Opinione scritta da Calderoni
45 risultati - visualizzati 1 - 45 |
Negato alla Storia e allo Stato
«Serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato»: è questo il manifesto che presenta i luoghi in cui l’io narrante è stato confinato per ragioni politiche (non si parla mai approfonditamente delle cause, vengono invece specificate quelle di altri due confinati: uno è un muratore comunista di Ancona, l’altro uno studente di scienze politiche di Pisa, ex ufficiale di Milizia, anch’egli comunista) in una condizione di «vita sotterranea». È un io narrante che ha studiato medicina ma non pratica la professione da medico ed è molto appassionato di arte, il suo hobby preferito è la pittura. I luoghi di cui si parla sono quelli della Lucania, da «Lucus a non lucendo», letteralmente la terra dei boschi che però si staglia sullo sfondo come «tutta brulla». Il periodo storico in cui si colloca la vicenda è quello della politica imperialistica del Fascismo: siamo negli anni Trenta durante le guerre di espansione in Eritrea e in Etiopia. L’intento di Carlo Levi è riassunto fin dalla premessa del testo: «Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia». I primi che non si sentono cristiani sono i contadini che popolano queste terre. Non si sentono cristiani perché nel loro linguaggio vuol significare essere uomini. Invece, in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale ma è un dolore terrestre, Cristo non è disceso. L’io narrante è stato confinato dapprima a Grassano, poi è stato trasferito a Gagliano e proprio in questa seconda località si svolgono la maggior parte dei fatti.
È un libro ricco di personaggi e ricco di socialità. Proprio questa fitta rete di personaggi permette di addentrarsi nel mondo di Gagliano. Il primo personaggio in cui ci si imbatte è il professor Magalone Luigi, maestro delle scuole elementari ma soprattutto sorvegliante dei confinati del paese. È il podestà di Gagliano, è il principale punto di riferimento fascista della narrazione, è colui che fa da tramite tra i monti sperduti della Lucania e la Prefettura di Matera. Poi, in rapida successione vengono presentati i due “medici” (le virgolette sono obbligatorie considerando le loro competenze scientifiche): il vecchio dottor Milillo e il dottor Gibilisco. Entrambi percepiscono l’arrivo dell’io narrante come una minaccia per il loro monopolio del sapere in ambito medico/scientifico. Interessante la concezione del proprio ruolo da parte del dottor Gibilisco. Per lui l’arte medica non è che un diritto, un diritto feudale di vita e di morte sui cafoni. Non pago ha sistemato le proprie figlie nell’unica farmacia del paese in modo tale da rendere ancor più evidente il monopolio. Ma come rileva l’io narrante «i contadini sono ostinati e diffidenti. Non vanno dal medico, non vanno alla farmacia, non riconoscono il diritto. E la malaria, giustamente, li ammazza». Inoltre, sulla piazza di Gagliano vengono presentati i cosiddetti “signori” del paese, i quali colpiscono l’attenzione per il tono generale di astio, disprezzo e diffidenza reciproca nelle loro conversazioni. La guerra dei “signori” si trova nelle stesse forme in tutti i paesi della Lucania. Tutti i giovani di qualche valore e quelli appena capaci di fare la propria strada lasciano il paese (ciò avviene ancora oggi con la tanto analizzata “fuga dei cervelli”), dove ci restano gli scarti, coloro che non sanno far nulla, i difettosi nel corpo, gli inetti, gli oziosi, i quali vengono resi malvagi dalla noia e dall’avidità. Questa classe degenerata deve per vivere dominare i contadini e assicurarsi i ruoli remunerati del paese, come quelli di maestro, farmacista, maresciallo dei carabinieri, prete. In realtà, il prete di Gagliano è un personaggio del tutto sui generis: si chiama don Giuseppe Trajella, è finito per punizione a reggere questa parrocchia ed è del tutto avverso alla comunità. Vive in uno stato di semiabbandono fisico e cognitivo, sebbene in passato abbia avuto esperienze di studio e di vita importanti. L’io narrante dice che «doveva essere stato un uomo buono, intelligente, pieno di spirito e di risorse. Scriveva vite di santi, dipingeva, scolpiva, si occupava vivacemente delle cose del mondo». A Gagliano è invece diventato un relitto posto su una spiaggia inospitale. In questo universo prettamente maschile spicca una donna sopra tutte le altre: donna Caterina Magalone Cuscianna, sorella del podestà, la vera padrona del paese, molto più acuta intellettivamente del fratello; sapeva di poter fare su di lui qualsiasi cosa pur di lasciargli l’apparenza dell’autorità. Tra l’altro, in quel dato periodo era senza il marito perché era l’unico volontario di Gagliano per la guerra in Africa, perciò donna Caterina era moglie di un eroe. Per donna Caterina l’arrivo dell’io narrante in paese è una benedizione perché attraverso le sue competenze mediche avrebbe potuto finalmente rovinare il dottor Gibilisco e il suo monopolio medico; in effetti, il dottor Gibilisco è una severa minaccia per l’onore della sorella del podestà perché una delle sue figlie farmaciste se la intendeva un po’ troppo con suo marito e la gente mormorava eccessivamente su questo disdicevole fatto.
Nella fitta rete di personaggi un ruolo meno distinto ma non meno importante lo hanno i contadini, coloro che non si possono sentire cristiani per le condizioni nelle quali sono perpetuamente costretti a vivere da secoli. Per loro «c’è la grandine, le frane, la siccità, la malaria, e c’è lo Stato. Sono dei mali inevitabili, ci sono sempre stati e ci saranno sempre. Per i contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall’altra parte. Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono, perché è un altro linguaggio dal loro, e non c’è davvero nessuna ragione perché li vogliano capire». La massa dei contadini è ricca di persone che hanno provato a coltivare il “sogno americano”, hanno attraversato l’oceano, sono arrivati negli States e lì hanno vissuto come avevano sempre fatto nella loro Lucania, ovvero lavorando la terra quanto più possibile. Poi, sono stati attratti dal ritorno, magari forti del gruzzolo accumulato, dalle condizioni favorevoli decantate in Italia. Tempo un anno e si sono ritrovati nelle medesime condizioni di quando erano fuggiti, riavvolti nella medesima condizione di perdizione, di smarrimento anche di Cristo. Una condizione alla quale sei destinato fin da infante. I bambini che l’io narrante incontra per le vie del paese «avevano qualcosa dell’animale e qualcosa dell’uomo adulto, come se, con la nascita, avessero raccolto già pronto un fardello di pazienza e di oscura consapevolezza del dolore. I loro giochi non erano i soliti dei bambini del popolo delle città. Erano chiusi, sapevano tacere, e, sotto l’ingenuità infantile, c’era l’impermeabilità del contadino, sdegnosa di impossibili conforti, il pudore contadino, che difende almeno l’anima in un mondo desolato». L’unica capacità di espressione utile per i contadini era l’arte, non avevano potuto farlo con il diritto e con la violenza, quindi provavano con l’usanza di recitare una loro commedia improvvisata per esprimere il loro sdegno. In una tragedia senza teatro come la loro vita questi residui di arte antica e popolare erano un loro moto spontaneo di rinascita.
Come si può intuire dalla pratica paramedica proposta dal dottor Milillo e dal dottor Gibilisco, il mondo di Gagliano e più in generale della Lucania è popolato da leggende, miti, riti, false conoscenze. Un mondo selvaggio, quasi primitivo, lontano anni luce dalla civiltà novecentesca. Un mondo stregonesco, tanto che Giulia, domestica che si occuperà della casa dell’io narrante per alcuni mesi del soggiorno, è a tutti gli effetti etichettata come una strega. Rispetto alle credenze diffuse un esempio vale per tutti. L’aria, a detta di chi viveva quelle terre deserte e tra quelle capanne, era piena di spiriti, alcuni maligni e bizzarri come i “monachicchi”. Si narra infatti che al crepuscolo, in ogni casa, scendono dal cielo tre angioli, uno si mette sulla porta, uno viene alla tavola e il terzo a capo del letto. Guardano la casa e la difendono; e così né i lupi né gli spiriti cattivi ci possono entrare per tutta la notte. In questa realtà che si fonda sulla credenza non è un caso che alla metà di settembre nella domenica della Madonna a Gagliano vengano spesi tremila lire, ovvero il risparmio totale di mezza annata, per i fuochi d’artificio. Nessuno rimpiange questa spesa, tanto che per l’occasione si consultano gli artificieri più noti della provincia. I fuochi d’artificio con la loro duplice natura, tra colore e suono, sono emblemi ancestrali, si legano indissolubilmente a dati e a motivi della discendenza o della tradizione sentiti come reconditi o inspiegabili. Fanno uscire dal tempo e dallo spazio, proprio come ha vissuto l’io narrante in una realtà sotterranea durante il suo confino, in una realtà mai toccata nemmeno da Cristo.
Indicazioni utili
Un tormento che non conosce oblio
Come scrive la curatrice dell’edizione di Utopia del romanzo di Grazia Deledda intitolato Elias Portolu, «chiunque abbia desiderato ciò che non si può desiderare, e amato una persona che non si può amare, conosce il tormento di Elias Portolu». La grandezza dell’autrice sarda, premio Nobel per la letteratura nel 1926, sta nel rendere questo tormento nitido e potente come tutte le emozioni universali anche a distanza di un secolo. Il romanzo è del 1903, appena successivo a Cenere, e come Cenere risente ancora di una certa ridondanza stilistica e soprattutto in alcuni passaggi appare stucchevole il continuo parallelismo tra i protagonisti umani e il mondo animale, soprattutto quello dei pennuti (colombi e uccelli sono costanti termini di paragone). Dal punto di vista della pulizia di scrittura, in Elias Portolu siamo ancora lontani dal capolavoro di Canne al vento. Però, proprio come Cenere, è un libro nel quale le passioni divampano e la Deledda è un’abile pittrice in grado di mettere su tela le innumerevoli sfaccettature emotive del protagonista. Ne esce un lavoro davvero pregevole in grado di suscitare una certa vicinanza nei confronti di Elias, il cui dramma muove le fila del discorso. Eppure il lettore incontra Elias nel momento in cui sembra essersi salvato dalla disgrazia peggiore in assoluto: è appena stato scarcerato e torna nella sua Nuoro, in Sardegna, dopo aver scontato la pena in continente. Né il luogo della prigionia né i motivi della condanna sono esplicitati, restano piuttosto nebulosi perché l’intento dell’autrice non è quello di disvelarli. Elias torna nelle primissime pagine del primo capitolo (il romanzo ne conta dieci) e viene accolto dai familiari e dalla comunità nuorese con una frase che riletta al termine della narrazione stride enormemente; la frase in questione è «un’altra disgrazia simile fra cento anni». Come detto, la disavventura di Elias sembra finita, invece siamo soltanto all’inizio di un’ancor più ardua lotta contro se stesso.
La fotografia iniziale è molto semplice: Elias è figlio di zia Annedda e di zio Berte, ha due fratelli (Pietro il maggiore, contadino, e Mattia, pastore come il padre e lo stesso Elias) e vive a Nuoro. Al suo ritorno dal penitenziario in continente, è un ragazzo nuovo: non è più il ragazzo incauto che si era lasciato corrompere da amici e sconsiderati; ha riscoperto sé e anche il suo modo di presentarsi richiama alle tonalità chiare del candore, ben lontane da quelle ruvide, aspre e scure dei suoi fratelli e di suo padre, costretti alle fatiche della campagna. A rompere l’equilibrio che sembrava ritrovato ci pensa Maria Maddalena, promessa in sposa a Pietro. È stata consegnata da sua madre, vedova, a zio Berte Portolu che in cambio ha giurato massima protezione della figlia. Il matrimonio che ne scaturisce tra Pietro e Maria Maddalena è il classico matrimonio senza amore, mentre la scintilla amorosa scatta come un colpo di fulmine tra Elias e la ragazza. «Io mi sono innamorato di lei; perché me ne sono innamorato San Francesco mio?»: questa è la domanda che si pone Elias. Il protagonista è molto devoto a San Francesco, crede in Dio ed è atterrito dal demonio. Con l’ingresso di Maria Maddalena è il furor più che la ratio a dominare la scena, c’è la tentazione al massimo grado. La ragazza non può essere di Elias perché è già di suo fratello Pietro, eppure alla passione non si comanda ed ecco che comincia il calvario personale del protagonista, ancor più insidioso e profondo della carcerazione perché è a spirale e sembra continuare in eterno. La ricaduta è la parola chiave e ogni ricaduta si ripresenta diversa ma ugualmente divampante. E in una simile condizione non c’è voto che tenga («Pietro, fratello mio, anche se ella venisse a gettarmisi fra le braccia, io la respingerei»: il voto verrà contraddetto dallo scorrere della narrazione).
In questa discesa Elias Portolu cerca di ricevere consiglio da due persone agli antipodi: prete Porcheddu e zio Martinu, padre della selva, paragonato a un cinghiale per il suo sguardo. Ciò che ne ricava sono due pareri naturalmente opposti: da una parte l’ecclesiastico invita il protagonista a combattere le tentazioni, dall’altra zio Martinu invita alla confessione del suo amore perché «la tentazione si vince oggi, si vince domani, ma posdomani finisce col vincere lei». Zio Martinu pronuncia una frase che poi diventerà cardine nel pensiero della Deledda: «Uomini siamo, Elias, uomini fragili come canne». Il padre della selva, uomo che si è macchiato dei peggiori crimini ma ha avuto la forza di redimersi, non viene ascoltato da Elias e il rifuggire dalla tentazione al protagonista riesce ma, come pronosticato, non in eterno, sebbene ricerchi delle soluzioni che all’apparenza possono rimandare all’eternità; infatti, Elias in più circostanze dice di volersi fare prete perché, come detto, crede in Dio e perché vuole «vincere le tentazioni del mondo». La sua motivazione è per lungo tempo scarsa: vuole farsi prete per sé, non per gli altri, vuole farsi prete perché sentiva un ribelle desiderio di vita comoda, un bisogno di tregua, vedeva il suo unico scampo nel cambiare stato e zio Martinu lo ammonisce con parole inequivocabili, dicendogli che è «meglio essere uomo del mondo abile del bene, che uomo del Signore portato al male». Ma quello di Elias è un tira e molla tormentoso. Alla fine, il furor farà il suo corso e, durante i festeggiamenti carnevaleschi in maschera, il protagonista si troverà a ballare con Maria Maddalena in un concentrato di desideri folli animati dalla passione per la ragazza, dalla pietà per il fratello, dalla paura per le sue debolezze carnali, dal dolore inflitto alla sua famiglia per il tradimento e dal piacere per quel contatto con il corpo dell’amata. Al termine del sesto capitolo Elias cederà definitivamente alla tentazione: «Egli entrò e chiuse l’uscio: ed ella, che avrebbe potuto gridare e salvarsi, tacque e non si mosse». Il resto viene da sé, non servono altre parole e per questo la narratrice tronca il discorso con una forte ellissi. Nonostante il concretizzarsi del primo rapporto extraconiugale, quasi incestuoso, il tira e molla in Elias non si dirada, anzi se possibile si accentua tra tentativi di fuga dalla realtà (ritorna l’idea di farsi prete) e nuove cadute. Il nuovo colpo di scena al termine del settimo capitolo: Maria Maddalena è incinta non del violento marito Pietro, bensì dell’amante, di Elias.
È una notizia capovolgente per Elias: l’incendio della passione sembra smorzarsi, non può essere padre ma può avere un ruolo privilegiato da zio e decide davvero di farsi prete, seguendo i consigli di prete Porcheddu. Il nono capitolo si apre con un’altra ellissi, temporalmente forte: sono infatti trascorsi due anni e ormai nessuno si sorprende più nel vedere Elias Portolu con i panni del seminarista. Eppure, in fondo al cuore del giovane ecclesiastico il fuoco non si è spento e i fatti lo confermano. Pietro si ammala e muore, il primo pensiero di Elias è «se morrà, io potrò sposare Maddalena», un pensiero che poco si addice a un seminarista e a una persona in procinto di perdere il fratello. Lo sa anche lui che resterà sempre uomo e soggetto alle passioni: «no, la salvezza non è negli ostacoli fra noi ed il peccato, ma nella forza nostra e nella nostra volontà». E la benzina a rendere ancor più ardente il falò del furor è la gelosia, che subentra sul finire dell’opera quando in casa Portolu, dopo la morte di Pietro, subentra Jacu Farre, possessore di armenti, terre, cavalli e alveari; è lui che si mette a caccia di Maria Maddalena, è lui che si pone a protezione del figlio di Maria Maddalena (ed Elias). Il protagonista potrebbe ancora una volta, per l’ultima volta, invertire la sua storia, invece riceve gli ordini sacerdotali e rinuncia definitivamente a Maddalena e a suo figlio. Ci rinuncia nei fatti, non nei pensieri e non riesce ad accettare la vicinanza di Jacu Farre al suo bambino. Anche il pargolo si ammala e solo nel momento in cui muore prete Elias Portolu può avvicinarsi e stare solo con la creatura, nessuno più può toglierglielo, nessuno più può mettersi fra loro. E sul suo infinito accoramento sentiva calare un «tenue velo di pace e quasi di gioia perché l’anima sua si trovava finalmente sola, purificata dal dolore, sola e libera da ogni umana passione, davanti al Signore grande e misericordioso». La morte del figlioletto mai riconosciuto è il simbolo della redenzione umana, il cui tormento non conosce l’oblio nemmeno a cent’anni di distanza.
Indicazioni utili
Tensione, sospetto, cose non dette
Il diavolo sulle colline è uno dei romanzi di Cesare Pavese che ho più apprezzato, lo pongo alla pari de La luna e i falò, assoluto capolavoro della narrativa dell’autore piemontese. Il diavolo sulle colline è stato finito nell’ottobre 1948 ed è un libro ricco di tensione, sospetto e cose non dette. Insomma, c’è tutto Pavese. Dialoghi allusivi, mai limpidi e lineari, molto franti, spezzati e ondivaghi. La notte domina sul giorno, soprattutto all’inizio del romanzo. Dalla Torino notturna si passa alle colline, dalla città si passa alla campagna. Non mancano i riferimenti all’opposizione tra mondo contadino e mondo borghese. E poi, a differenza di molti altri romanzi di Pavese, si percepisce un pathos narrativo che frizza e lascia scorrere la pagina. Il romanzo è breve (nell’edizione letta 124 pagine) ma la spartizione in capitoli è incessante: ce ne sono ben trenta per una media di quattro pagine per capitolo. Tutto questo aiuta la lettura. Pavese non è facile da leggere e capitoli troppo lunghi rischiano di essere difficilmente decifrabili: ogni aspetto di un libro di Pavese ha bisogno del suo spazio distinto dal resto.
Come detto, c’è pathos narrativo perché la trama è più forte che in quasi tutti gli altri romanzi di Pavese. Sono tre i protagonisti, tre ragazzi: colui che narra in prima persona, Pieretto e Oreste. Sono tre universitari: il protagonista e Pieretto studiano legge, Oreste medicina; quest’ultimo è figlio delle campagne ma sogna di diventare medico. Nella vicenda si inserisce prepotentemente un altro ragazzo: il Poli. È lui il motore della vicenda. Viene incontrato in una delle tante notti vissute in giro per Torino dai tre amici. È un Poli confuso, quasi fuori dal mondo che viene riportato nella realtà da un urlo ferino, bestiale, quindi inumano. Poli fa uso di sostanze, eppure viene da un’agiata famiglia. La sua infanzia e la sua adolescenza lo segneranno per sempre. Serve e governanti, che gli hanno ronzato intorno fino ai tredici e ai quattordici anni, l’hanno educato a «ogni sorta di sciocchezza, di cui la principale era che ricchi si nasce e ch’era giusto che le donne facessero la riverenza alla mamma». Proprio per questa ragione una serva se l’era preso nel letto non ancora dodicenne e gli aveva succhiato il midollo per mesi, poi non contenta lo portava dentro il bosco e ci giocavano a pigliarsi, tanto che lo stesso Poli divenne libertino ancor prima di essere uomo. Per lui la vita fu ben presto sonniferi da rubare alla madre per darsi alla droga, masticare tabacco, schiaffeggiare le serve per avere il pretesto di abbracciarle e farsi stringere. E sono proprio le donne che si intrecciano alla storia di Poli a far procedere la vicenda del protagonista, di Pieretto e di Oreste.
Le due donne che legano il proprio nome a Poli sono Rosalba e Gabriella. Rosalba è il vizio, è la pazzia, è l’amante. Poli entra in scena nelle notti di Torino con Rosalba, ma la storia finisce malissimo: Rosalba spara a Poli che resta moribondo dopo aver preso una pallottola in un fianco, sfiorando il polmone. La loro è un’avventura losca, illogica, anche perché Poli ha una moglie: Gabriella. L’incontro con il protagonista, Oreste e Pieretto appare come una liberazione per Poli, che di colpo si risveglia dal torpore, si scuote dalle droghe e ritorna al Greppo. Ad aspettarlo, come sempre, c’è Gabriella che, nonostante tutto, vuole bene a Poli. Non lo abbandona, sebbene possa concedersi anche ad altri nel contesto del Greppo (vedi Oreste). Tuttavia, l’amore, quello vero e puro, non si dimentica nemmeno nelle difficoltà altrui e Gabriella lo dimostra.
Poli, il diavolo, nelle sue fragilità e nei suoi annebbiamenti dovuti alla droga e all’alcol non manca di parlare di Dio. «Io chiamo Dio l’assoluta libertà e certezza. Non mi chiedo se Dio esiste: mi basta esser libero, certo e felice, come Lui. E per arrivarci, per essere Dio, basta che un uomo tocchi il fondo, si conosca fino in fondo» riferisce Poli. E Poli, un po’ come Pavese, il fondo l’ha toccato. È tisico, scopriamo in fondo che sputa sangue, può apparire pazzo ma era un uomo malinconico, solo, di quelli che a forza di pensarci sanno già prima quel che gli deve toccare. Ma ha un vantaggio rispetto a molti altri: ha comunque Gabriella al suo fianco, anche nell’inverno della vita. A un certo punto il protagonista, al volgere dell’estate, si fa nostalgico: «Che cos’è questa villa nelle sere d’inverno? Mi prese una pena improvvisa, uno sconforto, all’idea che l’estate sul Greppo, l’amore di Oreste, quelle parole e quei silenzi, e noi stessi, tutto sarebbe passato, tra poco, finito». È vero quell’estate stava andando in archivio, così come l’avventura del protagonista, di Pieretto e Oreste al Greppo, le luci della festa si stavano spegnendo. Eppure Gabriella sarebbe rimasta al Greppo con il suo Poli.
Come ne La luna e i falò è forte la componente delle radici, quelle che ci legano inevitabilmente a un luogo del mondo. Ognuno di noi affonda la propria identità in una determinata realtà e questa resterà per sempre. Memorabile, in tal senso, è l’incipit de La luna e i falò, una delle pagine più vere ed emozionanti della nostra letteratura. Ne Il diavolo sulle colline si parla di origini grazie a Oreste, nel momento in cui il protagonista e Pieretto decidono di andare proprio nelle terre natie di Oreste durante l’estate. «Per Oreste erano luoghi familiari, c’era nato e cresciuto, dovevano dirgli chi sa che. Pensai quanti luoghi ci sono nel mondo che appartengono così a qualcuno, che qualcuno ha nel sangue e nessuno altro li sa» afferma la voce narrante. Poi, dai luoghi di Oreste si passa a quelli del Greppo, quindi a quelli di Poli. E l’analisi prosegue. «Penso sempre – dice il protagonista – che vederti in questo luogo dove sei stato bambino, deve farti un certo senso. Per te, qui tutto deve avere una voce, una vita sua... Questo misto di abbandono e di radici, non è semplice campagna, è qualcosa di più».
Indicazioni utili
Il ventaglio della geometria familiare
Il titolo del libro di Dacia Maraini indica un luogo ben preciso: il secondo comune più popoloso della città metropolitana di Palermo. È un luogo molto connotato per l’autrice: è il primo in cui ha vissuto una volta tornata dal campo di concentramento in Giappone insieme alla sua famiglia. Era ancora una bambina e ci ritorna a distanza di anni, quando tutto o quasi è cambiato a Bagheria e nel suo animo. Penso che questo scritto di Maraini sia propedeutico alla lettura del suo romanzo più famoso: La lunga vita di Marianna Ucria. È proprio un grande ritratto di Marianna Ucria nella villa della famiglia materna della celebre scrittrice a chiudere lo scritto. Marianna è stata una sua ava del Settecento e scrive che era come se aspettasse da anni di trovarsi «faccia a faccia con questa donna morta da secoli, che tiene fra le dita un foglietto in cui è scritta una parte sconosciuta e persa del mio passato bagariota». Per poi immergersi nelle dense e fitte pagine del romanzo è utile questo primo incontro all’interno di un libro che è un insieme disordinato di memorie in cui i personaggi si susseguono, ognuno con le sue peculiarità, tra sogni, rimpianti, fughe, rapporti irrisolti.
Non mancano le denunce sociali. Le donne sono le “sacrificate” alla legge dell’onore in una società baronale che tutto sa ma finge di non vedere. Le memorie della scrittrice riguardano soprattutto la famiglia materna, nobile casata della Bagheria dei secoli d’oro così radicata in quel paesaggio fatto di palazzi baronali. Un paio di annotazioni interessanti riguardo al possesso maschile sulle figure femminili. «La figlia non poteva negarsi – scrive Maraini –. Neanche quando il padre carnale si sostituiva al marito. L’abuso veniva criticato ma nessuno avrebbe osato intervenire nel rapporto di autorità fra un padre e una figlia che è antichissimo e che, fra tutti gli usi, è uno dei più duri a morire». L’autrice riporta alcuni episodi che possono essere catalogati come “molestie sessuali”. Sono episodi che la riguardano in prima persona e vengono rianalizzati a distanza di decenni. «Era un amico di famiglia che ha approfittato di un momento in cui eravamo rimasti soli, per aprirsi i pantaloni e mettermi in mano il suo sesso. Io l’ho guardato con curiosità, per niente spaventata. Eravamo a Bagheria, e io avevo una decina d’anni... Chissà che scegliendo di dire pene non si volesse insinuare che il portatore di pene è anche un portatore di pena. Ma questo è un azzardo linguistico». «Un prete, un giorno, mi ha stretto forte a sé e mi ha dato un bacio frettoloso sulla bocca. Ho fatto fatica a sbrogliare la matassa della fede e della moralità, dopo quella volta».
Prima di risalire fino a Marianna Ucria si parla di nonna Sonia, di nonno Enrico, di zia Orietta e di zio Gianni e ancora ci sono zia Saretta e zia Felicita. Una grande epopea familiare che si è sviluppata in una Bagheria che è stata usurpata, rovinata, sventrata. È questa l’altra denuncia sociale che rende il libro memoria di Maraini interessante. Ci si chiede perché un posto incantato, in grado di ammagliare fenici e greci, sia stato deturpato a tal punto da renderlo irriconoscibile. Le straordinarie ville settecentesche di Bagheria, quelle di Marianna Ucria, che sono tra le più preziose dell’intera Sicilia, sono state private dei loro contorni, rimanendo lì, in mezzo alle case, «come testimoni intirizziti e malmenati di un passato che si ha fretta di distruggere». E chi ha contribuito alla distruzione? La politica. Si fa il nome dell’ingegner Giammanco, uno che «ha volutamente ignorato gli strumenti di legge che erano predisposti nel tempo, ha favorito la speculazione privata, ha dato un eclatante esempio di malcostume politico e di corruzione»; però, nel 1973 è stato prosciolto dalle accuse di interessi privati in atti di ufficio e di falsità ideologica per amnistia e per insufficienza di prove. A collaborare insieme alla politica, sempre latente ma così potente in quegli anni di costruzioni di massa, era presente la mafia di cui Maraini dice che non se ne parlava mai, «tutti sapevano che esisteva una forza maligna capace di imporre la sua volontà col coltello e il fucile. Ma chi stringesse quel coltello e chi imbracciasse quel fucile era difficile dirlo. D’altronde, per chi lo sapeva, era meglio fare finta di non averlo mai saputo».
Nonostante le denunce sociali, Bagheria di Maraini è innanzitutto il racconto infantilmente intenso di chi vive la scoperta delle proprie origini e di chi scopre nonni, zii, bisnonni e bisnonne tutte persone miti e pacifiche che avevano la tendenza a maritarsi con donne e uomini dal temperamento autoritario che finivano per metterli sotto i piedi e loro erano costretti a fuggire nei sogni. Ecco perché la conclusione di questo scritto non può che essere dedicata a una considerazione sulla strana geometria familiare che contraddistingue le nostre esistenze. Ha ragione Maraini: la geometria familiare si apre tutta verso il passato come un ventaglio, «due genitori, quattro nonni, otto bisnonni e così via» e alle volte è priva di futuro, come nel caso della stessa autrice che ha perso il suo unico figlio appena prima di darlo alla luce. E proprio per questo ha deciso che «a portare nel futuro qualcosa di me saranno i miei personaggi figli e figlie dai piedi robusti, adatti, a lunghe camminate».
«Tutto si accomoda, volendo»
Un variopinto mondo viene descritto tra una storiella di paese e l’altra dall’ultimo Piero Chiara. Il contesto è quello del lago Maggiore, quello più congeniale allo scrittore di Luino. Ci si muove tra la provincia di Varese, quella di Novara e la vicina Svizzera. L’arco temporale è piuttosto ampio perché si parla di un periodo compreso tra l’ultima età fascista e gli anni successivi al miracolo economico italiano. La narrazione è in prima persona e a parlare è il signor Giuseppe Cuniberti, attento osservatore della vita della sua provincia. Egli stesso affermava di essersi «solo divertito moderatamente, con le donne come con le carte e anche con i libri, per ingannare il tempo e per riuscire a sopportare la noia della vita di provincia». Cuniberti è abbastanza ricco da non poter lavorare e attraverso una narrazione aneddotica ricostruisce alcuni fatti che ha vissuto direttamente sulla sua pelle e ne illustra altri che gli sono stati raccontati da terze persone. Il Cuniberti è il prototipo del dongiovanni. L’atmosfera di ciascuno dei sedici racconti è gradevole e domina senz’ombra di dubbio la leggerezza, anche se poi alcuni fatti hanno comportato dei problemi alla folla di personaggi che popolano i brevi racconti di Chiara. Lo scrittore di Luino riesce ad alternare nel migliore dei modi l’aneddoto malizioso e il piccante scorcio di costume, riesce a equilibrare al meglio le due componenti e ne guadagna l’autentica umanità dei personaggi. Inoltre, ne esce un bel affresco di un’Italia sempre vitale nei diversi decenni presi in esame. Lo stile proposto da Chiara è per lo più colloquiale e la pagina scorre via veloce.
Nel racconto Alla luce delle stelle emerge bene il tema della fuga di molti italiani del Nord Italia nella vicina Svizzera durante gli anni più cruenti della dittatura fascista e durante i feroci scontri della Seconda guerra mondiale, tanto che l’ultimo racconto (Trenk, il mansueto) restituisce uno splendido spaccato dell’estate 1942 che viene definita «sospesa fuori dalla realtà e addirittura fuori dal tempo, durante la quale il popolo italiano, abbandonato a un’ultima vacanza, parve dimentico di se stesso e indifferente al proprio destino». La confederazione elvetica viene descritta con queste parole: «La Svizzera era un’isola circondata dalle fiamme, dentro la quale vivevano milioni di uomini liberi e decine di migliaia di profughi militari e civili». In Come se la cavò Cavalcalovo l’autore definisce bene le cronache quotidiane della via di provincia, le quali ispirano ciascuno dei sedici racconti della raccolta. Si legge: «Ma il tempo, la noia della vita di provincia e i veleni che nei paesi si nascondono dentro i più quieti recessi, cominciarono presto a sfumare i contorni dell’immagine che il Cavalcalovo aveva presentato al suo arrivo». È il pettegolezzo che muove i fili, anche perché nella maggior parte dei casi il tema centrale dell’aneddoto è il tradimento o l’avventura amorosa proibitiva (come quando il Cuniberti si innamora di una liceale o come quando allaccia una relazione con la moglie del capostazione). Essendo il pettegolezzo così preponderante, è interessante analizzare anche la portata di quello che si è venuto a sapere da terze persone perché, come spesso accade, tanti fatti vengono travisati, ingigantiti, modificati. Scorrono così le figure umane che svaniscono dopo poche pagine nell’aria, perché in fondo nella nostra esistenza sfioriamo, viventi o trapassati, cogliendone solo un nome, un gesto, un aspetto, vero o falso, dell’esser loro. E poi tanti personaggi danno proprio l’idea di vite sprecate, quasi gettate al vento («Martiri di nessuna fede, ombre che sono passate senza lasciare un segno»).
