Opinione scritta da Valepepi

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Valepepi Opinione inserita da Valepepi    13 Dicembre, 2024
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CENTRO DI GRAVITA’ IMPERMANENTE

Ho approcciato questo libro, con impressa nella memoria una vignetta che apparve anni fa su un noto quotidiano nazionale: Emmanuel Carrère seduto al bancone di un bar chiedeva al barman “dammi qualcosa di forte”.
Sorrisi, pensando che il vignettista con poche, semplici, parole aveva colpito nel segno. La specialità dei libri di Carrère, in effetti, è rappresentata proprio dalle storie forti e Yoga, ad un primo sguardo, sembrava discostarsi da questo filone.
La mia predisposizione alla lettura ha così seguito il doppio binario della curiosità per la variazione sul tema e dell’aspettativa di una storia comunque a tinte forti. E dato che i binari sono rette parallele che non si incontrano mai, mi sono chiesta se alla fine avrebbe prevalso l’una (la variazione su un tema zen) o l’altra (la storia a tinte forti), ritenendo che le due tematiche non si potessero incontrare e accordare.
E invece, alla fine, mi sono dovuta ricredere almeno per ciò che concerne l’accordo. Perché sì, un’altra specialità di Carrère è quella di riuscire a fare sintesi tra le tante contraddizioni delle storie, delle idee, della vita, anche e soprattutto della sua.
Una sintesi, tuttavia, irrisolta, nel senso che non rappresenta una unità, una fusione di due poli contrapposti, bensì ha la forma di un pendolo che oscilla da un capo all’altro del proprio campo di azione, in uno stato di equilibrio stabilmente instabile che trova la propria summa nel disturbo bipolare che affligge l‘autore e che solo nella scrittura sembra trovare un centro di gravità permanente.
In tal senso, appaiono sintomatiche le tante definizioni congegnate attorno alla disciplina dello Yoga, ognuna con una sua verità originale e intrinseca e che pure Carrère nello scorrere del libro sembra tradire e scartare a una a una, come se nessuna di esse fosse mai quella assoluta, definitiva.
Emblematico, ad esempio, è lo stare qui e ora, che Carrère prima professa e poco dopo smentisce. Nel bel mezzo di un ritiro presso un centro di meditazione, difatti, il nostro d'un tratto leva le tende e corre a Parigi in soccorso a un’amica colpita negli affetti dall’attentato terroristico a Charlie Hebdo. Da quel momento in poi, lo Yoga, seppur continui a innervare la narrazione, diviene meno pregnante e lascia il campo al divagare erratico della penna di Carrère attorno alla precarietà della sua condizione umana e alla sofferenza derivante dalla propria patologia mentale.
E qui, a dirla tutta, sono stata piacevolmente colpita dal modo in cui la malattia è trattata da Carrère: con uno sguardo e un tocco al tempo oggettivo e soggettivo, proprio di colui che si pone alla giusta distanza dalle cose (arte difficilissima!) e riesce a osservarle e a ad analizzarle in modo lucido e al tempo compassionevole, senza mai scadere nella banale e melensa retorica che accompagna l’oscura galassia delle malattie mentali e polarizzata attorno alla demonizzazione dei farmaci e all’esaltazione del genio folle, romantico e disadattato sociale.
Carrère ha il coraggio di chiamare le cose per nome: le malattie mentali sono una brutta bestia e vanno curate, ebbene sì, anche e soprattutto con l’aiuto dei medici e dei farmaci
E così ci troviamo di fronte ad un continuo oscillare tra un intellettuale affermato, risolto, grato alla vita, e un uomo bisognoso di aiuto, sull’orlo del baratro, in procinto di perdere tutto per puro spirito di auto sabotaggio. Uno scrittore sincero, disarmato e nudo di fronte al lettore, e altresì un personaggio un po’ costruito, che presta la propria storia all’utilità della narrazione.
Una storia a tinte forti, si sa, come non poteva essere altrimenti.

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Valepepi Opinione inserita da Valepepi    17 Agosto, 2023
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PARTICELLE COMPLESSE

Primo in ordine cronologico, secondo delle mie letture dopo "Sottomissione", questo romanzo conferma la personale convinzione che spesso l’opera prima sia tale anche in qualità. Se non altro è più fresca e autentica. Forse poiché dettata da un’urgenza che, nel prosieguo delle opere, perde slancio e vigore.
Ma, in questo caso, non solo. Rispetto a "Sottomissione", qui, l’utilizzo di più protagonisti: due maschili principali, Bruno e Michel, e due femminili ancillari, Annabelle e Christiane, permette all’autore di andare oltre al proprio ombelico e dare un respiro più ampio e sfaccettato alla storia e anche alla scrittura.
Allo stile tagliente e umoristico che caratterizza la sua penna (esilaranti, i capitoli ambientati nel Luogo del Cambiamento), si affianca uno sguardo compartecipe e commosso. Come uno zoom che un po’ si allontana dal soggetto, ne ride e ne prende le distanze, un po’ si avvicina e con esso patisce e si identifica, consapevole di essere accomunato dalla medesima sorte.
Ma è soprattutto verso le donne che la sua scrittura si polarizza, alternando pennellate feroci a momenti di profonda tenerezza.
I temi sottesi alla storia sono quelli cari a Houellebecq: la crisi di valori del mondo occidentale soppiantati dai nuovi vessilli del razionalismo, della libertà e dell'edonismo a cui consegue, come in un effetto domino, il disgregamento dei nuclei sociali, la solitudine, l’alienazione, fino alla ricerca affannosa di nuovi valori e aggregati entro cui ritrovare una collocazione sociale, un'identità, un senso appartenenza.
Al ciclo di vita del moderno Occidente, Houellebecq affianca parallelamente la parabola dell'esistenza umana: spirito di libertà in gioventù, senso di vuoto sulla soglia dell'età adulta, bisogno di legami nella fase di maturità che prelude alla vecchiaia.
Così che alla fine il cerchio si chiude, si direbbe. E invece no, poiché il percorso assomiglia più a una spirale che non permette ai protagonisti di ricongiungersi, ancorché animati dai medesimi desideri.
Poiché, due solitudini insieme non fanno un’unione, bensì una grande, immensa solitudine.

