Opinione scritta da anna rosa di giovanni
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Veri e falsi orchi
IL RE DEGLI ONTANI
di MICHEL TOURNIER (1970)
Come tutti i romanzi di Michel Tournier, anche questo è complesso e affascinante, riflettendo la formazione filosofica dell’autore (che per esempio nell’intervista fattagli da Bernard Pivot postata su YouTube definisce i suoi romanzi “filosofia di contrabbando”), l’originalità della sua rilettura di miti en soggetti narrazioni archetipiche e infine la sua propensione a provocare il lettore sia con riflessioni finanche spiazzanti sia - ed è il caso di questo romanzo così come de “Le meteore” - con pagine talora volutamente sgradevoli. Quanto alla lingua di Tournier, essa non finisce di stupirmi per la sua precisione lessicale, qualunque sia l’oggetto del discorso, oggetto su cui molto evidentemente l’autore si documenta approfonditamente, che si tratti de … il palco dei cervi (sì! è incredibile quanto vocabolario esista per definirne gli aspetti) o dei modi di fecondazione di insetti e piante. Nell’opera di questo scrittore, tuttavia, con la precisione, e quindi con l’estrema ricchezza lessicale, va di pari passo un’altissima capacità evocativa, di suggestione poetica, soprattutto quando descrive i paesaggi, che in questo romanzo sono quelli della Prussia Orientale, quella parte d’Europa affacciata sul Baltico che fino al ‘45 faceva parte dell’impero tedesco. Tournier aveva peraltro conosciuto e amato la Germania fin da giovanissimo, essendo figlio di due germanisti, avendo vissuto in Germania proprio tra la seconda metà degli anni ‘30 e il 1949, e essendo infine filosofo germanista lui stesso: la Germania, di cui si dichiarava “amico molto critico” e che nell’intervista sopra ricordata lui definisce il suo “dramma politico personale”.
DI CHE PARLA “IL RE DEGLI ONTANI”?
Per un lettore medio come me questo romanzo così denso racconta fondamentalmente, attraverso un narratore extradiegetico e il diario del protagonista (“Scritti sinistri”: sinistri!), la storia di un uomo, Abel Tiffauges, la quale si intreccia sempre più strettamente con quella della Germania ai tempi del nazismo, fino alla catastrofe del ‘45. Che i romanzi di Tournier siano piuttosto filosofici che realistici in senso stretto, lo prova già il semplice fatto che Tiffauges, garagista di incerti natali, riflette e si esprime come Tournier stesso potrebbe riflettere ed esprimersi; cionondimeno molte pagine, come per esempio quelle che descrivono l’esodo delle popolazioni sotto la pressione della minaccia bellica, sono realistiche quanto quelle dei maestri del Realismo Flaubert o Zola, testimoniando del lavoro di documentazione dell’autore.
CHI È ABEL TIFFAUGES E QUAL È LA SUA STORIA? A lungo, fin dall’incipit, lo scrittore mantiene il lettore, secondo me un po’ furbescamente, nel dubbio che l’erculeo Abel (Abel!) sia nientedimeno che un orco divoratore di bambini, un po’ come il protagonista del film “M. Il mostro di Düsseldorf” di Fritz Lang (1931). In realtà, gradualmente, molto gradualmente, il lettore si rende conto che Abel ama “davvero”, non perversamente, tutto ciò che è tenero e innocente, e quindi gli animali che gli vengono via via affidati e soprattutto i bambini, e amandoli ama tutto di loro, anche la loro “carne”, cioè il corpo: piaghe escrementi cerume peluria, non meno che le voci le risate gli sguardi i movimenti. Per lui tutto ciò che è da poco sbocciato alla vita e ha bisogno di accudimento e protezione è fonte di un godimento che lo coinvolge tutto, anima e corpo, giacché il piacere non si lascia ingabbiare nei soli organi sessuali (elemento su cui Tournier insiste in tutte le sue opere). La sua vocazione di accuditore, se così si può dire (lo scrittore lo definisce spesso “porte-enfant”), di cui egli diviene consapevole via via, nasce dalla sua esperienza di bambino umiliato e solitario fra i tanti altri ospiti di un tetro collegio e rinato in un certo senso grazie alla protezione affettuosa del ragazzo più temuto di tutta la scuola, Nestor, personaggio di cui a dire il vero mi sfuggono alcuni aspetti. Non basta. Fin dal giorno in cui un incendio divampa in collegio come lui aveva desiderato che accadesse, Abel si convince che nella vita lui è guidato da qualcosa di superiore alla sua stessa volontà: nella “sua anima credula e puerile” (cap. “L’orco di Rominten”) lui nutre la convinzione di avere “un destino rettilineo, imperturbabile, inflessibile, che ordina[va] gli avvenimenti mondiali più grandiosi solo in ragione di lui” (cap. Iperborea).
