Opinione scritta da Civitom90
2 risultati - visualizzati 1 - 2 |
Un racconto che fa riflettere
Accabadora si potrebbe definire una favola dai contorni noir ambientata in una Sardegna di metà 900 molto ben caratterizzata dall’autrice. Soreni, paesino dove hanno luogo i fatti del racconto, ha i contorni tipici che potrebbero essere propri di un qualsiasi paesino del sud italia: un ecosistema chiuso in cui ciascuno dei suoi abitanti è ben inserito e svolge un ruolo, dove tutti sanno di tutti ma le apparenze devono essere mantenute perchè il pettegolezzo rappresenta ancora una sorta di controllo sociale che tutti temono. Soprattutto se è per “stupidità” a finire sulle bocche dei compaesani. Ed è proprio un fatto “stupido” (una disputa terriera finita in tragedia) a rappresentare la rottura della normalità per una famiglia molto sui generis composta da Bonaria Urrai, sarta del paese, e la sua fillus de anima Maria Listru.
Il povero Nicola Bastiù, mentre tenta di dar fuoco al campo dei confinanti, viene colpito da una fucilata ad una gamba, in seguito amputata a causa delle ferite riportate. Il suo forte temperamento e la strabordante vitalità giovanile vengono annientati dalla sua nuova condizione fisica, portandolo ad una profonda depressione. Dunque è in questo frangente che Maria scopre un segreto molto importante riguardo la sua madre acquisita, ovvero lei è l’accabadora, colei che finisce: Bonaria, colpita dalla storia del ragazzo in cui rivede il suo promesso scomparso anni addietro, decide di mettere fine alla sua vita cedendo alle sue insistenze, tradendo un pò i dogmi che la sua professione gli impone, ovvero di aiutare a compiere il destino dei morenti in assoluta accondiscendenza con la famiglia dell’infermo, che in questo caso viene tenuta all’oscuro.
La scoperta turba la giovane Maria che, presa da un atto di profonda indignazione, decide di lasciare il paese per andare a lavorare come tutrice a Torino.
Passano un paio d’anni e la ragazza si ambienta nella nuova realtà e (quasi) scopre l’amore ma una chiamata improvvisa la costringe a tornare in Sardegna: Bonaria ha avuto un ictus e non è più autosufficiente. Maria decide quindi di tornare a prendersi cura della madre adottiva. Nei due anni che seguono la situazione diventa per entrambi sempre più insostenibile e nella mente della giovane comincia a maturare l’idea di porre fine a tanta sofferenza. Con le parole in testa di Bonaria pronunciate tempo prima durante il litigio che ha portato la famiglia a separarsi, ovvero “non dire mai: di quest’acqua non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata.”, Maria decide di compiere l’estremo atto nei confronti della madre sofferente, atto che tanto aveva criticato in passato.
Il libro si legge tutto d’un fiato, complice uno stile asciutto ma efficace, che non annoia. I dialoghi dei protagonisti, molto ben scritti e cuciti in maniera impeccabile attorno al carattere dei vari personaggi, sono incalzanti e danno ritmo alla lettura.
Sono proprio i dialoghi a mio avviso il fulcro su cui poggia la struttura del libro perchè scritti in modo tale da indurre il lettore alla riflessione, senza che l’autrice rischi di imporre in maniera esplicita il suo pensiero. I fatti in sé sono dunque solo la cornice che dà l’opportunità ai protagonisti di poter riflettere e maturare di conseguenza le proprie idee.
Come ogni favola che si rispetti, Accabadora ha un suo insegnamento, ma sta a voi saperlo cogliere!