I pretesti da cui prendono avvio le narrazioni sono dei più svariati; il più singolare riguarda il racconto Che tempi, che fichi, nel quale il pretesto è proprio il fico che, come scrive Chiara, dalla Persia alle Canarie «è presente in tutta la zona nella quale si è svolta la civiltà umana». «Il fico ancora occhieggia e si fa presente, individuo ben caratterizzato che in bene o in male ha sempre fatto la sua parte tra i vegetali e tra gli uomini» conclude lo scrittore. Direi che alla fine, una delle morali che emerge da questa simpatica carrellata di aneddoti è che «tutto si accomoda, volendo», perché tutto può essere più forte del pettegolezzo.
Indicazioni utili
Caterina, un’occasione compresa tardi
Una spina nel cuore è un godibile romanzo di intrattenimento che perfettamente incarna lo spirito letterario di Piero Chiara. L’ambientazione è quella classica per l’autore di Luino: sponde lombarde del lago Maggiore. La vicenda prende avvio nel 1933 e siamo quindi in piena epoca fascista. Il protagonista è un inconcludente signore di mezza età che ha trascorso la sua esistenza a cercare l’occasione buona ma non l’hai mai realmente trovata. Un’opportunità di salvezza, una vera e propria ancora viene rappresentata da una giovane ragazza di nome Caterina, la quale ha avuto un’infanzia complicata e contraddistinta dalla prematura scomparsa dei suoi genitori. È un’orfana, indifesa, senza vere amiche, che si imbatte in una storia amorosa piuttosto complicata con il ricco Ruggero Dionisotti; da lui viene disorientata e poi lasciata in un deserto, a brancolare tra le insidie di un difficile cammino, esposta agli agguati dei predoni. Proprio nel momento della rottura del rapporto tra Dionisotti e Caterina si inserisce il protagonista, che in qualche modo “accudisce” la ragazza nel momento della perdizione. Ne nasce una relazione, la cui portata viene compresa dal protagonista soltanto quando si affievolisce, fino a scomparire. Da quel momento Caterina diventa una spina nel cuore.
Inquadra bene il protagonista la seguente considerazione iniziale: «Tornavo dopo pochi mesi, convinto di aver sbagliato strada e senza rendermi conto che se nessun posto mi andava bene, era perché non andavo bene per nessun posto». La narrazione, come si può intuire, è in prima persona e da queste semplici parole si nota tutto lo smarrimento del protagonista, inchiodato ai tavoli da gioco del locale Metropole nel centro del paesino nel quale è nato e cresciuto. Caterina è una possibilità, ma mentre si palesa non viene considerata tale. Come detto, soltanto quando si allontana e quando il protagonista viene a sapere che nella vita sentimentale e sessuale di Caterina non c’è stato soltanto il Dionisotti ma molti altri uomini (dallo storpio Tibiletti, che diventerà effettivamente suo marito, fino al dottor Trigona, passando per le passeggiate con l’Orlando e le relative avventure, per lo scambio di mano al numero nove con lo Sberzi, per le serate in casa Vecchioni con gli amici di Teresita), la portata di Caterina viene compresa perché «l’uomo innamorato, e peggio ingelosito, è destinato a dar nei muri con la testa, al pari d’un cieco quando inferocisce». Il protagonista non si accontenta di sapere, vuole i dettagli di tutto quello che Caterina ha fatto e continua a fare con i tanti spasimanti, perciò li ricerca dalle amiche della ragazza (Teresita e Adelaide). E ogni tassello che si inserisce nel suo mosaico infittisce il dolore della spina conficcata nel cuore. Proprio in questa reazione risiede la netta differenza che intercorre tra il protagonista e il Tibiletti, sfortunato motociclista che a causa di innumerevoli incidenti si è sfigurato il volto ed è diventato zoppo. Il Tibiletti vuole un gran bene a Caterina, accetta quello che la ragazza fa con gli altri uomini. Il suo cuore non viene punto ma si allarga perché vuole accogliere il mondo intero, a partire da Caterina. Il destino vorrà che in un incidente stradale morirà insieme alla moglie quattro mesi dopo il matrimonio. Nel frattempo il protagonista aveva già cercato di cambiare pagina nella sua storia personale. Aveva accettato un nuovo incarico nell’Est Italia e apparentemente aveva trovato una nuova strada. La notizia, ricevuta postuma, della scomparsa di Caterina, segna la chiusura del romanzo e tutto finisce «al punto di partenza, d’ogni bene e d’ogni male» che era toccato al protagonista e che ancora poteva toccarlo.
Indicazioni utili
Mamma Agnese, l’infaticabile
Che cos’è l’Agnese? Questa è la domanda che pone al termine della propria introduzione al volume L’Agnese va a morire di Renata Viganò lo scrittore e saggista Sebastiano Vassalli. Egli aggiunge: «Ebbene, che a questa domanda ognuno cerchi di rispondere come può e come vuole». Personalmente ho provato a farlo.
Innanzitutto l’Agnese di Renata Viganò è uno dei personaggi femminili meglio riusciti della nostra letteratura resistenziale. È un personaggio che prende forma da una donna realmente esistita e realmente conosciuta dalla Vigano, come racconta la stessa autrice nell’articolo La storia di Agnese non è una fantasia, apparso su «l’Unità» nel novembre 1949, poche settimane dopo la pubblicazione del romanzo. Questo aspetto dona maggiore forza alla protagonista indiscussa del volume. Nella Resistenza Agnese nasce staffettista ma diventa con l’incedere della narrazione il centro focale della lotta nelle valli del Comacchio e nella Romagna, tanto da essere responsabilizzata nella propria azione. Penso che l’aggettivo che meglio la personifichi sia infaticabile. È uno straordinario esempio di persona che non conosce la fatica e si adopera ogni qualvolta bisogna farlo. Si impegna senza porre troppe domande perché è donna del fare e dell’agire, non del pensare («io non capisco niente ma quello che c’è da fare, si fa»); del resto, risponde sempre «se sono buona». E lei è buona a fare tante cose ed è soprattutto preziosa perché non si tira mai indietro. Assolve completamente gli oneri del partito, è compagna a tutti gli effetti. Nasce in lei questa esigenza così impellente di mettersi al servizio dei partigiani nel momento in cui le forze nazifasciste catturano suo marito Palita, lo deportano e lo fanno morire di stenti su uno di quei tanti treni verso la Germania. Palita è già lettera morta e riecheggia per tutto il romanzo come un ricordo del passato, di quel periodo antecedente lo scoppio della guerra civile in Italia. Lo sradicamento da casa di Palita rende più evidente l’odio di Agnese verso il nazismo e il fascismo e la spingono a occuparsi di quelle cose di partito che prima di allora erano state di competenza del defunto marito. Il fatto che la costringe a darsi alla macchia è presto trovato: il soldato tedesco Kurt, per giocare, spara al suo gatto nero e lo uccide, lei per vendicarsi uccide lo stesso militare e si dà alla fuga (qui termina la prima di tre parti).
Come aiutare i compagni? Agnese sceglie l’unica via che conosce, quella del lavoro. Prende ordini e svolge ordini, ignara del pericolo. Ha anche una profonda riverenza nei confronti dell’autorità: la parola del Comandante di brigata è una fonte alla quale non può mai venire meno; avere la sua approvazione è benzina nelle membra stanche e provate di Agnese, mentre subire un rimprovero è motivo di profonda delusione (le succederà una sola volta nel finale del romanzo quando sarà costretta a lasciare la base dove si era stabilita per lungo tempo a causa di un aiuto improprio offerto ai pochi compagni della brigata sopravvissuti a una fuga disastrosa). Se la prima fase della sua vita, quella antecedente l’uccisione del soldato tedesco, era stata la più semplice, la più lunga (quasi cinquant’anni), la più comprensibile (con il marito Palita al fianco), la seconda era inevitabilmente la più breve perché era consapevole «che questa vita non era fatta per durare». Non lo era nel piccolo villaggio nascosto tra le canne della valle, dove si era stabilita in un primo momento insieme alla brigata, e non lo sarebbe stata nemmeno dopo a casa di Walter o in un’altra abitazione sulla strada provinciale, a stretto contatto con i nazisti, o ancora da Magon. Era la precarietà la nuova certezza della sua esistenza da combattere con l’abitudine della sua attività da staffettista e da donna di casa per l’intera brigata. Non è un caso che assumerà per tutti il soprannome di «Mamma Agnese», anche se lei madre non lo è mai diventata. Forse, anche per questo, è una mamma severa e dura; in prossimità del nemico tedesco si presenta «con la grossa faccia come di pietra» ma anche con i compagni non la percepiamo mai sorridente e distesa: in scena è sempre silenziosa e rigida.
Tutti noi sappiamo fin dalla prima pagina che Agnese morirà. L’autrice ha voluto dircelo attraverso il titolo. In realtà, con l’avanzare della vicenda il lettore rischia di illudersi e rischia di sperare nella sopravvivenza di questa donna anziana, malconcia e grassa. Supera a più riprese ostacoli di difficoltà sempre crescente, non capitola una, due, tre e quattro volte. La sua fine sembra prossima già al termine della prima delle tre parti in cui è suddiviso il romanzo e invece la sua Resistenza si prolunga per un tempo che appare illimitato, come illimitati sono i giorni di attesa dell’Agnese a completo servizio delle brigate partigiane (giorni grigi, tormentati giorni clandestini). La scrittrice ci preannuncia la fine di Agnese e anche la protagonista sa fin dal principio che dopo il luglio 1943 i guai sono destinati a peggiorare, ma li affronta uno dopo l’altro perché inizia a sapere sempre di più, inizia a capire quelle che allora chiamava «cosa da uomini», il partito, l’amore per il partito; il narratore rileva nel quarto capitolo della terza parte che ormai era consapevole che «ci si potesse anche fare ammazzare per sostenere un’idea bella, nascosta, una forza istintiva, per risolvere tutti gli oscuri». Ecco perché da semplice moglie del compagno Palita diventa dapprima staffettista e poi punto di riferimento per tutti nella valle del Comacchio e in Romagna, tanto che, verso la fine del romanzo, un compagno di nome «La Disperata», in un momento di scoramento, sente la voglia di vedere l’Agnese, la sua faccia dura, di udire la sua voce dura quando diceva: «Questa cosa, quest’altra posso farla io se sono buona» ed erano sempre cose pericolose, rischiava la vita tutti i giorni, lei grassa, malata e anziana. L’Agnese si trova a un tratto immensamente cresciuta, importante, «responsabile» davvero di azioni incomprensibili e di prevedute decisioni. Il narratore ci dice che «il suo cervello lavorava da solo, imparava quanto fosse grande la fatica di pensare anche agli altri».
La Viganò, da ex partigiana, mette nero su bianco quelle che sono le sue considerazioni sull’intervento delle forze Alleate nel Nord Italia e sulla psicologia che avvolgeva l’esercizio tedesco ormai consapevole dell’imminente sconfitta. Non risparmia critiche alle mosse degli Alleati, come nel caso del bombardamento alla casa di Walter, dove si era da poco stabilita Agnese. La scrittrice bolognese ricostruisce quelle che possono essere state le motivazioni che hanno spinto gli aviatori a distruggere una casa bianca fra l’orto e il frutteto che non può mai essere un obiettivo miliare. Scrive: «Forse un aviatore, di buon umore perché rientrava al campo, disse al compagno di volo: - Scommetto che ci prendo in quella casa là - (agli anglo-americani piacciono le scommesse), - e il collega rispose: - scommetto di no. - Allora proviamo? - Proviamo». L’autrice fa percepire tutto il risentimento delle bande partigiane nei confronti degli Alleati, il cui intervento era lento e il più delle volte improduttivo. Nello stesso tempo la Viganò è brava a evidenziare la psicologia perversa dei nazisti, i quali sapendo di essere sull’orlo del baratro decidono di rendere ancor più dura la vita di tutti in quelle campagne, tagliando gli argini e allagando tutte le aree bonificate; decidono deliberatamente di ammazzare campi e vigne, lavoro di anni per ritardare di un giorno, di un mese, di una stagione l’inevitabile disfatta (questo atto segna la fine della seconda parte del romanzo). I nazisti vengono presentati anche per un loro ulteriore difetto: non essere mai riusciti a comprendere fino in fondo l’organizzazione partigiana perché essa sapeva «essere dappertutto, camminare in mezzo ai nemici, nascondersi nelle figure più scialbe e pacifiche». Era, e la Viganò ce lo dice benissimo, «un fuoco senza fiamma né fumo: un fuoco senza segno. I tedeschi e i fascisti ci mettevano i piedi sopra se ne accorgevano quando si bruciavano». L’autrice bolognese non manca, inoltre, di porre l’accento sui tanti altri civili italiani che, pur di non aver problemi con i nazisti, gli si prostrano fino a vendere il loro corpo e la loro anima (vedi le figlie della Minghina, la vicina di casa di Agnese a inizio romanzo). E per restare lontano dai guai chiudono gli occhi e non percepiscono la presenza partigiana, tanto da considerare quei combattenti strani, forestieri, astratti, leggendari.
Infine, un’ultima nota la meritano i compagni della brigata quasi tutti morti nel tentativo di fuggire dalla prigionia di quella caserma che l’acqua prima, il ghiaccio poi avevano reso invivibile. Il loro tentativo di passare nel territorio degli Alleati, previa autorizzazione del Comandante, è straziante. Per un paio di capitoli il punto di vista si sposta completamente da Agnese a questo variopinto gruppo di uomini di tante nazionalità differenti. Il quartultimo e il terzultimo capitolo sono quelli della perdizione di chi è stato uomo. Sono due capitoli intensi, avvolgenti, cupi. La maggioranza di questi compagni cade sotto i fucili tedeschi e si va a conformare a tutte quelle figure uguali incontrate qua e là in ogni guerra, figure di «corpi fermi e distesi, di scarpe con le punte in alto e i chiodi scoperti». Nemmeno l’Agnese, di lì a poche settimane, verrà risparmiata e quel titolo tanto rivelatorio si dimostra così dannatamente reale. L’infaticabile Agnese la lasciamo «sola, stranamente piccola, un mucchio di stracci neri sulla neve».
Indicazioni utili
Anche Hitler è stato uomo
Penso che il romanzo Uomini e no di Elio Vittorini contenga una delle riflessioni più potenti della nostra letteratura. «Noi abbiamo Hitler oggi. E che cos’è? Non è uomo? Abbiamo i tedeschi suoi. Abbiamo i fascisti. E che cos’è tutto questo? Possiamo dire che non è, questo anche, nell’uomo? Che non appartenga all’uomo?». Sì, Hitler, i nazisti, i fascisti sono uomini perché l’essere umano è per definizione il vizio assurdo e l’ideale più sublime. Sì, Hitler, i nazisti, i fascisti sono uomini perché nelle pagine resistenziali milanesi che vengono scritte dall’autore di Siracusa si può scorgere tutta la vasta gamma di azioni e di atti che un uomo può compiere contro un altro uomo, facendolo in modo consapevole, pianificato e vendicativo. Ecco quindi che non deve sorprendere la vendetta del gerarca fascista Clemm nei confronti dell’anziano Giulaj, reo di aver ucciso con una lametta, per autodifesa personale, un cane poliziotto di proprietà dello stesso Clemm; la decisione è drastica: Giulaj verrà fatto sbranare dagli altri cani dell’Albergo Regina di Milano. I militi nazifascisti assistono alla scena e non pensano che la volontà di vendetta di Clemm possa spingersi a tanto. Inizialmente pensano che stia giocando e voglia spaventare Giulaj, in realtà non ferma l’incedere dei suoi cani poliziotto affamati e deliberatamente gli permette di sbranare un uomo.
Uomini e no è uno dei romanzi che meglio descrive la resistenza in una grande città come Milano. Dal punto di vista geografico, Vittorini è molto preciso: i luoghi menzionati dal libro sono i luoghi reali nei quali si sono verificati i fatti durante i mesi resistenziali. Inoltre, lo scrittore rende bene il complesso reticolato della Milano occupata dai nazifascisti perché al di sotto di una suddivisione apparentemente binaria (nazifascisti contro partigiani) esistevano diversi sottogruppi, diverse bande e diversi interessi. A tal proposito, è emblematica la figura di Cane Nero, uno che agisce da “ripulitore” di Milano svincolandosi però dall’organizzazione nazifascista; si tratta semplicemente di un violento assetato di sangue che sfrutta lo stato di anarchia in cui è sprofondata l’Italia dall’8 settembre 1943 per imperare e incutere paura. Vittorini riesce anche a portare il lettore negli assalti e negli agguati architettati dalle bande partigiane contro il nemico nazifascista, nella consapevolezza generale che per ogni nazista ucciso toccava la fucilazione a dieci partigiani.
Il periodo preso in considerazione da Vittorini per il suo capolavoro bellico è l’inverno 1944. Il protagonista è il partigiano Enne 2, innamorato da tanti anni di una donna più grande di lui: Berta è già sposata, non abita a Milano, non è una donna della Resistenza, sebbene sia vicina a Enne 2, e non può concedersi al più giovane partigiano. Enne 2 vive nell’attesa della venuta di Berta, aspetta che Berta possa finalmente aprire un nuovo capitolo della sua vita, quello al suo fianco. L’attesa si prolungherà a tal punto che Enne 2 non fuggirà nemmeno quando saprà di essere ricercato dopo l’ennesimo tentativo di agguato; non andrà, come tutti i suoi compagni gli suggerivano, a Torino ma resterà nella sua casa di Milano diventando facile preda per Cane Nero e i suoi uomini. Si consegnerà al nemico, non prima di sfidarlo per un’ultima volta nel momento della morte. Perché fa tutto questo? Perché non prova nemmeno a tutelare la sua esistenza? Perché senza Berta si sente destinato alla perdizione, è un amore impossibile che ritrova, nell’eccezionalità del momento storico, la sua naturale giustificazione. «Il fatto stesso che non arrivasse significava che non poteva arrivare; che non sarebbe mai arrivata, o che sarebbe sempre ripartita, come sempre; e che era inutile aspettare, inutile cercare di sfuggire, inutile cercare di sopravvivere, di non perdersi». In un libro pieno di domande, è lecito chiedersi se un uomo destinato alla perdizione come Enne 2 possa lavorare per garantire la felicità agli uomini. Una possibile risposta arriva dalla compagna Selva, che aiuta da vicino le bande partigiane: «Volete lavorare per la felicità della gente, e non sapete che cosa occorre alla gente per essere felici». Selva è soltanto una delle altre donne che gravitano intorno a Enne 2. Non si può scordare nemmeno la portatrice d’armi Lorena, con la quale finisce anche a letto. Tuttavia, l’amore è un’altra cosa perché «prenderne una che non è la tua ed ecco avere, in una camera d’albergo, invece dell’amore, il suo deserto». L’amore per Enne 2 ha un solo volto, quello di Berta.
Quello che colpisce è l’insistenza di Vittorini sulla semplicità degli uomini che combattono la Resistenza; sono uomini semplici e pacifici che dalla loro vita volevano cose semplici, tanto che parlavano di cinematografo e bachi da seta appena prima delle battaglie. Spunta, quindi, un’altra domanda: «Perché, ora, lottavano?». Emblematico in un romanzo fatto di domande è il personaggio di Gracco, che era curioso degli uomini e voleva sempre conoscere le ragioni delle loro azioni. La sua lezione va, tra l’altro, in controtendenza in un mondo attanagliato dalla guerra nel quale nessuno si stupiva di niente, nessuno domandava spiegazioni. Il libro è polifonico, il punto di vista varia e i personaggi, più o meno importanti, prolificano, anche se poi, una volta morti, tutti acquisivano «la stessa faccia», nessuno escluso, perché quando si osserva la morte tutto diventa superfluo. Merita una menzione El Paso, uno dei più singolari personaggi del volume. Si tratta di un partigiano, nato in Spagna, ma infiltrato tra i nazisti all’Albergo Regina («Egli sta con loro, gioca con loro, e noi dobbiamo dire che un uomo nostro è come loro»). Una risposta lo identifica, «Ehm», quello stesso suono che richiama alla memoria il finale di Conversazione in Sicilia. «Ehm» cela una conoscenza più approfondita di quello che è l’intrecciato sistema della Milano dell’inverno 1944, nel quale El Paso tenta di destreggiarsi, così come l’«Ehm» di Silvestro e Concezione al termine di Conversazione è l’intercalare della consapevolezza. A proposito di Conversazione, Uomini e no ne ricalca lo stile lirico e lo si potrebbe definire la naturale prosecuzione.
In un romanzo riflessivo, nel quale le parti in tondo vengono alternate da analisi in corsivo, contraddistinte da una potente componente onirica, ci sono alcune considerazioni che non possono lasciare indifferenti. La prima: «Gli uomini potevano perdersi dappertutto e dappertutto resistere... Che si potesse resistere come se si dovesse resistere sempre» perché in fondo «resistere? Era per esistere. Era molto semplice». La seconda: «Perché si chiamava civile una guerra in cui due fratelli potevano trovarsi l’uno contro l’altro? Non si sarebbe dovuto chiamarla, anzi, incivile?». Sembra tutto lapalissiano, ma la guerra oscura tutto, anche quello che può apparire lampante. Come spesso capita fin dalle scuole superiori, Uomini e no si ricorda per la sua alternanza di tondo e corsivo. Se l’incedere narrativo è destinato alla parte in tondo, invece la riflessione risiede nel corsivo, dove lo scrittore entra dentro a Enne 2 e quasi si trasforma in Enne 2. «Io a volte non so, quando quest’uomo è solo io quasi non so s’io non sono, invece del suo scrittore, lui stesso. Ma, s’io scrivo di lui, non è per lui stesso; è per qualcosa che ho capito e debbo far conoscere; e IO l’ho capita; IO L’HO; e io, non lui, la dico». Sta in questa considerazione la missione del libro: fermarsi e chiedersi se anche Hitler è stato uomo e infine darsi una risposta amara ma oggettiva: sì, lo è stato.
Indicazioni utili
Può esistere una questione privata in una guerra?
Può esistere una questione privata in una guerra? La risposta è negativa. Il dodicesimo e penultimo capitolo del romanzo capolavoro di Beppe Fenoglio e della Resistenza italiana lo conferma. La vicenda di Milton, il protagonista dell’opera, inconsapevolmente si intreccia con quella di due giovani adolescenti che perdono la vita. L’esecuzione di Riccio e Bellini è una conseguenza dell’uccisione da parte di Milton del sergente Alarico Rozzoni, il quale era stato fatto prigioniero dallo studente acculturato Milton al fine di essere una pedina di scambio per il suo amico Giorgio, finito nelle mani dei fascisti. Milton si muove in autonomia; si sposta da un avamposto a un altro e mette a rischio la sua incolumità perché è animato da un profondo senso di amicizia per Giorgio, il compagno di sempre. Non è casuale che Giorgio, etichettato dagli altri partigiani come “figlio di papà” che non perdeva occasione di isolarsi per non dividere nulla del suo con gli altri, pareva sopportare il solo Milton, coabitava solo con Milton. Tuttavia, non c’è la sola amicizia a spingere il protagonista. Vuole infatti sapere da Giorgio se ha avuto una relazione con Fulvia, la ragazza che lui ha amato e ama perché da quando ha scoperto nei primi due capitoli di una possibile tresca tra i due «di colpo, più niente. La guerra, la libertà, i compagni, i nemici. Solo più quella verità». Milton non poteva più vivere senza sapere e soprattutto «non poteva morire senza sapere, in un’epoca in cui i ragazzi come lui erano chiamati più a morire che a vivere». Quando scopre che Giorgio è stato fatto prigioniero il protagonista sente che piove a dirotto sull’amico, forse già divenuto cadavere, piove a dirotto sulla sua verità di Fulvia, cancellandola per sempre. In effetti, Milton non acquisisce nessuna ulteriore conoscenza rispetto a quanto gli ha detto la custode della casa di Fulvia e il libro si conclude circolarmente, a distanza di quattro giorni, laddove è iniziato senza che la ricerca abbia fatto il minimo progresso, forse perché tutto quello che c’era da sapere su Fulvia e su Giorgio era già contenuto nell’incipit del romanzo. Ecco quindi che una questione privata fa capolino nel campo di battaglia delle Langhe, tra Alba, Santo Stefano Belbo e Canelli, nel novembre 1944, ma non può restare privata tanto che l’avventura di Milton va a riguardare da vicino anche chi non ha nulla a che spartire con Milton, se non il fatto di essersi fatto beccare ingenuamente nel ruolo di staffettista a favore delle bande partigiane. «Io ho solo quattordici anni e facevo la staffetta» prova a giustificarsi inutilmente il Riccio prima dell’esecuzione, ma il comandante fascista è categorico: «Nessun mio soldato, caduto come si sia, deve restare invendicato». Di colpo, perciò, con il dodicesimo capitolo l’unicità del protagonista indiscusso della vicenda viene a cadere, diluita in una costellazione di vicende dai tratti spaventosamente simili che rimanda al tempo stesso a tutti gli altri micro-racconti incastonati nel corpo principale del libro (vedi il racconto della battaglia di Verduno, nella quale Milton è stato protagonista insieme al compagno Hombre, oppure della maestra repubblichina, protagonista del racconto in un fienile del partigiano Maté). La storia dell’uccisione di Riccio e Bellini produce a tutti gli effetti una pausa nel racconto e un evidente cambio di ritmo, tanto che il loro destino, a lettura completata, rimanda spontaneamente a quello di Milton. I due adolescenti staffettisti, fucilati per rappresaglia dai fascisti dopo essere stati per tre mesi prigionieri, introducono con forza nel romanzo il tema delle tremende conseguenze degli atti che compiamo credendo di essere nel giusto. Il privato diventa pubblico, l’azione mia viene pagata dall’altro: nemmeno Milton, perciò, può ritenersi innocente perché nel tentativo disperato di salvare l’amico Giorgio e di scoprire la verità su Giorgio e sull’amata Fulvia finisce per provocare involontariamente la morte di due ragazzi.
Il triangolo amoroso è un espediente tipico della letteratura. Non da meno l’amore per una donna che rischia di minare un’amicizia. La ricerca di un prigioniero da scambiare per salvare la vita all’amico prigioniero dei fascisti nasconde in realtà la guerra civile potenziale che incombe su Milton e Giorgio, una guerra civile privata nel contesto della guerra civile collettiva in cui dall’8 settembre 1943 è piombata l’Italia. La questione privata di Milton non allude solo al tema sentimentale ma in qualche modo descrive la struttura di un intreccio costruito intorno a una ricerca ossessiva, tanto che, come già evidenziato in precedenza, il protagonista sembra perdere ogni contatto con il mondo di fuori, nel quale è profondamente calato. L’obiettivo di Fenoglio è infatti quello di ancorare definitivamente il protagonista nel fitto della Storia e di non lasciarlo sullo sfondo. Grazie a un personaggio iconico e indimenticabile come Milton, Fenoglio abbandona la memorialistica di finzione a beneficio del romanzo, ma non lo trasforma in un romanzo storico: rifiuta la polifonia, la lotta alla dispersione, la ricerca di una struttura rigida e ferrea. Mette sopra ogni altra cosa il rapporto tra la ricerca, a tratti meravigliosamente picaresca, di Milton e la guerra civile. L’autore vuole fare di quei venti mesi fuori dal comune per il nostro martoriato paese l’ambientazione delle proprie storie, grandi e piccole, allegre e dolorose. Il triangolo Milton-Giorgio-Fulvia, una cosa appartenente alla vita di prima («e tornare su queste cose fa più male che bene» ricorda Ivan, compagno di Milton nella discesa a casa di Fulvia a inizio vicenda) permette di indagare da dentro la guerra partigiana, in un periodo come quello del novembre 1944 nel quale i reparti sono gonfi a dismisura e si è ormai stabilito uno status quo con zone di influenza riconosciute ufficiosamente dai fascisti, dalle formazioni badogliane (azzurre, aiutate dai proventi degli inglesi) e da quelle garibaldine (rosse).
Il riaffiorare del passato e la potenza dell’amore travolgono Milton, che si consegna alla morte, a quel crollo finale a ridosso del bosco. Proprio lui che veniva definito dai suoi superiori un «classico» perché in grado di mantenersi freddo e lucido quando tutti perdevano la testa. Invece, la freddezza e la lucidità si affievoliscono fino a scomparire nella disperata ricerca dell’amico Giorgio e della verità sul passato. Già colpito a morte Milton vagheggia e dice: «Sono vivo. Fulvia. Sono solo. Fulvia, a momenti mi ammazzi!». È l’istante antecedente all’ultima caduta, a quella definitiva, al crollo. Questo passaggio dalla vita alla morte contraddistingue anche un altro personaggio interessante del romanzo, il già menzionato sergente Alarico Rozzoni. Milton, dopo averlo catturato, lo rassicura a più riprese: non lo vuole uccidere ma lo vuole utilizzare come pedina di scambio con i fascisti per “riprendersi” Giorgio; è quindi intoccabile perché ha un ruolo indispensabile nella sua missione. Tuttavia, si percepisce dal sergente Rozzoni quanto la parola data in guerra valga poco e la diffidenza nei confronti dell’altro sia sempre ai massimi livelli. Il sergente fascista non si fida, non può fidarsi per quanto ha respirato e vissuto durante il ventennio e ancor di più dall’8 settembre in avanti e dunque la sua mossa sbagliata e la sua morte sono una naturale conseguenza. E con la dipartita del sergente, anche le sottili possibilità di successo della missione di Milton svaniscono o per meglio dire crollano, proprio come crollerà lui stesso a distanza di poche ore al margine del bosco.
Indicazioni utili
«Sepolta dentro di me, non è bello?»
Dacia Maraini tocca le corde più profonde dell’animo umano con otto racconti di straziante intensità. Sono racconti di abusi, di stupri, di perversioni. Il libro fa riflettere sulla definizione di amore. Al termine di ogni racconto è normale chiedersi che cosa sia davvero l’amore perché quello che appare amore si tramuta in delirio. Il quadro che viene dipinto è fosco e l’aggettivo fosco è probabilmente troppo tenero. Le protagoniste femminili combattono una battaglia antica e sempre attuale contro uomini incapaci di ricambiare; l’amore viene confuso con il possesso, l’altra persona viene considerata un bisogno. L’amore, e qui si spiega il titolo della raccolta, viene letteralmente rubato, sradicato, cancellato, trasformato in odio. Chi patisce le conseguenze sono bambine inconsapevoli che non sanno e donne che si donano troppo. Lo strazio è crescente e ogni racconto lascia una ferita diversa. Sono ferite profonde perché le storie proposte dalla Maraini non sono campate per aria, non sono fantascienza. Sono purtroppo storie che si sentono ogni giorno nella vita reale, non solo in quella impressa nero su bianco sui fogli di un libro. Insomma, sono storie che toccano da vicino la sensibilità di chi vive questa società. Dunque, risulta impossibile restare indifferenti di fronte a quanto scritto dall’autrice e l’esperienza diventa travolgente. Al termine di un racconto è difficile ripartire subito con quello successivo perché l’animo è sconquassato da cotanta violenza.
Il grande merito della Maraini risiede nell’aver affrontato tematiche delicatissime con tatto ed eleganza stilistica. Non scrive questi racconti tanto per suggestionare il lettore, li cura nel dettaglio e li rende ancor più vivi e vibranti. La prosa è lineare, pulita e semplice. Lo scritto si lascia leggere con facilità. Le frasi sono molto moderne, sono brevi e non ci sono tante subordinate. Il ritmo è spedito e in tutti i racconti è un crescendo di pathos fino all’esecuzione. I racconti hanno anche un altro merito, quello di differenziarsi non soltanto per il contenuto ma anche per la struttura narrativa. Cambiano, infatti, i punti di vista e le voci narranti. In “Marina è caduta per le scale” il narratore è in terza persona. L’attenzione è posta dapprima sul dottor Gianni Lenti, il quale nel giro di un mese è costretto ad accogliere più di una volta al pronto soccorso la diciassettenne Marina Savina, una ragazzina coniugata che sembra «cieca e sorda». Lenti si insospettisce per queste cadute dalle scale così strane e ripetute e segnala la cosa agli assistenti sociali. L’assistente di turno, la timida Angela Toro (la contrapposizione tra l’aggettivo e il cognome è voluta dalla Maraini), va a visionare la casa in cui abita Marina ma viene persuasa dal marito di lei e lascia correre. Il dramma fiutato dal dottor Lenti è invece reale: Marina è succube e prigioniera, non soffre di alcuna crisi epilettica a differenza di quanto dichiara all’assistente sociale il marito. Si scopre che l’uomo ha perso la madre a sette anni, uccisa da suo padre davanti ai suoi occhi, e anche Marina è orfana fin dall’infanzia. Ecco quindi che la Maraini, come farà in ogni altro racconto, cerca di dare una spiegazione del legame tossico tra uomo e donna.