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Valepepi Opinione inserita da Valepepi    10 Mag, 2023
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NIENTE DI NUOVO SUL FRONTE OCCIDENTALE

Mara è una ragazza sveglia e vivace. Forte della propria condizione di donna giovane e bella, vuol vivere la propria vita appieno, ha fame d’amore, desiderio di indipendenza dalla famiglia, di riscatto dalla povertà.
Si fidanza con Bube per caso, per gioco, per dispetto verso la cugina Liliana. Il ragazzo non soddisfa le sue aspettative: è povero, gretto, maldestro. Le nega l’affetto, cerca di sottometterla, non sa scriverle lettere d'amore, la taglia fuori dalla sua vita che ruota attorno al partito e ai compagni e verso i quali, d’altronde, Mara non nutre alcun interesse.
La prima esperienza di coppia si consuma tra Colle Val d'Elsa e Volterra, in un susseguirsi lento e monotono di passeggiate attorno alla piazza, acquisti superflui, caffè al bar e pasti in trattoria per ammazzare il tempo e la noia. Verso la fine, si intravede qualche scampolo d’amore, ma sembra più dettato dall’urgenza dei loro giovani corpi che da una sincera passione amorosa tra due persone che, in fondo, non hanno nulla da dirsi.
Più tardi, durante il periodo di latitanza del compagno, Mara incontrerà Stefano. Nemmeno lui, con i suoi discorsi seri e ampollosi, corrisponde al suo ideale di amore, ma riesce ad adattarsi meglio a quell’astratto bisogno che cova nel cuore. E tuttavia, lo lascia. Sceglie ostinatamente di restare con Bube.
Perché? La domanda sorgerebbe spontanea, eppure non sorge. C’è una immersione tale nella storia e nel personaggio, che il pensiero e la realtà delle cose si accomodano intorno. Mara ubbidisce a un ruolo che lei stessa, gli altri, le circostanze le hanno cucito addosso in un abito che, negli anni, è divenuto una camicia di forza dentro cui ci si è rannicchiata senza percepirne la costrizione. Sul collo, un’etichetta “ragazza di Bube” che negandole un nome, le nega di fatto una identità.
A ben guardare, tuttavia, non è solo Mara che si annulla in nome della devozione verso Bube, ma Bube stesso si immola in nome della fedeltà al partito.
E dove l’identità dei singoli sparisce, si afferma quella collettiva imperniata su ideologie, partiti e scontri sorti all’indomani della seconda guerra mondiale e della guerra civile tra partigiani e repubblichini.
Qui l’attenzione di Cassola si concentra sul divario incolmabile che contrappone uomini a ideali, sulle contraddizioni tra tensioni egualitarie e libertarie rispetto a una dialettica sociale tutta basata su antiche logiche patriarcali, rapporti di forza, gerarchie economico-culturali che presto o tardi svelano il loro volto feroce e non esitano, come sempre, a sacrificare l’ultimo e il più debole. Come dire, niente di nuovo sul fronte occidentale.

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Valepepi Opinione inserita da Valepepi    19 Aprile, 2023
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MAL D'ITALIA

Condivido quanto afferma Sandra Petrignani: Marco Balzano è uno degli autori maschili contemporanei che meglio sa raccontare le donne.
Lo fa, partendo da una storia tipica dei nostri tempi: quella delle badanti venute dall’Europa dell'Est in Italia per accudire i nostri anziani. Il racconto è affidato alle voci dei tre protagonisti: Daniela, la madre, Manuel e Angelica, i figli, si alternano nella narrazione di un pezzo di storia comune e di un pezzo di storia privata. Al racconto oggettivo degli eventi si sovrappone, così, la prospettiva intima dei tre, fatta di ragioni, sentimenti, rancori che, se pure non incarnano i fatti, comunque li determinano.
Il marito-padre resta sullo sfondo, come una figura marginale, svogliata, incapace di incidere sul corso della storia o anche solo di supportare la famiglia. Piuttosto sopporta, finché non se ne va.
L’incipit del romanzo prende le mosse dalla partenza improvvisa di Daniela che fugge di notte per l’Italia. In segreto, ha fatto le proprie scelte. Ora, a distanza, si propone di indirizzare quelle dei suoi affetti.
E invece, come prevedibile, il gioco sfugge al suo controllo. I figli prendono altre strade, i canali comunicativi si chiudono e i cellulari, le felpe, le ricariche telefoniche che Daniela manda a distanza non riescono a colmare l'abisso che si è creato tra lei e i suoi ragazzi. Impotente, assiste allo sfacelo della sua famiglia e, tuttavia, non torna. Il mal d'Italia è troppo forte.
Tutti i protagonisti restano come invischiati in un meccanismo perverso che tradisce le aspettative, illude le speranze, fabbrica menzogne e, a ogni mossa, il cordone che li teneva uniti si sfilaccia sempre più fino al definitivo strappo.
Uno strappo doloroso ma al tempo necessario alla emancipazione dei singoli e alla ricomposizione, in forma differente, del nucleo familiare.
Manuel, il figlio minore, dopo aver vagato senza meta con spirito indolente, trova una propria collocazione nel mondo e riesce ad affermare la propria identità.
Angelica, la maggiore, complice anche il peso del fratello, dapprincipio segue diligente il solco tracciatole dalla madre; dopodiché, assolti i propri compiti, dice basta e si affranca con una scelta improvvisa e radicale.
Daniela, per chiudere, resta sulla linea di confine tra Romania e Italia, a testimoniare che dal mal d'Italia non si guarisce mai.
Un romanzo bello, sincero e commovente in cui spiccano, come detto all’inizio, le figure femminili di Angelica e Daniela, due anti-eroine che si ribellano a modo loro al marchio atavico del destino che ha imposto loro di accudire e di arrangiarsi. Non maledicono la propria condizione, non combattono la sorte, bensì ci passano attraverso, fino in fondo.