Indicazioni utili
L'ambigua espressione della volontà di Dio
Nel discorso del lago Genesaret, Dio espone a Gesù e alla presenza del diavolo le motivazioni che hanno portato a mettere al mondo, prima, e sacrificare, poi, il suo unico figlio. Egli appare come un Dio greco in certi aspetti, ovvero dalle pressoché illimitate possibilità di trasformare in atto un suo qualsivoglia germe di volontà, ma tediato da alcuni dei più comuni sentimenti umani quali la noia (Dio è ben felice di avere al suo fianco gli arcangeli in paradiso ma vorrebbe avere anche gli uomini, come se la compagnia con cui condivide l’eternità non fosse abbastanza per lui) e il bisogno di essere adorato non più dai soli ebrei, suo popolo eletto, ma allargando la sua sfera di influenza al mondo intero. Nasce dunque come un suo personale capriccio la comparsa della religione cattolica con tutto ciò che poi ne consegue, ovvero un’intransigenza che sfocia nella sofferenza morale e fisica dei martiri che in nome del Signore combattono se stessi, abbracciando con eccessivo zelo la colpa delle rispettive debolezze, oppure ciò che viene ritenuto essere profano e senza fede: sulla chiesa, istituzione fondata come portatrice del messaggio cristiano nel mondo, rimane dunque la macchia del sangue versato da moltissime persone nel corso dei secoli per adempire al volere di Dio.
L’escamotage utilizzato per alimentare la fede delle genti è far leva su ciò che Dio stesso afferma essere un tratto comune di ciascuno di noi, ovvero la tendenza umana al peccato: dunque si crea un’architettura di precetti da seguire che in un certo senso mortifica la natura stessa dell’uomo, la colpa dunque si insinua all’interno del peccatore che vede come unica via d’uscita quella di rivolgersi ad un Signore misericordioso che, in cambio di assoluta e cieca fedeltà, è disposto a perdonare qualsiasi cosa.
Il bene, dunque, si compie in colui che è pronto ad abbracciare con fede la volontà del signore; d’altro canto, il male si insinua in chi cede senza pentimento alla debolezza della carne. La carne non va però interpretata nella sua accezione voluttuosa ma, come precedentemente riportato, nell’attitudine umana a cedere alle proprie debolezze. Il diavolo tentatore appare quindi indispensabile a questo disegno divino: non ci sarebbero anime da salvare senza peccati da perdonare; Dio, infatti, rifiuta il patto proposto dal diavolo, nel quale egli chiede di tornare in cielo dal quale è stato scacciato in cambio della scomparsa del male sulla terra.
Gesù accetta di malgrado questo arduo compito, ma non può altrimenti perché non si può nulla contro il volere del Signore. La sua morte dovrà dunque essere dolorosa e infame (proprio con queste parole viene definita), ovvero crocifisso come suo padre Giuseppe. Entrambi, sia il padre umano che il figlio, hanno il medesimo destino, come se si fossero voluti accumunare nella colpa di non aver fatto abbastanza per evitare la sofferenza di gente innocente: Giuseppe infatti non avvisa i padri e le madri di Betlemme dell’arrivo dei soldati di Erode, condannando a morte i pargoli della città; Gesù invece cade sotto l’onnipotenza del Signore, incapace a dire di no ai suoi piani pur conoscendo le sofferenze che questa sua scelta provocherà nell’umanità futura.
Il vangelo di Saramago si pone come una critica al mondo cattolico perché ridimensiona l’idea di un Dio misericordioso pronto ad accoglierci anteponendone un altro, cinico e a tratti indifferente ai fatti dell’uomo. La figura di Gesù appare anch’essa ridimensionata dalla sua aura divina ma non per questo viene sminuita, anzi i dubbi e gli inevitabili errori che compie sono frutto di una persona che in ogni modo tenta di agire secondo coscienza.
Il peculiare uso della punteggiatura di Saramago non deve scoraggiare il lettore dal vincere le iniziali difficoltà a seguire il discorso (poi ci si fa l’abitudine) e arrivare al fondo di questo bellissimo libro dal quale, inevitabilmente, si possono trarre importanti spunti di riflessioni sulla religione cristiana cattolica di cui tutti noi, volenti o nolenti, siamo figli.
Indicazioni utili
2 risultati - visualizzati 1 - 2 |