Opinione scritta da unfioreounlibro
6 risultati - visualizzati 1 - 6 |
Il valore eterno dell'amicizia
"Le braci", romanzo dell’ungherese Sándor Márai edito per la prima volta nel 1942, racconta la storia dell’amicizia tra due uomini, Henrik detto “il Generale” e Konrad, e di come essa abbia avuto fine in seguito al tradimento del secondo. Il punto di partenza è l’incontro tra i due, che, a distanza di quarantun anni, ha lo scopo di far finalmente luce sugli avvenimenti che li hanno separati. La prima parte, che coincide con l’attesa di Konrad da parte di Henrik, è occupata dal racconto degli anni della loro amicizia; la seconda, invece, quella dell’incontro, da un lungo dialogo (a dire il vero, più un monologo del Generale) sulle circostanze in cui si è interrotta.
Secondo me, il principale punto di forza del romanzo è lo stile a dir poco sublime in cui è scritto. Solitamente, non apprezzo l’abbondanza di figure retoriche e la tendenza a ripetere più volte gli stessi concetti; in questo caso, tuttavia, ho trovato che si accordassero bene con la densità tematica del libro. Durante la lettura, inoltre, ho avuto l’impressione di trovarmi davvero nei luoghi descritti da Márai: il castello di Henrik, la Vienna di inizio XX secolo, il bosco in cui si svolge la battuta di caccia… In quasi ogni pagina, infine, ho incontrato riflessioni che mi hanno sorpreso per la loro profondità, benché il loro tono amaro e disilluso mi impedisse spesso di condividerle.
L’unica nota stonata, a mio avviso, è che il confronto tra i due uomini non giunge a una vera e propria conclusione; Konrad, infatti, rimane per lo più in silenzio, senza svelare la verità sulle proprie azioni passate. Come spiegare un finale del genere? Personalmente, mi piace pensare che Márai voglia sottolineare come tale “verità”, alla fine, non conti molto; conta invece l’aver fatto esperienza dell’amicizia (e dell’amore) in una forma pura, radiosa, che neppure il tradimento è in grado di cancellare. Ma a ogni lettore il compito di terminare il romanzo e di farsi una propria idea.
“Non credi anche tu che il significato della vita sia semplicemente la passione che ogni giorno invade il nostro cuore, la nostra anima e il nostro corpo e che, qualunque cosa accada, continua a bruciare in eterno... e non credi che non saremo vissuti invano, poiché abbiamo provato questa passione?”
Indicazioni utili
Una sola lettura non basta
La recensione di oggi – se di recensione si può parlare, dato che il romanzo in questione è considerato uno dei massimi capolavori della letteratura moderna – riguarda "L’urlo e il furore" di William Faulkner. Premetto che, trattandosi di un’opera molto complessa, non me la sono sentita di condurre un’analisi approfondita, ma ho preferito limitarmi a parlare della mia esperienza di lettura.
Il romanzo parla dei Compson, una famiglia aristocratica del Sud degli Stati uniti, e del loro progressivo decadimento in seguito alla Grande Depressione del 1929. Tale vicenda è narrata da quattro punti di vista diversi, quelli dei tre figli maschi e quello della domestica nera, che corrispondono ad altrettanti capitoli. L’elemento più interessante del libro non è però tanto la trama, quanto piuttosto lo stile con cui è esposta. Faulkner, infatti, fa ampio uso delle tecniche moderniste del “flusso di coscienza” e del “narratore inattendibile”, saltando continuamente dal presente al passato e dalla realtà all’immaginazione, in un intreccio che, soprattutto nei primi due capitoli, risulta assai difficile da districare.
La scrittura di Faulkner possiede sicuramente un gran numero di pregi, primo tra tutti la capacità di restituire i pensieri, le emozioni e i ricordi dei protagonisti con estrema precisione. Inoltre, mantiene sempre una forte carica patetica, anche quando sfiora i limiti della correttezza grammaticale. I personaggi del romanzo sembrano usciti da una tragedia, vittime passive delle loro pulsioni inconsce e delle norme morali proprie della loro classe sociale. Allo stesso tempo, si trovano a fare i conti con l’apparente inutilità di tutte le azioni umane, in perfetta coerenza con il monologo del "Macbeth" da cui è tratto il titolo.