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Valepepi Opinione inserita da Valepepi    13 Febbraio, 2023
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FRANCIA O SPAGNA PURCHE' SE MAGNA

L’opera si preannuncia profetica e teorizza l’imminente caduta dell’impero occidentale, debosciato e agonizzante, ad opera di un esercito islamico numericamente più imponente e qualitativamente meglio corazzato.
Forte di valori sociali e culturali che si richiamano a “leggi naturali di ordine universale” quali la poligamia maschile, l’Islam ha saputo resistere e proliferare urbi et orbi.
Dall’altro lato, l’Europa, passata sotto la scure degli illuministi e dei relativisti, non combatte più in nome di una religione, ma contro la religione. Che non è solo oppio dei popoli, ma anche collante identitario e sociale, venuto meno il quale, resta una comunità disgregata in una moltitudine di individui isolati, alienati, in crisi di identità.
Queste le premesse. Dopo poche pagine, però, la penna di Houellebecq abbandona il grande respiro storico-politico e la narrazione si ripiega sul punto di vista maschio-accademico-centrico del protagonista, un venerabile professore della Sorbona, oltre che in crisi di identità, anche di mezza età.
Dopo anni di fatiche letterarie che gli sono valse una buona posizione accademica e un parterre di giovani studentesse sempre disponibili, ha perso slancio e vigore e, ridimensionati gli obiettivi, vorrebbe ora sistemarsi, e invece si ritrova a desinare solo e triste nel suo appartamento parigino, con monoporzioni preconfezionate comprate al supermercato sotto casa.
Di tanto in tanto, fa capolino la sua ultima fiamma Myriam che lo solleva da grigiore quotidiano, ma allorquando il sovvertimento politico è alle porte, la ragazza toglie le tende e torna nella natia terra di Israele con la sua famiglia e senza troppi rimpianti.
Anche il nostro, per la verità, si dà ad una breve fuga in una cittadina di provincia, in attesa che passi la buriana. Ma la buriana non arriva, il cambiamento si consuma solo nelle sfere dei palazzi (come da tradizione) e così il nostro decide di far ritorno a Parigi. Qui cede alle lusinghe del nuovo rettore della Sorbona, il filo-musulmano Robert Rediger, e si adagia senza troppi sussulti e tentennamenti al nuovo ordine costituito, foriero di buon cibo, amabile vino e giovani donne a sazietà.
Un classico evergreen: Francia o Spagna purché se magna.

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Valepepi Opinione inserita da Valepepi    10 Novembre, 2022
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UNA FAVOLA PER ADULTI

Ho comprato questo libro nell’ambito di un incontro con il giovane autore. Di Zannoni ho apprezzato la verve sciolta e lo stile scanzonato, meno i contenuti degli argomenti trattati.
Falsi luoghi comuni e banalità del tipo “sbagliato giudicare”, “gli animali non hanno coscienza, senso della morte” mi hanno lasciata un po’ perplessa. Ho così messo il libro da parte, in attesa di sbollire la delusione e approcciarmici poi in maniera più aperta.
E ora eccomi qui.
Il romanzo, nel complesso, è piacevole. La scrittura semplice, pulita. La trama è articolata e appassionante e amalgama sapientemente scene amene a situazioni crude, drammatiche che non sfociano mai nel melenso.
E tuttavia, andando a fondo, emergono due limiti propri del filone narrativo favolistico.
Il primo è la mancanza di sfumature, acutezza, profondità nello stile di scrittura. Quel che si apprezza del romanzo è la storia in sé, mentre la prosa è incapace di illuminare l’universo intangibile del non detto e del non visto, di dare forma compiuta a pensieri e riflessioni, di creare suggestioni. Manca, in buona sostanza, di quel “quid indefinibile” che fa grande un autore e i suoi libri.
Il secondo limite riguarda il tratteggio dei personaggi. Pur servendosi della faina per marcare la distanza dagli stereotipi di genere, Zanoni non riesce poi a discostarsene, ponendosi nel solco della tradizione favolistica, che vuole gli animali interpreti di vizi e virtù umane e motivati solo da istinti predatori e di sopravvivenza. L’autore pesca a piene mani dall’immaginario collettivo e riadatta figure quali: la vecchia volpe avida, il brutto anatroccolo, il cane fedele, il lupo cattivo e via dicendo, con il risultato che alla fine i personaggi non sono ascrivibili né alla sfera umana, né a quella animale.
Soprattutto, l'autore pecca nel qualificare i sostantivi umano e animale del comune senso loro attribuito e aggettivato di diritto nel nostro vocabolario. L'umano, senza articolo, equivale all'aggettivo compassionevole, mentre l'attributo animale è sinonimo di aggressivo, crudele.
E se pur apparentemente non si schiera, non impartisce colpe e assoluzioni e riconduce tutto alla sfera della necessità e del naturale corso della vita, Zannoni si fa comunque sottilmente interprete di falsi stereotipi che fanno dell'uomo un essere superiore agli altri animali.
Archy impara a leggere e a scrivere, apprende le nozioni di Dio e del tempo e con ciò si umanizza e si eleva rispetto ai suoi simili per sentimenti, coscienza, intelligenza.
Nulla di più fasullo.
Nota personale. Scienziati autorevoli, quali Mario Tozzi, hanno ampiamente documentato come non sia l’intelligenza, il linguaggio, i sentimenti a marcare la differenza tra umani e animali, bensì l’accumulo, inteso come accaparramento di risorse oltre il normale bisogno per vivere.
Questa prerogativa, che finora ha determinato la supremazia degli umani rispetto alle altre specie, oggigiorno, depredato e sterminato tutto, ne sta provocando l’inesorabile estinzione.
Non raccontiamoci più favole...