Anche in “La bambina Venezia” il narratore è in terza persona. Ottavio e Letizia riescono a concepire Venezia quando nessuno se l’aspettava più. La bambina si dimostra immediatamente precoce: Letizia desidera un futuro da studiosa, mentre Ottavio la indirizza al mondo della moda. Venezia viene sradicata dalla sua infanzia e viene trasformata in una piccola reginetta della moda. Diventa una macchina da soldi per la famiglia e diventa per il padre Ottavio un assoluto mito da idolatrare. Venezia, in poco tempo, riesce a mescolare l’innocenza alla perversione e si cala nel suo ruolo di modella. Il dramma, però, è presto servito. Venezia viene rapita e scompare nel nulla. La sua carriera termina e cessa anche l’esistenza di Ottavio e Letizia. Il padre viene paragonato a un Orlando furioso «che per amore venne in furore e matto / d’uom che sì saggio era stimato prima»; perde precocemente la vita e non scoprirà mai la terribile verità che era rimasta nascosta per tanti anni sulla scomparsa della figlia. L’insegnamento che emerge è atroce: la bellezza è una trappola ingorda, soprattutto per le ragazze.
“Lo stupratore premuroso” ha come protagonista Giorgia, che si trova in una piccola stazione in Spagna e deve raggiungere per tempo Siviglia per salutare il marito in partenza. Come un angelo salvifico si presenta un uomo, appartenente al corpo di polizia della stazione, che offre a Giorgia un passaggio in macchina, ma da salvatore l’uomo si tramuta in stupratore. Ha una visione dell’amore totalmente fallata; dichiara che l’amore dev’essere violenza perché le donne amano essere violentate. Dopo aver espresso il suo concetto di amore sul corpo di Giorgia, torna premuroso e accompagna effettivamente la ragazza a Siviglia. Ciò che sorprende è l’epilogo. La ragazza, infatti, denuncia in stazione l’aggressione ma la risposta che riceve, nonostante i lividi mostrati, l’occhio gonfio, il labbro spaccato, la ferita sulla fronte, è la seguente: «Questo non significa niente. Sa quante mitomani vengono qui a denunciare cose false?».
“Cronaca di una violenza di gruppo” è per l’appunto una cronaca, nella quale vengono registrati gli interventi dei diversi protagonisti della vicenda di fronte al commissario di polizia. L’aspetto abominevole della vicenda è l’accusa che viene mossa contro la ragazza violentata (Francesca), figlia del falegname del paese (Michele Gentili, per tutti Agonia: e anche questo soprannome non è casuale). Si giustifica l’azione del gruppo perché Francesca era solita portare gonne corte, era solita ridere di tutti, anche dei ragazzi che sono padroni del paese. Addirittura un ragazzo, Alessio, nella sua testimonianza dice che Francesca durante l’aggressione urla non tanto per il dolore che prova, quanto perché voleva essere pagata per quella prestazione sessuale. Il racconto si chiude con due articoli di giornale che riassumono a distanza di mesi l’evolversi delle vicende processuali. I ragazzini vengono scagionati perché dietro alle loro azioni c’erano due presunti adulti che non sono stati identificati ma che venivano dalla grande città. “Giustizia” è stata fatta, ha vinto l’innocenza, quella persa brutalmente da Francesca, l’unica vera carnefice.
“Ale e il bambino mai nato” tratta di un’altra tematica potente: l’aborto. Si parla dell’aborto reso necessario dopo un’aggressione subita e si parla di un aborto clandestino, successivo ai tempi previsti dalla legge. Gli aguzzini di Ale si incontrano sulle scale del palazzo in cui esercita il dottore: da una parte l’assalitore, un noto presentatore televisivo, dall’altra il ginecologo illegale. Alla fine, il dubbio di Ale è sempre il medesimo: denuncio entrambi oppure no, ne parlo con mamma e sorella oppure no. In ballo c’è la sua dignità.
“La sposa segreta” è quel racconto che nella vita non vorresti mai leggere perché è una tortura unica, un dramma famigliare degno delle antiche tragedie greche. Le sfortunate protagoniste sono tre donne: la mamma Carmelina e le bambine Giusi e Rosaria. Gli abusi esercitati dal secondo marito di Carmelina su Giusi e Rosaria sono subdoli e angoscianti. L’astuto pianista trasforma le figliastre in complici sfruttando quella fiducia assoluta che i bambini hanno per gli adulti, soprattutto per i famigliari. Crea una rete di dolori, ricatti, seduzioni e complicità, lasciando all’oscuro Carmelina. Tradisce dapprima la moglie andando con la decenne Giusi, poi tradisce Giusi con sua sorella Rosaria. Giusi e Rosaria diventano le sue spose segrete; sono due bambine iniziate troppo presto al sesso e diventate nemiche di loro stesse. Il dramma termina con i sensi di colpa: quelli pesantissimi delle figlie (Giusi muore per overdose, Rosaria si dà al fumo e all’alcol), quelli di Carmelina che non si capacita di non aver capito cosa stava accadendo in casa sua, presa dal lavoro e da una carriera professionale in ascesa, e quelli deplorevoli del patrigno pianista, che si colpevolizza soltanto per aver fatto ingelosire Giusi che ha mandato in frantumi il suo mondo perverso.
“La notte della gelosia” parla di Gesuino, un cultore del suo fisico al quale ogni sorriso sembra costare una sfibrante fatica. A parlarci di Gesuino è in prima persona colei la quale si innamora del ragazzo e rischierà di perdere la vita a causa sua. I segnali della morbosità di Gesuino sono evidenti fin da subito: «Quando una persona mi interessa, divento in effetti una spia, ma senza malizia»; «Forse sono davvero un lupo. Ti mangerò prima o poi. Mi piace pensare che farai parte del mio corpo. Sepolta dentro di me, non è bello? In fondo il cristiano che ingoia l’ostia cosa fa se non seppellire Dio dentro di sé?». La ragazza, acciecata dal sentimento, attribuisce la violenza alla possessività di Gesuino, dettata, al suo ingenuo intendere, dal troppo amore; si sente quasi onnipotente: «Io ce la farò, io lo guarirò, io lo farò rinsavire». Ovviamente, non riuscirà a cambiarlo ma avrà il coraggio di denunciare il problema a due suoi amici e soltanto in questo modo salverà la sua vita.
Nell’ottavo racconto la voce narrante è quella del padre di Anna, uccisa brutalmente dal suo amante, Tito Porcelli (anche in questo racconto il nome non è casuale), conosciuto da tutti come il Moro (noto cantante impegnato in tournée internazionali). Seguire lo spegnimento e l’uccisione di una figlia, dal punto di vista di un padre è dura da digerire. L’uomo parla con il senno del poi, si tempesta di domande: perché non ha dato retta al suo istinto iniziale, perché non è intervenuto, perché non ha capito prima; si chiede anche se si può imporre a una persona la salvezza se non la vuole, anzi se vi si oppone con tutte le forze. Ha creduto alle menzogne di sua figlia, che negava l’evidenza; le ha creduto per non accettare una realtà che purtroppo si stava materializzando sotto i suoi occhi. Erano stupide menzogne tra un padre e una figlia che si amavano e pensavano di salvaguardarsi raccontandosi delle bugie. Privato del bene più prezioso al mondo, sua figlia, da un uomo ricco, famoso, viscido, prepotente e violento, il padre si rende protagonista di una cosa non da tutti: prova pietà per il Moro e per quella che è stata la sua condizione infantile (abbandonato dal padre quando era piccolo e con una madre morta suicida; picchiato di santa ragione al collegio), ma non riesce a perdonarlo e non riesce nemmeno a perdonare se stesso per non essere stato capace di difendere sua figlia Anna.
Indicazioni utili
A 16 come a 40 anni: la potenza dell’amore
Apparentemente il romanzo La suora giovane di Giovanni Arpino è semplice. La vicenda si sviluppa dal 10 dicembre 1950 al 2 gennaio 1951 a Torino. Narratore in prima persona è un ragioniere di quarant’anni: Antonio Mathis, che sente l’esigenza di scrivere su un diario i fatti che sconvolgono la sua anima («Ho deciso di prendere nota di ciò che mi succede perché solo così potrò riuscire - forse - a controllare avvenimenti e sentimenti, a capire, ad aiutarmi. Non saprei davvero a chi domandare un consiglio»). Ciò che lo turba è un colpo di fulmine: si è infatti innamorato di una giovane suora di vent’anni che da qualche settimana incrocia puntuale tutte le sere alla fermata del bus. Il loro è un gioco di sguardi e di attenzioni, il linguaggio non verbale prevale su quello verbale, completamente assente fino al 19 dicembre, come ci racconta la narrazione di Antonio. Il protagonista si sarebbe dovuto sposare all’incirca un paio di anni prima con Anna, ma poi il matrimonio non andò a buon fine e la relazione proseguì su binari non del tutto chiariti. Lo stesso Antonio dice di sé: «Non sono mai stato quel che si dice un uomo: ecco la verità. Macché guerra, macché capuffici, rispetto degli altri, macché esperienza... Non è pudore il mio, è vigliaccheria». In questo quadro si inserisce anche una terza donna, Iris, collega di Antonio, con la quale il protagonista alle volte si diverte palpandola tra una pausa e l’altra. L’incontro con la giovane suora Serena, dunque, è destinato a sconquassare l’esistenza di Antonio, a porgli delle domande che aveva cercato di sigillare nel cassetto per tanti anni. Scopre, quasi come un fulmine a ciel sereno, di avere quarant’anni e di essersi avvicinato notevolmente alla fase della vecchiaia. Rimette perciò in discussione tutto quello che ha costruito e fatto nel corso della sua vita. Serena è uno slancio, un’iniezione di speranza, ma è nello stesso tempo una novizia prossima a prendere i voti. Quest’aspetto non può che generare parecchio scompiglio in Antonio: innanzitutto provoca vergogna, in secondo luogo incertezza sul da farsi. Eppure Serena lo fa sentire improvvisamente ricco, mentre con Anna il rapporto era ormai divenuto povero di sentimento e contenuti.
Antonio si ritrova con una ragazza (Serena), una fidanzata (Anna) e una quasi amante da corridoio (Iris) e si sente ridicolo perché «in verità non ho nessuno e non sono capace di avere e tenere nessuno». Serve uno scatto di nervi, di muscoli, un’azione del tutto istintiva, a sbloccare la situazione: il 19 dicembre Antonio decide di avvicinarsi a Serena e di parlarle per la prima volta e a quel punto inizia a scoprire un po’ di cose sulla suora: ha vent’anni, viene da Mondovì, tutte le sere va a casa di un ricco signore infermo a fare l’infermiera; ma soprattutto scopre che la giovane suora l’aveva adocchiato prima di quanto non avesse fatto lui: era infatti da quattro mesi che si era accorta della sua presenza alla fermata del bus. La scena del lungo primo dialogo tra Antonio e Serena ha un’intimità del tutto particolare. Avviene tra l’uscio della casa in cui presta servizio la suora e il pianerottolo; i due prendono posto lì, dapprima in piedi e poi seduti. A comandare le operazioni è Serena, che chiacchiera ed è curiosa di capire come va il mondo, cosa prova Antonio. «Non voglio essere suora. Se lo sarò andrò negli ospedali, non voglio esser fuori dal mondo» confessa la ventenne. A spingerla verso la carriera da suora è stata sua madre, figlia di commercianti falliti che ha sposato a Mondovì un contadino, dedicando la restante parte della sua vita alla campagna. Le parole di Serena stordiscono Antonio, che è come un pugile alle corde prima del k.o.; fatica a replicare nel corso del dialogo, resta spesso senza parole, ma alla fine la lunga conversazione porta il suo effetto: a sedici anni come a quaranta l’uomo si imbatte nell’amore. Si sorprende che nessuno al bar si accorga di cosa ha dentro e si sorprende che nemmeno i suoi amici (Mo, Iris) o la sua fidanzata (Anna) comprendano il turbinio di sentimenti che alterano la sua anima. Nel giro di pochi giorni prende una decisione definitiva che lo porta a superare il senso di vergogna e di incertezza: sul suo diario il 23 dicembre annuncia che sposerà Serena.
La notte della vigilia di Natale è paradossale. Antonio è come se fosse dissociato: da una parte va in un locale lungo il Po insieme a Mo (suo collega più anziano di dieci anni), Iris e Anna, dall’altra non vede l’ora di consegnare il regalo a Serena e di trascorrere la serata sul pianerottolo insieme a lei. Sente il bisogno di confessare che si è innamorato di una giovane suora, che è stufo di Anna, che è un uomo diverso. Alla fine, lo fa e si prende del matto un po’ da tutti. In quella paradossale vigilia i quattro amici assistono anche a un suicidio da un ponte sul Po e si interrogano sulla valenza di togliersi la vita. Antonio sa che può capitare di sentirsi smarriti e di poter anche pensare a un gesto estremo, la reazione altrui è differente ed è quasi scocciata di fronte all’accaduto. Nel comunicare ad Anna che è stufo, il protagonista si prende un «vai all’inferno», quello stesso inferno al quale Serena aveva detto di non credere nelle pagine precedenti. Insomma, tra Anna e Serena le parole si rincorrono in senso antitetico e tutto serve a posizionarle su due piatti differenti nella bilancia di Antonio.
Al termine dell’angosciosa prima parte di serata, Antonio va all’appuntamento ormai consueto con Serena. Si tratta della volta in cui parla di più, esprime tutte le sue paure e le sue preoccupazioni; dice a chiare lettere che non è un uomo forte. A differenza degli altri incontri viene liquidato abbastanza velocemente dalla giovane suora, che da quel momento scompare nel nulla. Per un po’ di giorni Antonio non avrà sue notizie, proverà a cercarla disperatamente senza successo. Il 30 dicembre decide quindi di andare a Mondovì dai genitori di Serena per accertarsi delle condizioni della ragazza. Il 2 gennaio è il grande giorno e scopre che Serena ha chiesto di essere trasferita a Ravenna perché lui non si era deciso a formalizzarle una proposta chiara e seria. A comunicargli le novità è la madre della giovane suora, una donna di carattere, capace di comandare nelle mura di casa sua, complice anche un retaggio più elevato rispetto a quello contadino. Dietro alla decisione della figlia c’è proprio la madre, con la quale ha scambiato diverse lettere, le quali venivano spedite e recapitate dallo stesso Antonio, su richiesta di Serena. Madre e figlia si aspettavano che il ragioniere le leggesse e comprendesse le loro volontà, ma Antonio, da uomo di grande rispetto, non cedette mai alla tentazione e rimase così in balia delle sue incertezze. Quella madre da cui si sente distante, come ha confessato ad Antonio, è in realtà la spinta propulsiva di Serena. La donna rimprovera Antonio per i suoi tentennamenti: «Serena scriveva che lei era un uomo sicuro, che l’aveva capito, in tanti mesi. Secondo me un operaio l’avrebbe fatto. Ma un impiegato: ha troppa figura, ci tiene troppo al mondo». Il ragioniere si sente imbrogliato da Serena, fuggita senza spiegazioni a Ravenna; si sente nuovamente frastornato e fatica a parlare perché non capisce quale sia stato il suo ritardo. È debole ma sa che andrà a Ferrara per rimediare e per confermare quella coraggiosa decisione assunta qualche giorno prima, ovvero sposare la ragazza. L’unico che sembra mostrargli solidarietà è il padre di Serena. «Lei è un bravo ragazzo, ma non mi sembra tanto pronto - gli dice appena prima di lasciare Mondovì -. E invece queste son donne da comandare, sennò succede come a me, che ho perso il rispetto subito. Se lei riesce a farsi rispettare vivrà bene con una ragazza come Serena, altrimenti...». Un consiglio da padre di famiglia spodestato in un’Italia aperta al cambiamento sociale ma ancora acerba per definire i nuovi confini. E anche questa tematica testimonia quanto possa essere complesso nei suoi strati sotterranei un romanzo amoroso apparentemente semplice come quello di Arpino.
Indicazioni utili
Efix, una missione di espiazione del peccato
Canne al vento è riconosciuto dalla critica come il capolavoro di Grazia Deledda. Per me, è stato il secondo incontro con il Premio Nobel per la letteratura del 1926. Devo dire che rispetto al primo l’ho trovata notevolmente evoluta dal punto di vista dello stile. Se infatti in Cenere (romanzo del 1903) percepivo una ridondanza che allontanava la Deledda dalla nostra contemporaneità, allineandola maggiormente alla sua epoca di passaggio tra l’Ottocento e il Novecento, invece in Canne al vento (1913) nulla è fuori posto e anche il rapporto dei personaggi con l’ambiente circostante perde di pesantezza. Gli strumenti della natura sono docili strumenti in mano alla Deledda che li riadatta e li carica di valenze simboliche non indifferenti. Il linguaggio del capolavoro della Deledda è molto più sciolto rispetto al decennio precedente ed è solenne. Si tratta di una modalità di scrittura che non consente lunghe pause. La lingua attinge dal vero e il quotidiano imperversa con la sua contingenza.
La vicenda narra della parabola discendente della nobile famiglia Pintor e il contesto è quello della Sardegna più cruda e vera, una Sardegna calda e leggendaria di fine Ottocento nella quale si convive con la povertà e nella quale serpeggiano ancora le credenze popolari di fate, folletti, spiriti provenienti dall’oltretomba. La famiglia Pintor a inizio romanzo è ormai ridotta a tre sorelle: padre e madre sono morti, mentre la quarta sorella, Lia, è fuggita sul continente e ha avuto un figlio di nome Giacinto. Lia non è mai stata perdonata per l’affronto dalle sorelle Roth, Ester e Noemi, ma i rapporti epistolari con il giovane Giacinto non sono stati recisi, tanto che nei primi capitoli del libro viene annunciato l’arrivo del ragazzo presso la casa dei Pintor in Sardegna. Roth, Ester e Noemi conducono una vita grama, sbiadita, desolata e vedono sfiorire passivamente la loro giovinezza, un po’ bloccate e inorgoglite dalla superbia paterna. Noemi è senza dubbio la più sanguigna delle dame, ma è anche quella in cui le passioni si combattono con maggior veemenza, tanto che è lei che nutre per il nipote Giacinto una sorta di attrazione corrosiva.
L’arrivo di Giacinto destabilizza casa Pintor. Piace alle fanciulle del paese, in primis a Noemi, per la sua giovinezza un po’ leggera e un po’ irruente e per il suo fascino da straniero. Giacinto è però incosciente e troppo spensierato, tanto da cadere nella trappola dell’usura. Ciò costerna le zie che lo mettono formalmente alla porta. La parabola di Giacinto è tuttavia di crescita perché sa rialzarsi, mantenendo le promesse che aveva fatto, prima fra tutte quella di sposare Grixenda, ragazza che ha rischiato a sua volta la perdizione a causa del comportamento di Giacinto. Anche Noemi sul declinare della narrazione sembra diventar più docile e, come via di fuga dell’insana passione per il nipote, sposa il ricco cugino don Predu, che salva dalla rovina lei e la sorella Ester (Roth muore poco dopo il sopraggiungere di Giacinto in paese). Il matrimonio tra Noemi e don Predu ristabilisce una sorta di ordine nel dissesto che imperversava.
Non è un caso che nel giorno delle nozze tra Noemi e don Predu vada in archivio la missione esistenziale del protagonista assoluto del romanzo, ovvero Efix, il servo della famiglia Pintor. La sua vicenda è complessa e tutta intessuta di quell’imperativo di colpa-espiazione che è tipico della Deledda. Efix infatti uccise il suo padrone don Zame anni prima e poi rimase, senza che nessuno lo sapesse e senza che alcun sospetto macchiasse la sua figura, nella casa delle tre orfane per servirle, proteggerle ed espiare il delitto commesso. L’omicidio di don Zame fu del tutto casuale: Efix agì per legittima difesa per arginare la furia del padrone. A questo peccato se ne intreccia un altro: tutto accadde quando Efix aiutò a fuggire dalla casa paterna verso il continente Lia, di cui subiva il fascino. La fuga, come già accennato, destabilizzò l’intera famiglia e portò al rapido declino fisico e mentale di don Zame. Il protagonista è quindi ossessionato dalle sue colpe: aver provato una passione per la padrona e averne ucciso il padre. Ciò comporta che trascorra il resto della vita in balìa del sacrificio per espiare la sua colpa. Mette la sua vita nelle mani di Roth, Ester e Noemi. La sua missione viene resa ancor più estenuante dalla passività e dalla riluttanza al presente delle dame Pintor e poi dai disastri provocati dall’arrivo di Giacinto. Efix è costretto a ricomporre i cocci, a lavorare sotto traccia tra un attore e l’altro della sua famiglia e del suo paese. Tesse le relazioni con don Predu, con la nonna di Grixenda, con Giacinto e cerca di ristabilire quell’ordine che era venuto meno, anche a causa sua. Le ultime righe del volume lasciano speranza. Come detto, le tanto sospirate nozze tra Noemi e don Predu conducono Efix alla conclusione del suo lavoro: l’immobilità della morte è un augurio di serenità.
Efix si immola nell’azione di servire, è in tal senso il servo per eccellenza. Assolve al suo dovere pur senza essere pagato dalle dame Pintor, ormai ampiamente compromesse dal punto di vista economico. Nella seconda parte del libro arriva addirittura a mantenere le dame: la vendita del podere a don Predu fa sì che Efix diventi mezzadro dello stesso possedimento e quello che ricava serve per sostenere Ester e Noemi. Nel cercare di aggiustare le cose si procura ulteriori problemi. È lui difatti il principale accusato quando le cose con Giacinto volgono al peggio. Noemi si spinge ad accusarlo di aver tradito la famiglia Pintor per denaro, un’accusa basata sul nulla, a maggior ragione per la condizione retributiva del tutto sui generis di Efix. Nonostante tutto, resta fedele al suo compito perché deve espiare le colpe. Quando vede andare tutto a rotoli, fugge e si unisce a elemosinare insieme a un cieco, ma poi torna e sistema gli ultimi pezzi del puzzle. Non si può non fare il tifo per lui perché è una bella metafora della vita di ognuno di noi. Ogni essere umano è destinato a sbagliare, ma ogni essere umano ha la possibilità di rifarsi, sebbene questo possa provocare un’estenuante fatica. Efix sembra farcela. Convince l’arcigna Noemi ad accettare le proposte di don Predu e aiuta Giacinto a ritrovare la retta via. Del resto, è il primo a credere nelle potenzialità del ragazzo ed è l’ultimo ad arrendersi di fronte agli errori frivoli del figlio di Lia. Anche se Lia e don Zame a inizio narrazione sono già morti, ritornano costantemente nel romanzo: don Zame con il suo bagaglio di superbia e Lia nel ricordo delle sorelle e nel titanico ardimento del figlio.
Non manca, infine, un forte retaggio biblico in Canne al vento: dai nomi delle tre sorelle - Ruth, Ester e Noemi - ad analogie con episodi dell’Antico Testamento, a immagini cristallizzate nel loro vincolo con le Sacre Scritture (i racconti del cieco, le letture di Ester, i canti sacri). Siamo però ben distanti dalla Provvidenza manzoniana. Del resto, «siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne e la sorte è il vento».
Indicazioni utili
La voce di Isolina, la ragazza tagliata a pezzi
Nessuno si ricorda di Isolina Canuti. Prova a rievocarla negli anni Ottanta del Novecento Dacia Maraini attraverso la sua meticolosa ricostruzione storica dei fatti che hanno riguardato l’uccisione della ragazza, tagliata a pezzi e lasciata scivolare nelle acque del fiume Adige. Ne esce un cold case che oggi potrebbe essere tradotto benissimo in un podcast. Siamo nel gennaio del 1900, siamo nel cuore pulsante di Verona. La sfortunata protagonista è Isolina, ragazza di 19 anni, figlia di Felice, impiegato da 25 anni nell’amministrazione di una grossa azienda, la Tressa; la giovane è incinta di alcuni mesi (sulla data della gravidanza ci saranno perizie contraddittorie e discussioni a non finire). Chi è stato a ucciderla e a deturpare il suo corpo? Tutti gli indizi portano a Carlo Trivulzio, un tenente degli Alpini che aveva preso in affitto una stanza in casa Canuti e aveva avuto una relazione con la stessa ragazza. Il movente è semplice: Isolina era rimasta incinta, Trivulzio non voleva assolutamente macchiare la sua carriera militare con quest’episodio che lo legava a una persona dei bassifondi della società veronese e quindi si adopera in ogni modo affinché Isolina abortisse; la ragazza, però, è di opinione opposta perché intravede nella prole un’opportunità per unirsi indissolubilmente al tenente e proprio per questo si oppone. Trivulzio suggerisce a Isolina di lasciare Verona in direzione di Milano, ma nemmeno questa richiesta viene accolta. A quel punto decide di intervenire con le cattive e in una fredda sera di gennaio presso l’osteria del Chiodo un tentativo cruento di aborto (attraverso una forchetta nell’organo genitale femminile) sfocia nell’uccisione di Isolina, che successivamente viene tagliuzzata e gettata nell’Adige. Tutto limpido, tutto straordinariamente logico. Tuttavia, non si arriverà alla condanna di Trivulzio, anzi l’unico costretto a pagare sarà il giornalista socialista Mario Filippo Todeschini per diffamazione condotta per mezzo della stampa. Era stato infatti Todeschini sulle colonne del “Verona del Popolo” a scagliarsi in maniera decisa contro Trivulzio, trasformando il delitto di Isolina in un pretesto per un’accusa di più ampie vedute contro l’eccessivo militarismo che stava prendendo il sopravvento nel neonato Regno di Italia. «Il processo Todeschini si conclude con una sentenza che sembra finta tanto è teatralmente di parte. Isolina Canuti, si legge fra le righe, se l’è voluto. La sua leggerezza l’ha perduta, peggio per lei. Nella sentenza comunque si fa capire che Trivulzio sì, è stato leggero, forse un poco incosciente, ma cosa conta la vita di una ragazzina di famiglia oscura, povera e di scarsa moralità di fronte all’onore dell’esercito? Ed è quello che alla fine trionfa, contro tutte le evidenze con la forza di una ideologia che doveva esprimere l’ideale del paese» scrive in ultima istanza la Maraini. Del resto, il 1900 è passato alla storia come l’anno dell’assassinio di re Umberto I di Savoia e pochi anni dopo, allo scoppio in Europa della Prima guerra mondiale, l’Italia si dividerà tra interventisti e neutralisti, segno che una buona fetta della popolazione considerava il militarismo il fondamento di un buon governo.
L’analisi storiografica e anche psicologica della Maraini si divide in quattro sezioni: nella prima si illustrano i fatti accaduti nel 1900; nella seconda si verifica un balzo temporale in avanti, poiché si passa agli anni Ottanta e alla visita veronese della stessa scrittrice sulle tracce di Isolina; nella terza si ricostruiscono tutte le tappe del tanto conclamato processo Todeschini; nell’ultima, infine, spazio alla sentenza del processo. La ricostruzione dei fatti avviene grazie ai giornali dell’epoca, i quali hanno la capacità di fotografare giorno dopo giorno l’evoluzione della vicenda. Le supposizioni si sommano, le testate giornalistiche si polarizzano e i colpi di scena non mancano. Il primo e probabilmente unico indiziato è Trivulzio, tutto lascia pensare che sia stato lui ad architettare e a eliminare Isolina. Per tale ragione viene arrestato e in seguito all’imprigionamento costruisce la propria difesa affermando che «mi duole sapere che il mio caso è servito da pretesto per polemiche confondendo la persona con l’Istituzione a cui appartengo e sento sempre il diritto e la fierezza di appartenerle». Il caso Isolina, come dimostrano gli incontri che la Maraini avrà negli anni Ottanta con alcune persone della famiglia dell’Alpino, lo segnerà. La verità non detta, l’avere pagato eccessivamente e da solo per un crimine di gruppo, la complicità che si è trasformata in omertà a vita, l’avere portato sulle spalle fino alla morte il peso di una sentenza ambigua e chiaramente fasulla faranno di Trivulzio un uomo diverso. Questa metamorfosi del tenente è stata dettata dal fatto che il suo senso d’onore, la sua proverbiale freddezza, il suo coraggio, il suo attaccamento all’esercizio l’abbiano costretto al silenzio eterno. Nell’interrogatorio durante il processo Todeschini il tenente ammette tutto, salvo le sue responsabilità dirette; conferma i fatti, dalla relazione amorosa con Isolina alle polverine che voleva farle usare per abortire. Esclude solo le responsabilità dirette, perché come rimarca l’autrice «se avesse raccontato come erano andate le cose, avrebbe scagionato sé dalle accuse più gravi ma avrebbe compromesso altri, rendendo impossibile tenere gli Alpini fuori dalla “sporca faccenda”». Una cosa, infatti, bisogna aggiungerla: se l’ideatore dell’uccisione di Isolina è stato Trivulzio, per l’esecuzione e l’occultamento del cadavere è stato aiutato da molti altri soggetti, nei quali il lettore si imbatte nel corso della vicenda.
Il ritratto di Isolina che emerge è quello di una ragazza dal carattere espansivo, gioioso e irrequieto. Era una giovane che non dava molta importanza ai soldi; quando li aveva li spendeva. Era molto legata alla sorellina Clelia e amava il padre, ma lo trattava un po’ come i suoi amanti, con divertita stizzosa passionalità. Dagli interrogatori del processo Todeschini si comprende come i Canuti non si amino; anche Clelia e Felice appaiono deboli, nello stesso modo di Isolina. Quando parlano per cercare di fare luce sulla morte della figlia e sorella maggiore, Felice e Clelia «si offrono già vittime prima di essere stati colpiti, senza nessun compiacimento, nessuna lamentela, così privi di vanità e di astuzia da apparire poetici e commoventi». Per questo di Isolina nessuno si ricorda, nemmeno nei giorni del processo Todeschini, e per questo la Maraini ha voluto darle una voce a distanza di quasi un secolo.
Indicazioni utili
Rinunciare a sé per gli altri
Il quaderno proibito che dona il titolo al libro di Alba De Céspedes è il diario che Valeria tiene per circa sei mesi (dal 26 novembre 1950 al 27 maggio 1951). Valeria è moglie di Michele, mamma di Riccardo e Mirella. Vive a Roma e lavora in un ufficio. Non è per tutte le donne a quell’altezza cronologica ricoprire un ruolo di simile responsabilità. Di questo la stessa narratrice ne va fiera. A comandarla in ufficio è Guido, che si innamora di Valeria e i due abbozzano una relazione amorosa extraconiugale. La protagonista del volume è una donna senz’ombra di dubbio coraggiosa. È giunta a quarantatré anni, non si sente ancora anziana, anche se per molti lustri ha messo in secondo piano sé a favore della famiglia e soprattutto dei figli; si è spesa per gli altri, senza riserve, ha pensato alla casa e ha portato avanti la propria attività lavorativa contribuendo al bilancio familiare. Quando, tuttavia, Riccardo e Mirella diventano grandi e sono prossimi a loro volta a costruirsi una famiglia, Valeria perde i suoi punti di riferimento e vive un momento di sbandamento esistenziale. Questo periodo della sua vita coincide con l’acquisto del quaderno, che viene immediatamente etichettato come «proibito» dal tabaccaio perché è stato venduto la domenica e la domenica si potevano vendere soltanto tabacchi, null’altro. Entra nelle mani di Valeria in modo clandestino e clandestinamente continuerà a rimanerci. Sul quaderno emergono ansie e paure, desideri e piaceri di Valeria. Esce la protagonista: la moglie che non ritrova più le antiche sensazioni al fianco del marito e si chiede se ci siano mai state; la figlia che non si riconosce nella mentalità dell’anziana madre; la mamma disorientata di fronte alla crescita di Riccardo e Mirella; l’amante segreta di Guido. Pagina dopo pagina Valeria si compromette nella stesura di questo diario e nasconderlo dalla vista dei familiari diventa un obbligo ossessivo. Non soltanto deve nascondere l’oggetto materiale, ma deve ritagliarsi anche degli spazi per dedicarsi alla scrittura. Nessuno deve sospettare che tiene un diario, quindi toglie tempo al sonno per dedicarsi a se stessa; mente a Michele, a Riccardo, a Mirella pur di dialogare con il suo io più profondo. Il diario cambia Valeria e funge da specchio. La protagonista per tanti anni non si è mai fermata, non ha mai tirato le somme, ha sempre e soltanto lavorato per il bene della famiglia (emblematica è questa affermazione datata 1° gennaio: «Eppure la mia pace nasce proprio dalla stanchezza che provo quando mi stendo nel letto, la sera. In essa trovo una sorta di felicità nella quale mi placo e mi addormento. Debbo riconoscere che, forse, la determinazione con la quale mi difendo da ogni possibilità di riposarmi non è che la paura di perdere questa sola fonte di felicità che è la stanchezza»). Quando impugna la penna e si accinge a scrivere, avvia un’operazione che le richiede fatica e tempo. Scrivendo, le sue certezze si sgretolano e, come detto, cadono quelle che sono state le colonne portanti della sua esistenza. Nella debolezza si inseriscono Guido e le riflessioni relative alla crescita dei figli e ai rapporti con le amiche. Valeria è infatti differente rispetto a molte altre sue coetanee. Si è scavata nel corso degli anni un’incolmabile distanza tra lei e le sue amiche perché lei lavora e provvede ai bisogni economici della sua vita, le altre no. In questo senso Valeria è una donna estremamente moderna e per quanto sa esprimere in ogni ambito della sua vita è uno straordinario modello. Come lei, tante altre donne di ieri e di oggi conducono quasi nell’anonimato giornate doppie tra casa e posto di lavoro. Molto spesso questo viene banalizzato, dato per scontato: Valeria invece lo rimarca con forza, esaltando quelli che sono stati i suoi sacrifici per troppo tempo taciuti.