Solitario adulto dal pene infantile ma dalla forza erculea, titolare di un garage a Parigi, a un certo punto il suo destino subisce un’accelerazione: dopo essere stato ingiustamente incarcerato per una supposta violenza carnale perpetrata su una bambina, egli viene liberato per andare in guerra e poi fatto prigioniero dai Tedeschi che nel frattempo hanno sbaragliato l’esercito francese. Lungi dall’abbatterlo, questi avvenimenti lo inducono a sperare: “[D]alla sua infanzia calpestata, dalla sua adolescenza in rivolta, dalla sua giovinezza ardente - a lungo celata sotto l’apparenza più mediocre, ma poi smascherata e schernita dalla feccia umana - si leva[va] come un grido la condanna di un ordine ingiusto e criminale. E il cielo [ha] risposto. La società sotto cui Tiffauges [ha] sofferto [è] spazzata via coi suoi magistrati, i suoi generali e i suoi prelati, i suoi codici, le sue leggi e i suoi decreti” (cap. Iperborea).
Nei luoghi in cui viene mandato, sempre più sperduti nell’estremo Est dell’Europa, egli, pur senza essere servile e anche avendo uno sguardo lucido, … “serve”! e riesce con le sue qualità a conquistare la fiducia dei funzionari nazisti, questi sì veri orchi: l’ “orco di Rominten”, Göring, quasi sempre designato come “il capocaccia” (“le grand veneur”), dalla smodata voracità nel mangiare e nel cacciare, e poi “l’orco di Kaltenborg”, il fanatico responsabile della NaPolA di Kaltenborg, cioè la scuola per addestrare giovani belve alla più cieca obbedienza e poi mandarle in guerra, sacrificati all’“orco di Rastenburg”.
La storia di Abel Tiffauges e del suo piccolo protetto si conclude drammaticamente con una scena dalla risonanza assolutamente sacrale che peraltro ricorda quella finale de “I lavoratori del mare” di V. Hugo: nell’estremo tentativo di salvare un bambino ebreo che si esprime come un piccolo santo - Gesù … bambino? - Abel Tiffauges lo carica sulle sue spalle di gigante buono come un novello San Cristoforo e lo porta via: “Quando alzò per l’ultima volta la testa verso Ephraïm, non vide altro che una stella d’oro a sei punte che girava lentamente nel cielo nero”. La stella a sei punte, quella di Davide ...