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Valepepi Opinione inserita da Valepepi    24 Settembre, 2022
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NON CHIEDERMI PERCHÈ

Il mio primo approccio con Ginzburg è stato indiretto, mediato dalla bella biografia scritta da Petrignani ne “La Corsara” qualche anno fa. Dopodiché, l'incontro vis à vis con i suoi scritti e un innamoramento che a ogni lettura si rinnova.
Come in “La città e la casa”.
Il romanzo è scritto in forma epistolare e vede Ginzburg rifrangersi in un caleidoscopio di personaggi rappresentati da un gruppo di amici riuniti attorno a “Le Margherite”, un vecchio casolare di campagna che non è solo un luogo di incontro, ma anche un collante di relazioni, un antidoto alla solitudine domestica, un rifugio contro il chiasso e il grigiore metropolitano. È un luogo dell’anima dove ritrovare sé stessi e gli altri, in un armonico, seppur instabile, equilibrio tra individuo e comunità.
Nel gruppo de Le Margherite, difatti, i ruoli, i rapporti non sono rigidamente cristallizzati, piuttosto si sgretolano, fluiscono, senza però mai sfociare nella rottura definitiva, traslando al concetto di comunità quel che vale per il singolo individuo: si evolve, si involve, ci si trasforma, senza però mai staccarsi da sé stessi.
Le Margherite è un nome che non ha una motivazione, un perché.
E l'assenza di un perché è il filo conduttore che anima tutto il libro: le cose sono, accadono, senza una ragione precisa, senza una causa scatenante.
Il romanzo si apre, difatti, con la decisione inspiegabile e improvvisa di Giuseppe di vendere casa, abbandonare tutto e trasferirsi in America dal fratello Ferruccio.
Da qui, l’inizio della dissoluzione dei legami con i luoghi e tra le persone. Dopo la dipartenza di Giuseppe, difatti, il gruppo si sfalda e Le Margherite viene messa in vendita. Gli amici rimasti si sparpagliano tra Roma e l’Umbria e nel frattempo si innestano nuovi personaggi: Ignazio Fegiz e il figlio di Giuseppe, Alberico, che scardinano i vecchi equilibri.
Giuseppe segue tutto a distanza, tramite il fitto scambio epistolare che intrattiene con i suoi amici. Ogni missiva riflette l’animo del suo autore - l’indolenza placida di Giuseppe, la fame d’amore di Lucrezia, lo spirito libero di Alberico - , ma altresì la penna inconfondibile di Ginzburg.
Una penna caratterizzata da una prosa semplice, intima e sincera che non scandaglia pensieri e sentimenti e non va letta tra le righe. Ginzburg racconta di fatti minuti, parla di quotidianità, resta sulla superficie delle cose e pur tuttavia va dritta al cuore e al cuore parla.

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Valepepi Opinione inserita da Valepepi    25 Agosto, 2022
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LA VOCE DEL SILENZIO

Questo romanzo per certi versi ricorda una rappresentazione teatrale. Ogni capitolo si apre al centro di una scena, poi si muove sullo sfondo, illumina i contorni, svela i punti oscuri. Il quadro finale è un palcoscenico caotico e rarefatto, in cui una moltitudine di personaggi, tra vicissitudini e ricordi, si muovono sugli alterni piani del passato e del presente e cercano di colmare i vuoti delle dimenticanze e le censure dei silenzi.
Il registro linguistico di Maraini è articolato, talora difficile da seguire. Alterna uno stile arcaico, dialettale, a misura del tempo e dei luoghi e che ben aderisce ai personaggi, a una prosa elegiaca e un po’ scompaginata che dà voce al flusso di pensieri intrappolati dentro la bocca “mutola” di Marianna.
Le figure che ruotano attorno alla protagonista sono presenze antitetiche: spettrali, esangui, le donne, coriacei, voluttuosi, gli uomini. Tra questi, spicca il conte Giacomo Camaleo, personaggio di secondo piano, ma di primissima levatura. A lui si deve uno dei passi più belli: l'epistola che accompagna il romanzo sul finale.
Ciò che comunque accomuna tutti è il senso stoico con il quale si affronta un destino segnato. Talvolta un rigurgito di pazzia, un ribollio di sangue scompiglia le carte e sovverte la sorte, ma poi questa interviene e punisce e rimette tutto in ordine. È così per il marito-zio Pietro e ancora per la domestica Fila.
Marianna invece si ribella a modo suo. Opponendo un ferreo mutismo, segna la linea di confine tra sé e il resto del mondo con cui pure continua a interagire, senza esserne però permeata. Trincerata dietro una corazza di silenzio, viola i pensieri degli altri ma non lascia trasparire i suoi, si fa possedere dal marito-zio ma non dominare, si abbandona al desiderio di Saro ma è sempre lei a condurre il gioco. Persino il tempo non sembra scalfirla: gli altri invecchiano, lei no.
In tal senso la sua è una figura centrale, ma altresì una presenza fuoricampo, una sorta di coautrice che osserva, determina, racconta, frapponendosi tra le parole inchiodate sulla carta e i pensieri sospesi nell’aria.
E se pure, in mezzo a tutto questo rimestio di pensieri e parole, ogni tanto ci si perde, poco importa, poiché, più che la comprensione, rileva la magia, l’incanto per questo affresco di storia familiare lirico e crudele.