Ciononostante, devo ammettere che, mentre leggevo, ho colto questi pregi solo di sfuggita. Il motivo è che, come già accennato, i primi due capitoli presentano continui salti temporali, costringendo il lettore a concentrare tutte le sue energie nella comprensione della trama. "L’urlo e il furore" risulta quindi, almeno a mio avviso, un romanzo controverso: se, da un lato, il suo stile consente di raggiungere un livello di verosimiglianza psicologica molto elevato, dall’altro rende la lettura poco fluida e piacevole. Probabilmente, il modo migliore per affrontarlo sarebbe leggerlo due volte, una prima per ricostruirne gli eventi, e una seconda per apprezzare appieno la sua bellezza.
“Perché, disse, le battaglie non si vincono mai. Non si combattono nemmeno. L'uomo scopre, sul campo, solo la sua follia e disperazione, e la vittoria è un'illusione dei filosofi e degli stolti.”
Indicazioni utili
Raccontare l'ambiguità
Ne "L’avversario", Emmanuel Carrère racconta la storia di Jean-Claude Romand, famoso criminale francese che nel 1993 uccise moglie, figli e genitori, dopo aver finto per più di dieci anni di essere un ricercatore in medicina. Non appena ne ho letto la presentazione, mi sono subito sentita fortemente incuriosita e desiderosa di leggerlo: com’è possibile che un uomo riesca a ingannare tutti quelli che lo circondano per così tanto tempo? E, soprattutto, quali misteriose ragioni lo spingono a farlo?
Il libro è scritto dal punto di vista di Carrère, che, sin dal primo momento in cui ha sentito parlare del caso, ha concepito il progetto di scrivere su di esso, seguendo l’iter giudiziario, incontrando i conoscenti di Romand e stabilendo addirittura una corrispondenza epistolare con quest’ultimo. La maggior parte delle pagine, tuttavia, è dedicata alla storia del finto medico, inserita nel resoconto del processo come se stessimo assistendo alla sua ricostruzione in tribunale. Lo stile è fedele a quello giornalistico; non cede, cioè, alla tentazione di speculare sulla vita interiore dei personaggi, ma si limita a riferire quanto essi stessi hanno dichiarato nel corso dell’inchiesta.
In generale, ho apprezzato tutte le decisioni che Carrère ha preso nel costruire il libro. La scelta di narrare contemporaneamente la storia dell’imputato e il processo non è particolarmente originale (mi ha ricordato la sceneggiatura di diversi film giudiziari), ma ci permette di immedesimarci negli spettatori presenti in aula, formulando a nostra volta ipotesi e giudizi. Quella di adottare un tono obiettivo, invece, è addirittura geniale, poiché mantiene fino alla fine l’incertezza sulla figura di Romand: era vittima di forze oscure o di banali disturbi psichici? Voleva evitare di far soffrire i suoi cari o semplicemente di confessare loro la verità? Ha trovato una via di redenzione nel Cristianesimo o sta di nuovo fingendo?
L’unico difetto, secondo me, è che, all’inizio del libro, Carrère parla di un primo progetto molto diverso da quello che ci ritroviamo tra le mani; mi sarebbe quindi interessato capire che cos’ha determinato questa svolta. Allo stesso tempo, però, mi rendo conto che troppe digressioni autobiografiche avrebbero rischiato di appesantire l’opera, nonché di distrarre dai suoi principali nuclei tematici (avevo avuto quest’impressione ne "Il Regno", dello stesso autore). Così com’è, invece, "L’avversario" risulta una lettura scorrevole e coinvolgente, che, se non dice l’ultima parola su Jean-Claude Romand, sicuramente apre le porte su un personaggio tutt’ora affascinante.
“Di norma una bugia serve a nascondere una verità, magari qualcosa di vergognoso, ma reale. La sua non nascondeva nulla. Sotto il falso dottor Romand non c’era un vero Jean-Claude Romand.”
