto il romanzo non fa altro che condonare denaro, autoflaggellarsi come una putre d'uomo, e addirittura aiutare una bimba che ritrova all'interno di un albergo fuorimano nei pressi di corso Bol' soj. Ma costui è un mero personaggio da romanzo (come asserisce onnisciente lo scrittore) è scaltro, parla di adulazione, è un omicida, è perverso. Eppure, Raskolnikov che aborrisce al solo pensiero di esser come questi, coabita, assieme a Svridigailov in una dimensione permeata dagli incubi. Gli incubi della vita reale, durante la prigionia, vengono traslati nel romanzo. Lo stato di profonda afflizione da suicida, è un incentivo per scrivere, il deliquio semicosciente istiga, fomenta la sferza della penna sul foglio: Così come Raskolnikov compie un delitto per ribellarsi dalla società, viene subito castigato da quest'ultima per essersi dimenato, per essersi incattivito, e aver ucciso con una scure un solo "pidocchio" antiquario, avido. Il castigo di essere offuscato in una cortina di bruma, di essersi raggricciato in una penitenza solinga e scavezzacollo; di nuovo l'alienazione, non i sensi di colpa, o rancori, bensì l'irreversibile condanna dell'anima. Gli uomini fuori del comune sono addirittura incentivati, hanno il diritto a delinquere per scavalcare la strada impasse, per dire qualcosa, per salvare l'umanità. Fa l'esempio di molti eruditi, ormai spiriti, rivoluzionari storici e filosofici: Newton, Keplero, Napoleone, Maometto... nel contesto storico, questi hanno trasgredito alla legge antica, per dar vita ad una legge nuova (hanno scomodato la società, l' hanno irrisa) comportando anche delle uccisioni, che han constato una legge di natura che ha permesso il progresso, sbaragliando il morale e costruendo una storia. Uomini fuori del comune, introvabili, pochi come rari, i quali non vengono onorificati e nemmeno riconosciuti da terzi. Di nuovo, il realismo del romanzo è agglutinato alla condizione psicologica dell'autore: appare scardinante anche la questione aperta da Lebezjiatnikov: la parità della donna dinnanzi l'uomo, che innovativa e contemporanea, precorre un taboo oggi ancora straniato dal gergo di molti uomini. Egli discorre della legalità del matrimonio, di adulterio -adempiuto da ambo le parti, in soldoni- e di quanto il primo può sembrare una manfrina per un socialista, è dunque favorevole al secondo, in quanto il 'misfatto' può foggiarsi come una rivoluzione al pregiudizio. Dare dunque parità ad un individuo, a ramengo se uomo o donna. "Se mi sposassi (non cale se matrimonio legale, o libera unione) porterei io stesso un amante a mia moglie. le direi: io ti amo, ma ancor più desidero che tu m stimi..."

Lo spettro della città, le strade pietroburghesi, i vagiti dei posti che Dostoevskij cela abbreviandoli, gli abitanti e i suoi mali, i suoi reietti, i suoi modesti lavoratori, gli ubriaconi bislacchi, gli sciamannati poveri in canna, i bliny, il tè, la vodka, gli indumenti stracciati, logori, rescisi, le bettole copiose di ratti, la tana del ragno del protagonista ampliano l'immaginazione del lettore, il quale si cala con occhi e voce interiore lungo le righe sdrucciolevoli le proprie percezioni, che scientemente vagolano qua e là, senza ah e oh.
Dall'abisso straziato, dalla nerezza di eventi funesti, dai miraggi utopistici, i rovelli, la confusione del protagonista, a palmo a palmo accorriamo al fine. Ovverosia, quanto più ci si defenestra a scapicollo, si corre a piedi nudi e secchi su un declivio sporgente, ci si inzacchera di fanghiglia fino all'orlo dell'ultimo crine, si trasecola anche il viso più rubicondo si giunge ad una conclusione che dapprima per nolenza, per stizza, per peccato si ricusava; la salvezza. La redenzione, la Fede - D. In siberia, portò con sè la copia del vangelo- l'amore -or ora lacrima per Sonja, le sue idee, i suoi pensieri diventano i suoi, i suoi abbracci diventano i loro intrecci di dolore e assoluzione- verso un'espiazione, una libertà; 7 anni come 7 giorni -un anno lo sconta grazie al ricorso di Razumichin in tribunale- la cura dello sguardo, della devozione, del lavacro di un amore che avverrà tra un'attesa e l'altra, tra una visita o due. Si riconobbero, finalmente nel loro stesso morbo: due visi pallidi, smunti, sfiniti. Due occhi incavati, due cuori gracili che incontratisi lungo un anfibio crocevia, finalmente si sono guardati e poi agguantati con le iridi dilatate. Amore come una crociata, una sciabola che smette di urtare e dare staffilate continue. Raskolnikov ripagherà le sofferenze di Sonja, aggranfiata da un passato di stille, strida sommesse di dolore intrattenibile, veemente. Egli sconterà la iattura con una falcata slombata, ma un cuore prono atto a preludere un nuovo mondo, estraneo, intemerato, pur sempre umano

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Ha già letto* Dostoevskij, o qualsiasi altro libro di natura psicologica. (exemplum: la noia di Moravia) come la sottoscritta.
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