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Valepepi Opinione inserita da Valepepi    19 Giugno, 2022
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NO MAN'S LAND

Non conoscevo Lilin e questo suo romanzo d’esordio, ma solo la trasposizione cinematografica (che non ho ancora visto) di un regista che apprezzo molto, Salvatores. E così, andando per affinità, ho comprato il libro.
E in effetti, all’inizio, il romanzo appare accattivante: storie di vite ai margini, raccontate con ritmo sincopato e una prosa schietta, gergale che risulta al contempo aderente ai personaggi e fruibile per i lettori.
Accompagnandoci addentro la lettura, Kolima-Lilin si premura innanzitutto di illustrare l’ambiente e il contesto storico-geografico in cui si inserisce la sua comunità, segnata dallo sradicamento dalla terra d’origine e dalla forzosa deportazione in Transnistria.
Zona franca di frontiera tra Moldavia e Ucraina, questo lembo di terra ha visto negli anni confluire popoli senza patria ed emarginati: pazzi, criminali, armeni, georgiani, ucraini, siberiani, strappati alla loro terra, con l’intento di minarne l’identità e l’effetto contrario di rafforzarla.
La prima parte del libro si concentra così sul racconto della società siberiana e del suo sistema identitario di valori. Un coacervo di codici, regole e tradizioni di cui Kolima-Lilin ci fa scoprire il fascino: dalle leggi d’onore, alla simbologia dei tatuaggi, dal linguaggio in codice, al valore delle armi, finendo allo spirito alternamente caritatevole che include i disabili e tiene alla larga omosessuali e Bam.
Poi però, il libro si perde e diventa stereotipato e ridondante.
Stereotipato nella rappresentazione manichea dei personaggi, semplicisticamente divisi tra criminali-buoni e criminali-cattivi.
Ridondante nella narrazione che, prendendo spunto da situazioni differenti, si sviluppa poi sempre attorno al medesimo leit motiv: la rissa con i poliziotti e/o tra bande rivali e la vittoria finale dei criminali buoni, alias i siberiani, sui criminali cattivi.
Nessun approfondimento psicologico, nessuna deviazione di percorso, nessun dubbio o debolezza a segnare la personalità del protagonista.
Gli ultimi capitoli, confesso, li ho scorsi un po’ velocemente, per arrivare e sperare in un guizzo nel finale.
E qui, in verità, la storia prende una deviazione inaspettata. Tuttavia, giunti a questo punto, risulta forzata e poco convincente. Ha però il merito di restare aperta, forse pensando a un sequel, forse, perché no, ad una nuova terra franca.

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Valepepi Opinione inserita da Valepepi    10 Giugno, 2022
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NEKO SENSEI

Contrariamente a quanto riportato nei sottotitoli di copertina, non è un romanzo allegro e non ha per protagonista un gatto.
Il gatto più che altro si muove ai margini, in un ruolo al confine tra attore e spettatore di quella che è una storia dai tipici connotati giapponesi e che ruota attorno ad uno bislacco professore di inglese (alter ego di Soseki) a cui il gatto si lega così da assicurarsi vitto e alloggio. Poco importa se la considerazione che ne ricava è scarsa, tanto da non vedersi attribuito nemmeno un nome. Non è questo a minare l’identità e la fierezza del micio che non si lascia certo soggiogare da codici e sovrastrutture di cui abbisognano gli umani per riconoscersi.
E così dall’alto del suo serafico distacco, il gatto assiste e narra le vicende che vertono attorno al professore e alla sua bizzarra compagnia. Un manipolo di amici, familiari, vicini che tra il serio e il faceto cercano di evadere dal grigiore quotidiano delle loro esistenze, con maldestre velleità artistiche, sit-com amorose, battibecchi tragicomici, aneddoti surreali, elucubrazioni pseudo-filosofiche. Tra queste, spicca sul finale, la riflessione sull’asservimento dello spirito giapponese alla cultura occidentale che, imperniata attorno all’individuo e alla piena espressione del Sé, ne segna inesorabilmente la chiusura, l’avviluppamento attorno al proprio ombelico, la condanna alla solitudine, la salvezza nel suicidio. Preludio ad un finale che si snoda in una manciata di righe. Quanto basta per serrare un morso allo stomaco.