Alla fine, Valeria non riesce a liberarsi dalle catene di una vita che non la soddisfa più. Abbandonando e distruggendo il diario, si riconsegna alla cruda realtà. Le sue future giornate saranno «bianche, lisce e fredde», ma con una consolazione: quella di essere ricordata come la locomotiva di casa, colei la quale sotto traccia permette all’intero collettivo di funzionare. Per Riccardo rimarrà l’idea di una madre «santa». Si sacrifica ancora una volta, probabilmente in modo definitivo. Lo fa per la sua famiglia e pone una pietra suoi desideri, primo fra tutti il tanto sognato viaggio in Veneto, a Venezia, con Guido. Valeria è l’emblema di una generazione postbellica che ancora non può fare quello che invece proveranno a compiere i nati nella generazione successiva. È Mirella in tal senso a effettuare quel passo ulteriore che è mancato nel cammino della madre. Mirella si emancipa definitivamente, non bada al giudizio dei più tanto da impostare una relazione amorosa con un importante avvocato che si sta separando dalla moglie (il Cantoni). Decide di lasciare Roma per Milano, dove lavorerà come avvocato insieme al suo amato. Mirella è una ragazza che ha studiato e si è guadagnata con il sudore quello che voleva. Si è scontrata con la madre per posizioni generazionali inconciliabili, ma l’ha sempre fatto con una consapevolezza disarmante. Da ragazza è divenuta donna e la sua maturità non può lasciare indifferenti quando si legge questo libro.
Diverso il discorso relativo ai due uomini. Michele è il classico uomo di mezza età che fatica a trovare una nuova meta nel suo viaggio. Ripone tutte le sue speranze in un soggetto cinematografico che affida a Clara, amica d’infanzia di Valeria e per certi versi diversa dalla protagonista. È l’ultima chance per sentirsi ancora un uomo in grado di dire e dare qualcosa. Con Valeria il rapporto è ormai piatto e va avanti per inerzia; la moglie si è trasformata agli occhi di Michele nell’adorata mamma, tanto che ha iniziato a chiamarla «mammà». Riguardo ai figli resta un passo indietro, è come uno che insegue quello che accade e proprio per questo appare sempre in ritardo. Inoltre, anche il posto di lavoro in banca, quello consolidato ormai da anni, non gli dona alcun sussulto. Ecco quindi che la bocciatura del soggetto cinematografico si tramuta nella parola fine per Michele e la sua immagine non può che essere quella sulla poltrona intento ad ascoltare la radio (la stessa del padre di Valeria, ormai completamente estraneo a tutto quello che lo circonda perché non ha più nulla da offrire).
Riccardo, infine, è la sconfitta della generazione che avanza. È soppiantato da Mirella. Riccardo è un debole e la sua debolezza tende a suscitare pietà. Proprio quest’ultimo sentimento è quello che blocca Valeria nel momento in cui vorrebbe cambiare passo nella sua vita; la madre non riesce a realizzare quelli che sono i sogni impressi sul diario perché sente che suo figlio, già grande, già prossimo a sposarsi con Marina, rimasta nel frattempo incinta, ha ancora un estremo bisogno di lei. Non è in grado di uscire dal guscio materno. Prospetta la fine degli studi e inverosimili viaggi in Argentina, ma alla fine resterà (e Mirella è l’unica a dirlo forte e chiaro rompendo la vana illusione di Valeria) a casa sua, facendo accomodare negli stessi spazi la sua futura moglie. Lo scacco matto della debolezza, l’estremo tentativo di richiesta d’aiuto a Valeria, che non può esimersi, se non altro per essere ricordata come una «santa» dal suo Riccardo.
Indicazioni utili
Un «miracolo balordo»
«Con trenta omicidi ben pianificati io ti prometto che farei il vuoto, in Italia»: più esplicito e tagliente di così Luciano Bianciardi non poteva essere nel suo capolavoro, La vita agra. La prima parte del capitolo X, il penultimo del volume, si potrebbe definire il manifesto della critica sociale racchiusa nell’opera. Il bersaglio è quel fenomeno che dagli studiosi, dagli storici sociologi economisti, è definito miracolo italiano, il «boom economico» del nostro paese (1958-1962). Innanzitutto, da fine conoscitore della lingua ragiona sull’espressione scelta per definire quel prospero momento del Bel Paese. «Un fenomeno che i più chiamano miracoloso, scordando, pare, che i miracoli veri sono quando si moltiplicano pani e pesci e pile di vino» specifica l’autore. Colui che ha realizzato i miracoli è un «dottorino ebreo, biondo, sui trent’anni», quello a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta non è altro che un «miracolo balordo» perché l’obiettivo di chi muove i fili è soltanto uno: fare insorgere bisogni mai sentiti prima. In una frase Bianciardi descrive, con un dono di sintesi pregevole e illuminato, il capitalismo e quello che l’universo capitalista genera. L’escalation vissuta dal mondo occidentale negli ultimi sessant’anni trova un’anticipazione lungimirante nelle righe che seguono: «Chi non ha l’automobile l’avrà, e poi ne daremo due per famiglia, e poi una a testa, daremo anche un televisore a ciascuno, due televisori, due frigoriferi, due lavatrici automatiche, tre apparecchi radio, il rasoio elettrico, la bilancia da bagno, l’asciugacapelli, il bidet e l’acqua calda». Insomma, riassume quello che è realmente accaduto nella nostra società nella quale, nolenti o volenti, si è sempre portati a possedere qualcosa in più. I «trenta omicidi ben pianificati» promessi dal protagonista del libro all’amico Tacconi si rivelerebbero inutili perché in quel vuoto di potere si inserirebbero automaticamente altri specialisti della dirigenza e i problemi si ripresenterebbero puntuali. Ecco quindi che Bianciardi prospetta una rivoluzione che deve necessariamente partire «in interiore homine». Le pagine che seguono sono utopistiche e riportano allo stato di natura, ma esprimono bene la sua insoddisfazione per la vita agra che lo circonda. Da dentro noi stessi si possono ricavare le forze per un mondo differente.
L’analisi del capitolo X è figlia di quelle che sono le premesse che hanno spinto l’autore a cimentarsi nella stesura di questo romanzo un po’ sui generis. Si è spinto a scrivere perché doveva raccontare la sua storia da emigrato, trasferitosi dalla Toscana, precisamente dalla Maremma, a Milano in cerca di riscatto nel segno dell’amico Otello. Il riscatto ricercato non è personale: l’obiettivo è invece riscattare le quarantatré vittime del disastro della cava mineraria in Val di Cecina. Un incidente evitabile che invece si verificò perché in quella miniera (così come in moltissimi altri posti di lavoro da Nord a Sud) «non era storia di rapporti tra uomo e uomo, fra operaio e dirigente e ditta, ma fra uomo, giorno e tonnellata»; tutto ruotava intorno alla produzione, non esisteva nient’altro nemmeno il pericolo di un’imminente strage. Il riscatto è quindi quello di andare a Milano davanti al «torracchione di vetro e di cemento», sede della direzione della cava, dove seguivano la pratica degli assegni assistenziali da 500mila lire e da un milione da destinare alle famiglie dei quarantatré morti. «La missione mia era questa: far saltare tutti e quattro i palazzi e, in ipotesi secondaria occuparli, sbattere fuori le circa duemila persone che ci lavoravano, chine sul fatturato, sui disegni tecnici e sui testi delle umane relazioni, e poi tenerli a disposizione di altra gente» scrive Bianciardi.
Il volume è fortemente autobiografico. Le vicende del protagonista coincidono in molti passaggi con le vicende esistenziali di Bianciardi. Dal trasferimento dalla Toscana a Milano alle vicende sentimentali (una moglie lasciata con prole in centro Italia, Mara nel libro, e una nuova compagna nella città lombarda, Anna) fino all’attività da traduttore sono tutti elementi che hanno riguardato lo scrittore. La Milano descritta è tetra, trafficata, caotica, triste e spoglia di umanità. Le immagini concrete che si stagliano indelebili nella mente del lettore sono parecchie. La prima, a parer mio, è quella degli operai limatori di ghisa con le mani che arrivavano ogni mattina alle sei con i «treni del sonno»; gente invisibile che non riuscivi a incontrare perché come arrivavano, dopo la giornata di lavoro scomparivano. La seconda riguarda la città stessa avvolta da una nebbia talmente fitta che le persone potevano essere incontrate soltanto nel cono di luce sporca dei lampioni; non erano tuttavia persone, bensì «qualche larva imbacuccata e frettolosa che scantonava verso casa fra lo sfrecciare delle automobili nere». Questa descrizione e molte altre fanno de La vita agra un grande affresco in grado di far percepire al lettore l’atmosfera meneghina di quel periodo. Personalmente ritengo proprio questa peculiarità uno dei principali punti di forza del volume: Bianciardi con la sua penna ti fa talmente immergere che risulta difficile distaccarsi dalla pagina e si tende a procedere speditamente nella lettura (alle volte anche troppo tenendo conto dei concetti alti espressi che meriterebbero un’attenta riflessione). La terza immagine indelebile riguarda la gita in tram quotidiana, «un viaggio in compagnia di estranei che non si parlano, anzi nemici che si odiano»; il protagonista/autore cataloga tre tipi fondamentali di faccia: la faccia del ragioniere in camicia bianca, la faccia disfatta della casalinga e la faccia smunta, stirata e alacre della dattilografa con le gambette secche. Molte altre istantanee si susseguono nel libro, come quella delle commesse del market.
Un’ultima riflessione però la merita la tematica della morte che viene affrontata in modo coraggioso da Bianciardi. «E tu stai lì, tranquillo, senza sentire niente, senza dovere fare niente, perché ormai tocca tutto agli altri. Ecco perché sorridi». E ancora: «Io, lo giuro, non ho paura della morte, ma l’agonia sì, mi fa paura... Poi, appena morto, lo vedete distendersi, riposare, e sorridere ironico. Ora - così par che dica - arrivederci a tutti e sotto voialtri, io stavolta vado in pensione sul serio». Prima, però, secondo Bianciardi è necessario un funerale come si deve, non come è occorso al suo amico Enzo, uno che voleva campare, conoscere la gente, andarci d’accordo; il giorno del funerale, tuttavia, si ritrovarono pochi intimi e il traffico intorno continuava imperterrito e indifferente. Queste riflessioni sono state fatte da un autore che purtroppo è scomparso quando non aveva ancora compiuto cinquant’anni. Nel suo percorso letterario La vita agra è riconosciuta come pietra miliare e resta a distanza di sessant’anni dalla prima pubblicazione del 1962 un incomparabile sguardo delle conseguenze umane e sociali del miracolo economico italiano.
Indicazioni utili
Cosa non si fa per la Giustizia
Corrado Alvaro in Gente in Aspromonte traccia un limpido quadro della realtà meridionale dei primi decenni del Novecento. Questa raccolta di racconti, il cui nome deriva dal racconto più lungo e più famoso, appunto Gente in Aspromonte, si compone di tredici testi che in modalità differente permettono al lettore di avere un quadro complessivo molto ricco e strutturato sul mezzogiorno d’Italia. Come detto, il racconto lungo Gente in Aspromonte è il più importante del volume ed è un testo imprescindibile della letteratura novecentesca italiana. In primo luogo anticipa quelle che sono le istanze del realismo, insieme a Gli indifferenti di Alberto Moravia. Apparso nel 1930, richiama senz’ombra di dubbio Giovanni Verga e Luigi Pirandello che a modo loro avevano già affrontato le medesime tematiche.
La lingua scelta da Alvaro per parlare dell’Aspromonte e della sua gente è l’italiano medio. Non compaiono espressioni dialettali, nemmeno nel dialogato; non si cerca perciò di riprodurre su carta l’andamento che verosimilmente avrebbe avuto un dialogo tra i personaggi prescelti dall’autore. Il contesto di riferimento è quello pastorizio, il protagonista si chiama Argirò ed è affiancato nelle vicende dal primogenito Antonello. Il meridione si caratterizza per il proprio sistema latifondista: grandi, enormi ricchezze concentrate nelle mani di una sola famiglia e intere comunità costrette a gravitare intorno ai capricci, alle pretese e ai dispetti delle stesse. In questo caso la famiglia padrona è quella dei Mezzatesta (già il cognome lascia presagire i difetti che hanno i componenti della casata).
Un giorno i buoi del pastore Argirò cadono in un burrone e la sua vita appare rovinata. Torna al villaggio, prova a chiedere perdono e a negoziare un nuovo accordo con la famiglia Mezzatesta ma viene liquidato malamente. Le disavventure di Argirò si susseguono, sebbene trovi un aiuto economico in Ignazio Lisca, trafficante di denari del paese. Il Lisca tra gioco d’azzardo e prestiti appare la moderna rappresentazione del boss mafioso che attraverso le sue finanze elargisce per ricavarne nuovi benefici. In tal senso la scena in cui il Lisca gioca a carte a casa sua con alcuni conoscenti, tra cui il forestiero Giovanni Milone, un ladro che profana le offerte della chiesa in modo talmente esplicito che tutti ne erano a conoscenza, è indicativa dei rapporti di forza che si sono venuti a cementificare nel corso dei decenni nei piccoli villaggi meridionali, dando poi vita alle manifestazioni più o meno evidenti dei corpi mafiosi.
Dopo diverse vicissitudini Argirò, soprannominato lo «Zuccone» dai Mezzatesta, riesce a risollevarsi e a trovare un’attività remunerativa. Attraverso l’acquisto di una mula diventa una sorta di “corriere” che fa da spola tutti i giorni tra il mare e le zone interne della Calabria. Intanto la sua famiglia cresce. Si affianca ad Antonello una coppia di gemelli, i mutoli perché incapaci di parlare; e poi arriva anche Benedetto che viene indirizzato agli studi da sacerdote. Inserire un componente della famiglia nel mondo ecclesiastico è la massima aspirazione di quel tempo in una realtà come quella dell’Aspromonte e proprio per questo Argirò impegnerà tutte le proprie forze a favore di Benedetto e dei suoi studi, richiedendo anche al primogenito Antonello di trasferirsi in città, di lavorare in fabbrica e di contribuire così alle spese del fratello. Per Argirò l’investimento su Benedetto diventa motivo di rivalsa contro coloro i quali l’hanno sfruttato da pastore e l’hanno lasciato in mezzo a una strada nel momento del bisogno; Benedetto è il personale riscatto di Argirò e diventa anche un motivo di vanto. Un vanto talmente accentuato che acuisce le invidie nel piccolo villaggio tanto che i giovani figli (legittimi e non legittimi) di Camillo Mezzatesta eliminano la mula di Argirò e lo rovinano una seconda volta. Queste dinamiche, se ricalibrate nella contemporaneità, raccontano ancora oggi bene meccanismi malsani che troppo spesso governano le nostre famiglie, le nostre associazioni e le nostre comunità (e più sono piccole, più balzano all’occhio).
Si erge protagonista del finale della narrazione Antonello. Ha osservato il mondo d’ingiustizia che lo circonda. È stato un attento osservatore di tutte quelle pratiche di disuguaglianza che hanno contraddistinto la sua infanzia e la sua adolescenza. Si è sacrificato per il bene della famiglia, abbandonando la sua terra per la città. Alla fine non ha retto ed è tornato indietro perché quella sull’Aspromonte, da pastore, «è una vita alla quale occorre essere iniziati per capirla, esserci nati per amarla, tanto è piena, come la contrada, di pietre e di spine»; lui l’ha assaporata fin dai primi passi ed è impossibilitato ad abbandonarla. Annota quello che non funziona e soprattutto annota tutti quelli che sono i punti più incivilmente sorprendenti di ingiustizia sociale. Si inscrive anche lui alle faide di paese e fa scacco matto: incendia i grandi possedimenti della famiglia Mezzatesta, conducendola a una gravosa rovina. Dopo aver innescato il putiferio attende paziente l’arrivo dei carabinieri sui suoi monti e al loro sopraggiungere conclude con una frase che da sola riassume il senso di quanto descritto da Alvaro in un’ottantina di pagine: «Finalmente potrò parlare con la Giustizia. Chè ci è voluto per poterla incontrare e dirle il fatto mio!». Insomma c’è voluto il concretizzarsi del detto “occhio per occhio, dente per dente” per avere, per la prima volta nella sua vita, alla sua porta coloro i quali sono i garanti della giustizia e l’attento annotatore Antonello ha un sacco pieno di cose da denunciare relative a un mondo governato dall’ingiustizia sociale.
Tra gli altri racconti della raccolta che meritano una menzione ci sono: l’intimo e commovente Innocenza, il crudo e duro Coronata e il quasi primitivo Temporale d’autunno. In quasi tutti è preponderante la figura femminile (i titoli lo ricordano: La pigiatrice d’uva, La zingara, Teresita, Romantica, La Signora Flavia, Cata dorme e i già menzionati Innocenza e Coronata). Alcune tematiche si richiamano: amori impossibili, prostituzione, furti e fughe. Il contesto è bigotto, superstizioso, eccessivamente serrato su se stesso.
Indicazioni utili
«Una spinta istintiva: salvarsi»
Un anno sull’altopiano di Emilio Lussu è uno dei dieci libri del nostro Novecento che tutti dovrebbero leggere almeno una volta nella loro vita. Le ragioni sono svariate. Innanzitutto parla della vita di trincea durante i combattimenti della Prima Guerra Mondiale come nessun altro libro della nostra letteratura. Lo fa con uno stile che ancora oggi gli dona freschezza e modernità. È infatti un volume che non disperde energie in inutili sbrodolamenti retorici. Ritrae il dramma della guerra senza artefici e nei suoi aspetti di grande caos, lasciandole tuttavia le dimensioni del vissuto, semplicemente e immediatamente da coloro che vi si trovano presi. La questione stilistica si intreccia con la storia editoriale del capolavoro di Lussu. È stato scritto dopo una ventina d’anni dal termine delle ostilità, precisamente tra il 1936 e il 1937, quando l’autore era in un sanatorio di Clavadel, sopra Davos, dove si era ritirato per l’aggravarsi della malattia polmonare contratta in carcere (Lussu è stato un convinto anti-fascista e uno dei più importanti militanti del Partito d’azione). Il distacco temporale tra i terribili fatti bellicosi vissuti in prima persona tra il Carso, l’altopiano di Asiago e il Bainsizza e il momento della stesura del libro permette a Lussu di non farsi condurre dalle emozioni. Dietro a ogni singolo episodio narrato c’è stata una lunga riflessione durata anni, la quale ha spogliato l’episodio stesso di tutti i connotati retorici incanalandolo sul binario di una narrazione diretta appassionata, lucida, sarcastica e trascinante. Il tenente Lussu è per forza di cose il catalizzatore di un dramma collettivo; egli procede leggero e lo sentiamo pensoso in modo straordinariamente genuino dei casi altrui più che dei suoi. Dunque, è proprio il distacco temporale che potenzia l’impegno dell’autore di testimoniare fatti e vicende, situazioni e comportamenti osservati e interpretati sul vivo del loro prodursi. E lo stesso Lussu nell’avvertenza al lettore dice che «anche questo [libro] non sarebbe stato mai scritto, senza un periodo di riposo forzato».
È un volume in cui le morti si susseguono. Durante la lettura è normale fermarsi e interrogarsi sul perché avviene l’«inutile strage», come la definì Papa Benedetto XV. Si comprendono le dinamiche folli di una guerra di posizione sfiancante e improduttiva, nella quale «si sta come d’autunno sugli alberi le foglie», citando Giuseppe Ungaretti, altro reduce della Grande Guerra. Un anno sull’altopiano è un libro pieno di alcool (ne ho incontrato il medesimo carico soltanto in un altro volume, ovvero Mosca-Petuškì poema ferroviario di Venedikt Erofeev, simbolo della stagnazione) e più nello specifico pieno di cognac. «L’anima del combattente di questa guerra è l’alcool. Il primo motore è l’alcool. Perciò i soldati, nella loro infinita sapienza, lo chiamano benzina» si legge appena dopo il trasferimento di Lussu dal Carso all’altopiano di Asiago. Uno dei pochi a non bere è proprio Emilio Lussu e questa sua capacità di rimanere sobrio sembra tradursi vent’anni dopo nella sua pagina pulita e lucida. Il suo diversivo all’alcool è la letteratura, sono Baudelaire e Ariosto, I fiori del male e L’Orlando furioso; la letteratura che permette di evadere nella sua straordinaria eterogeneità. Chi non viene ucciso dalle pallottole o dalle bombe austriache viene invece consumato dal cognac, sorso dopo sorso. Si tratta di un processo inevitabile, come accade al colonnello Abbati, la cui fine si sovrappone al trasferimento sul Bainsizza di Lussu che segna anche la conclusione delle narrazioni sebbene la guerra continuasse.
Quella descritta è una guerra che logora lo spirito e il corpo perché non si capisce nemmeno chi sia il nemico. «È da oltre un anno che io faccio la guerra, un po’ su tutti i fronti, e finora non ho visto in faccia un solo austriaco. Eppure ci uccidiamo a vicenda, tutti i giorni. Uccidersi senza conoscersi, senza neppure vedersi. È orribile! È per questo che ci ubriachiamo tutti, da una parte e dall’altra» si legge. Ecco che quindi il peggior nemico non sono gli austriaci ma paradossalmente i capi politici e militari del proprio esercito. «Il generale era sempre là, come un inquisitore, deciso ad assistere, fino alla fine, al supplizio dei condannati» si dice a proposito dell’odiato Generale Leone. Uno dei più decisi nella lotta contro i capi è Ottolenghi, uno di quelli chiamati a guidare l’artiglieria. «I nostri generali sembra che ci siano stati mandati dal nemico, per distruggerci... Hanno verniciato la stessa nostra vita, vi hanno stampigliato sopra il nome della patria e ci conducono al massacro come delle pecore» afferma in un concitato incontro con altri comandanti e sottotenenti dopo un tentativo di tumulto. Non ha paura di attentare contro i suoi superiori, primo fra tutti il Generale Leone che espone al mortale pericolo della feritoia 14, e si rende anche protagonista di una singolare azione sul magazzino di sussistenza della divisione con la squadra degli sciatori.
Come si può intuire, in Un anno sull’altopiano si alternano giorni spenti e sempre uguali in trincea, assalti, tumulti, rappresaglie, riposi, ritorni a casa. Ne esce un grande mosaico lungo dodici mesi, un mosaico paradigmatico di quello che è stato il conflitto sulle montagne italiane. Ci sono pagine anche molto intime. Toccante, ad esempio, il capitolo nel quale Emilio torna per un brevissimo periodo a casa, in Sardegna, e incontra la madre e il padre. Da rimarcare anche in questo frangente la capacità scrittoria dell’autore che con estrema semplicità descrive il patimento sovraumano provato dai suoi genitori, chiamati a sopportare l’angoscia di avere entrambi i figli impegnati al fronte. Non manca nemmeno la storia d’amore, quella del capitano Avellini, uno dei tanti che non ce la farà a sopravvivere. Infine, assumono un valore indescrivibile le piccole cose, quelle che in un sistema esistenziale ordinario sfuggono. «Ecco, io dormo ancora mezz’ora, io posso ancora dormire mezz’ora, e poi mi sveglierò e mi fumerò una sigaretta, mi riscalderò una tazza di caffè, lo centellinerò sorso a sorso e poi mi fumerò ancora una sigaretta» pensa prima di uno dei tanti assalti Lussu. E questo dice che «appariva già come il programma gradito di tutta una vita» perché anche a distanza di vent’anni «mentre il nostro amor proprio, per un processo psicologico involontario, mette in rilievo, del passato, solo i sentimenti che ci sembrano i più nobili e accantona gli altri, io ricordo l’idea dominante di quei primi momenti. Più che un’idea, un’agitazione, una spinta istintiva: salvarsi».
Indicazioni utili
Sesso e denaro, le chiavi della realtà
La prosa di Alberto Moravia è la migliore del nostro Novecento. Limpida e pulita, mai una parola in più del dovuto, mai una subordinata da rileggere per comprendere il senso del periodo. Il cosiddetto «grigiore» moraviano lo si ritrova ormai maturo anche ne La noia. Quando si legge l’autore romano, non bisogna attendersi picchi entusiastici, enfatici o retorici; si ha però la certezza di trovare una precisione descrittiva degli ambienti e degli stati d’animo fuori dal comune. La noia non è il primo romanzo di Moravia da leggere perché bisogna prima entrare in sintonia con la prosa dell’autore. Non a caso è un volume apparso nel 1960, ben trentuno anni dopo Gli indifferenti; per questo bisogna avvicinarsi a La noia dopo aver già sperimentato un Moravia pregresso e giovanile.
Compiute queste doverose premesse circa lo stile e le tempistiche, ne La noia si ritrova la summa della riflessione moraviana. È un romanzo potente, snervante e molto complicato. Meglio che in ogni altro libro si comprende come per Moravia le chiavi per entrare dentro la realtà siano due: il sesso e il denaro. In un modo o nell’altro si ritrovano entrambi gli elementi ne Gli Indifferenti o ne La Romana, ma è Dino, protagonista de La noia, a essere il perfetto concentrato delle riflessioni sul sesso e sul denaro. Questo romanzo si fonda su un sostanziale paradosso: il protagonista è un pittore ma smette di dipingere al primo rigo del libro e la sua tela disposta al centro dello studio in via Margutta a Roma rimarrà bianca fino all’ultima pagina. Si parla di un pittore che non dipinge più, che ha rifiutato di dipingere per un senso esistenziale di noia, ovvero di incomunicabilità con la realtà e i suoi contenuti. «L’aspetto principale della noia era l’impossibilità di stare con me stesso, la sola persona al mondo, d’altra parte, della quale non potevo disfarmi in alcun modo» scrive al termine del prologo Dino, la voce narrante.
Dino non è solo nel romanzo. Interloquisce con due presenze femminili: la ricca madre e Cecilia, giovane minorenne che frequentava il palazzo di via Margutta per posare nuda nei quadri di un anziano pittore, il Balestrieri. Proprio il Balestrieri è uno dei due personaggi maschili insieme all’attore Luciani. Se le figure femminili sono in scena e si confrontano quotidianamente con Dino, invece i due uomini sono assenti: Balestrieri muore all’inizio della vicenda durante uno dei tanti, tantissimi rapporti sessuali con Cecilia, mentre Luciani, successivo amante di Cecilia, quando la ragazza aveva già iniziato a frequentare Dino, è sempre dietro le quinte e si manifesta soltanto attraverso il racconto di Cecilia, le domande di Dino e le sue elucubrazioni.
Colei la quale prende pagina dopo pagina il sopravvento all’interno della narrazione è proprio Cecilia. Il motivo è semplice: diventa talmente avvolgente da capovolgere completamente l’esistenza di Dino, il cui tempo e le cui azioni dipendono a doppia mandata da Cecilia. «Era lei a possedermi ed io a essere posseduto, benché, poi la natura, per i suoi fini, illudesse lei e me del contrario. Così, pensai, ero un uomo finito: non soltanto non avrei mai più dipinto ma anche mi sarei distrutto nell’inseguimento di questa specie di miraggio che pareva sorgere dal grembo di Cecilia come dalle sabbie di un deserto» afferma un esausto Dino ormai prossimo a tentare il gesto estremo. Il vero problema risiede nella volontà di Dino di possedere la ragazza. Tenta in ogni modo: carnalmente, con il denaro, con una proposta di matrimonio. Tuttavia, i fallimenti si susseguono puntuali uno dietro l’altro tanto da spingere Dino a schiantarsi volontariamente con la macchina contro un platano. Solo a quel punto si ridesta e probabilmente (lascia lo stesso narratore il dubbio) comprende il proprio errore: «E, insomma, io non volevo più possederla bensì guardarla vivere, così com’era, cioè contemplarla». In quel letto d’ospedale durante la degenza ritrova quella sintonia con la realtà e forse potrà tornare anche a dipingere.
In questo turbato crescendo Cecilia, come detto, si eleva, senza fare nulla per farlo, a regina incontrastata del volume. Due aggettivi la catalogano: misteriosa e inafferrabile. Ha condotto alla morte Balestrieri, che prima di Dino era rimasto intrappolato nel corpo metà adulto e metà adolescenziale della giovane, e rischia di provocare la stessa fine in Dino. È definita senza cuore, falsa, interessata dalla vedova di Balestrieri; la stessa madre di Cecilia dice che «non è affezionata a nessuno», tanto che decide ugualmente di partire per due settimane con Luciani a Ponza sebbene il padre sia sul punto di morte dopo una lunga malattia. Eppure, nonostante questo, ha un fascino tale e una capacità di darsi che la rendono irresistibile agli occhi dei vari amanti (dal primo fidanzato Tony al primo amante Balestrieri, giungendo poi a Dino e a Luciani). «Era sempre, per così dire, pronta al rapporto sessuale, appunto come una macchina ben nutrita di combustile, è sempre pronta a funzionare» evidenzia Dino, ma guai a portare il discorso su di sé («quando veniva al discorso su di lei, era invece paragonabile a un’ostrica chiusa e tenace che tanto più stringa le proprie valve quanto più ci si sforza di disserrarle»). Le sue risposte sono sempre vacue, piatte, ma i suoi comportamenti sono studiati. Cecilia è un personaggio sfuggevole che non cerca di entrare in sintonia né con Dino né tanto meno con il lettore, che anzi è portato quasi ad agitarsi di fronte alla sua impassibilità e al suo darsi. È programmata in modo semplice e sembra priva di sentimenti; proprio per questo risulta misteriosa e inafferrabile, quasi senza scrupoli tanto da presentarsi da Dino il giorno della morte di Balestrieri oppure di partire per Ponza con il padre in fin di vita. «Non era in grado di pensare che ad una cosa sola per volta, quella che era più vicina e immediata e che le piaceva di più» analizza con un po’ di ritrovata lucidità Dino.
Ma siccome Moravia non si fa mancare niente anche la madre di Dino è costruita in modo alquanto incisivo. È la classica donna dell’alta borghesia romana con la villa in Via Appia; organizza ricevimenti e cura le finanze di famiglia dopo aver fatto scappare il marito e aver fatto allontanare il figlio. È una donna scrupolosa, attenta soltanto al denaro. Proprio con quest’ultimo prova a riportare tra le mura della sua villa il figlio, da sempre restio ad accettare l’idea di essere ricco ma consapevole del fatto che non potrà mai definirsi povero. E in tal senso Dino cede al denaro tanto amato dalla madre e lo spende per possedere Cecilia. Madre e figlio quindi si richiamano: la madre prova a impadronirsi del figlio attraverso il denaro, così come Dino prova a fare con Cecilia. È dunque chiaro che da questa sommaria analisi siamo di fronte a un romanzo realmente complicato, dai mille volti che lascia riflettere il lettore molto a lungo dopo la parola fine.
Indicazioni utili
Un estremo slancio vitale nell’ora della morte
Grazia Deledda traccia un quadro della Sardegna di fine Ottocento seguendo le vicende di Anania Atonzu, figlio di Olì e di Anania il mugnaio. Quest’ultimo abbandona l’amante Olì, non potendola sposare essendo già maritato a Nuoro con l’anziana Tatana. Olì per l’amore con Anania era anche stata cacciata dalla casa paterna ed era stata costretta a sistemarsi nel villaggio di Fonni, da una parente dell’amante. Da zia Grathia Olì rimane per alcuni anni e intanto cresce il piccolo Anania, il figlio concepito insieme all’amante. Quando Anania è ormai prossimo agli otto anni, Olì sacrifica il proprio ruolo da madre e conduce con l’inganno il bambino a Nuoro dal padre e dalla matrigna. Olì scompare nel nulla e di lei non si avranno più notizie fino alle ultime tribolate pagine del romanzo. Anania, il protagonista del libro, si forma a Nuoro presso gli umili ambienti vissuti da suo padre mugnaio e da zia Tatana, la quale si rileverà una matrigna attenta e affettuosa. Il contesto nuorese nel quale è inserito il giovane è degradato: «Il piccolo Anania passava le sue giornate fra questa gente meschina e violenta, dalla quale apprendeva atti e parole sconce, abituandosi allo spettacolo dell’ubriachezza e della miseria incosciente». Spiccano ancor di più se paragonati al degrado circostante i componenti della famiglia Carboni, ricca casata di Nuoro che possiede grandi proprietà in diverse zone della Sardegna. Il signor Carboni elargisce aiuti a tutti coloro i quali ne hanno bisogno e diventa padrino di moltissimi bambini e ragazzi, tra cui anche Anania, il figlio del mugnaio. «Se il bimbo ha voglia di studiare la provvidenza non mancherà» afferma il giorno del battesimo del protagonista il padrino. E in effetti Anania non segue le orme del padre ma può studiare per diventare avvocato. Da Nuoro va a Cagliari, da Cagliari torna a Nuoro e raggiunge il continente, Roma. Oltre allo studio, il minimo comune denominatore dell’esistenza di Anania è il ritrovamento della madre Olì, dopo che durante l’infanzia aveva sempre sognato di ritrovare il padre in una sorta di inseguimento senza fine. Non è infatti un caso che poco dopo i vent’anni si imbarca per Roma: aveva sentito da un mercante di Fonni che Olì si era trasferita nella capitale dove conduceva una vita disgraziata, da donna di facili costumi.