IL TITOLO. Il riferimento è alla ben nota ballata omonima di Goethe. Ora, come si legge in wikipedia, in realtà “ontani” sarebbe la traduzione scorretta della parola contenuta nel titolo della ballata danese cui si ispira Goethe, significante “elfi”, laddove “elfi” sta per creature malefiche, non per simpatici folletti. E infatti la ballata racconta di un bimbo che il padre cavalcando porta tra le braccia verso casa e che una creatura malefica cerca di attrarre a sé con lusinghe privandolo infine della vita. Trovo questo titolo assolutamente appropriato per un romanzo in cui è centrale l’opera di seduzione maligna esercitata dal regime nazista sulle anime più inermi. Inoltre, nel romanzo c’è un episodio che contiene un riferimento ad un “re degli ontani”: un giorno Abel Tiffauges assiste al ritrovamento di due cadaveri mummificati riemersi straordinariamente da chissà quale epoca della storia dell’umanità dalla torba formatasi nelle sconfinate foreste di ontani: sono un uomo ... o era forse una donna? insomma un “porte-enfant”, e un bambino. La vista dei due corpi colpisce Abel come ennesimo segno della sua vocazione. Sì, perché per lui “tutto è simbolo, tutto è parabola” (epigrafe del cap. Iperborea) e spesso un segno annuncia un fenomeno che è la sua “inversione benigna”, talaltra la sua “inversione maligna”, nel senso che ogni cosa può annunciarne una uguale ma di segno opposto. Per esempio la precisione maniacale con cui i cacciatori tedeschi misurano e valutano gli innumerevoli aspetti del palco dei cervi uccisi nel cap. “L’orco di Rominten” prelude alla precisione falsamente scientifica con cui vengono analizzate e soppesate le parti del corpo umano per stabilirne la purezza razziale. Queste pagine, peraltro, sono del tutto prive di qualsivoglia espressione di un qualunque sentimento tanto da diventare stranianti, come se si osservasse un oggetto con una lente troppo ravvicinata e perciò deformante: così che quelle pratiche appaiono tanto più aberranti quanto più neutra sia la lingua con cui esse vengono descritte.
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Squali si nasce, non si diventa
L’UOMO CHE GUARDAVA PASSARE I TRENI (1938) di GEORGES SIMENON
Riletto 18 anni dopo, questo romanzo non ha perduto nulla per me dell’interesse e dell’emozione della prima lettura. Scrittura sobria, atmosfere parigine come quelle di film quale “Il porto delle nebbie” di Marcel Carné, che è proprio del ‘38, e una narrazione sempre tesa, anche perché, dopo l’introduzione, è il protagonista stesso che racconta via via ciò che vive - azioni, pensieri, sentimenti -, un protagonista peraltro singolare nella sua assoluta “normalità” borghese: un Olandese che, mutatis mutandis, immagino come quello de “I coniugi Arnolfini” di van Eyck, benchè un po’ più in carne.
Per un caso del tutto improbabile, una sera Kees Popinga (quale miglior nome per dire il ridicolo del personaggio?) incontra il suo principale, che tra un bicchiere e l’altro gli rivela di accingersi a suicidarsi per finta e fuggire con la cassa per andare a godersi la vita in qualche luogo esotico. Resosi conto di essere stato l’utile idiota del ricco armatore, senza mai accorgersi dei suoi loschi affari, Popinga, che si è sempre ritenuto più intelligente degli altri - non li batteva tutti giocando a scacchi? - vuole provare a se stesso e al mondo di essere anche lui un dominatore, persino uno che fa paura se vuole: “a quarant’anni ho deciso di vivere come mi piace, senza preoccuparmi dei costumi, delle leggi, perché ho scoperto un po’ tardi che nessuno li osserva e che fino ad oggi mi hanno preso in giro” (cap. VIII). Lascia quindi senza esitazioni famiglia, lavoro, paese, fiducioso di potersi prendere dalla vita tutto ciò cui finora ha rinunciato (i treni che vede sfrecciare rappresentano per lui le misteriose avventure che da sempre avrebbe voluto vivere) per adattarsi a desideri e principi mai sentiti veramente suoi, e innanzitutto va a proporsi all’amante del suo principale, che non immaginava essere una prostituta d’alto bordo (anche lei quindi in un certo senso lo ha preso in giro). Senonchè lei ride di lui e lui, offeso dal suo riso di cui sente il significato offensivo, la strangola. Scattano le ricerche da parte della polizia e tutti i giornali parlano