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Valepepi Opinione inserita da Valepepi    18 Gennaio, 2022
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METAMONDI PARALLELI

Gli amori impossibili, taciuti e nascosti in fondo al cuore e che quando cala la notte si animano dietro al buio delle palpebre, con Murakami acquisiscono la consistenza di inchiostro su carta e diventano belle storie. Le stesse che, nella vita di tutti i giorni e sulla bocca di tutti noi, scadrebbero nel ridicolo, nella noia, tacciando di mancanza di senso pratico i loro fautori, coloro che non sanno stare al mondo.
Orbene, a tutti coloro che non sanno stare al mondo, Murakami ne offre uno alternativo. Una realtà altra, irradiata della luce soffusa di una doppia luna e popolata di quelle assenze taciute e nascoste che qui parlano, agiscono, vivono di vita propria, risarcendo coloro che vi hanno abdicato e riuscendo a sedurre tutti gli altri che normalmente si annoierebbero.
Siamo nel 1984, anno che rievoca le atmosfere orwelliane del grande occhio che tutto osserva e tutto governa e che qui ha le sembianze senza volto dei “Little People”.
La storia ha per protagonista Aomame: una giovane donna fredda, distaccata, apparentemente priva di qualsiasi reazione emotiva. Uccide, fa sesso, nella stessa maniera in cui si nutre, vale a dire per puro bisogno fisiologico, per spinta inerziale ad andare avanti.
Il piacere è altro e non è dato soddisfare. Ha il nome di Tengo, un compagno di scuola di cui ha perso le tracce, non il ricordo. E il ricordo basta per tenere in vita lei, Tengo e altresì generare una nuova storia. Quella della crisalide d’aria, sul cui cielo plumbeo campeggiano due lune…
Una formula narrativa sovente sperimentata da Murakami: due metamondi, due storie apparentemente slegate l’una dall’altra, scorrono parallele lungo i binari del romanzo: si guardano, si annusano, si sfiorano, ma non si toccano. Poiché più bello del finale lieto, è il finale sublimato.

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Valepepi Opinione inserita da Valepepi    06 Gennaio, 2022
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SULLA PSICANALISI E DINTORNI

Non tra i libri più noti di Mishima, ma tra quelli più godibili, questo romanzo ha il doppio pregio di esprimere da un lato la cifra stilistica dell'autore, fatta di una prosa raffinata e di una sostanza pregna di riflessioni profonde ed elaborate, dall’altro di stemperare il tono greve, il lato cupo di questa anima inquieta che ha fatto del tormento la sua condizione estetica-esistenziale.
Il tema centrale è la psicanalisi che attraverso il personaggio di Reiko, Mishima demolisce e consacra al tempo stesso, rimarcando che tale disciplina non è una scienza esatta con valore oggettivo, perpetuo e universale, bensì legata a variabili soggettive e fortuite afferenti alla sfera dei singoli individui e alla reazione chimica che scaturisce dal loro incontro. E tuttavia, se l’indeterminismo del risultato rappresenta il limite della psicanalisi, ne costituisce altresì l’attrattiva che spinge ad addentrarsi nei labirinti della mente ed esplorare. Se non altro per vedere ciò che ne vien fuori.
Tale tesi appare scontata, ma è interessante il modo in cui Mishima la declina nel rapporto tra la paziente Reiko e il dottor Shiomi Kazunori.
La rivelazione del proprio malessere tramite una trasposizione metaforica, sancisce sin da subito il criterio attraverso cui Reiko si apre alla terapia: un dire mascherato, a volte al medico, altre persino a sé stessa. Tale approccio mette a dura prova le capacità di analisi del terapeuta che, muovendosi tra personaggi insidiosi, pseudo-confessioni e piani reali e fittizi, cerca di far luce sugli inganni dell’inconscio, di interpretare simboli, di mettere ordine a ruoli, di far affiorare traumi sedimentati nel profondo della sua giovane paziente, per poi da essi liberarla.
È una vera e propria partita a scacchi giocata sul filo dell’intelligenza, della scaltrezza, della simulazione, dei bluff, e su cui riveste un ruolo fondamentale la fascinazione suscitata dall’uno sull’altra e viceversa. Aldilà della storia, comunque, le pagine più belle riguardano le interpretazioni dei sogni: arzigogolate, acute, cervellotiche. Un caleidoscopio di ribaltamenti e cortocircuiti che mettono in risalto la maestria di Mishima nell’arte di elucubrare.
Tradisce un po’ il finale che, rispetto ad una intera trama tutta spiegata attorno agli arcani misteri che regolano gli ingranaggi della psiche, risulta scemare per adagiarsi su una conclusione risolutiva. Un peccato che, nel giudizio complessivo di quest’opera, si può perdonare.

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Valepepi Opinione inserita da Valepepi    29 Dicembre, 2021
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NON SOLO SAUDADE

Con l’unico precedente di Sostenne Pereira, il taglio giallo-investigativo di questo romanzo si discosta dall’usuale stile di Tabucchi, caratterizzato per lo più da racconti o romanzi brevi in cui è facile perdere la bussola nei meandri di una trama che, allo svolgimento sequenziale degli eventi, predilige le suggestioni oniriche, i flussi dell’inconscio, i flashback nostalgici, amalgamati di quella dolce e malinconica saudade di cui Tabucchi è mirabile interprete.
Qui, l’impostazione da cronaca giornalistica, senza dubbio, agevola la lettura, fluidifica il racconto, carica di tensione la storia, come da tradizione del genere. E tuttavia, il marchio a fuoco di Tabucchi resta inconfondibile e trapela nella lentezza del ritmo che lascia godere ogni pagina senza urgenza di voltarla, nella realtà quasi astratta più permeata di assenze che di presenze, e ancora, nella voce dei personaggi, soprattutto del bizzarro, filosofico, avvocato Loton. Memorabile, il passo sulle lettere dal passato che da solo vale l’intera lettura del libro.