Per Anania Olì diventa un’ossessione, dalla quale non riesce a liberarsi. Il suo obiettivo è «ritirarla dalla via della colpa e del vagabondaggio, anche sacrificandole tutto il suo avvenire». In effetti, ciò accade. Anania, ormai grande, è promesso sposo di Margherita, figlia del suo padrino. Quest’amore ha fatto parlare molto a Nuoro e la lontananza di Anania per motivi di studio l’ha cementificato. Tuttavia, nel momento in cui sembra che si possa concretizzare, perché Anania è prossimo a terminare gli studi e quindi a emanciparsi definitivamente dalla condizione servile della sua famiglia, ricompare Olì. In realtà, la madre di Anania non fa nulla per ripresentarsi: è il caso che la riporta sulla strada del figlio. È una donna malata, esausta della vita. Non è mai stata a Roma, ma ha sempre vagato per la Sardegna, legandosi a diversi uomini che puntualmente l’hanno abbandonata, a partire da Anania il mugnaio. Madre e figlio si ritrovano dove avevano imparato a conoscersi, ovvero a Fonni nella bettola di zia Grathia. In Anania c’è ferocia, unita a una consapevolezza: non lasciare più fuggire propria madre, a costo di perdere tutto quello che aveva seminato nel corso degli anni, compreso il futuro matrimonio con Margherita. «Figlio della colpa, abbandonato da una madre più disgraziata che colpevole, io sono nato sotto un astro terribile e devo espiare delitti non miei» scrive Anania a Margherita in una struggente lettera notturna datata 18 settembre. La replica di Margherita pone fine alla relazione: «Tu vuoi sacrificarti per il mondo; tu vuoi rovinarti e rovinare chi ti ama, solo per la vanità di sentir dire: “Hai fatto il tuo dovere!”». Nemmeno il tempo di metabolizzare questo turbolento epilogo che Anania perde un altro elemento femminile della sua vita: la madre. Olì, infatti, nello stanzino in cui aveva cresciuto il figlio negli anni a Fonni si taglia la giugulare.
Abbandoni, inganni, suicidio, eppure il finale non è di un romanzo tragico, bensì è un commovente slancio vitale perché si inserisce l’estremo sacrificio di una madre per un figlio. Anania riscopre il piacere dell’esistenza nel momento in cui incontra la morte. «Mai, come in quel momento, davanti al terribile mistero della morte, egli aveva sentito tutta la grandezza ed il valore della vita. Ed ecco ella, ella sola s’era riserbata il compito di rivelargli, col dolore della sua morte, la gloria suprema di vivere: ella, a prezzo della sua propria vita, lo faceva nascere una seconda volta, e questa nuova vita era incommensurabilmente più grande della prima». La stessa Olì nel delirio finale che precede l’estremo gesto racconta a zia Grathia: «Lo abbandonerò una seconda volta, ora che non vorrei lasciarlo più... Lo abbandonerò nuovamente per espiare la colpa del primo abbandono...». Olì ritorna cenere e così si spiega il titolo del romanzo della Deledda: tutto è cenere, la vita, la morte, l’uomo, il destino stesso che la produceva. Prima di abbandonarlo a Nuoro, Olì aveva regalato ad Anania un sacchettino con dentro un mucchietto di cenere e gli aveva chiesto di mantenerlo vicino al cuore tutti i giorni della sua vita. Anania l’ha fatto e quel sacchettino è servito anche come elemento di riconoscimento dopo tanti anni dall’abbandono. Di fronte alla spoglia più misera delle creature umane, che dopo aver fatto e sofferto il male in tutte le sue manifestazioni era morta per il bene altrui, Anania ricorda che «fra la cenere cova spesso la scintilla, seme della fiamma luminosa e purificatrice, e sperò, e amò ancora la vita».
Lo stile della Deledda in questo romanzo risulta in alcuni punti, soprattutto quelli descrittivi, ridondante ed eccessivamente retorico (abusata, ad esempio, la metafora del giovane come un uccello pronto a spiccare il volo). Per essere un volume di inizio Novecento, precedente a Il fu Mattia Pascal, l’approfondimento psicologico dei personaggi è notevole. Inoltre, l’autrice riesce a catapultare il lettore nell’atmosfera rurale di una Sardegna mezzadra e rude, cristallizzata in un eterno Ottocento, scenario ideale per il topos letterario post-coloniale dell’essere e sentirsi periferia di tutto. In questo intreccio di personaggi funge da ulteriore personaggio il paesaggio aspro e continuamente sconvolto dagli eventi metereologici, metafora della natura umana in balia di forze dalle quali può trovare solo temporanei ripari. Ecco quindi che i personaggi di Cenere vedono le cose succedere come ineluttabili eventi atmosferici, senza potersi mai davvero opporre.
Indicazioni utili
Un’«istituzione»: i Finzi-Contini
Un’«istituzione»: la famiglia dei Finzi-Contini è e rappresenta questo nell’immaginario del protagonista e di Giampiero Malnate, 26enne milanese trasferitosi a Ferrara per ragioni lavorative. Lo dicono sul declinare del capolavoro di Giorgio Bassani, quando iniziano a incontrarsi con una certa frequenza per alcune settimane al di fuori del contesto del Barchetto del Duca, la residenza della nobile casata dei Finzi-Contini. Perché questa casata, di cui si segue l’albero genealogico a partire dalla tomba di famiglia nel cimitero ebraico di Ferrara, viene definita un’«istituzione»? In primo luogo ogni qualvolta non riusciamo a dare dei confini chiari e limpidi a qualcosa che ci sta di fronte tendiamo a elevarla a un livello superiore. Nessuno in effetti, né il protagonista (il cui nome non viene mai specificato in questa narrazione in prima persona che ripercorre i fatti della sua giovinezza, dall’infanzia al periodo universitario) né tanto meno Malnate, comprendono fino in fondo quello che sono, che pensano, che fanno i Finzi-Contini. Sono presentati come ebrei, ma ebrei diversi rispetto agli altri, perché hanno ereditato un atteggiamento superbo; si ritengono superiori rispetto al resto della comunità tanto da potersi permettere un vero e proprio isolamento all’interno dei dieci ettari di terreno delimitati da corso Ercole I d’Este di Ferrara. Sono grandi proprietari terreni e al loro servizio hanno molte famiglie contadine e secondo il padre del protagonista sviluppano una sorta di sotterraneo antisemitismo aristocratico, perché sono «sporchi agrari, biechi latifondisti, aristocratici nostalgici del feudalesimo medievale». I due figli del professor Ermanno, Alberto e la splendida Micol, non frequentano il ginnasio insieme a tutti gli altri ferraresi, ma svolgono lezioni private e si “mescolano” agli altri soltanto per gli esami finali. Oppure il professor Ermanno si impegna per rinnovare la sinagoga spagnola, al fine di non frequentare più quella italiana, dove già sedevano in uno spazio piccolo e separato, detto sinagoga fanese, situato al terzo piano di una vecchia casa d’abitazione di via Vittoria.
Proprio nell’appartata sinagoga fanese il protagonista bambino, anch’egli ebreo, ebbe modo di conoscere la famiglia Finzi-Contini nella sua integralità. E nel corso di quelle cerimonie religiose vide per la prima volta Micol, quella che diventerà la ragazza da lui tanto amata e tanto desiderata. Studiosa di letterature straniere a Venezia, Micol è il personaggio intorno a cui ruota l’intera vicenda. Emerge in tutta la sua personalità nelle ultime pagine del romanzo, grazie alla riflessione della voce narrante, che dice: «Quasi presaga della prossima morte, sua e di tutti i suoi, Micol ripeteva di continuo anche a Malnate che a lei, del suo futuro democratico e sociale, non gliene importava nulla, che il futuro, in sé, lei lo aborriva, ad esso preferendo di gran lunga “le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui”, e il passato, ancora di più, il caro, il dolce, il pio passato». Proprio per questo Micol non cederà mai al corteggiamento, in alcuni casi anche accentuato e carnale, del protagonista perché non vuole cancellare quel caro, dolce e pio ricordo del passato vissuto con lui, a partire da quella fitta rete di sguardi scambiati nella sinagoga italiana. Ed è la stessa ragazza a ribadire che «anche le cose muoiono, caro mio. E allora, se anche loro devono morire, tant’è meglio lasciarle andare. C’è molto più stile, oltre tutto». Micol è presaga del futuro perché ipotizza che la storia dei Finzi-Contini è destinata a concludersi tragicamente. Le leggi razziali prima, lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale poi, sono due fatti che rompono l’isolamento della famiglia, superando con prepotenza le Mura degli Angeli, dentro le quali i Finzi-Contini tra dimora, campo da tennis e giardino hanno vissuto come se fossero in un paradiso terrestre. Alberto, fratello di Micol, morirà prima degli altri nel 1942 per un linfogranuloma maligno; nel 1943 invece toccherà a Micol e agli altri componenti della famiglia essere catturati dai repubblichini e deportati in Germania.
Tanto inchiostro è stato speso su Micol Finzi-Contini. Vale la pena ricordare un aspetto singolare di questo personaggio di Bassani. La sua capacità di dialogo e il suo legame del tutto speciale con gli alberi e gli arbusti del proprio giardino, come se avessero un’anima e un cuore; sviluppa in tal senso un linguaggio con il quale riferirsi alle migliaia di varietà di specie. Le perlustrazioni e le passeggiate svolte dalla stessa Micol insieme al protagonista durante l’autunno del 1938, quando per la prima volta la dimora dei Finzi-Contini fu aperta a molti ragazzi ferraresi e non solo per la disputa di partite di tennis, sono tra gli aspetti più felici della narrazione. Si respirano meraviglia, stupore e briosità. Con l’avvento delle leggi razziali e con l’espulsione degli ebrei dal circolo di tennis della città, il campo dei Finzi-Contini diviene un punto di ritrovo e sede di incontri, sebbene la qualità della struttura non sia all’altezza della maestosità della tenuta. Singolare è il fatto che i lavori d’ampliamento del campo tante volte richiesti da Alberto e Micol inizino soltanto quando la salute d’Alberto si sta deteriorando in maniera sensibile. Il protagonista si accorge del peggioramento delle condizioni dell’amico, mentre tutti i componenti della famiglia tacciono e sembrano nascondere l’evidenza. Proprio per questo il miglioramento del campo da tennis diventa un diversivo per non focalizzare l’attenzione sui problemi di salute di Alberto. Anche questo è il mistero che circonda l’«istituzione» dei Finzi-Contini, una famiglia che alle orecchie del protagonista ha sviluppato un proprio modo di parlare. Alberto e Micol infatti accentuano parole che appaiono marginali in una frase, le evidenziano in un modo che appare improprio e anche per questo si differenziano dagli altri. Sono esseri unici, affascinanti.
Come sempre in Bassani, la Storia con la S maiuscola resta sullo sfondo: ha un ruolo preponderante e decisivo ai fini della narrazione, ma non occupa mai il centro. L’aspetto cruciale del romanzo è il rapporto giovanile tra il protagonista e Micol. Una volta archiviato, la voce narrante non ha nient’altro da aggiungere, anche se tanti punti interrogativi restano; ad esempio, è lecito chiedersi la ragione per cui il protagonista ebreo non finisca deportato in Germania a differenza di quanto accade ai Finzi-Contini. Resta anche in sospeso la possibile e segreta storia d’amore tra Micol e Malnate alle spalle dello stesso protagonista. Sono soltanto supposizioni a cui ogni lettore proverà a dare le proprie risposte. Concluso il viaggio condotto nella Ferrara di Bassani si è uomini e donne più ricchi se non altro per l’incontro magnifico con un personaggio indimenticabile come Micol. A tutti gli effetti questo romanzo si può considerare un capolavoro in grado di affrescare il microcosmo della società ferrarese negli anni del regime; un microcosmo piccolo-borghese dal quale si erge proterva l’«istituzione» dei Finzi-Contini.
Indicazioni utili
La gelosa solitudine di Stefano
Intimo, profondo, commovente. Il carcere è una sorta di malinconico valzer nel quale si “balla” al fianco di Cesare Pavese. Non sono i fatti che rendono questo romanzo breve così incisivo, ma sono le riflessioni, gli stati d’animo, i silenzi del protagonista, Stefano. Pavese racconta in terza persona l’esperienza autobiografica della condanna al soggiorno obbligato a Brancaleone Calabro per aver cercato di proteggere la donna amata, militante del Partito comunista italiano. E così il confino dell’ingegnere Stefano diventa metafora di una condizione esistenziale di solitudine, metà condanna metà alibi del suo chiamarsi fuori dal mondo, a guardare la vita «come dalla finestra del carcere». L’ingegnere è un intellettuale che imputa a se stesso più che al mondo la responsabilità della propria situazione, rifiutando di riconoscere una qualche giustificazione politica al suo soggiorno a Brancaleone Calabro proprio nel periodo di maggior consenso degli italiani al regime fascista, tra la guerra d’Abissinia e quella di Spagna.
Bisogna ricordare che Il carcere è stato pubblicato da Pavese solo nel 1948, due anni prima del suicidio. È stato pubblicato insieme a un altro romanzo breve o racconto lungo, La casa in collina, libro che ha come protagonista Corrado, sotto il titolo comune Prima che il gallo canti di trasparente allusione. Questa storia di privata solitudine ha un oggetto emblematico: la valigia. Stefano non la disfa mai durante i mesi di confino, la tiene sempre a portata di mano perché da un momento all’altro potrebbe essere mandato a casa e vive nell’angoscia di non fare in tempo a prepararla. Traspaiono, inoltre, le differenze economiche, sociali e culturali tra il Nord e il Sud Italia. Il meridione viene affrescato come un territorio più povero rispetto al settentrione. Le occhiate alle donne al Nord «non bruciano», come dice Stefano, mentre a Brancaleone Calabro scottano e sono quasi proibite.
Il grigio è il colore che trionfa durante la lettura de Il carcere: l’ambiente, i personaggi e lo scorrere del tempo sono avvolti da questo velo che riflette le sensazioni di Stefano. Quel carcere volontario lontano da casa era ritenuto ben peggiore dall’altro, quello vero, che aveva provato prima del confino, tanto che il protagonista solamente da una finestra o da una soglia amava goder l’aria aperta. La penna di Pavese è, come sempre, sensazionale quando deve penetrare nell’animo di Stefano. «A ogni ricordo, a ogni disagio, si ripeteva che tanto quella non era la sua vita, che quella gente e quelle parole scherzose erano remote da lui come un deserto, e lui era un confinato, che un giorno sarebbe tornato a casa». Vivere con distacco tutto quello che accade, compresa una storia d’amore clandestina: questa è la condizione dell’ingegnere. «Di tutta la gita aveva colto specialmente l’illusione che la sua stanza e il corpo di Elena e la spiaggia quotidiana fossero un mondo così minuto e assurdo, che bastava portarsi il pollice davanti all’occhio per nasconderlo tutto». L’illusione di un periodo di vita che si affronta ma non si vive. Lo si attraversa passivamente perché si avverte la condizione di precarietà. Inutile, in altre parole, impegnarsi troppo o immergersi troppo in una realtà a cui non si appartiene, perché poi alla fine turbinano nel vortice «come foglie spazzate i visi e i nomi di quelli che non erano là».
L’intimità di questo scritto di Pavese è testimoniata da diversi passaggi, come quest’affermazione di Stefano a un suo conoscente del paese, Giannino: «Si vive con la gente, ma è stando soli che si pensa ai fatti nostri». Stefano porta il lettore a riflettere sulla propria condizione, sulla propria presenza nel mondo. La sua è una sorta di gelosa solitudine. Il carcere ti trasforma, ti rende un «foglio di carta», fragile, introspettivo ed essenziale allo stesso momento.
Indicazioni utili
La sconfitta di una generazione
Naturale continuazione di Fausto e Anna, La ragazza di Bube è il romanzo più celebre di Carlo Cassola. Si tratta di un vero e proprio caso editoriale. Insieme al Giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani, è stato uno dei primi bestseller all’italiana, facendo seguito all’uscita de Il Gattopardo nel 1958 per Feltrinelli. Questo successo di pubblico per La ragazza di Bube è giustificato? Direi di sì. La narrazione è frizzante e rapida. Dominano il discorso diretto e l’azione. Le descrizioni sono ridotte al minimo e anche l’approfondimento psicologico non è così profondo, a differenza di altri romanzi del nostro Novecento. Ci sono ellissi che aumentano il ritmo della narrazione. Il romanzo è suddiviso in quattro parti, di cui la terza è la più lunga (un centinaio di pagine contro le quaranta della prima, le circa settanta della seconda e le trenta abbondanti della quarta).
La figura emblematica di questo libro è Mara, la ragazza di Bube per dirla con una perifrasi. Al termine della lettura Mara lascia un segno. La ragazza, al termine del romanzo divenuta donna, non indaga le ragioni dell’errore del suo innamorato: lo accetta come un semplice sbaglio e lo ripaga con la fedeltà. Sostituisce il giudizio morale con il sentimento. In tal senso La ragazza di Bube è una storia romantica, di amore e fedeltà, ma anche di sacrificio, incarnata da questa eroina appartenente al popolo, capace di suscitare emozioni e solidarietà. Nonostante tutto, Mara per Bube c’è e soprattutto ci sarà quando Bube potrà tornare a vivere da libero cittadino dopo la pena che gli è stata inflitta.
L’analisi tematica del romanzo, però, non può ridursi a questo. Cassola affresca la storia di un’intera generazione, la generazione che con la Resistenza era divenuta classe dirigente, protagonista della nuova vita democratica successiva ai vent’anni di regime e ai due anni di guerra civile. Emerge in modo lampante la sconfitta di questa generazione che ha visto annullata la propria giovinezza, è cresciuta troppo in fretta a causa della guerra e ha commesso misfatti che pagherà nel successivo periodo di pace. Emblematica in tal senso è la figura di Cappellini Arturo, conosciuto da tutti come Bube. Al fronte, tra le fila partigiane, ne aveva assunto un altro di nomignolo: il “Vendicatore”. Era amico e compagno di Sante, il fratello di Mara, morto prematuramente in battaglia. Bube vuole essere la testimonianza che la guerra annulla tutto quello che di umano caratterizza l’essere umano. La turpe violenza, la vendetta e l’acredine nei confronti dell’altro, del “nemico”, diventano la legge. Bube, nella sua ingenuità adolescenziale, è stato centrifugato dalla guerra, vivendo, come tutti, un periodo della sua vita senza il governo delle leggi. Si è guadagnato sul campo il nomignolo di “Vendicatore”, è stato incitato a commettere del male nei confronti dell’avversario. Un male ingiustificato perché spettava a lui il compito e l’onore di picchiare. Con questo spirito incorre in un incidente più grave, da cui tutta la sua esistenza sarà segnata. Nato da un classico alterco di paese tra comunisti e un maresciallo dei carabinieri (decorato della Resistenza, ma questo si saprà soltanto in seguito; nel 1945, agli occhi di un comunista, un maresciallo per pregiudizio comune non può che essere un fascista) si accende una sparatoria in cui il maresciallo uccide un compagno. A sua volta un altro compagno uccide il maresciallo e Bube, ancora immerso nel vortice della vita di macchia da partigiano, insegue e uccide il piccolo figlio del maresciallo.
Un tema molto spesso poco dibattuto è il reinserimento nella società di chi ha combattuto una guerra, di chi come Bube è stato partigiano. Ne La Storia di Elsa Morante si può vedere un altro ottimo esempio di sconfitta di questa generazione (si pensi a Carlo Vivaldi o al fratello maggiore di Useppe, Ninuzzo). Anche Bube esce con le ossa frantumate dal conflitto e da quello che ha implicato. Si inserisce in questo contesto uno dei temi più controversi del romanzo, messo in evidenza dal critico Geno Pampaloni, da sempre vicino alle istanze del Partito comunista italiano. Si tratta del tema della “educazione politica”. Bube si sente tradito dal suo partito e non soltanto perché, dopo il delitto (che egli pensa di aver compiuto quasi per delega del suo partito), il partito non lo difende abbastanza. Gli anni di controversie legali e di carcere permettono infatti a Bube di aprire gli occhi sull’intera sua parabola nel mondo comunista e partigiano. Comprende, soffrendo, che è stato vittima fin da quando il partito lo ha educato ai valori della violenza punitiva, lo ha accettato e sollecitato nel ruolo di “Vendicatore”, senza avvertirlo dei rischi mortali che egli correva, del non-valore etico implicito nell’ideologia della violenza.
La vicenda, proprio come Fausto e Anna, è ambientata in Toscana, in uno dei luoghi deputati del mondo di Cassola, la Val d’Elsa. L’atmosfera è quella dell’Italia liberata che sta cercando una nuova direzione. Bube è stato un valoroso partigiano e ha trovato nella lotta un’immagine di sé che lo soddisfa ma al tempo stesso lo chiude come uno stereotipo, quello di “Vendicatore”. Sempre e comunque, anche a guerra finita, tutti si aspettano che si comporti così e significativo è l’episodio che avviene con il prete Ciolfi, vecchio fascista che deve scappare dal paese. In Bube l’astio politico si mescola con la pietà nei confronti di quel prete conosciuto fin dall’infanzia, ma alla fine per saziare quello che è il suo attributo violento da protettore si trasforma egli stesso in aggressore di Ciolfi. Nel buio dello stereotipo dal quale non riesce a liberarsi Bube incontra l’amore. È l’amore di Mara, che si manifesta in maniera delicata ed emozionante in un capanno, prima della fuga di Bube per scappare dai problemi con la legge. L’incontro al capanno ha una funzione di rigenerazione: Bube attraverso Mara inizia ad aprire gli occhi, a comprendere di essere stato “usato”. Le sue peripezie sono appena iniziate, ma può contare su nuove consapevolezze e su Mara. Ecco perché le parole di Mara al termine del romanzo, «un po’ di pietà, signori giudici. Noi non chiediamo altro che un po’ di pietà», echeggiano come una richiesta commossa nei confronti di un’intera generazione, martoriata e stravolta dalla guerra.
Indicazioni utili
La complicazione di Fausto, la semplicità di Anna
Avete bisogno di una bella narrazione dai toni letterari e non banale? Scegliete Carlo Cassola. Un consiglio partite da Fausto e Anna, prima di passare al ben più celebre La ragazza di Bube. Per buona pace dei neoavanguardisti che hanno “bollato” Cassola e Bassani, le narrazioni dello scrittore nato a Roma nel 1917 funzionano nella loro semplicità. Proprio la semplicità è il marchio di fabbrica dei due romanzi sopra menzionati. Cronologicamente si danno il cambio, proprio come due staffettisti: Fausto e Anna tratteggia meravigliosamente la società giovanile, e non solo, degli anni Trenta e poi accompagna il lettore nel periodo bellico; La ragazza di Bube, invece, racconta come rientrare nella società civile dopo aver combattuto durante la Resistenza sia stato un problema molto complesso e troppo spesso taciuto. Tra i due romanzi intercorrono otto anni (1952 il primo ma Cassola ci lavorò per dodici anni, a partire dal 1949 e anche dopo la prima pubblicazione; 1960 il secondo, che in un breve periodo divenne un vero e proprio bestseller). In entrambi i casi il contesto è quello toscano, un contesto ben conosciuto da Cassola che si è trasferito in Toscana proprio in prossimità dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Altro aspetto che caratterizza entrambe le opere è l’amore, sempre interconnesso con l’aspetto politico (più accentuato nel romanzo del 1960, ma evidente anche nella seconda parte di Fausto e Anna). Sarebbe sbagliato, a mio modo di vedere, ridurre al tema amoroso le due opere perché sanno andare profondamente oltre e, come detto, hanno la capacità di fotografare un’epoca. Un ultimo aspetto comune è la visione non tradizionale e a tutti i costi positiva della Resistenza partigiana. Cassola, infatti, abilmente riesce a porre l’accento su pregi e difetti della lotta lungo la linea Gotica. Non si nasconde e sottolinea alcuni misfatti fini a se stesso che la guerra ti induce a compiere che tu sia nero o rosso. E poi a rafforzare il tema politico ci sono riflessioni sulla storia del socialismo italiano (dice Baba, compagno di Fausto al fronte: «Mi fanno ridere questi giovani d’oggi. Per loro la storia del socialismo italiano comincia con Gramsci. Parlano di Turati come di una vecchia ciabatta. Certo Turati, Modigliani, Treves hanno la loro parte di responsabilità, ma credi tu che non abbiano fatto nulla per lo sviluppo del movimento?») e anche sulle gerarchie di rapporto tra i partigiani nella macchia e i comitati disseminati nei diversi paesi.
Entrando nello specifico di Fausto e Anna, delinea in modo limpido la vicenda Mario Luzi: «È il primo difficoltoso amore tra Fausto e Anna, il loro diverso destino, il loro perdersi e ritrovarsi e separarsi definitivo; e, intrecciato al loro destino, il destino di Miro, il giovane dai sani appetiti che sposerà Anna, e il destino di Nora, la gioviale, franca cugina di Anna. Il perno della vicenda è Anna e tutta si riduce a un incontro tra la volontaria complicazione di Fausto con la semplicità reale di Anna e di tutto ciò che la circonda». Anna si può racchiudere in queste parole di Cassola a inizio romanzo: «Ad Anna dispiaceva dar noia; dispiaceva soprattutto che la gente si occupasse di lei. Cercava sempre di passare inosservata». In tal senso la personalità di Anna è molto diversa rispetto a quella della Mara di Bube. È la classica piccolo-borghese di provincia. Più incostante è il protagonista maschile, che è accostabile per il suo modo di essere indecifrabile a un personaggio di qualche anno successivo, Giacomo, detto Mino, de La Romana di Alberto Moravia. A diciotto anni si sente un intellettuale, si estrania dal proprio ambiente piccolo-borghese di città. È poco motivata la sua scelta di aderire al movimento partigiano, dopo che per lungo tempo aveva osservato questi combattenti «senza curiosità». Con Fausto e Anna assistiamo a due parabole emblematiche per quegli anni: Cassola li accompagna dall’adolescenza all’età adulta attraverso esperienze esistenziali profondamente differenti. Il romanzo, del resto, racchiude uno spazio temporale lungo di anni, tra la prima giovinezza di Fausto e l’età piena.
I luoghi tra la Maremma, Volterra, San Ginesio, i monti sono, come detto, quelli cari a Cassola e torneranno chilometro in più, chilometro in meno ne La ragazza di Bube. Il ritmo è celere: domina il discorso diretto, le battute sono brevi e incisive; inoltre, abbondano le ellissi che donano parecchia velocità alla narrazione.
La prosa di Cassola è scorrente, con magre interruzioni. Tutto è nitido: dai paesi alla mole calva del Monte Capanne. Anche le figure sono uguali, nette, con finezza incise, con il proprio tono della voce. Un personaggio come Miro, ad esempio, ha poco tempo a disposizione ma resta nella memoria. Anche certe scene di guerra, come lo scontro con i tedeschi, sono limpide. Toccante e sconvolgente la pietà di quella «marionetta» caduta in quel gioco della guerra, in quel gioco spaventoso e mortale. Riflette Fausto: «No, quando correva era una marionetta. Noi vedevamo una marionetta, non potevamo pensare che fosse un uomo». Proprio per questo Fausto e Anna non può essere soltanto un romanzo d’amore.
“Cecità che allora mi pareva chiaroveggenza”
Chi più del narratore della Coscienza di Zeno è inattendibile? Probabilmente nessuno, perché questo narratore è il vero emblema dell’inattendibilità; di lui non ci si può fidare. L’autobiografia, contenuta nel memoriale pubblicato per ripicca dal Dottor S., come si comprende dalla Prefazione dell’opera, è tutta un gigantesco tentativo di autogiustificazione da parte di Zeno che vuole dimostrarsi innocente da ogni colpa nei rapporti con il padre, con la moglie Augusta, con l’amante Carla, con l’amico/rivale/socio d’affari Guido. In realtà, in ogni pagina traspaiono i suoi impulsi reali che sono regolarmente ostili e aggressivi. Non sono però da intendersi come menzogne; sono piuttosto degli autoinganni determinati da processi profondi e inconsapevoli, con i quali Zeno cerca di tacitare i sensi di colpa che tormentano il suo inconscio. Per tutto il romanzo ogni gesto e ogni affermazione del protagonista rivela in trasparenza un groviglio complesso di motivazioni ambigue, sempre diverse o addirittura opposte rispetto a quelle dichiarate consapevolmente. La realtà oggettiva dei fatti, che si può solo intravedere dietro le mistificazioni dello Zeno narratore e personaggio, si incarica spesso di farci dubitare delle motivazioni da lui adottate. Per cui Zeno appare avvolto da un alone di ironia “oggettiva”, alla quale però si deve aggiungere il distacco ironico con cui Zeno guarda il mondo che lo circonda. La sua “malattia” si contrappone alla cosiddetta “normalità” degli altri, i quali vivono nella loro pretesa di “sanità”, soddisfatti e incrollabili nelle loro certezze. Grazie alla sua “malattia” Zeno è inquieto ma disponibile alle trasformazioni; sperimenta le più varie forme dell’esistenza ed esplora l’affascinante originalità. I “sani”, invece, sono cristallizzati in una forma rigida, immutabile.
L’altra assoluta novità che Italo Svevo propone nel suo capolavoro è l’impianto narrativo. L’autore abbandona il modulo ottocentesco, ancora di matrice naturalistica, e propone la particolare forma a episodi autonomi, ognuno dei quali costruisce una sorta di stazione a ritroso che dal passato si dirige verso il presente di volta in volta incamerando gli elementi di quella che precede. Non vengono perciò presentati gli eventi nella loro successione cronologica lineare; si adotta il cosiddetto «tempo misto». La ricostruzione del passato operata da Zeno si raggruppa intorno ad alcuni temi fondamentali, a ciascuno dei quali è dedicato un capitolo. Eventi contemporanei possono essere distribuiti in più capitoli successivi, poiché si riferiscono a nuclei tematici diversi e, inversamente, singoli capitoli, dedicati ad un particolare tema, possono abbracciare ampi segmenti della vita di Zeno. Si continua ad andare avanti e indietro, seguendo la memoria del protagonista. I celeberrimi temi trattati sono: il vizio del fumo e i vani sforzi per liberarsene (17 pagine); la morte del padre (22); la storia buffa del proprio matrimonio (68); il rapporto con la moglie Augusta e con la giovane amante Carla (84); la storia dell’associazione commerciale con il cognato Guido Speier (93). In ultima posizione pone un capitolo dedicato alla psicoanalisi, nel quale Zeno sfoga il proprio livore contro il Dottor S. e racconta la propria presunta guarigione, giustificata dal fatto che ormai è divenuto l’uomo più affidabile della famiglia Malfenti e un uomo di successo in ambito commerciale (25 pagine). Come si può notare, escludendo l’ultimo capitolo che è una sorta di diario personale di Zeno in cui dichiara le motivazioni che l’hanno portato ad abbandonare la psicoanalisi, i capitoli divengono sempre più lunghi ed è evidente una certa sproporzione nella distribuzione del materiale.
In ognuno di questi capitoli ci sono frasi che colpiscono e inducono ragionamenti di vario grado. La mia personale selezione è la seguente. Primo capitolo: «Penso che la sigaretta abbia un gusto più intenso quand’è l’ultima». Tra l’altro mi sembra che nell’ultimo brano di Marco Mengoni si faccia, a distanza di cento anni, ancora riferimento a quest’aspetto sveviano («Fosse l'ultima notte che abbiamo, sai / Io con tutte le altre la cambierei»).
Secondo capitolo: «Ricordo che cercai di mettere nelle mie mani, che toccavano quel corpo torturato, tutta la dolcezza che aveva invaso il mio cuore. Le parole egli non poteva sentirle. Come avrei fatto a fargli sapere che l’amavo tanto?». Sarà anche inattendibile, ma in questo passaggio Zeno è commovente e rappresenta tutti coloro che si trovano al capezzale di un caro.
Terzo capitolo: «Ancora adesso sto ammirando tanta cecità che allora mi pareva chiaroveggenza». Quante volte ci capita di voltarci indietro e di sorride della nostra versione di noi stessi di qualche anno addietro?