di lui. All’inizio questa situazione di assoluta irresponsabilità e perciò di assoluta potenza, lo esalta come una partita a scacchi del cui esito lui è sicuro, fidando nella sua abilità di prevedere le mosse dell’altro, e persino pretendendo che stampa e polizia si occupino di lui come di un uomo estremamente interessante. Ma la vita è più complicata di un gioco e lui deve non solo fare i conti sia con un progressivo indebolimento della sua baldanza iniziale a causa della crescente solitudine (tutto si svolge nel periodo natalizio …) sia con quella che gli sembra colpevole incomprensione da parte dei giornali, che lo definiscono “il pazzo di Amsterdam”, ancor più quando avrà aggredito una seconda donna, che pure gli si era rifiutata. Alla fine nuovamente il caso porterà scompiglio tra le sue pedine, dandogli scacco matto: uno dei più abili scippatori d’Europa (!), che lui ha preso per un turista americano, gli ruba tutto il denaro che gli resta riducendo così drasticamente le sue possibilità di fuga e soprattutto rivelandogli che in realtà lui “è solo un dilettante” e come tale non meritevole dell’attenzione della stampa e della polizia (a proposito di polizia, sicuramente Popinga si occupa del commissario Lucas più di quanto Lucas si occupi di Popinga). Scopertosi “un dilettante”, Popinga desidera ormai solo una cosa: sparire, ma non senza aver prima scritto a un giornale che quando la sua lettera giungerà a destinazione, lui avrà già iniziato una nuova vita in un luogo che non rivela. E che vita! “Avrò un nome onorevole, uno stato civile indiscutibile, e farò parte di quella categoria di persone che possono permettersi tutto perché hanno denaro e cinismo (…) tratterò grossi affari (…) sceglierò le mie amanti ufficiali tra le star del teatro e del cinema”. A questo punto, avendo ben pianificato la sua azione - pensa -, con addosso solo un brutto soprabito perché nessuna traccia porti alla sua identificazione e alla smentita di quanto ha scritto, si stende sui binari del treno… Senonchè - altro caso da lui non previsto - i macchinisti lo vedono, lo portano al sicuro ecc. ecc. e Popinga si ritrova infine in un manicomio olandese dove la moglie va a trovarlo cercando inutilmente di coinvolgerlo nelle problematiche familiari e un dottore non capisce quanto matto lui sia. D’altra parte lui stesso si è sforzato per tutto quel tempo di spiegarsi e di spiegare al mondo la sua propria personalità, ma … “Non c’è una verità, vero?”, dice al medico sorpreso di trovare vuoto il quaderno in cui il suo paziente si proponeva di scrivere “La verità sul caso di Kees Popinga”.
NOTE. 1. Circa l’accostamento al protagonista de “Lo straniero” di camus, Popinga è chiaramente un personaggio antipatico, in quanto incapace di empatia persino coi suoi figli e costantemente preoccupato di essere apprezzato dagli altri e adeguato alle aspettative sociali, però non mi sembra che lo si possa equiparare a Meursault, che per Camus è fondamentalmente l’uomo che nega ogni retorica, l’uomo che non finge, e quindi, nonostante tutto, un personaggio positivo; 2. In un primo momento pensavo di intitolare la mia opinione “La vita è più complicata di una partita a scacchi” oppure “Eppure il più bravo ero io!” e alla fine ho scelto quello che vedete pensando alle pagine antecedenti il tentativo di suicidio, in cui l’accento è sul giudizio di dilettantismo che Popinga esprime su di sé.
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E lo chiamano amore
MENZOGNA E SORTILEGIO
di ELSA MORANTE (1948)
Opera prima della Morante, autrice di uno dei più bei romanzi che io abbia mai letto, “La storia”, “Menzogna e sortilegio” consiste di circa 700 pagine scritte in una lingua infinitamente sapiente, ma faticosissimo per me già dopo le prime 250-300 pagine perché estremamente povero di dialoghi (quindi è un infinito susseguirsi di frasi che raccontano cosa lui o lei fece, disse, pensò, sentì) e soprattutto perché non amo i romanzi rosa, per raffinati che possano essere, quale appunto questo, in cui però - a dire il vero - più che il rosa prevale il … viola? giacchè vi si raccontano gli amori sadici di uomini e donne prigionieri di una follia sempre uguale a se stessa al di fuori della quale il mondo, gli altri, non esistono (e la scrittrice non ne parla).