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Valepepi Opinione inserita da Valepepi    22 Dicembre, 2021
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QUANDO NULLA ACCADE

È difficile raccontare di vite inutili, storie vuote, persone ignave, situazioni rafferme. Némirovsky ci riesce, toccando picchi di eccelsa letteratura. E ciò accade, poiché questa autrice ha la rara capacità di intercettare sentimenti, dinamiche familiari e amorose, pensieri appena abbozzati, che spesso sfuggono alla percezione propria e altrui, e a decodificarli in parole.
Non si tratta di raccontare una storia, bensì di rappresentare la vita ordinaria di persone qualunque, in cui spesso non accade proprio nulla. Un nulla che non ha essenza, non ha barriere tangibili.
Eppure è una prigione ferrea dalla quale non si può sfuggire, né con il denaro, né con altri effimeri piaceri, poiché rappresenta lo scarto tra gli angusti limiti della propria dimensione fisica nel mondo e l’infinita grandezza del proprio IO interiore.
E così la noia, la mediocrità, l'indifferenza prendono il sopravvento e inaridiscono gli animi. Persino le esperienze più intense di amore e morte sono pesi opprimenti che si consumano in una lenta agonia.
Alla fine non resta davvero nulla da dire, sembra sentir sospirare il rassegnato Christophe.
Eppure Némirovsky dice, dice tanto, essendo riuscita a divenire, nell’arco della sua breve, drammatica, esistenza, una delle più belle voci della narrativa del Novecento.

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Racconti di viaggio
 
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Valepepi Opinione inserita da Valepepi    11 Dicembre, 2021
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FANGO E NEBBIA

Follow the money era l’imperativo che guidava le indagini di qualche famoso magistrato diversi anni fa e Osborne pare averne colto il suggerimento, poiché costruisce una storia che si snoda attorno al gruzzolo di una vincita. L'assunto è che il denaro faccia girare non solo l’economia, criminosa e non, ma il mondo intero: muove le genti, governa il caos, ne assoggetta il moto entropico ad un ordine circolare e fa sì che alla fine il cerchio si chiuda. Sempre.
Protagonista del romanzo è Robert Grieve, un giovane professore inglese, gradevole e intelligente, ma non altrettanto ribelle e stravagante da emergere sulla moltitudine o deviarne dall'ordinario percorso.
Conduce un’esistenza placida, rintanato nella campagna del Sussex, dove al verde brillante delle colline si contrappone la nebbia grigia e sottile che scolorisce le esistenze e ne protegge il letargo. Anche coloro che attorniano Robert: i genitori, la fidanzata, sono spettri sbiaditi che stanno sullo sfondo e si confondono con esso senza mai avanzare al centro della scena.
Ad un certo punto però, Robert si stacca dallo sfondo e arriva in Cambogia.
Nessun sussulto di vita, solo una breve vacanza, rassicura i genitori. Ma i giorni passano, Robert ozia, traccheggia, finché una vincita inaspettata al casinò decide per lui. Di restare. La vacanza si prolunga senza prospettive di sorta: è il momento del hic et nunc e Robert ne gode appieno. Fino a quando, ancora una volta, gli eventi prendono il sopravvento e decidono al posto suo.
Derubato dal bottino, Robert riparte da zero: cambia nome, si inventa un lavoro, trova una fidanzata. Insomma, si costruisce una nuova esistenza, precaria, alla giornata, e diviene uno dei tanti barang che popolano la Cambogia.
Sono gli spiriti reietti della società occidentale, vite che scorrono ad intermittenza in un continuo perdersi e ritrovarsi, come lucciole che lampeggiano nell'oscurità prima di finirne inghiottite.
Robert sopravvive a tutto questo in modo quasi passivo e inconsapevole. Senza zavorra, si muove tra le paludi melmose con spirito leggero e passo lieve, percorre in equilibrio la linea di confine di una terra franca che sputa fuori chi vuole entrare e risucchia dentro chi vuole uscire.
Uno scenario feroce, dei personaggi inquietanti che la mano di Osborne tratteggia non a penna, bensì a matita: opacizza le figure, sfuma i contorni, smorza i drammi.
Infine, vi getta un abbondante scroscio di pioggia che lava via fango e nebbia.
Quel che resta, è un romanzo di sfavillante bellezza.

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Romanzi erotici
 
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Valepepi Opinione inserita da Valepepi    23 Novembre, 2021
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L'ARTE DI SEDURRE

Una cosa sola avrei cambiato, o meglio eliminato, da questo libro e sono le ultime quattro parole che, per riguardo verso coloro non lo hanno ancora letto, qui non svelo. Per le restanti quattrocento pagine, questo romanzo è semplicemente meraviglioso.
Ogni tentativo di rimanere dall'altra parte del libro, seduti composti sulla propria seggiola, di non abboccare agli ammiccamenti, alle strizzate d'occhio (tante!) di Isadora Wing si rivela inutile: ad un certo punto le difese crollano e si finisce per essere travolti dallo tsunami Jong.
E il naufragar diviene dolce in questo mare. Un mare colmo di intelligenza, cultura, ironia, passione, ferocia, contraddittorietà, debolezze e, sopra tutto, seduzione.
Poiché il miglior afrodisiaco sono sempre le parole.