Quarto capitolo: «Anche una propria occhiata si ricorda quanto e forse meglio di una parola: è più importante di una parola perché non v’è in tutto il vocabolario una parola che sappia spogliare una donna». La potenza di uno sguardo sa andare oltre a tante parole, sa essere più efficace e veritiero.
Quinto capitolo: «Quando si viene colti nel sogno è difficile di difendersi. È tutt’altra cosa che arrivare alla moglie freschi freschi dall’averla tradita in piena coscienza». Giustificazione ineccepibile, da Zeno Cosini.
Indicazioni utili
"Vivo per la morte e morto per la vita"
Romanzo fondativo del Novecento italiano. Lettura imprescindibile. Gli schemi narrativi tradizionali vengono definitivamente abbandonati (in primo luogo gli schemi veristi, sotto i quali l’autore si era formato) e nasce il nuovo romanzo d’introspezione. La tesi di Luigi Pirandello è che il paradosso dei casi umani è nella vita e non è frutto della sua invenzione. Il narrare del Mattia Pascal è strutturato a partire dal personaggio, dalla sua parola, sul suo linguaggio, sulla sua visione del mondo. Del resto, Mattia è «maschera nuda» nel momento stesso in cui decide di prendere a narrare la propria bizzarra vicenda. Mattia trova la propria realizzazione soltanto diventando personaggio di una messa in scena di vita e di morte. È incredibile che un personaggio dichiari finita la propria esistenza quotidiana, per vivere solo nell’esistenza approssimativa di protagonista del racconto. Siamo di fronte a un eroe di romanzo che ha smarrito il proprio tempo e quindi deve raccontare le proprie morti per ritrovare il tempo perduto, per narrare esperienze decantate dalla distanza, dall’alterità e dallo spazio.
Si tratta dell’emblematica storia del diffuso disagio esistenziale che accompagna l’essere umano europeo all’ingresso del Novecento. Accettare il suicidio, dopo che sono stati gli altri a decretare la tua morte mentre eri soltanto andato altrove per qualche giorno, sembra la liberazione per Mattia, appare «la libertà una vita nuova!»; bastano, però, poche righe (e poche ore) e Mattia si sente «paurosamente sciolto dalla vita», superstite di se stesso, sperduto, in attesa di vivere oltre la morte. Ci si può forgiare una seconda volta da zero senza più il fardello o la sicurezza di un passato? La risposta tribolata di Mattia (poi Adriano Meis) è negativa e si tramuta in un secondo suicidio, questa volta architettato da sé e non indotto dalle constatazioni altrui. Non si può rimanere per sempre «forestieri della vita», perché se si osserva l’esistenza da spettatori estranei può apparire senza costrutto e senza scopo. Si rischia il paradosso: «Io sono ancora vivo per la morte e morto per la vita».
Come evidenzia Nino Borsellini, Pascal, Meis, Malagna, Pomino, Paleari, Papiano costruiscono l’onomastica pirandelliana, argutamente allusiva, che nel romanzo crea un reticolo di assonanze, di rimandi, di significati parzialmente riposti. E sono nomi e cognomi dalla forte potenza semantica; sono tracce di destini, quando non marchi caricaturali. Quando si legge Il fu Mattia Pascal non può mancare una riflessione relativa proprio a quest’aspetto.
Le due celeberrime premesse del romanzo, inoltre, introducono il lettore nelle «storie di vermucci», ormai da considerarsi come nostre. Come dice Pirandello, «dimentichiamo spesso e volentieri di essere infinitesimali per rispettarci e ammirarci a vicenda, e siamo capaci di azzuffarci per un pezzettino di terra o di dolerci di certe cose che [...] dovrebbero parerci miserie incalcolabili». L’introspezione di Mattia è notevole, già dalle scene del casinò. «La vanità umana non ricusa talvolta di farsi piedistallo anche di certa stima che offende e l’incenso acre e pestifero di certi indegni e meschini turiboli» è una frase che trovo particolarmente calzante e veritiera, come molte altre che si susseguono nel romanzo, tipo questa: «C’inganniamo così facilmente! Massime quando ci piaccia di credere in qualche cosa...».
Non si può restare indifferenti nemmeno di fronte alle elucubrazioni sulla scuola teosofica del signor Anselmo Paleari, padre di Adriana e suocero di Terenzio Papiano, nonché padrone della casa in via Ripetta a Roma dove troverà rifugio Adriano Meis. Colpisce, ed è molto figlia dei primi anni del Novecento, la considerazione di Anselmo su Roma: «I papi ne avevano fatto un’acquasantiera; noi italiani ne abbiamo fatto, a modo nostro, un portacenere». Un’affermazione che però non si può assolutamente definire anacronistica, pensando alle polemiche che riguardano la Roma d’oggi.
Indicazioni utili
Trattato di sociologia
Se vuoi goderti un intreccio travolgente e mai banale, non puoi non scegliere Agatha Christie. In Assassinio sull’Oriente Express ogni tassello è al proprio posto, puntuale. È un puzzle da comporre nella propria mente, capitolo dopo capitolo. Seguire le annotazioni e i pensieri del mitico belga Hercule Poirot fa sentire il lettore partecipe in prima persona dell’indagine. Si è con lui, in tutto e per tutto, ma si rischia seriamente di fare la fine di Monsieur Bouc, direttore della Compagnia internazionale dei vagoni letto, e del dottor Constantine. Quando all’inizio della terza parte Poirot chiede “chiudiamo tutti e tre gli occhi e pensiamo… Uno o più di questi passeggeri ha ucciso Ratchett. Chi di loro?”, viene spontaneo fermarsi, abbassare le palpebre, far lavorare la mente e riflettere perché ormai si è coinvolti mani e piedi nella vicenda. La Christie in ogni suo romanzo giallo si dimostra un’abile psicologa. Sa cogliere le sfumature del volto, i gesti più inconsci, le vibrazioni della voce. Ti invita a osservare meglio gli interlocutori che quotidianamente hai di fronte: nulla dev’essere lasciato al caso perché le parole non sempre trovano corrispondenza negli atteggiamenti fisici. Approfondisce dubbi e perplessità di uomini e donne. Scava fino a raggiungere l’apice delle loro debolezze. È un romanzo, inoltre, che mette in luce tanti luoghi comuni, che ogni giorno ci offuscano la reale visione del mondo, il reale giudizio su una persona. Sull’Oriente Express si ribadisce, ad esempio, che l’inglese è serafico e introverso mentre l’italiano è impulsivo e capace di violenza. Si procede per idee maturate dalla collettività, facendo, come troppo spesso capita, di “ogni erba un fascio”. I fatti, poi, andranno a smentire quanto il luogo comune poteva lasciare immaginare, perché ogni singolo essere umano ha una sua personalità che travalica i confini della propria area geografica. Si è influenzati da chi ci circonda, ma non si è fotocopie. In questo, perciò, è un’Agatha Christie sociologa. Tra l’altro, a tal proposito, ho scoperto che durante gli anni Trenta e Quaranta in Italia, sotto il regime Fascista, il buon Antonio Foscarelli, personaggio di origini italiane del romanzo, fu fatto tramutare in un sudamericano dalla censura mussoliniana affinché non venisse leso l’onore del popolo italiano, non adeguatamente rappresentato proprio da Foscarelli sull’Oriente Express. Un bel esempio di come il sistema letterario sia sempre intrecciato insolubilmente con quello editoriale.
Indicazioni utili
L’impossibile vivere
Il turbamento esistenziale di Corrado, professore di materie scientifiche nato nella valle del Belbo ma trasferitosi per lavoro a Torino e sulle sue colline, riflette l’angoscia e la vergogna di Cesare Pavese per la mancata partecipazione attiva alla Resistenza partigiana. È un romanzo sulla solitudine e sul senso di colpa di un uomo. Per sedici capitoli su ventitré la vicenda si svolge tra la grande città Torino e le colline del Pino, poi si passa a un collegio di preti presso Chieri e infine, attraverso un viaggio che si può a tutti gli effetti definire fuga, si approda nelle terre d’origine di Corrado, dove il protagonista si ricongiungerà con la sua famiglia. I luoghi aperti dominano su quelli chiusi, anche se è particolarmente significativa l’opposizione tra la casa borghese di Elvira e della madre, dove Corrado alloggia fin da prima dello scoppio della guerra, e l’osteria delle Fontane, punto di ritrovo di Fonso, Giulia, Cate e Dino. Da una parte infatti prevalgono dialoghi scarni e frettolosi, dall’altra invece scene corali e polifoniche. Per la quarantenne Elvira il suo ospite rappresenta un’opportunità per togliersi l’etichetta di zitella. Lo coccola e lo accudisce, resta in pensiero per lui quando non rientra allo scoccare degli allarmi bomba. Gli trova il posto presso il collegio di preti a Chieri quando avverte che Corrado sulle colline del Pino è ricercato dai nazi-fascisti, avendo presenziato alle serate dell’osteria delle Fontane. Tuttavia, le premure di Elvira non vengono apprezzate dal protagonista, un uomo che non attendeva altro che un evento traumatico come la guerra per certificare il suo dramma personale. Appena prima del ribaltamento governativo italiano del luglio 1943, Corrado ritrova sulla propria strada un’ex fidanzata, Cate. È una figura fortissima, che si trasforma nella coscienza del protagonista ma non lo condanna mai. È leggera con lui, sebbene gli comunichi sempre la verità senza fronzoli (“Sai tante cose, Corrado e non fai niente per aiutarci”). È uno specchio che riflette la solitudine nella quale si ritrova Corrado, attorniato solamente da un cane nei suoi lunghi vagabondaggi sulle colline torinesi (il cane, tra l’altro, si chiama Belbo e richiama i luoghi natii del protagonista). Cate ha con sé un figlio, Corradino, che per diminutivo diventa Dino. Già dal nome, però, si crea un legame inscindibile tra Corrado, Dino e appunto Cate. È lo stesso protagonista, che narra in prima persona quelle vicende, a chiedersi se Dino possa essere suo figlio. Ripensa al suo passato, calcola quanti anni sono trascorsi dalla sua relazione con Cate e quanti anni ha Dino. Prova ad avvicinarsi a questa figura che gli assomiglia dal punto di vista somatico. Tenta di fargli da maestro e cerca di amarlo, ma come sempre non riuscirà ad amarlo nel profondo, perché a Corrado manca quella determinazione necessaria affinché un sentimento potente ed esaltante come l’amore possa travolgerlo. Ecco, dunque, spiegato perché nel collegio di Chieri Dino diventa più un pericolo che un ragazzo da proteggere per Corrado. Il giovane viene mandato a Chieri dopo che la madre è stata presa dalle forze nazi-fasciste insieme agli altri frequentatori dell’osteria delle Fontane, ma “Dino poteva far da pista e tradirmi, e l’idea che ormai fosse solo al mondo non riuscivo a pensarla, mi pigliava sprovvisto”. Proprio per tale motivo, l’acutissima Cate durante i mesi precedenti non si era illusa nemmeno un momento di confessare eventualmente a Corrado che Dino potesse essere suo figlio, perché, conoscendolo a fondo, sapeva di non poterlo caricare di una responsabilità che non sarebbe stato capace di reggere. Alla fine, anche Dino si unisce alla guerriglia partigiana e rende ancor più amara la solitudine di Corrado. Nei dolori del protagonista si riassumono quelli esistenziali dell’autore Cesare Pavese. Sotto forma di romanzo, lo scrittore piemontese parla delle sue angosce durante la Seconda guerra mondiale. È una testimonianza viva e toccante quella che ci restituisce Pavese in un romanzo dai tratti fortemente autobiografici. La forza della penna di Pavese emerge straordinaria nelle descrizioni delle colline, che rappresentano il suo habitat naturale. Attraverso gli affreschi collinari, Corrado è in grado di esprimere i suoi sentimenti, le sue paure, i suoi turbamenti e anche le sue ambizioni di serenità. Si respira la collina, la si vede di fronte e la si indaga in modo approfondito anche grazie a Belbo, perché come sostiene Corrado, per conoscere a fondo un bosco non si può prescindere dall’aiuto di un cane. Tra le tante descrizioni una più di altre mi ha colpito, la seguente: “Un po’ di vapori, di nebbia ogni mattina, poi un sole dorato. Era novembre e ripensavo a quel fuggiasco di Valdarno, se c’era arrivato. Ripensavo a tutti gli altri, ai disperati, ai senzatetto. Fortuna che il tempo teneva. La collina era bella, mostrava ormai la terra dura, polverulenta, nuda. Nei boschi d’incontravano giacigli scricchiolanti di foglie”. Anche Corrado, come detto, diventa un fuggiasco, che reclama semplicemente “un letargo, un anestetico, una certezza di esser bene nascosto”. Non chiedeva, infatti “la pace del mondo, chiedevo la mia”. Nel viaggio odissea di ritorno a casa s’imbatte in immagini di morte, quella morte che sconvolge tutto, compresi i luoghi della giovinezza del protagonista. Il fuoco e la politica che sotto forma di guerra travolgono il mondo e il timore più grande è sentire a proposito del proprio paese “è bruciato”. La casa in collina non è, dunque, un semplice romanzo sulla guerra, ma è una riflessione a tutto tondo sull’esistenza. Un paio di riflessioni meritano di essere lette, rilette e puntualizzate. La prima: “Chi lascia fare e s’accontenta, è già un fascista”. La seconda: “Ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione”. Ogni altra parola è superflua di fronte a considerazioni così argute ed elevate.
Indicazioni utili
Arturo parla a ognuno di noi
La capacità affabulatoria di Elsa Morante emerge in maniera perentoria nella sua seconda cattedrale, L’isola di Arturo. La lettura di questo capolavoro trasporta il lettore in un mondo lontano, lo fa immergere nell’atmosfera di una Procida fantastica. È un romanzo commuovente, intenso e passionale, che apre una larga e profonda fenditura nelle vite di ciascuno di noi. La sottile linea che separa l’età infantile da quella adulta è oggetto di indagine. Si segue un biennio di vita, quello del guerresco ragazzo dal nome di una stella, Arturo. È il biennio dai 14 ai 16 anni e la narrazione si interrompe non a caso il 5 dicembre, il giorno del 16° compleanno. Si tratta del giorno del non ritorno, del definitivo e traumatico approdo all’età adulta, che Arturo non vedeva l’ora di raggiungere ma aveva maturato aspettative radicalmente differenti. Letta al termine del libro, la dedica posta dalla Morante a inizio volume assume un significato più limpido e cristallino. Sono parole in versi che delineano il percorso di Arturo, lo rendono lampante nelle nostre menti. “Quella, che tu credevi un piccolo punto della terra, fu tutto”: il riferimento è a Procida, a quest’isola fatata che grazie alla penna della scrittrice romana prende forma in modo incantevole, a partire dalle descrizioni semplicemente meravigliose di inizio romanzo (quelle poste nel capitolo “Re e stella del cielo”). Ognuno di noi, quando era bambino, ha avuto il suo punto della terra che gli è parso un tutto. Il luogo degli innamoramenti, dei sorrisi spensierati, delle estati irripetibili. Arturo parla a noi stessi, a quello che abbiamo provato sulla nostra pelle; ci richiede uno sforzo di memoria, uno sforzo intimo che può scalfire alcune nostre certezze. Durante la lettura riemergono dalla nostra età infantile ricordi, voci, profumi; non sono andati via, sono rimasti lì sotto cumuli di polvere nei meandri più nascosti del nostro cervello. Il narratore della vicenda è Arturo stesso, ormai adulto, ormai così lontano da Procida e dalla sua infanzia. È proprio il protagonista che si dichiara scrittore nel finale e ricostruisce il suo passato. Soprattutto nel primo terzo del romanzo, quello antecedente l’arrivo della matrigna Nunziatella e quindi della nascita del fratellastro di Arturo (Carminiello), domina una dimensione temporale idiosincratica. Si perde il fluire oggettivo del tempo, secondo dopo secondo, inesorabile; il tempo viene filtrato dalle emozioni di Arturo che nella sua solitaria, selvaggia e magica infanzia appare fuori dalla Storia. Incallito lettore, Arturo conosce perfettamente la Storia antica, quella di battaglie e dinastie, di imperatori e condottieri, ma non è attratto dalla cronaca dei quotidiani relativa alla contemporaneità. Subentrerà la componente storica solamente nella parte terminale del romanzo, quando Arturo scoprirà, dalla sua ex balia Silvestro, dell’imminente guerra che l’Italia è pronta a combattere. Finisce, perciò, l’isolamento procidiano e Arturo diventa adulto. Pertanto, apre definitivamente gli occhi e non potrà più provare un’ammirazione incondizionata nei confronti del padre, paragonabile a un Dio, al fratello del sole e della luna, per l’Arturo bambino. “La mia infanzia è come un paese felice, del quale lui è l’assoluto regnante!” scrive Arturo a proposito del padre, mezzo tedesco e mezzo campano. L’unico sentimento possibile sul declinare dell’infanzia è la compassione nei confronti di questo padre morbosamente amato. È una parodia, come lo definisce il suo “amante”, l’ergastolano, Tonino Stella. Un uomo debole che vende l’anima, un uomo senza alcuna fede. Agli occhi del figlio è un Icaro che cade negli abissi più profondi e la sua discesa genera in Arturo la perdita delle Certezze Assolute che avevano governato la sua infanzia, nella quale, ad esempio, aveva sempre pensato che ogni viaggio del padre fosse verso destinazioni esotiche e affascinanti mentre scopre da Stella che raramente si è allontanato dai paesi intorno al Vesuvio. “Mi pareva di trovarmi sperso allo sbaraglio in una reale bufera, senza più altro sostegno sotto i piedi che un orribile rollio” ricorda a distanza di un tempo infinito il narratore. Rappresenta l’ultimo atto del processo irreversibile e vorticoso, dentro il quale era stato catturato Arturo a partire dall’arrivo sull’isola di Nunziata. La valanga prende forma nella prima notte di nozze di Wilhelm Gerace, padre di Arturo, con la matrigna, quando ode un urlo “tenero, stranamente feroce, e puerile” che trasformerà per sempre l’aspetto della giovane popolana napoletana (le pagine che seguono, le prime del capitolo “Vita in famiglia” assomigliano a quelle successive allo stupro di Rosetta ne La Ciociara di Alberto Moravia). L’urlo funge da inconscio allarme per Arturo: la prima donna che entra nella Casa dei guaglioni diviene il simbolo di una rivoluzione esistenziale nel cuore del protagonista. Soltanto da quel momento, infatti, comincia a provare sensazioni adulte che in precedenza non l’avevano mai sfiorato: dalla gelosia alla noia. Si spezza, dunque, l’incantesimo fatato di Procida e si avvicina inesorabile il giorno dei saluti e della partenza. In tutto questo, Nunziata è l’oggetto dapprima dell’antipatia di Arturo, poi del suo primo innamoramento. Una relazione impossibile perché Nunziata è moglie di Wilhelm, sebbene abbia soltanto un paio d’anni in più di Arturo, ma, a differenza del marito, ha principi ferrei in cui crede, quelli religiosi, e non li abbandona mai, nemmeno quando sarebbe più conveniente. Arriva ragazza a Procida, ma la sera stessa diviene donna, poi a stretto giro sarà madre e padrona di casa. È un personaggio estremamente semplice nella propria ignoranza, ma ha una coerenza di fondo che manca al padre di Arturo. Nonostante le mille traversie, nelle sue pupille c’è sempre “una specie di interrogazione fiduciosa” nei confronti di Arturo, per il quale prova un gran bene. Ultimi spunti di riflessione. Come intuibile dall’ultima considerazione, domina nella memoria di Arturo il campo semantico della vista: il narratore annota tutto attraverso il movimento degli occhi e delle pupille. Straordinario è anche l’uso dell’aggettivo nella Morante. Non è mai banale, è sempre incisivo e pregnante di significato. Spesso accosta aggettivi tipici per il mondo animale alle persone, stimolando la fantasia di chi legge (tra l’altro, come ne La Storia romanzo, trova spazio anche qui un cane, Immacolatella). Ma la Morante non fiabeggia mai, poiché travi e strutture del racconto s’ispirano e s’appoggiano ai modelli ottocenteschi. Infine, tutti gli oggetti descritti dalla Morante (e sono tanti, soprattutto nella prima parte) fungono da amuleti. Emblematica in tal senso la stupenda descrizione della Casa dei guaglioni, un luogo mistico che da solo vale il prezzo de L’isola di Arturo, indiscusso capolavoro della nostra letteratura.
Indicazioni utili
Morte e resurrezione: metafisica dell'ubriacatura
Il poema ferroviario Mosca-Petuškì di Venedikt Erofeev è stato un mito culturale della tarda Unione Sovietica. Come tanti altri scrittori dell’età della Stagnazione, anche Erofeev era una figura marginale del paese. Era addirittura un bomzh, ovvero un senza fissa dimora. L’aspetto autobiografico è centrale nel suo capolavoro. È un romanzo ambivalente, perché gli elementi picareschi si alternano con quelli sacri, così come la commedia si perde nella tragedia. Mosca-Petuškì indica un tragitto: dalla capitale alla periferia. Petuškì è un luogo che realmente esiste e si trova leggermente più a est di Mosca. Il romanzo nasce come una dissacrazione parodica dell’Unione Sovietica ma pagina dopo pagina si trasforma nel cammino di espiazione dell’eroe, attanagliato dalle sue debolezze. Proprio per questo Venicka, il protagonista che ci ricorda già dal nome Venedikt Erofeev, non ha nulla di eroico e anzi è agli antipodi rispetto agli eroi sovietici. È vicino ai piccoli uomini della grande letteratura russa ottocentesca. È un protagonista caratterizzato da un’universale pochezza d’animo. Parla delle sue fragilità come di una malattia dell’anima, nella quale la pena e la paura si mischiano. Sono proprio la pena e la paura a generare il mutismo di chi soffre. Venicka, nonostante le difficoltà e l’umiltà, è un eroe che si fa portatore delle sofferenze altrui. Lo si può quasi considerare come un vate, un asceta spirituale. Sembra avere un afflato mistico, anche perché, pur appartenendo al popolo, ha un bagaglio culturale superiore rispetto agli altri bizzarri personaggi che incontra sul treno. Tuttavia, Mosca-Petuškì si caratterizza rispetto a qualsiasi altro romanzo soprattutto per la quantità di alcool che scorre dalla prima all’ultima riga. Si può affermare che si seguono tutte le evolutive tappe dell’ubriacatura di Venicka, dall’apertura dei negozi alla chiusura. È l’alcool a muovere i fili dell’intreccio narrativo: si passa da momenti di apertura a momenti di abbattimento, di tormento e di ansia. Venicka prova sulla propria pelle ognuna delle sensazioni dell’ubriacatura e proprio per questo comprende profondamente le ragioni per cui la gente in Urss si affoga nella vodka e quanto altro. Bere bevande alcoliche conduce da esperienze creative (si è come un pianista mentre si porta il bicchierino alla bocca) a esperienze metafisiche (si aprono altri mondi grazie all’alcool, mondi che non sarebbero altrimenti percorribili). Erofeev mette bene in evidenza l’ambivalenza dell’azione: quando manca l’alcool Venicka vive una vera e propria esecuzione, mentre quando può bere risorge. Il calvario del protagonista equivale alla passione di Cristo e non è un caso che nel romanzo si susseguono i riferimenti evangelici (il più esplicito è “alzati e cammina”, seguito nel finale da “perché Signore mi hai abbandonato?”). Inoltre, è significativo che il viaggio si svolge il venerdì (stesso giorno dell’uccisione di Gesù). Siamo anche in autunno e simbolicamente potrebbe indicare l’opposizione rispetto al periodo del Disgelo, alquanto diverso rispetto alla Stagnazione. Seguiamo nel corso della narrazione il viaggio dell’anima di Venicka, il suo pellegrinaggio così vicino agli scritti evangelici, tanto che ci sono anche dialoghi con gli angeli e il Signore, presentati come voci della coscienza del protagonista; proprio per questo si può definire il romanzo come una composizione polifonica. Anche Petuškì richiama alla sfera spirituale. È considerata come un Paradiso, uno spazio ideale. Viene descritta così: “Petuškì è un posto dove gli uccelli non smettono mai di cinguettare, né di giorno né di notte, dove né l’estate né d’inverno sfiorisce il gelsomino. Dove il peccato originale non tormenta nessuno”. Però, Venicka non arriverà mai a Petuškì, non ci riuscirà a causa della sua ubriacatura che risulterà sempre più offuscante. Anche i personaggi incontrati, d’altronde, perdono la loro concretezza stazione dopo stazione (all’inizio avevano nomi bizzarri, come decabrista o baffo nero, ma apparivano concreti) e nel finale diventano una sfinge, un re, una principessa e Satana. Sono naturalmente delle allucinazioni del protagonista che si trova in uno stato di dormiveglia senza più bevande alcoliche nella propria valigetta. L’effetto della sbornia lentamente passa e, come detto, Venicka subisce la sua esecuzione. Il Cremlino, simbolo del potere sovietico, apre e chiude ad anello il romanzo. Al posto di raggiungere Petuškì, infatti, Venicka torna a Mosca e lì verrà aggredito da quattro uomini dai tratti classici. Nella parola classici è racchiusa la filosofia di Erofeev, per il quale, a differenza di quanto sosteneva la classicità, l’uomo è tutt’altro che perfetto. L’uomo è emblema dell’imperfezione, proprio come Venicka che prova dolcezza soprattutto per “chi di fronte a tutti si piscia sotto”. Anche per tale motivo Mosca-Petuškì è divenuto in breve tempo un mito culturale della tarda Unione Sovietica, poiché ha saputo parlare agli ultimi, agli emarginati del sistema e a coloro i quali hanno cercato di cancellare le sofferenze con la vodka.
Indicazioni utili
Una valigia di ricordi per indagare sé
La valigia è un insieme di racconti di carattere aneddotico in cui l’esperienza leningradese dell’autore Sergej Dovlatov si lega con quella americana. Sono racconti umoristici, ma sono avvolti da una patina di profonda amarezza. Nato nel 1941 in Kazakistan da una madre di origini armene e da un padre di origini ebree, Sergej si sente tuttavia a pieno titolo un russo di Leningrado, città abbandonata dalla famiglia durante i 900 giorni di assedio nella Seconda guerra mondiale. Dovlatov era un gigante, uno che spiccava per la sua altezza e per la sua possente corporatura. Fu osteggiato dal governo comunista sovietico e non poté pubblicare le proprie opere in modo legale negli anni della Stagnazione, poiché il carattere umoristico dei suoi scritti non piaceva al governo sovietico. Si sentì costretto a emigrare in America, precisamente a New York, ma sarebbe sbagliato definire Dovlatov un vero e proprio dissidente politico. Era consapevole che in Urss il comunismo negli anni Sessanta e Settanta non esisteva più, ma era divenuto, parole sue, “una porcata che anche i capi avevano smesso di chiamare comunismo”. Però, la sua analisi non parte mai dall’esterno, ma sempre da dentro di lui. Ciò emerge molto bene anche ne La valigia. La sua è un’introspezione idealistica e raramente accusa in maniera evidente ed eccessiva il potete sovietico. Come accennato, non è costretto a emigrare ma si sente invitato a salutare l’Unione Sovietica. Sceglie come meta New York, l’unica città al mondo dove, come egli stesso sosteneva, non si sarebbe sentito straniero, essendo un mix di culture, proprio come lo stesso Dovlatov. D’altro canto, per le sue origini e per la sua stazza fisica, Dovlatov si sente nel mondo sempre un diverso ed è la scrittura che lo aiuta a indagare sé stesso. Scrivere è, perciò, per lui un’operazione alquanto intima ed è chiaro che domina la componente autobiografica. Ciò è evidente ne La valigia, fin dalla premessa, dove si possono immediatamente percepire le caratteristiche caratteriali di Sergej: è timido, è schivo, non accetta sé e nega spesso il suo io. Dovlatov ne La valigia accetta la mancanza di senso della realtà. Osserva il mondo, partendo da sé, con sguardo cinico e disilluso. Nel corso della narrazione non si nasconde mai, ma preferisce mettere in scena costantemente le sue mancanze e i suoi problemi. Fa tutto questo senza emettere giudizi su quanto avviene. Gli episodi che propone ne La valigia sarebbero perfetti per dare alcuni giudizi personali, poiché sono episodi strani e paradossali, ma Dovlatov si impegna a narrare lasciando le conclusioni ai lettori. Raffigura il paradosso del mondo che non è dissimile dal suo personale paradosso: lui alto e possente, era in realtà pigro, timido e debole. Un appunto lo merita lo stile. Lo definirei eccezionale nel suo laconismo. È coinciso e semplice. Le frasi sono brevissime, sono quasi delle sentenze. Risultano, perciò, dense di significato, quasi come se fossero versi poetici. È lapidario e oserei dire giornalistico, lui che ha praticato per anni quest’attività, proprio come si evince anche dai racconti Un bel vestito a doppio petto e Il colbacco inseriti ne La valigia. Ma come si struttura quest’opera di Dovlatov? Abbiamo, come accennato, una premessa seguita da otto racconti aneddotici. È un oggetto a far nascere un ricordo che può andare dall’infanzia fino all’emigrazione avvenuta nel 1978. La riflessione su sé stesso parte, perciò, da oggetti posseduti che sono contenuti nell’unica valigia che Dovlatov dall’Urss potrà portare nella sua nuova vita in America. “Era tutto ciò che avevo messo insieme in trentasei anni, durante tutta la mia vita in Russia… Ma allora ero un poveraccio? E come avevo fatto a ridurmi così?” annota nella premessa Sergej. Sono le cose, non i valori, è la concretezza, non l’astrattezza, ad avviare il ragionamento. Gli oggetti presenti nella valigia sono capi d’abbigliamento, non sono libri o altri oggetti di valore. Sono vestiti con cui è entrato in contatto casualmente nel corso della sua esistenza in Russia, non hanno perciò un particolarmente significato ma fanno tornare alla memoria un frammento del passato. Il collage ha poco di lineare, così come non sono mai lineari i nostri ricordi. L’oggetto durante il racconto di Dovlatov non perde mai la sua concretezza, tanto che l’autore non ritrova mai attraverso l’incontro con l’oggetto sensazioni che riguardano il suo passato. La cosa, pertanto, stimola semplicemente un aneddoto, una storiella; sono gli avanzi degli episodi vissuti. Un velo di nostalgia nei confronti della sua terra si sente (precede la premessa questa citazione di Aleksandr Blok “… Ma anche così, Russia mia, sei la terra a me più cara…”), ma l’oggetto non è mai trasfigurato dal sentimento. E quali sono gli oggetti citati? I calzini finlandesi (illustra la pratica del mercato nero, dilagante in Urss negli anni della Stagnazione), le scarpe del sindaco (parla del furto, pratica diffusissima in un paese nel quale tutti rubavano, non credendo più nessuno nel comunismo), Un bel vestito a doppio petto (propone la sua vita da giornalista), La cintura da ufficiale (ricorda il suo periodo da sorvegliante di un gulag. È un racconto nel quale la pazzia risulta capovolta: il collega di Sergej beve, perde la testa e picchia lo stesso Sergej, mentre il detenuto, reputato da manicomio, appare sano), Il giaccone di Fernand Léger (mostra tutte le disuguaglianze sociali e di ceto in un paese ormai solo sulla carta comunista), La camicia di popeline (propone il suo rapporto con la moglie e la loro comune indifferenza), Il colbacco (emerge il paradosso della vita in un’avventura con il cugino) e I guanti da automobilista (Sergej si ritrova a casualmente a recitare nei panni di Pietro il grande, assomigliandoci molto fisicamente).