Indicazioni utili
Fragili equilibri
"Due", romanzo di Irène Némirovsky del 1939, segue l’evolversi della relazione amorosa tra Antoine e Marianne, due giovani benestanti, nel contesto della Parigi del primo dopoguerra. Intorno al filone principale della trama, si sviluppano una serie di vicende secondarie, legate ad amici e parenti della coppia; per esempio quella di Solange, amica di Marianne, che ricorre a un pericoloso aborto per liberarsi del figlio concepito con l’amante. Nonostante l’intreccio, all’apparenza, sembri quello di un comune romanzo rosa, non bisogna lasciarsi ingannare; "Due", infatti, non ha nulla del sentimentalismo e della visione ottimistica che caratterizzano di solito questo genere.
La scrittura è particolarmente elegante, ha un ritmo pacato e indugia a lungo nella descrizione dei sentimenti dei protagonisti, mettendoli però sempre in relazione con ciò che accade all’esterno: l’atmosfera di una stanza, il tempo meteorologico, la presenza di altre persone e così via. Sono inoltre presenti numerose riflessioni, sia dei personaggi, sia del narratore, che fanno pian piano emergere una visione dell’amore del tutto peculiare: dapprima, passione violenta, che sembra talvolta fondersi con l’odio; in seguito al matrimonio, solida amicizia, che si basa sulla complicità di fronte alle preoccupazioni della vita quotidiana.
Leggendo su internet le recensioni del romanzo, ho notato come molti utenti critichino l’eccessiva freddezza e, talvolta, persino il cinismo della Némirovsky. Personalmente, non mi trovo d’accordo. In primo luogo, se è vero che le vicende narrate non coinvolgono pienamente il lettore, è altrettanto vero che l’intento dell’autrice sembra essere diverso: analizzare lucidamente la vita di una “coppia qualsiasi”, senza indulgere in facili buonismi o colpi di scena. In secondo luogo, non credo che il suo pensiero si possa definire “cinico”; utilizzerei piuttosto il termine “realista”, nella misura in cui non cela le ombre delle relazioni sentimentali, ma non esita neppure a mostrarne le luci.
Per concludere, ho trovato "Due" un bellissimo romanzo, in grado di realizzare il fragile equilibrio tra piacevolezza dello stile e oggettività dell’analisi psicologica. Non mi resta quindi che consigliarlo, con l’accortezza di specificare che non si tratta di una lettura romantica in senso tradizionale, come il colore e l’illustrazione della copertina dell’edizione Adelphi potrebbero indurre a pensare.
Indicazioni utili
Un piccolo gioiello
Dopo aver preso in prestito dalla biblioteca "La camera azzurra" di George Simenon, la mia impressione è stata di avere tra le mani un piccolo gioiello. Lo so, non si giudica un libro dalla copertina; ma l’iconico design di Adelphi, il colore azzurro che rimandava al titolo, l’enigmatico dipinto di Magritte, tutto mi trasmetteva una sensazione positiva, che è stata poi confermata dalla lettura.
Ma andiamo con ordine. In questo romanzo, Simenon ricostruisce gli avvenimenti che hanno portato a un delitto passionale nei dintorni di Poitiers, in Francia. La narrazione, però, non è lineare, in quanto il punto di partenza sono gli interrogatori a cui Tony, protagonista e principale indiziato, è sottoposto. Saranno proprio i ricordi di quest’ultimo, mescolati a riflessioni e ad aperture sul presente, a permetterci – ma solo nel finale! – di acquisire una visione chiara della vicenda.
I principali punti di forza de "La camera azzurra" sono, a mio avviso, lo stile semplice e la brevità, che rendono il libro adatto anche a chi ha voglia di leggere qualcosa di leggero. Lo ammetto: inizialmente, ho giudicato tale stile un po’ banale; in seguito, però, ho capito come esso costituisse un semplice ausilio alla lettura, senza comprometterne in alcun modo la qualità. In effetti, dietro l’apparente semplicità, La camera azzurra è un libro dalla grande densità tematica. È anche un libro che si legge tutto d’un fiato, con il disvelamento progressivo dei fatti che ci trascina, pagina dopo pagina, fino alla conclusione.