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Valepepi Opinione inserita da Valepepi    12 Novembre, 2021
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ROMANZO FRAMMENTARIO

L’inizio del romanzo appare interessante: un evento drammatico che si chiude, o meglio, si socchiude, lasciando uno spiraglio oltre il quale si intravedono un non detto (i messaggi in segreteria telefonica) e un non risolto (una chiave sul fondo di un vaso). Al giovane Oskar, il compito di far luce.
Un materiale ricco di potenzialità che purtroppo Safran Foer disperde, vagando attorno a dialoghi fatui e a una seconda, improbabile, storia familiare.
Lo sviluppo della trama diventa così farraginoso e confusionario e al lettore viene molto più facile distrarsi che concentrarsi.
Giunti sul finale, le storie si ricongiungono e i misteri si dipanano, ma avendo questi perso ritmo e corposità, arrivano in fondo scarichi, propinando facili soluzioni che tradiscono la fragilità di una trama ambiziosa nelle premesse, ma altrettanto sbrigativa nelle conclusioni.
Adolescenziale e frammentaria, infine, la prosa: è tutto un “lui disse”, “lei disse”, “perché no?”, “perché no, cosa?”, elocuzioni queste che oltre ad affaticare e nevrotizzare la lettura, privano i personaggi di empatia e la storia di fluidità.
In definitiva, un libro che non ho apprezzato.

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Valepepi Opinione inserita da Valepepi    19 Settembre, 2021
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NOTHOMB STRARIPANTE

Dove la peculiare scrittura di Nothomb trova la sua massima espressione in testi quali “Cosmetica del nemico” e “Le catilenarie”, in “Sete” risulta poco efficace. Il sarcasmo, la sagacia, l’irriverenza, i vocaboli ricercati, le battute colpo su colpo propri di Nothomb aderiscono perfettamente a protagonisti nati dalla sua stessa penna, tipizzandoli in modo magistrale. In bocca a Gesù Cristo, invece, lo stesso eloquio risulta stonato, poco convincente e voce e personaggio non riescono mai a sovrapporsi. Risultato: a parlare è sempre e solo Nothomb.
Vero è che la sfida era ardua, ma ha un precedente riuscito in Saramago. Lo stile del portoghese, seppur anch’esso personalissimo, risulta calzare meglio indosso a Gesù Cristo, forse perché più compassato, remoto. Ad ogni modo, Saramago ha saputo reinventare questo personaggio, mettergli in bocca parole audaci, blasfeme, senza però mai tradirne la figura o sostituirsi ad essa, in una sintesi autore-protagonista originale e alla fine ben riuscita.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Valepepi Opinione inserita da Valepepi    15 Settembre, 2021
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ROMANZO INTENSO CHE SI PERDE UN PO’ SUL FINALE

Per chi non avesse ancora letto il romanzo, premetto che quanto sotto riportato contiene anticipazioni, seppur vaghe, sul finale.
La drammatica vicenda dell’assassinio di una anziana usuraia e della successiva morte in carcere dell’unico imputato ingiustamente accusato del delitto vengono narrate con tono asciutto e misurato. Le emozioni, i pensieri, gli stati d’animo dei protagonisti sono appena accennati e riecheggiano piuttosto nelle descrizioni lievi e soffuse del fumo azzurrino di una sigaretta, della pioggia, delle luci serali, della nebbia. Ne viene fuori un quadro leonardiano, in cui alle atmosfere ovattate dell’ambientazione si contrappone il puntuale resoconto della cronaca giudiziaria e il nitido tratteggio dei personaggi.
Proseguendo, la trama si infittisce, acquisisce forza e intensità e riesce magistralmente a intrecciare storie e personaggi, in un crescendo di colpi di scena che tengono il lettore incollato al libro.
Nell’ultima parte del romanzo, il ritmo si smorza e la narrazione si fossilizza sul motivo della vendetta. Un dilungamento eccessivo che non trova sbocco in una evoluzione degli avvenimenti, delle relazioni, dei protagonisti.
Kiriko resta incardinata nella sua algida inflessibilità, la figura del giornalista sbiadisce, relegata ad un mero ruolo ancillare che non dà mai alcun impulso concreto alla storia, gli altri personaggi secondari vengono solo evocati. Resta sulla scena l’avvocato e la penna di Matsumoto si concentra sulla sua parabola discendente attraverso cui si compie la nemesi finale. Ma l’accanimento è tale che ne deriva una rappresentazione a tratti patetica, inverosimile, che un po’ dispiace.
Ad ogni modo, a parte le sbavature sul finale, “La ragazza del Kyushu” resta un ottimo romanzo, con una storia avvincente e una scrittura brillante che vale la pena leggere.

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Valepepi Opinione inserita da Valepepi    15 Settembre, 2021
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ESSERE O NON ESSERE

Dalla lettura di “Non lasciarmi” e “Quel che resta del giorno”, due romanzi all'apparenza diversi, mi è sembrato di scorgere un medesimo motivo che scorre sotto traccia: il non essere.
Tutti i protagonisti, dell’una come dell’altra opera, assistono da spettatori impotenti allo svolgersi di vite altrui di cui loro sono meri strumenti funzionali al pieno compimento. Nessun sussulto di ribellione, nessuna pretesa attraversa le menti di chi, nato non per essere ma per servire, non ha motivo di rivendicare riconoscimento alcuno. E senza riconoscimento non c’è identità.
Pregevole anche la scrittura di Ishiguro, capace di descrivere con toni soavi e sfumati, le atmosfere rarefatte dei luoghi, le sottili sinapsi che scorrono tra le persone, di evocare con poche, asciutte parole l’universo intangibile dei ricordi, dei gesti incompiuti, dei sentimenti trattenuti e far sì che il non vissuto si animi di vita e diventi esso stesso essenza di vita.
Un’ultima notazione riguardo alle trasposizioni cinematografiche di queste due opere: scialbo, didascalico “Non lasciarmi”, intenso al pari del libro “Quel che resta del giorno”.

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