Si tratta infatti della storia, senza tempo e senza luogo - potrebbe essere la Palermo degli anni ‘20 o ‘30 come la Napoli borbonica del ‘700 - di alcuni personaggi tutti legati fra loro dal démone (a partire da un certo punto proprio nel senso di presenza fantasmatica) del bello, ricco e crudele Edoardo o “il Cugino”, che funge da motore della storia: 1. Anna, la cugina povera che lo ama in modo talmente esclusivo non solo da ignorare la sua bambina - la Elisa che, adulta, racconta -, ma anche da illudersi che siano vere le lettere da lei scritte a se stessa immedesimandosi in un Edoardo innamorato che nel frattempo è morto (!!); 2. Francesco, il giovane che sogna la giustizia sociale ma stravede per il ricco Edoardo come aveva stravisto, credendolo “un signore”, per colui di cui è il figlio naturale (Nicola Monaco: e stranamente Francesco Monaco si chiama il padre biologico di Elsa Morante e di altri due suoi fratelli), e che ama Anna dello stesso amore malato con cui Anna ama Edoardo; 3. Rosaria, la prostituta tutta “anema e ccore”, che ama Francesco nonostante questi la tratti da donnaccia e che dopo la morte di Francesco e di Anna adotta la piccola Elisa. Neanche sul versante dell’amore tra genitori e figli le cose vanno meglio: Elisa ama sua madre Anna, che non la ama, mentre detesta suo padre Francesco che la ama, e morbosamente cieco è l’amore di donna Concetta Cerentano per suo figlio Edoardo. Come si sarà desunto dalla sintetica descrizione dei personaggi, la stessa persona può essere carnefice e vittima: Anna è l’amorosa vittima di Edoardo, ma è carnefice di Francesco che la ama il quale a sua volta è carnefice di Rosaria, secondo la formula del triangolo infernale delle tragedie classiche, di Racine per esempio, in cui A ama B che ama C, e alla fine tutti soccombono.
Ora, la forma d’amore oggetto di questo romanzo è quella caratterizzata dal sadismo, cioè dalla totale sottomissione di uno dei due all’altro, in una relazione assolutamente asimmetrica: sia lui sia lei sono fatalmente abbagliati da chi sta o sembra stare più in alto nella scala di valori (scala sociale soprattutto, ma anche scala culturale o, per la madre, il figlio rispetto alla figlia) e gioisce di “appartenergli” fino al sacrificio della propria vita, e dall’altro lato chi sta o è dall’altro considerato superiore gode di vedere l’altro sottomettersi totalmente. Insomma, il rapporto d’amore si configura come possesso, tra amanti come tra genitori e figli, e infatti il linguaggio amoroso sia tra amanti sia tra genitori e figli è disseminato di aggettivi possessivi (Gioia mia! Vita mia! Amore mio! ecc.) così come di espressioni del genere di “Sei mio/a! Sono tuo/a! ecc.”.
Ora, a proposito del fascino esercitato della superiorità sociale dell’uomo sulla donna e della frustrazione derivante dal non appartenere agli ambienti di cui ci si è fatti una certa idea, il pensiero va prima di tutto alle tante fiabe del genere di “Cenerentola” e subito dopo a “Madame Bovary”, il capolavoro della frustrazione femminile e del matrimonio infelice. Ecco, rispetto al romanzo di Flaubert, “Menzogna e sortilegio” è molto diverso poichè il contesto di realtà in cui i personaggi si muovono è quasi del tutto assente e le situazioni sono praticamente sempre varianti di una stessa situazione dall’inizio alla fine: lui maltratta lei o lei maltratta lui, ma lui / lei perdona perché si sente tanto più suo / sua. Insomma, più che raccontare l’evoluzione di personalità e di destini in un contesto realisticamente rappresentato, la Morante descrive gli arrovellamenti in cui sempre più strettamente restano impigliati senza scampo i suoi personaggi, dando prova di un’inesauribile inventiva nell’immaginare i tanti inganni (le menzogne) con cui un cuore innamorato può irretire l’intelligenza e la sensibilità, tanto da credere di essere amati invece che crudelmente fagocitati.