Indicazioni utili
La Stagnazione in chiave postmoderna
La casa di Puskin è il primo vero romanzo postmoderno della storia della letteratura russa. Il protagonista dell’opera di Andrej Bitov, Ljova Odoevzev (cognome aristocratico), è il simbolo della Stagnazione. A capo del Partito Comunista sovietico dal 1964 al 1982 c’è Leonid Brežnev. Stagnazione, termine coniato da Michail Gorbaciov successivamente, sta ad indicare una sostanziale immobilità e un totale incartamento, anche politico, dell’Unione Sovietica, dopo invece un decennio ricco di speranze come quello del Disgelo. Bitov è un autore di Leningrado ed è profondamente legato ai valori della cultura prerivoluzionaria. Tali aspetti autobiografici si riflettono su Ljova, un antieroe che volontariamente viene de-eroicizzato dall’autore. Ljova si rifugia costantemente nel sogno e soprattutto nella letteratura, perdendo il contatto con la realtà. Ljova, come Bitov, ama la tradizione antecedente la rivoluzione bolscevica e il suo rapporto con essa appare irrisolto. Sembra aver perso il suo posto nel mondo dopo il 1917, dopo l’avvento del comunismo. Non può più essere, in altre parole, un uomo superfluo, quindi non può più assomigliare a quella tipica figura della letteratura russa ottocentesca, ben rappresentata da Turgenev. Ljova è pieno di ideali ma non riesce a realizzarsi. Egli si conforma, non si impone mai e non lotta mai contro il sistema comunista che odia profondamente. A rendere incantevole quanto complicato il romanzo di Bitov, è la volontà autoriale di mettere dentro le sue pagine tutta la letteratura russa. Le citazioni si susseguono senza soluzione di continuità. Le si trovano nell’indice, negli eserghi, negli episodi della narrazione e nei dialoghi. D’altronde, è lo stesso titolo del libro a suggerirci questa esasperata volontà di inglobare nel romanzo tutta la grande letteratura prerivoluzionaria. La casa di Puskin, infatti, è la sede dell’Istituto della letteratura russa nell’Accademia delle scienze di San Pietroburgo. È un palazzo neoclassico sito lungo il fiume Neva, dove sono conservati manoscritti, cimeli, oggetti di Puskin e di molti altri scrittori russi. È per il mondo pietroburghese un luogo sacro. Dentro alla Casa di Puskin si svolgeranno gran parte delle avventure del romanzo di Bitov. Ljova, filologo che ha seguito le orme familiari, lavora proprio presso l’Istituto della letteratura russa. La Casa di Puskin viene descritta come un luogo di amori e di intrighi dettati dal motivo letterario. Proprio dentro all’Istituto andrà in scena il duello finale tra Ljova e il suo amico d’infanzia Mitisat’ev, il rappresentante del mondo altro, l’antagonista per eccellenza dell’antieroe Ljova (Mitisat’ev è subdolo, proprio come il regime, è forte ed è la personificazione del potere. Gioca al gatto col topo con il protagonista e sembra rubargli anche la ragazza, ovvero Faina). In realtà, sono tre le donne di Ljova. Sono tre possibilità femminili: la capricciosa e sfuggevole Faina, quella probabilmente prediletta da Ljova; Albina, l’intellettuale e devota al protagonista; la carnale e istintiva Ljubasa. Cosa significa che sono tre possibilità? La struttura del romanzo di Bitov è fortemente postmoderna, così come l’accentuata presenza della componente metanarrativa. L’autore vuole mettere in scena tutte le possibilità dell’esistenza. La casa di Puskin è, difatti, il romanzo delle varianti: Bitov crea bivi e vie alternative che Ljova può imboccare. E allora ecco le tre possibili donne e anche i tre possibili finali che l’autore pone sul tavolo, perché nemmeno Ljova è in grado di determinare con certezza quelle che sono le tappe della sua esistenza. Il termine “forse” diventa dominante nel romanzo. Avviene un’apertura esistenziale di fronte alla vita di un uomo che non appare assolutamente unitaria, anzi. Bitov svela uno spettro di possibilità in contrasto con la rigidità delle norme della vita sovietica. Il regime sovietico è, inoltre, criticato per la sua scarsa memoria del passato, ovvero per la sua volontà di cancellare la grande letteratura ottocentesca tanto cara a Ljova. Nello stesso tempo, però, Bitov dissacra la letteratura, perché chi vive solamente immerso nelle pagine dei libri finisce per essere straniero e si autodistrugge, come accade al protagonista. La casa di Puskin, tuttavia, non si identifica solamente per la sua struttura, per le sue componenti metanarrative, per il suo citazionismo e per il suo protagonista, ma anche per la sua pregnanza storica. Moltissimi, infatti, sono i temi tipici della Stagnazione che si ritrovano nel romanzo di Bitov: dalla questione antisemita (vero e proprio fardello dell’Unione Sovietica negli anni successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale) al problema anti-aristocratico, ben incarnato dallo scontro tra Ljova e Mitisat’ev; dalle deportazioni patite da milioni di persone durante gli anni staliniani al reinserimento nella società di alcuni prigionieri. Emblematiche in tal senso sono le figure di Zio Dickens e soprattutto del nonno di Ljova, che vive letteralmente come un’umiliazione il rilascio dal gulag. Uno dei punti più alti del romanzo di Bitov è proprio il monologo del nonno, in cui si percepisce quanto possano essere violenti su un’intera popolazione e in un intero paese gli strascichi di fatti epocali come le purghe staliniane e gli anni del Grande Terrore (1937-1938). Per il nonno la liberazione è un’uccisione: si era abituato alla vita del gulag, era pronto a prendersi il ruolo di sacrificato e di vittima e invece è stato ricondotto nella società. È stato costretto, insomma, a ripartire per la terza volta da zero nella sua vita, quando ormai era anziano e dopo una lunga prigionia. Nel romanzo di Bitov, pertanto, si incontra l’Unione Sovietica, si respira il vento di Leningrado e ci si perde lungo il cammino della grande letteratura russa.
Indicazioni utili
Dimka, l’icona del Disgelo
Il romanzo Il biglietto stellato è il simbolo di un'epoca. Il capolavoro di Vasilij Aksenov, nato a Kazan nel 1932 (sua madre è la storica Evgenija Ginzburg), esce nel 1961 e in pochi mesi si trasforma in un bestseller in Unione Sovietica. Il biglietto stellato è un’icona del Disgelo, periodo iniziato con la morte di Stalin e proseguito sotto Krusciov fino alla metà degli anni Sessanta, quando in Unione Sovietica prese forma la cosiddetta Stagnazione con Breznev a capo del Partito comunista sovietico. Venne pubblicato a puntate su una rivista, Junost', ovvero Gioventù. I protagonisti sono ragazzi comuni e normali, dunque siamo molto lontani dal canone imposto dal realismo sovietico degli anni staliniani. Il romanzo narra la storia di Dimka e dei suoi amici che si separano dal canone del rigore sovietico. È un percorso di formazione quello intrapreso da questi 17enni che lasciano Mosca in direzione di Tallinn in Estonia. Si tratta, dunque, di un romanzo di iniziazione alla vita adulta, nel quale viene esaltato il concetto di libertà, brutalmente soffocato negli anni staliniani. È una libertà attiva raggiunta da Dimka attraverso i suoi sforzi. Si aprono, inoltre, nuovi spazi di libertà nel mondo sovietico, tanto che per la prima volta si possono manifestare i propri sentimenti, come l’amore, e si possono trasformare in realtà i propri sogni. Dimka è un giovane vivace, scanzonato e anche soltanto per il suo modo di vestire è il prototipo perfetto della sua generazione e del Disgelo. È meno serioso e meno rispettoso delle regole di suo fratello maggiore Victor, studioso inserito nel mondo delle scienze che ben rappresenta i valori sovietici dell’epoca staliniana. Come accennato, è il viaggio il motivo centrale dell’opera, quel viaggio che prima di allora non era mai stato preso in considerazione in Unione Sovietica. È già di per sé, quindi, un’idea innovativa quella di Dimka e dei suoi amici che lasciano il condominio della Barcellona di Mosca, un tradizionale condominio pre-rivoluzionario che alla fine del romanzo verrà abbattuto per lasciare spazio alle Chrushoby, ovvero i nuovi agglomerati abitativi dell’epoca di Krusciov. La scena iniziale è ambientata proprio presso il condominio della Barcellona: è polifonica perché ci sono tante persone di astrazione sociale differente che vivono a stretto contattato. Troviamo autisti, operai, trafficanti di borsa nera, ex detenuti, commesse, intellettuali e perfino una ex principessa che in età sovietica è costretta a fare l’infermiera, segno che dopo la Rivoluzione del 1917 la società russa è stata stravolta e rivoltata. Il cortile del condominio si trasforma, perciò, in un microcosmo, un villaggio urbano dove persone di epoche e astrazioni sociali differenti si incontrano. I due amici di Dimka sono Alik, l’intellettuale di turno figlio dell’amministratore del caseggiato, e Jurka, lo sportivo della compagnia. E poi c’è una ragazza, Galka, che intraprenderà il viaggio con gli altri tre e sarà il primo amore di Dimka (la loro storia vivrà alterne fortune dapprima a Tallinn, poi in un kolchoz di pescatori dove si ricongiungeranno). Fin dal primo capitolo, intitolato simbolicamente “Testa o croce?” ad indicare il fatalismo giovanile, emerge la voglia di evadere, di uscire dal nido della Barcellona. Il narratore del primo capitolo è Victor che di fronte alle forme di violazioni e trasgressioni del fratello e dei suoi amici fa delle considerazioni di rimprovero, ma nello stesso tempo il rapporto tra lui e Dimka è estremamente affettuoso. Nel secondo capitolo (“Gli argonauti”) il narratore è esterno ma si avvicina moltissimo ai ragazzi, tanto che sembra partecipare all’azione. Dimka e gli amici sono già a Tallinn, precisamente sulla spiaggia dell’attuale capitale dell’Estonia. La spiaggia è un luogo che evoca nei sovietici esotismo e caldo, è un vero e proprio luogo di culto per i sovietici, che consideravano i paesi baltici come occidentali ed europei. Non è un caso che Aksenov apostrofi le pietre della città di Tallinn con l’aggettivo “minacciose”. Proprio in questo luogo così esotico Dimka conoscerà l’amore, il tradimento e lo sfruttamento lavorativo, prima di recarsi in un kolchoz di pescatori e di tornare a Mosca per un improvviso lutto familiare. Alcune considerazioni finali su Il biglietto stellato. È un romanzo contraddistinto da un’alta velocità: tante ellissi e meravigliose scene dialogate, che servono anche a caratterizzare i personaggi. I dialoghi non sono preparati, si danno per scontati alcuni aspetti ed è forte l’effetto di realtà ricercato. È, inoltre, un romanzo polifonico nel quale la voce narrante cambia nel corso dei capitoli (negli ultimi sarà direttamente Dimka a narrare le sue vicissitudini). Infine, è un romanzo che ti fa respirare l’atmosfera culturale e sociale dell’Unione Sovietica della fine degli anni Cinquanta e dei primissimi anni Sessanta. Il Disgelo, con tutte le sue peculiarità, lo si ritrova pagina dopo pagina in questo romanzo dal titolo simbolico e aperto, nel quale stellato dona proprio l’idea della possibilità umana di sognare. Un sogno possibile anche in Unione Sovietica, almeno nell’epoca del Disgelo.
Indicazioni utili
La forza rivelatrice della letteratura
Leonardo Sciascia ricostruisce letterariamente la celebre scomparsa nel nulla di Ettore Majorana. Ne esce un romanzo breve o racconto lungo bellissimo, che fa emergere in modo chiaro e incisivo la forza liberatrice della letteratura. Il principio della struttura narrativa di Sciascia è determinato dall’intenzione di presentare, in una composizione dal carattere di documentario, all’apparenza un’impartecipe raccolta di materiale, di fatti e la loro successione nella nudità di un rapporto. Ma l’opera dello scrittore di Racalmuto non si limita a questo. Riesce, infatti, ad indagare nel profondo la complessa figura di Majorana, fisico originario di Catania. Viene definito un genio precoce e come tutti i geni precoci Sciascia ammonisce che «appena toccata, nell’opera, una compiutezza, una perfezione; appena svelato compiutamente un segreto, appena data perfetta forma, e cioè rivelazione, a un mistero… appena dopo è la morte». In ogni cosa che scopre, in ogni cosa rivela, sente avvicinarsi la morte e non è un caso, dunque, che Majorana cestinò un pacchetto di sigarette al di sopra del quale aveva scritto calcoli e teorie sul nucleo fatto di protoni e neutroni. Calcoli e teorie che da lì a pochi mesi sarebbero stati pubblicati da Heisenberg, che, secondo Sciascia per Majorana, rappresentò «un amico sconosciuto: uno che senza saperlo, senza conoscerlo, l’ha salvato da un pericolo, gli ha come evitato un sacrificio». Nel romanzo le diatribe e le invidie accademiche degli anni Trenta, ancora così attuali a quasi cento anni di distanza, sono ben fotografate. Le differenze che intercorrono tra Enrico Fermi e il suo seguito ed Ettore Majorana sono ampiamente rimarcate da Sciascia. Per Fermi il suo illustre collega è un genio, come ce ne sono stati pochi nel corso della storia della scienza (cita Galileo Galilei e Newton, non menziona Einstein), ma è anche una personalità strana da decifrare, soprattutto per il suo carattere solitario. Sulla solitudine di Majorana Sciascia insiste parecchio, anche per avvalorare quella che è la sua ipotesi: lo scrittore rifiuta il suicidio del fisico (e prova a dimostrarlo, ponendo l’accento su alcuni aspetti, a partire dalla grafia delle due lettere lasciate da Majorana nel giorno della sua scomparsa), mentre è propenso a pensare che si sia chiuso in un convento, una scelta che esprime il malessere esistenziale, l’insicurezza, l’ansia profonda, la perduta fede nel mondo. Perché si è verificato tutto ciò nell’anima inquieta di Majorana? Secondo Sciascia perché aveva visto davanti ai propri occhi già a metà anni Trenta la bomba atomica, rimanendo, spaventato, terribilmente spaventato, da quella manciata di atomi. Tra l’altro nel 1921, parlando delle ricerche atomiche di Rutherford, un fisico tedesco aveva avvertito: «Viviamo su un’isola di fulmicotone», ma aggiungeva che, grazie a Dio, ancora non avevano trovato il fiammifero per accenderla. Per Sciascia, il grande genio di Majorana aveva capito che il fiammifero c’era già e se n’è allontanato con sgomento e terrore, poiché osservava che nel mondo era venuto meno il buon senso. La lunga riflessione di Sciascia sulla bomba atomica tocca una vetta elevata in una nota del quinto capitolo, dove paragona la struttura organizzativa del «Manhattan Project» ad un luogo di segregazione e di schiavitù, in analogia ai campi di annientamento hitleriani, perché «quando si maneggia, anche se destinata ad altri, la morte, si è dalla parte della morte e nella morte». A tal proposito lo scrittore cerca di dare merito a Heisenberg, che, a differenza di molti altri colleghi dei suoi stessi anni, nel campo della fisica nucleare non solo non ha avviato il progetto della bomba atomica ma ha anzi vissuto gli anni della guerra nella dolorosa apprensione che gli altri, dall’altra parte, stessero per realizzarla. E proprio Heisenberg accolse Majorana a Lipsia per un certo periodo, tenendo notevoli disquisizioni sulla fisica con il giovane italiano che lo aveva anticipato, come detto, senza prendersi i meriti, riguardo al nucleo fatto di protoni e neutroni. Nel ripercorre la storia di Majorana, Sciascia inserisce anche il «caso Majorana», che per otto lunghi anni annientò fino alla follia la famiglia di Ettore e nello specifico il fratello Dante con la moglie Sara. Furono ingiustamente accusati di aver bruciato nella culla il bambino di Antonino Amato, fratello di Sara. Sciascia ci mostra, pertanto, uno spaccato di quella Italia, di quella Sicilia. Non manca d’altronde la Sicilia in questo romanzo breve del 1975. Lo stesso Sciascia accosta la volontà di nascondersi, di fuggire dal mondo, di Majorana a Vitangelo Moscarda, il protagonista di Uno, nessuno, centomila di Luigi Pirandello, assoluto punto di riferimento dello scrittore di Racalmuto. La costruzione letteraria di Sciascia, dunque, è compiuta: la scomparsa di Majorana non è risolta, ma il ragionevole dubbio è ormai dentro di noi.
Indicazioni utili
Una recita ipocrita, stupida e immorale
Il libro dello scandalo. Gli indifferenti segna l’esordio di Alberto Moravia ed è uno dei romanzi imprescindibili della nostra letteratura. Su Gli indifferenti la produzione critica dal 1929, anno della pubblicazione, ad oggi è veramente amplissima. Vorrei, perciò, soffermarmi su alcune curiosità legate alla gestazione del romanzo. Moravia inizia a scriverlo nell’ottobre 1925, quando aveva solamente 16 anni, dopo che era stato dimesso da un sanatorio di Cortina d’Ampezzo, dove era stato per un paio d’anni per combattere la tubercolosi ossea che lo affliggeva dall’età di nove anni. Moravia, come scritto in una breve autobiografia letteraria datata 1986, ha composto il romanzo al mattino mezz’ora al giorno a letto perché era convalescente e si stancava subito. Una volta terminata la stesura, presentò il dattiloscritto a Cesare Giardini di Alpes (casa editrice presieduta da Franco Ciarlantini: questo nome tenetelo a mente per i successivi sviluppi editoriali), ma la risposta non fu immediata. Il giovane Moravia aspettò un mese a Stresa, poi tornò a Roma dove ricevette la notizia della pubblicazione a patto di pagare di tasca propria 50mila lire. Alberto le chiese al padre e nel luglio 1929 il romanzo Gli indifferenti uscì. Cinque edizioni, ognuna delle quali composta da mille esemplari, tutti venduti. Poi, la storia editoriale del primo romanzo di Moravia si interruppe momentaneamente per l’intervento del fascismo. Chi iniziò a osteggiarlo? Proprio il già citato Ciarlantini, che ricopriva anche il ruolo di responsabile dell’ufficio stampa del Partito Fascista. Ciarlantini si era fidato del suo redattore Giardini, che aveva riconosciuto da uomo di lettere il grande valore artistico dell’opera di Moravia. Inoltre, Ciarlantini aveva acconsentito per la pubblicazione anche perché era stato lo stesso Moravia ad autofinanziarsi. Per il regime e in primo luogo per Ciarlantini, però, Gli indifferenti aveva un carattere fortemente anti-fascista, poiché costituiva una critica a quella borghesia che aveva sostenuto l’ascesa al potere di Benito Mussolini e aveva permesso allo stesso fascismo di trionfare. In aggiunta a ciò, il regime non poteva accettare l’indifferenza prorompente nelle pagine di Moravia. Gli indifferenti, infatti, è un romanzo esistenziale che riflette sul conflitto emotivo e ideologico del rapporto dell’io con il mondo. La grande indifferenza che alberga in casa Ardengo non riguarda i sentimenti di Michele e Carla, i figli di Mariagrazia, ma più in generale la mancanza di assunzione di responsabilità verso sé e verso gli altri, venendo meno ogni principio d’autorità morale ed economica. Viene rappresentata, come detto, la civiltà dell’urbanesimo borghese e il racconto acquisisce slancio e fervore nel confronto polemico con il microcosmo familiare. Non si tratta di un’educazione sentimentale, ma di un’educazione alla realtà: è un’assuefazione al disgusto. Michele è disgustato dal fatto di giocare sempre un ruolo, di essere una maschera. Si pone Moravia su una linea biologica: a muovere i suoi personaggi sono bisogni brutali (denaro e sesso, proprio come ne La Romana). Non sorprende, dunque, che una famiglia in declino come quella di Mariagrazia cerchi di imparentarsi con un uomo ricco come Leo Merumeci. Quello che mette in scena Moravia è un perfetto teorema narrativo, tanto che il romanzo si conclude quando sta per esplodere lo scontro madre (Mariagrazia) e figlia (Carla), il cui minimo comune denominatore si chiama Leo. Inizia già nel primo romanzo a delinearsi quell’ossessione al realismo che contraddistinguerà tutta la carriera letteraria di Moravia. La sua scrittura è già piena di cose, ovvero di oggetti materiali legati alla sfera quotidiana. Nomina le cose e così facendo ne conferma l’esistenza, ossia le rappresenta. Gli oggetti sono riportati quasi intatti, come se fotografati perché il tempo narrativo è istantaneo. Servono per stabilire una continuazione tra scrittura e quotidianità. Oltre a meravigliosi intrighi sentimentali, colpiscono ne Gli indifferenti le descrizioni. Si può quasi intendere, a mio modo di vedere, la casa, arredi compresi, come il sesto personaggio del romanzo. È utile per offrire una quantità maggiore di realtà: i fondali e l’oggettistica fanno parte della recita. Dal canto loro, Michele, Carla, Mariagrazia, Leo e Lisa (amante di Michele), molto simili a marionette, ripetono ossessivamente il canovaccio di una recita ipocrita, stupida e immorale.
Indicazioni utili
Stupro doppio: collettivo ed individuale
La ciociara è uno dei romanzi più autobiografici di Alberto Moravia, sebbene il narratore interno, che è insieme protagonista e testimone, sia femminile e popolana. Moravia con la moglie Elsa Morante ha vissuto dal 12 settembre 1943 al 23 maggio 1944 a Sant’Agata presso Fondi per sfuggire dalla guerra. Sono tra l’altro per tutto il centro Italia i nove mesi più cruenti del secondo conflitto mondiale. Anche Cesira, con la giovane figlia Rosetta, abbandonerà Roma e si rifugerà in Ciociaria, la terra natale della protagonista. Si tratta, dunque, del romanzo sulla guerra di Moravia, ma a differenza di molti altri colleghi aspetta parecchi anni prima di completarlo e ciò lo rende differente rispetto a tutti gli altri libri di eguale tematica. È un romanzo meditato perché il tema bellico e l’esperienza umana vissuta in Ciociaria da Moravia meritano molte riflessioni. La Ciociara, alla fine, uscirà nel 1957, ben 12 anni dopo il termine della Seconda guerra mondiale. È la storia delle avventure e delle disavventure di due donne, Cesira e Rosetta. È la descrizione, inoltre, di due atti di violenza, uno collettivo (la guerra combattuta sul suolo italico che si trasformò in un rastrellamento da Sud a Nord) e l’altro individuale (il terribile stupro ai danni di Rosetta, paradossalmente a liberazione avvenuta). Si segue, perciò, il passaggio da uno stato di innocenza e di integrità ad un altro di amara e nuova consapevolezza. Si ragiona sull’esperienza umana di quella violenza profanatoria che è la guerra. Moravia lancia un messaggio che vale per ogni conflitto bellico riferendosi al popolo inerme costituito da donne, giovani ed anziani. L’analisi di Moravia è, dunque, razionale e travalica l’ambito della Seconda guerra mondiale, prendendo come riferimento ogni singolo conflitto in ogni epoca e in ogni latitudine. Oltre alle già citate Cesira e Rosetta, il terzo personaggio cardine della narrazione è l’intellettuale Michele. Andiamo con ordine. La coppia madre-figlia compie un viaggio di rinascita tra le macerie. Subiscono una metamorfosi irreparabile a causa della guerra. Rosetta, descritta nella sua giovinezza dalla madre come una figura pura e quasi santa, è vittima dello stupro da parte di un gruppo di marocchini, aggregati agli Alleati, presso una chiesa abbandonata sotto l’altare della Madonna. Discende negli inferi: perde la vergogna e diventa bestia. A causa di questo atto di inutile crudeltà conosce il sesso e si concede senza più ritegno, in primo luogo a Clorindo che le regala un reggicalze nero; perde ogni freno inibitore e si dichiara muta. Sulla strada del ritorno verso Roma, però, ritrova la parola: canta e piange e ciò restituisce la speranza. È completata la sua formazione, la sua conoscenza di sé. Come Cesira, torna a casa lacerata ma consapevole; non è più una santa, ma non è nemmeno una prostituta. È semplicemente una creatura umana che sa, è più autentica. Cesira evidenzia in ogni passo la propria identità linguistica, culturale e sociale. Il suo punto di vista porta costantemente ad un abbassamento. Questo rende limitata la sua attendibilità, non per malafede ma più che altro per ignoranza. Il suo status di “popolana” fa cadere linguisticamente all’interno del romanzo la distinzione tra scritto e parlato. Addirittura Cesira in alcuni passaggi non soltanto è “popolana” ma è addirittura burina. Cesira nasce nel romanzo quando comprende di essere sposata con un uomo cattivo ed infedele; si è legata a quest’uomo solo per andare a Roma a lavorare in un negozio di alimentari. Morto il marito, non si concede a nessun altro con amore. L’unico rapporto che avrà sarà con il carbonaio Giovanni, ma senza amore. Prova amore solamente per sua figlia, per Rosetta, chiamata a più riprese «figlia mia d’oro». Anche in tale espressione si può scorgere il suo istinto da bottegaia, il suo legame con il denaro e l’alto valore di scambio che Rosetta può possedere, anche se in realtà si trasformerà in una preda gratuita della guerra. Non deve sorprendere, inoltre, che Cesira quando parla di sé si sofferma sul godimento dell’avere piuttosto che sul principio dell’essere. Quando viene intaccato il suo unico amore, Cesira muore nell’assurdità del suo dolore. Riesce, però, ad accettare la verità della guerra e torna insieme alla figlia a camminare sinceramente nell’unica vita che le è riservata. Infine, c’è Michele che è un giovane intellettuale elevato dalle parole di Cesira allo status di autorità paterna. È un intellettuale più maturo rispetto a tanti altri di Moravia. Egli considera la guerra come un’apocalisse che coinvolge tutto e tutti, anche coloro che sono ancora vivi come i contadini e gli sfollati (emblematico il suo diverbio con il padre Filippo che si ritiene un furbo pensando solo alla «roba» e considera il figlio un «fesso» per le sue idee politiche). Michele rappresenta un’alterità maschile, poiché quasi tutti gli altri uomini del romanzo sono connotati dalla violenza, dalla meschinità, dalla distruzione. È anche il simbolo della castità, opposta allo stupro ai danni di Rosetta. Legge a Cesira e agli altri sfollati il passo del vangelo del Lazzaro, dove punta sulla sofferenza umana e prova ad insegnare in primo luogo a Cesira la compassione e l’autentica empatia. E Cesira si ricorderà della lettura avvenuta a Sant’Eufemia (Sant’Agata nella realtà) quando ormai è prossima a rientrare in Roma, a conferma della sua crescita personale.
Indicazioni utili
Il mondo si svela in una stanza
Adriana, sua madre, Gino, Astarita, Giacinti, Sonzogno e Giacomo, detto Mino, sono i principali protagonisti del romanzo La romana. È messa in scena la Roma popolare del periodo delle guerre in Abissinia condotte dal governo fascista. Il tema politico entra in gioco molto tardi nell’intreccio narrativo. A portarlo sotto i riflettori è Mino, studente universitario, nato da un’agiata famiglia che possiede diversi terreni in campagna. È un attivista e agisce contro il regime. È il Pablo de Il compagno di Cesare Pavese ma con una complessità psicologica ben più profonda. Si fatica ad entrare in sintonia con Mino, ragazzo acculturato che non riesce a vivere e verrà schiacciato dal senso del tradimento. La sua anima risulta ancor più irrequieta se paragonata a quella di Adriana, colei la quale ci narra le sue vicissitudini durante una fetta di vita fondamentale per ciascun essere vivente, ovvero il passaggio dall’età adolescenziale all’età adulta. Adriana è innamorata di Mino e prova per lui un amore sincero e non puramente carnale. Adriana, però, ha una psicologia estremamente semplice e lo dimostra costantemente, a partire dalla decisione di diventare una prostituta. Una scelta presa squisitamente per questioni di denaro che poi verrà accettata con passione dalla protagonista, che scoprirà di amare come poche altre cose il sesso. Si concede sfruttando la sua bellezza in grado di catturare l’attenzione, ma quando riceve un rifiuto, la prima sera con Mino, entra in crisi. Pensa che Mino la disprezzi per quello che fa ed Adriana perde addirittura il gusto della vita. Il tutto, però, dura poche pagine e si risolve con la preghiera. «Poi un giorno uscii con la mamma e per caso entrai in chiesa e lì, pregando, mi sembrò di capire che in fondo non avevo di che vergognarmi, che se ero fatta a quel modo era segno che Dio l’aveva voluto, che non dovevo ribellarmi alla mia sorte, ma, anzi, accettarla con docilità e con fiducia e che se tu provavi disprezzo per me, la colpa era tua e non mia»: così si esprime Adriana sul finire del romanzo rivolgendosi ad un afflitto Mino, disintegrato dentro per il suo tradimento. In queste parole c’è la differenza abissale che intercorre tra l’uno e l’altra. L’accettazione della vita di chi ammette la propria ignoranza opposta all’incapacità di chi al mondo non riesce a stare. «Avevo capito che la mia forza non era di desiderare di essere quello che non ero, ma di accettare quello che ero. La mia forza erano la povertà, il mio mestiere, la mamma, la mia brutta casa, i miei vestiti modesti, le mie umili origini, le mie disgrazie e, più intimamente, quel sentimento che mi faceva accettare tutte queste cose e che era profondamente riposto nel mio animo come una pietra preziosa dentro la terra» dice Adriana di sé all’inizio del capitolo terzo della seconda parte. La romana è il romanzo della sconfitta della figura maschile nella società degli anni Trenta. Adriana non ha il padre, già morto, e incontra sulla propria strada svariati uomini, ognuno dei quali però dimostra atavici limiti nella convivenza con gli altri. La falsità e il doppio gioco di Gino, che interrompono definitivamente l’adolescenza di Adriana, l’avidità di Giacinti, la personalità perversa di Astarita, la crudeltà bruta di Sonzogno. La sconfitta della figura maschile è sancita in ultima istanza dall’uscita di scena di Mino e dall’impossibilità per Adriana di costruire quella famiglia che sognava fin da ragazza, quando passeggiava per Roma con la madre. Ha tentato di costruirla con Gino e con Mino, in entrambi i casi è andata male. Ancora una volta, in Moravia la chiave grazie alla quale indagare nel profondo la realtà è il sesso. È proprio il rapporto fisico tra uomo e donna a muovere i fili dell’intreccio. A spingere verso la prostituzione Adriana è in primo luogo la madre, che nella catena della semplicità psicologica precede, e di parecchio, la figlia. Scompare gradualmente nel corso della narrazione, ma è l’ultimo appiglio al quale si stringe Adriana quando tutto va a rotoli. È emblematico, però, come parli di questo abbraccio finale la stessa protagonista: «Andai a casa, e questa volta, mi gettai tra le braccia della mamma, ma senza piangere. Sapevo che era stupida e che non capiva niente, ma era pur sempre la sola persona a cui potessi confidarmi… La mamma, dopo avere tentato di consolarmi con una quantità di frasi schiocche seppure sincere, disse che non dovevo precipitare nulla». Un appunto sul linguaggio. È molto differente rispetto a quello de La Ciociara. È un linguaggio andante, più comune che popolare ed è accostabile ad un ipotetico standard, sebbene il narratore, proprio come ne La Ciociara, sia interno e la voce sia femminile. Tuttavia, in questo caso il narratore, come detto, è la giovane Adriana, mentre nel romanzo del 1957 è Cesira, madre di Rosetta. Adriana, poi, a differenza di Cesira, alcune volte “si ritira”, lasciando spazio ai personaggi del dialogo e fa molte annotazioni sui modi di parlare altrui. La sua testimonianza, inoltre, appare raccontata molto tempo dopo rispetto ai fatti narrati. Un ultimo aspetto che dal punto di vista linguistico va rimarcato è il seguente: Adriana si prostituisce ma non dice mai parolacce, Cesira invece non ama l’amore fisico ma impreca molto spesso. Infine, un’annotazione sulle descrizioni. Dominano quelle degli interni. Le stanze riflettono il più delle volte lo stato d’animo di Adriana e non casuale è la scelta di Moravia di ripetere più volte la conformazione della camera da letto arredata a proprie spese da Adriana. È il luogo in cui il mondo si svela ad Adriana ed è un mondo crudo e ricco di insoddisfazione, nel quale l’unica speranza è riposta in quel nascituro nel grembo della protagonista.