Al centro del romanzo c’è, come già anticipato, la figura di Tony. Al pari del giudice istruttore Diem, il magistrato incaricato di istituire il processo, ci ritroviamo a formulare dei giudizi su di lui: in quale misura è innocente, e in quale è colpevole? Personalmente, la spontaneità delle sue azioni e la sincerità dei suoi affetti famigliari mi hanno portato, senza cadere in spoiler, a simpatizzare per lui. Tutta quanta la trama è permeata da un senso di tragedia; come se l’errore del protagonista non fosse tanto l’aver tradito, quanto l’aver sottovalutato la forza di una passione irrefrenabile, destinata a trascinare ogni cosa con sé.
Naturalmente, i temi non si esauriscono qui: ci sono la dicotomia tra amore carnale e amore coniugale, le difficoltà di comunicazione che affliggono gli uomini, la disumanizzazione operata dal sistema giudiziario… ma preferisco fermarmi. Non mi resta che consigliare un libro che, nonostante dei piccoli difetti – la prevedibilità di alcune svolte della trama e l’eccessiva stilizzazione dei personaggi femminili – rappresenta una lettura avvincente e intellettualmente stimolante.
Indicazioni utili
Un viaggio nel Nuovo Testamento
Ne "Il Regno", opera a metà tra saggio critico, romanzo storico e racconto autobiografico, Emmanuel Carrère presenta al lettore il risultato dei propri studi sul Nuovo Testamento. L’introduzione è costituita da un’ampia sezione autobiografica, in cui l’autore chiarisce i motivi alla base della genesi del libro. Egli, infatti, è stato un fervente cristiano per due anni del suo periodo giovanile, e si propone ora di ritornare sulle tematiche di fede dal punto di vista di un agnostico. La parte centrale, il vero e proprio cuore dell’opera, rappresenta invece un viaggio tra le pagine degli Atti degli apostoli e del Vangelo. A partire dalle vicissitudini dell’evangelista Luca, il libro si apre a mille digressioni: personaggi, luoghi, fatti storici, questioni filologiche ed esegetiche, riflessioni personali e molto altro.
Nonostante le oltre quattrocento pagine, ho trovato "Il Regno" una lettura assai piacevole. Il più grande merito dell’opera, a mio avviso, sta nell’illustrare in modo semplice, accessibile anche a chi non possiede conoscenze pregresse, argomenti altrimenti riservati agli specialisti. Essa, inoltre, si sforza di adottare un punto di vista neutrale – né religioso, né ateo: agnostico – permettendo al lettore di giudicare autonomamente le informazioni offerte, nel quadro di una riflessione sulla propria fede.
Un altro pregio da non sottovalutare è la capacità di Carrère di riportare alla vita, con uno stile vivace e a tratti romanzesco, personaggi ormai sepolti e quasi mitizzati da secoli e secoli di tradizione ecclesiastica. Questo, insieme ai continui riferimenti al presente e alla formidabile ironia dell’autore, rendono il libro ben più coinvolgente di un comune saggio sul tema.
Questi aspetti positivi, tuttavia, non mi hanno impedito di provare un lieve senso di disorientamento, sia durante la lettura, sia al suo termine. Se si eccettua il file rouge del viaggio di Luca, l’impressione è che manchi una vera e propria struttura; ci sono troppi excursus, troppi salti temporali. Lo stesso vale per la conclusione della parte centrale, aperta ai confini dell’enigmatico. Insomma, siamo ben lontani da quegli schemi argomentativi che tanto ci rassicurano.
Un’ultima critica, infine, va alla tendenza di Carrère a parlare molto di sé stesso, la quale, se in alcuni punti contribuisce ad arricchire la trama dell’opera, in altri risulta, almeno secondo me, superflua.
Indicazioni utili
6 risultati - visualizzati 1 - 6 |