Indicazioni utili
Dagli “astratti furori” ai “nuovi doveri”
Quando la prosa sottende la poesia si incontra Elio Vittorini e ci si imbatte in Conversazioni in Sicilia. Il romanziere siracusano utilizza con costanza nelle parti dialogate la reiterazione di parole e di frasi, quasi a renderle degli psichismi a durata interminabile. A mio giudizio è, infatti, impossibile cominciare il discorso legato a Conversazioni senza accennare allo stile inconfondibile di Vittorini. Il romanzo puntava ad intercettare nel 1938, quando uscirono le prime puntate dello scritto sulla rivista “Letteratura”, i ceti colti, quindi le élite giovanili letterariamente avanzate e politicamente anticonformiste. Aveva l’obiettivo di far aprire gli occhi di fronte alla deriva assunta dal regime fascista, ormai sempre di più proiettato su una strada belligerante. Conversazioni è, in primo luogo, un romanzo contro la guerra, poi lo si può anche intendere come un romanzo di formazione e un romanzo familiare. Silvestro, giovane emigrato dalla Sicilia al Nord Italia, torna nella terra natale per qualche giorno, ripensando e rilluminando i rapporti parentali. Il lasso di tempo considerato è molto limitato (due giorni e due notti di viaggio, soggiorno nel paese della madre di una giornata e mezzo), eppure basta a Silvestro per regolare i conti con la comunità d’origine, dalla quale non ha più nulla da imparare. Il protagonista, perciò, da figlio diventa cittadino responsabile e fuoriesce per sempre dalla sua comunità d’origine sorretto da una nuova matura consapevolezza; d’altronde, durante l’intera narrazione, affidata direttamente a Silvestro, che parla in prima persona, si comprende come la Sicilia intorno al protagonista sia rimasta immutata mentre è lo stesso Silvestro ad essere cambiato. Dunque, si passa anche dal microcosmo familiare a quello sociale. Silvestro, difatti, ci porta una testimonianza di solidarietà fraterna nei confronti dei più deboli, dei più offesi della famiglia umana. Quest’ultimo concetto si chiarifica nel finale, nel quale il colloquio con il fratello morto durante la guerra di Spagna oltrepassa la realtà. Grazie a tale conversazione, il protagonista, insieme alla madre Concezione, smaschera la retorica ufficiale fascista ed “ehm” diventa emblematico, e per questo reiterato con insistenza, perché viene capito non solo dalla madre ma anche da tutti gli altri siciliani in piazza. Nel finale, perciò, Silvestro ritrova la parola, quella che gli mancava all’inizio della narrazione quando era paralizzato dai celeberrimi “astratti furori”. La prima pagina del romanzo, dove per l’appunto vengono citati gli “astratti furori” da cui è afflitto Silvestro, è una delle più famose pagine della nostra letteratura. Ci fa immergere completamente nella crisi etico-esistenziale di Silvestro, che, come abbiamo detto, si risolverà con questo suo viaggio di ritorno in Sicilia. Il romanzo è suddiviso in addirittura 49 capitoletti raggruppati in cinque parti e ogni segmento ha una matrice resocontistica: partenza da Milano e arrivo in Sicilia; soggiorno e conversazione con la madre; giro in paese con la madre; incontri con Calogero, Ezechiele, Porfirio e sosta all’osteria; colloquio con il fratello morto, ritorno a casa, fuoriuscita in piazza con la comunità, congedo dalla madre e dal padre (soltanto la quinta parte è plurale ma è la più breve). Due ultimi spunti. Il primo riguarda la già citata madre Concezione. Evolve durante la narrazione e viene elevata nel finale: aderisce, infatti, ai “nuovi doveri”, a cui il figlio fa riferimento a seguito dell’incontro avuto durante il viaggio con un personaggio molto interessante e fondamentale per l’intero romanzo come il Gran Lombardo, colui che invocando i “nuovi doveri” inizia a scuotere Silvestro e a portarlo fuori dagli “astratti furori”. Come accennato, insieme al figlio toglie il velo alla retorica fascista che spingeva l’Italia verso il baratro dell’accettazione e dell’esaltazione della guerra. Concezione, quando entra in scena, è presentata come un’istintiva ma è anche un’instancabile lavoratrice che riesce a sopperire alla totale mancanza del marito. Alla fine, soffre insieme a Silvestro per la morte di Liborio e grida contro gli offensori dell’umanità. Il secondo ed ultimo spunto, invece, riguarda il titolo. Non a caso nella recensione abbiamo ripetuto più volte il termine conversazione. Serve per rimarcare il processo di iniziazione ad un uso rinnovato della parola, tanto che ritrovando la parola Silvestro risolve il suo assillo. È un romanzo di e sulla conversazione nel quale, tra i tanti aspetti, mi ha colpito la capacità di Vittorini di far scoprire tutti i profumi della Sicilia, sollecitando durante la lettura l’olfatto.
Indicazioni utili
Tutto si ripete, ma poco si equivale
È il romanzo in cui tutto si ripete, ma poco si equivale. Gli esempi abbondano, ne scelgo due: il falò del cadavere di Santina ripropone un rituale arcaico, però in questo caso brucia una spia fascista e non un innocente agnellino e dunque emerge il principio di giustizia umana, non del gesto superstizioso; il rogo della Gaminella di Valino è un atto di protesta contro lo sfruttamento dei contadini, non contro gli dei. Pavese invita, perciò, non allo scoraggiamento fatalista ma ad un cauto e fermo intervento sulle dinamiche dell’esistenza individuale e collettiva. Scritto nel 1949 e pubblicato nella primavera 1950, La luna e i falò propone tutte le classiche opposizioni costitutive della narrativa di Pavese: città-campagna, infanzia-maturità, virilità-femminilità, passato-presente, azione-contemplazione, struttura circolare-conclusione aperta. È funzionale, in tal senso, il resoconto di viaggio per mettere a confronto il luogo e il tempo di partenza e di arrivo con nel mezzo il processo mentale del viaggiatore che rammenta il passato e lo paragona al presente. Chi è il viaggiatore? È Anguilla, un bastardo cresciuto sulle colline delle Langhe e successivamente emigrato. Decide di tornare per una breve villeggiatura estiva nei luoghi natii. Durante il soggiorno vicino a Canelli, egli scende all’inferno e trova solo fantasmi sanguinanti. Comprende di aver fatto bene ad emigrare sottraendosi all’arretratezza economico-sociale, alla passività cupa e alla disperazione cieca delle terre in cui era cresciuto. Pertanto, Anguilla soffre al ritorno, soffre nel rivedere le abitazioni in cui è divenuto grande (la Gaminella e poi la Morra), ma nel contempo si apre un varco di libertà: è un uomo giusto perché ricerca il benessere personale e parallelamente gli interessi di emancipazione collettiva. Emblematico è il rapporto che instaura con il giovane storpio di nome Cinto, che viene salvato da Anguilla dal circolo vizioso in cui si trovava coinvolto che era del tutto simile a quello vissuto anni addietro dallo stesso protagonista. Anguilla, dopo circa vent’anni in paese, ne ha vissuti altrettanti in giro per il mondo (ha raggiunto anche l’America, ma l’America che ci propone Pavese è del tutto diversa da quella che ci aspetteremmo: le immagini a stelle e strisce, infatti, sono notturne e sono ambientate in un deserto ed in una pianura iper-coltivata). Torna nelle Langhe da vacanziero forte dalla sua occupazione da commerciante. Sa che, essendo un trovatello, sarà ancora più complicato il suo nuovo incontro con la comunità d’origine perché riaprirà vecchie ferite, accumulate nei primi vent’anni di vita ricchi di mortificazioni. Eppure Anguilla non demorde e reagisce. Come detto, cerca di invitare tutti i suoi ex compaesani a varcare la “soglia di Canelli”. Ad accoglierlo in paese c’è il suo grande amico d’infanzia, ovvero Nuto, sul quale erano riposte grandi aspettative in passato essendo sveglio ed intelligente. Invece Nuto non ha avuto la stessa intraprendenza di Anguilla e a distanza di due decenni non può far altro che la guida ad Anguilla in un territorio che non ha lasciato. Nuto, perciò, racconta quello che è accaduto in quel lasso di tempo, ma dimostra di non essere evoluto, anzi Pavese cerca di paragonarlo costantemente ad Anguilla per esaltare ancor di più il protagonista dell’opera. Anguilla, infatti, nel momento del suo ritorno non ha più nulla da apprendere, se non le spicce notizie di cronaca di paese, da Nuto, che invece nell’infanzia era stato un suo punto di riferimento imprescindibile. Si può, dunque, considerare la vacanza nelle Langhe un bilancio esistenziale complessivo di Anguilla: all’attivo c’è l’essersi mosso, al passivo non aver mai trovato l’amore. Non l’ha conosciuto da piccolo bastardo durante l’infanzia e l’adolescenza, non l’ha scovato in giro per il mondo, dove l’unica donna che ha avuto veramente a cuore Anguilla è stata Teresa a Genova. Il rapporto di Anguilla con la femminilità, in effetti, è un altro grande tema del romanzo: le due prime donne che gli hanno fatto battere il cuore, Silvia ed Irene della Morra, faranno una brutta fine, mentre alla più giovane delle tre sorelle della Morra, Santina, è riservato il finale, anch’esso particolarmente tragico, come accennato all’inizio. Ultimi due aspetti. Il primo riguarda i nuclei familiari: sono tutti praticamente in crisi, tranne quello di Nuto mai rappresentato in scena. Gli anelli deboli sono i padri di famiglia, incapaci di reggere le sorti (gli esempi abbondano ma basta citare per tutti Valino che si ammazza). Il secondo, invece, è relativo al titolo che richiama alle credenze superstiziose del popolo contadino, alle lune e ai falò per l’appunto, che verranno ribaltate nel loro significato. Non è un caso, tra l’altro, che Pavese parli di questa tematica in un romanzo, considerato che nello stesso arco di tempo stava curando per Einaudi, in veste di direttore editoriale, una collana di antropologia.
Indicazioni utili
Come nasce l’impegno nella classe proletaria
Spigoloso. Penso che sia l’aggettivo migliore per descrivere lo stile utilizzato da Cesare Pavese nel romanzo Il compagno, uscito nel 1947. La sintassi è franta, i dialoghi (dominanti dalla prima all’ultima pagina) sono frammentati e la lettura risulta molto complicata. In parecchi passaggi si vorrebbe scoprire di più di quanto viene detto. Si vorrebbe capire meglio come è andata una vicenda o come si comporta un personaggio, invece l’autore tronca il capitolo o l’episodio. Non è il capolavoro di Pavese, ma è un libro che va letto per conoscere tutte le facce della sperimentazione di Pavese. L’autore riesce a trasportare il lettore in due realtà cittadine differenti: nella prima parte Torino, nella seconda Roma (anche Pavese ha seguito la stessa tratta del protagonista Pablo sul finire del 1945, trasferendosi presso la sede romana della casa editrice Einaudi per la quale divenne direttore editoriale dopo la scomparsa di Leone Ginzburg). Siamo nella seconda metà degli anni Trenta, durante la guerra di Spagna, quando si delinea meglio il carattere belligerante del governo fascista italiano. La narrazione è in prima persona: a narrare i fatti è proprio il protagonista Pablo (nome non causale: richiama indubbiamente la Spagna e quindi la guerra nella penisola iberica). Il cambio di città a circa metà opera coincide con un’apertura mentale da parte del protagonista: a Torino c’è un completo disinteresse nei confronti della politica e di quello che accade intorno a lui (non si accorge, ad esempio, che il suo caro amico Amelio, rimasto infermo a seguito di un incidente stradale avvenuto con l’amata Linda, è un militante antifascista, sebbene intorno al letto di Amelio ci siano giornali e opuscoli a testimoniare la sua attività sovversiva); a Roma, invece, Pablo entra in una nuova ottica, quella della partecipazione attiva contro il fascismo, comprendendo con colpevole ritardo l’attività illecita di Amelio e i pericoli che il vecchio amico rischiava. Nella città capitolina la mobilitazione segue due strade differenti. Conosce da un lato una dilettantistica e poco produttiva opposizione al fascismo (personificata da Carletto e dalla sua compagnia di amici), mentre dall’altro incontra Gino Scarpa, combattente in Spagna, che permette a Pablo di aprire definitivamente gli occhi sul governo italiano e sulla situazione europea. Pavese, perciò, si sofferma su un periodo storico antecedente rispetto a quello resistenziale e addirittura post-bellico. Compie tale operazione mostrandoci la prospettiva del proletariato e degli incolti. La famiglia di Pablo, infatti, a Torino gestisce una modesta tabaccheria, dove Pablo non ama stare; preferisce di gran lunga destreggiarsi con la sua chitarra e suonare: da tutti, d’altronde, è conosciuto per questa sua peculiarità. Non mancano le donne nel romanzo. La già citata Linda capeggia la prima parte e muove i fili della narrazione: era fidanzata con Amelio, poi si concede a Pablo ma il rapporto è malsano per entrambi. È l’emblema di uno scorretto modello di emancipazione femminile negli anni Trenta. È colei che per il successo nel mondo del teatro sarebbe pronta a tutto, tanto che dona il suo corpo e il suo “amore” al ricco Lubrani, cinquantenne impresario. A Roma, invece, Pablo è meccanico di biciclette in un’officina in cui lavora anche Gina. La relazione carnale tra i due funziona, quella sentimentale un po’ meno, anche perché Pablo ha la mente occupata da altri pensieri, quelli politici appunto. Il finale del romanzo è aperto. Pablo decide di tornare a Torino, mentre di Gina si può solamente intuire che potrebbe raggiungerlo sotto la Mole («Le vedrò quando vengo a Torino?», riferito alla madre e alla sorella di Pablo: è questa l’ultima battuta affidata da Pavese a Gina). Non è casuale, tra l’altro, l’ultimo argomento di dialogo di Pablo e Gina: si tratta di Amelio, che apre e chiude il romanzo, aleggiando con la sua presenza in tutti e ventidue i capitoli. L’ultima parola del romanzo, notte, ci offre un altro spunto. Sono parecchie le scene notturne ambientate sia a Torino che a Roma. Col prosieguo del romanzo le nottate sono sempre meno gioviali e sempre più impegnate. Dunque, Pavese ne Il compagno prova a seguire l’evoluzione esistenziale soprattutto di Pablo che da semplice suonatore di chitarre diventa militante politico. Per la prima volta viene seguito il percorso verso la strada dell’impegno di un proletario e di un incolto, e non di un borghese come era consuetudine. Per molti aspetti contenutistici Il compagno mi ha ricordato La romana di Alberto Moravia. Gli stili e le modalità narrative sono differenti, ma è interessante notare come decidano di affrontare la stessa materia e lo stesso periodo storico due dei più grandi narratori del nostro Novecento.
Indicazioni utili
Uno studio pacato sull’animo umano
Una straordinaria indagine sulla psicologia umana. Ciò rende Se questo è un uomo un memoriale differente rispetto agli altri. Primo Levi non ha voluto aggiungere nulla di nuovo sulla crudeltà dei lager nazisti, non ha voluto formulare nuovi capi d’accusa nei confronti dei suoi torturatori. Ha, invece, voluto andare più a fondo per provare a capire le cause che hanno condotto l’essere umano ad un esperimento sociale tanto terribile come quello dei campi di concentramento e di sterminio. L’autore, perciò, vuole condurre uno studio pacato, privo di odio, sull’animo umano. Ne esce un quadro ricco di spunti. Lo stile è lineare ed è completamente assente la retorica. Come dice in una recensione del 1948 Italo Calvino (Se questo è un uomo era uscito nel 1947 nella collana di saggi della casa editrice Da Silva di Torino), nella scrittura di Levi ci sono: la potenza delle immagini, l’acutezza psicologica e la sobrietà. I fatti narrati, come evidenzia lo stesso Levi, sono tutti reali e sono stati vissuti in prima persona da Levi presso il campo di lavoro di Monowitz, vicino ad Auschwitz. Levi è sopravvissuto all’orrore nazista. È stato salvato dai suoi studi da chimico, da una buona dose di fortuna, come egli stesso ha sempre ammesso, e dall’incontro con un civile di nome Lorenzo, che lo ha aiutato porgendogli alcuni beni di prima necessità e ricordandogli sempre che «era ancora un uomo», nonostante tutto. I capitoli a partire dal 1958 (prima edizione targata Einaudi, che aveva rifiutato il libro appena dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale) sono 17. È stato, difatti, inserito tra Sul fondo e Ka-Be il capitolo Iniziazione. In questo modo I sommersi e i salvati è divenuto il nono capitolo, quello centrale. È questo il capitolo più importante nella riflessione di Levi, dove evidenzia che nel lager si perde il confine tra bene e male. Il lager come una gigantesca esperienza biologica e sociale, perché vengono rinchiusi in uno stesso posto migliaia di individui costretti ad una vita costante, controllabile, identica per tutti, quindi perfetta per una sperimentazione. Levi in questo capitolo descrive la legge del lager, che riassume con le seguenti parole: «a chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto». E poi parla dei prominenti ebrei, che sono un tipico prodotto del lager. Sono schiavi che ricevono una posizione privilegiata, un certo agio e una buona possibilità di sopravvivere. Per quello che ricevono, però, tradiscono la solidarietà dei compagni, sono sottratti dalla legge comune, sono odiosi e odiati e diventano con il tempo sempre più feroci, crudeli e tirannici nei confronti degli altri. E ancora nel capitolo I sommersi e i salvati ci porta quattro significativi esempi di gente comune che egli ha incontrato e osservato nel lager. Gli ultimi due meritano un’attenzione particolare: Elias, fortissimo fisicamente, ed Henri. Il primo ci dice Levi è un ladro, ha l’istintiva astuzia degli animali. È felice nel lager, perché fuori sarebbe un criminale o un pazzo mentre dentro trionfa e prospera. Il secondo, invece, sopravvive grazie alla pietà che gli serve per ampliare le sue conoscenze e amicizie; Levi ci spiega che Henri cattura i soggetti, li impietosisce e inizia a far rendere questa sua conoscenza. Ma non c’è soltanto il capitolo nono. In quello successivo, ad esempio, Levi cerca di restituirci il sentimento provato dai nazisti nei confronti degli schiavi del lager. Lo fa con lo sguardo che Pannwitz, colui il quale è chiamato a selezionare chi potrà entrare nel commando chimico, rivolge a lui: viene descritto come lo sguardo che si rivolge ad esseri di natura diversa. Sempre nel capitolo Esame di chimica il capo del commando chimico, un criminale di nome Alex, si pulisce la mano sulle vesti di Levi «senza scherno e senza odio». Un’altra scena da cogliere e su cui riflettere è quella che conclude il capitolo Ottobre 1944, il quale descrive la terribile selezione avvenuta in quel mese nel lager. Il protagonista è Kuhn che ringrazia Dio per non essere stato selezionato, ma al suo fianco ha Beppo che invece è stato appena condannato a morire. Levi conclude: «Se io fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn». Se Lorenzo ricorda, come detto, a Levi che appartiene ancora al genere umano, invece sarà nell’ultimo capitolo, Storia di 10 giorni, che Levi riscoprirà l’umanità, quando Towarowski, uno dei pochi rimasti con lui nel campo quando avviene l’evacuazione nel gennaio 1945, propone di dare un pezzo di pane proprio a Levi, a Charles e ad Arthur che si erano spesi per lui e per gli altri presenti nello stanzone. A questo gesto Levi pensa: «Il lager è morto, gli haftilinge (i detenuti) stanno lentamente tornando uomini».
Indicazioni utili
Capitan Bellodi: l'anticipatore dei tempi
Capitan Bellodi. Basterebbe questo personaggio a rendere unico il capolavoro letterario di Leonardo Sciascia. Il giorno della civetta ha saputo anticipare clamorosamente i tempi. Dalla penna dello scrittore di Racalmuto prende forma già nel 1960 un commissario impegnato nella lotta contro la mafia nella Sicilia più verace. Capitan Bellodi è il padre della generazione di grandi magistrati che nei decenni successivi hanno lottato per una Sicilia e un’Italia migliore, da Carlo Alberto Dalla Chiesa e Gian Carlo Caselli a Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. L’immagine finale del romanzo breve di Sciascia è nostalgica e profonda, racchiude tutta la tenacia e la determinazione del capitano. Bellodi è nella sua Parma, è una Parma imbiancata dalla neve e gioviale, ma pensa e ripensa a quella Sicilia che ha lasciato da qualche settimana con un caso molto intrigato che si è trasformato, come era lecito attendersi, dopo la sua partenza, in un semplice fatto da ascrivere ai “delitti passionali”. Invece, sotto c’era molto di più e il capitano era riuscito a muovere i fili giusti, sospinto dal suo profondo senso di Giustizia. Usiamo la lettera maiuscola per Giustizia non a caso. Quello che maggiormente colpisce nel personaggio di Bellodi è proprio la profondissima convinzione nella Giustizia. Straordinario, dal punto di vista letterario, è il falso verbale pensato e realizzato dal capitano, perché per fronteggiare la mafia bisogna ragionare come la mafia e Bellodi lo fa perfettamente, cercando di incastrare i protagonisti di questo triplice omicidio. Il primo a morire è Salvatore Colasberna, edile che non chiede la protezione di chi “comanda” il settore in quella misteriosa Sicilia (i due paesi coinvolti sono indicati con semplici iniziali, perché come sostiene Sciascia fatti simili potrebbero verificarsi ovunque). Il secondo è Paolo Nicolosi, che suo malgrado nella mattinata dell’uccisione di Colasberna ha incrociato il proprio destino con il mandatario dell’assassinio. Infine, il terzo è il “confidente”, Parrinieddu, che non regge la tensione dopo alcune confessioni al capitano, attirando su di sé l’attenzione della mafia. L’intreccio studiato da Sciascia è vincente: non mancano né gli omicidi né l’indagine come in un romanzo giallo, ma la portata storica e l’impatto sociale sono ben diversi. Si passa dalla Sicilia a Roma e vengono ricreate solamente attraverso la forza dei dialoghi le reazioni di eminenti politici, prefetti e capi mafiosi. La commistione mafia-politica è un’altra colonna portante del romanzo. D’altronde Sciascia ha scritto Il giorno della civetta nell’estate 1960, quando il Governo negava ancora il fenomeno delle mafie. Sciascia ripropone, infatti, in versione letteraria, la risposta sconcertante data dallo stesso esecutivo in una seduta della Camera dei Deputati circa un’interrogazione sull’ordine pubblico in Sicilia, il che appare incredibile considerando che appena tre anni dopo entrò in funzione una commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia. I tre interrogati da capitan Bellodi sono Diego Marchica (detto Zicchinetta), Rosario Pizzuco e don Mariano Arena. Interessante seguire durante gli interrogatori le emozioni provate da ciascuno degli accusati e soprattutto spicca la descrizione della suddivisione dell’umanità secondo don Mariano. Per lui ci sono gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i cornuti e i quaquaraquà. Quello descritto, comunque, è un mondo ricoperto da una spessa patina di omertà e l’omertà avvolge tutti, dai civili spaventati ai diversi personaggi loschi implicati nella vicenda. Concludo ribadendo l’estrema contemporaneità de Il giorno della civetta. Non sembrano passati sessant’anni, ma sembra scritto per descrivere il mondo d’oggi. In tal senso chiudo con la citazione di un pensiero del capitano, un pensiero che è profondamente legato all’Italia del 2021: «Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena; e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e piccole aziende, revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto dietro le idee politiche o le tendenze o gli incontri dei membri più inqueti di quella grande famiglia che è il regime, e dietro i vicini di casa della famiglia, e dietro i nemici della famiglia, sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari: e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso. Soltanto così ad uomini come don Mariano comincerebbe a mancare il terreno sotto i piedi… In ogni altro paese del mondo, una evasione fiscale come quella che sto constatando sarebbe duramente punita: qui don Mariano se ne ride, sa che non gli ci vorrà molto ad imbrogliare le carte».
Indicazioni utili
Riflettere per non rassegnarsi
Le favole moderne di Marcovaldo ci aprono uno squarcio sull’Italia a cavallo tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta. Ci conducono per mano nel periodo del Boom economico. Calvino, però, lo fa con la sua consueta fantasia e in molte delle venti novelle ci strappa più di un sorriso. Il contesto è solo abbozzato (basta dire che siamo in una grande città, non importa evidenziare se siamo a Milano o Torino), così come conosciamo pochi aspetti di Marcovaldo: è marito di Domitilla (come gli altri personaggi adulti porta un nome quasi da eroina di poema cavalleresco, proprio come Marcovaldo), ha parecchi figli, lavora come caricatore e scaricatore nella fantomatica ditta “Sbav”. Marcovaldo va alla ricerca della natura e delle stagioni, laddove il cemento e l’asfalto sono ormai padroni. Sogna un ritorno ad uno stato di natura. Cerca, infatti, un dialogo costante con piccoli animali, insetti, piante, ma va incontro quasi sempre ad un’inevitabile delusione. Dominano l’alienazione, il conformismo, l’omologazione, il consumismo e i ritmi frenetici del mondo neocapitalista. Sono tematiche centrali per la letteratura di questi anni che si è interrogata in ogni modo sul rapporto da tenere con l’industria. Critici letterari, poeti e narratori hanno espresso il loro parere. Celeberrimo in tal senso il quarto numero della rivista letteraria Menabò, interamente dedicato al rapporto letteratura-industria. Il libro di Calvino è composto da venti favole, ognuna delle quali collocata in una stagione (primavera, estate, autunno, inverno). Le novelle sono state scritte tra il 1952 (anno di uscita de Il visconte dimezzato) e il 1963, quando fu edito il volume di Marcovaldo. I contenuti delle favole moderne di Calvino sono in molti casi attualissimi. Un esempio tratto dall’avvio di Dov’è più azzurro il fiume: “Era un tempo in cui i più semplici cibi racchiudevano minacce insidie e frodi. Non c’era giorno in cui qualche giornale non parlasse di scoperte spaventose nella spesa del mercato: il formaggino era fatto di materia plastica, il burro con le candele steariche, nella frutta e verdura l’arsenico degli insetticidi era concentrato in percentuali più forti che non le vitamine, i polli per ingrassarli li imbottivano di certe pillole sintetiche che potevano trasformare in pollo chi ne mangiava un cosciotto”. Altri due spunti: il bombardamento pubblicitario a cui, seppur in forma diversa, siamo ancora oggi sottoposti è tematizzato nella splendida Luna e Gnac oppure gli abusi edilizi sono al centro de Il giardino dei gatti ostinati. Come detto, la fantasticheria di Calvino non manca e raggiunge livelli meravigliosi ne La città smarrita nella neve e ne La fermata sbagliata, dove domina la nebbia. In conclusione, Marcovaldo è un libro per bambini, ragazzi e adulti. Le sue favole hanno una trama estremamente semplice, ma invitano alla riflessione, perché ci permettono senza eccessi retorichi e con il loro spirito pungente di ragionare sul mondo di Marcovaldo che poi non è così diverso dal nostro. E riflettere significa non rassegnarsi.
Indicazioni utili
Quando i segni sostituiscono le parole
Il visconte dimezzato è il romanzo dei segni. Attraverso i segni i personaggi del romanzo breve o racconto lungo di Italo Calvino, uscito nel 1952 nella prestigiosa collana I gettoni di Einaudi, diretta da Elio Vittorini, comprendono ciò che sta avvenendo intorno a loro. La vicenda narra di un visconte, Medardo di Terralba (località pensata nell’entroterra ligure), che aderisce alla guerra contro i Turchi. Arriva sul campo di battaglia, viene ferito da un nemico e viene diviso a metà. Grazie a cure fantastiche, riesce a salvarsi e una delle due metà torna a Terralba. Il soggetto della narrazione, dunque, è molto semplice e Calvino lo attinge dalla sua amata letteratura americana e soprattutto dall’autore de L’isola del tesoro, Robert Louis Stevenson, a cui Calvino ha dedicato la tesi di laurea. L’autore, però, immerge questo soggetto nella sua proverbiale dimensione fantastica. Si può, infatti, definire Il visconte dimezzato una fiaba a forte carico realistico. Una volta tornata la prima metà a Terralba saranno proprio i segni che seminerà sul territorio (divide qualsiasi oggetto che trova sulla propria strada) a far accorgere la balia del visconte che è rincasata la metà grama di Medardo. Più che le parole, perciò, sono proprio i segni a far procedere l’intreccio narrativo nelle pagine successive quando farà capolino sulla scena anche la metà buona. Intorno alla figura di Medardo i personaggi si distribuiscono in maniera binaria: comunità laboriosa degli ugonotti e comunità gaudente dei lebbrosi; la già citata balia Sebastiana e la donna contesa dalle due metà del visconte, ovvero Pamela; il carpentiere Mastro Pietrochiodo e il dottor Trelawney. Quest’ultimi meritano un occhio di riguardo, a mio parere. All’inizio entrambi non si dedicano minimamente al bene della comunità umana (uno costruisce forche per uccidere le persone su ordine del visconte gramo, l’altro invece pensa alle rare malattie dei grilli e ai fuochi fatui), poi evolvono e tornano ad occuparsi del bene della società. La divisione del visconte in due metà, una buona e l’altra cattiva, mette in mostra un aspetto centrale del romanzo di Calvino: la bontà assoluta e la cattiveria assoluta sono ugualmente nocive. L’equilibrio ritorna soltanto quando le due parti si riuniscono, compensando bontà e cattiveria. Un ultimo appunto riguarda il narratore. Si tratta del giovane nipote, non riconosciuto a corte, del visconte. Ai tempi della narrazione era un bambino. Nel finale emerge tramite le sue parole l’importanza vitale per ogni uomo di narrare, di perdersi nella fantasticheria della narrazione. Dunque, raccontare è antropologicamente insito nell’uomo e non se ne può fare a meno, ma bisogna poi ricordarsi di tornare sempre alla realtà.
Indicazioni utili
Solo Miss Marple poteva salvarsi su Nigger Island
Il giallo dei gialli della “Signora del giallo”. Agatha Christie si è superata con Dieci piccoli indiani. Una costruzione a tessere iniziale azzeccata e vincente. Nelle prime pagine pennella i suoi personaggi, ce li presenta e soprattutto instilla in ognuno di noi un dubbio. I protagonisti di Dieci piccoli indiani convivono, infatti, con un fardello legato al loro passato. Un peso che riecheggia costantemente nelle loro menti. Dall’arrivo degli otto ospiti, ai quali bisogna sommare i due governanti per raggiungere la cifra tonda di dieci, a Nigger Island il pathos cresce. L’atmosfera diventa tagliente e non ci si riesce più a staccare dal romanzo. Uno dopo l’altro i protagonisti cadono sotto le astute, crude e perverse mosse dell’assassino. Ipotesi, congetture e strategie di difesa si susseguono, ma l’unica certezza è il realizzarsi della filastrocca che ognuno degli ospiti trova appesa nella propria camera. Il gruppo di Nigger Island è eterogeneo, poiché tutti insieme si ritrovano un giudice in pensione, un dottore di successo, un ex generale, un poliziotto, una balia, un avventuriero in paesi esotici, un giovane baldanzoso amante della bella vita… Come sempre, la Christie si dimostra abile conoscitrice dell’animo umano. Va a fondo sulle paure dei protagonisti, ma non soltanto su quelle. Cerca di far emergere il ragionamento, la riflessione, la spiritualità di questo gruppo di persone “selezionate” per il misterioso viaggio a Nigger Island. Accelerazioni improvvise si alternano con momenti di pura frustrazione, quella di chi si sente appeso ad un filo, quella di chi deve temere e diffidare del suo prossimo. Il piano a tavolino dell’assassino riesce alla grande, ma soltanto nelle ultime pagine si conosce l’identità di questo terribile giustiziere di vite umane. Chiudiamo con una provocazione divertita. Leggendo Dieci piccoli indiani, è lecito pensare che da Nigger Island avrebbe potuto salvarsi soltanto la creazione letteraria più straordinaria della Christie, ovvero Miss Marple. Solo l’arguzia dell’anziana zitella, infatti, avrebbe potuto fermare anticipatamente l’assassino di questo straordinario classico della letteratura mondiale.
Indicazioni utili
Ida Ramundo: la forza commuovente di una madre
Il piccolo Useppe mi manca. Un personaggio costruito con grande sagacia da Elsa Morante. È uno dei grandi e dei tanti sconfitti della Storia, rigorosamente con la S maiuscola. La Storia e la storia della famiglia di Useppe si intrecciano nella terza “cattedrale” della Morante. Molto interessante la scelta di anteporre ad ogni capitolo (si parte dal capitolo 1941, si arriva a quello denominato 1947) un resoconto dei fatti storici occorsi in quei dodici mesi. Tipograficamente la scrittrice non ha lasciato nulla al caso. Compaiono due epigrafi significative, una richiama ad un passo del Vangelo di Luca, l’altra è tratta dagli scritti di un sopravvissuto di Hiroshima. Entrambe servono a definire i dedicatari di quest’opera, ovvero i “piccoli” del mondo, coloro i quali non possono nulla di fronte ai grandi fatti che li circondano. È un libro sulla Seconda Guerra Mondiale (le origini ebraiche di Ida Ramundo, madre di Useppe, nato da un’unione clandestina e del tutto estemporanea con il soldato tedesco Gunther; la deportazione degli ebrei dal ghetto di Roma il 16 ottobre 1943; i bombardamenti sulla città laziale; la lotta partigiana nel Centro Italia, combattuta in prima linea da Nino, primogenito di Ida e fratellastro di Useppe; la liberazione di Roma, che diventa “città aperta”), ma i momenti di massima crudeltà emergono a conflitto finito. Il dramma per la famiglia Ramundo si materializza quando la Seconda Guerra Mondiale viene lasciata alle spalle. La Storia è inesorabile e travolge tutto e tutti, paradossalmente facendo più danni in tempo di pace. Il cambio di rotta del romanzo segna lo spegnersi progressivo di una meravigliosa madre come Ida, personaggio strutturato fortemente sull’identità della madre di Elsa. Entrambe, infatti, hanno origini ebree e sono maestre. Ida è un personaggio straordinario, è una delle mamme più commuoventi della nostra letteratura novecentesca. Nonostante le sue fragilità fisiche e mentali, lotta in ogni modo per garantire un futuro a Nino e a Useppe. Si trasforma addirittura in una ladruncola in una Roma in subbuglio a metà anni Quaranta. Esemplifica il concetto di “senso materno”, ma sarà la principale sconfitta del romanzo, verrà stritolata dalla violenza della Storia. Un ultimo appunto lo merita la voce narrante. Nella seconda parte non vuole distaccarsi dai suoi personaggi, soprattutto da Useppe. Lo accompagna, lo coccola, lo fa amare. Proprio per questo a romanzo terminato Useppe vi mancherà.
Indicazioni utili
45 risultati - visualizzati 1 - 45 |