A MARGINE: 1. Come Emma Bovary, anche Anna si rende conto quando ormai è in agonia di essere stata amata solo dal marito Francesco; 2. i personaggi della Morante così come Emma Bovary sono segnati o caratterizzati dalle loro letture: Anna ed Emma leggono romanzi sentimentali, Francesco legge Rousseau.
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Meglio màrtiri che violenti
IL COLLARE ROSSO
di JEAN CHRISTOPHE RUFIN (2018)
Di Rufin ho letto diverse opere e ho apprezzato moltissimo Rosso Brasile, Le tour du monde du roi Zibelin, L’abissino, Profumo di Adamo e Le grand Coeur (titolo italiano L’uomo dei sogni, che racconta la storia di Jacques Coeur), più originali e di spirito più moderno rispetto a quello su cui esprimo qui la mia opinione.
Nel breve romanzo in oggetto Rufin racconta il disvelamento progressivo dei veri motivi che il 14 luglio 1919, in occasione dei primi festeggiamenti dell’anniversario della Rivoluzione francese dopo la Grande guerra, hanno indotto un uomo, Morlac, a irridere la Legione d’onore ricevuta per meriti di guerra appendendola al collo del suo cane Guillaume, che lo aveva accompagnato per tutta la guerra. L’ufficiale, Lantier, incaricato di condurre l’indagine in vista del processo è dotato di una sensibilità così poco militaresca da intuire le vere ragioni che hanno spinto quell’ex-soldato a compiere un gesto che sicuramente non sarebbe rimasto impunito. Lo scontro coi soldati bulgari in cui lui e il suo cane erano stati “eroicamente” feriti - spiega Morlac a Lantier - era stato causato dal cane stesso e non doveva affatto aver luogo, e anzi, col suo intervento l’animale aveva mandato all’aria il piano nato fra i soldati dei due eserciti contrapposti, i quali avevano deciso di sbarazzarsi degli ufficiali, cessare la guerra e dare inizio alla rivoluzione, come era accaduto in Russia poco tempo prima. “(Guillaume) aveva tutte le qualità - dice Morlac - che si aspettavano da un soldato. Era leale fino alla morte, coraggioso, senza pietà verso i nemici. Per lui il mondo era fatto di buoni e di cattivi (…). A noi che non eravamo cani chiedevano la stessa cosa. Distinzioni, medaglie, citazioni, promozioni, tutte queste cose erano fatte per ricompensare atti da bestie”. Morlac pensa sinceramente di aver sfidato “l’establishment” e di detestare la povera bestia per motivi ideali/ideologici, ma Lantier lo induce a riconoscere infine che in realtà la sua trasgressione era dettata da un motivo di altra natura, squisitamente sentimentale: punire la donna amata, da cui riteneva a torto di essere stato tradito. E, simile a un padre buono e saggio, Lantier lo restituisce all’amore di Valentina e al figlio avuto da lei.
A dire il vero, leggendo questo libro avevo l’impressione di leggere l’opera di uno scrittore non di oggi, ma della prima metà del ‘900, diciamo pure degli anni in cui si colloca la vicenda, anzi direi che per come è articolata (dialoghi in un paio di luoghi nel giro di un tempo brevissimo), questa narrazione dall’impianto teatrale ricorda il teatro filosofico del primo e del secondo dopoguerra, per esempio di Jean Giraudoux o di Sartre, per essere costruito su tesi che l’azione teatrale vuole dimostrare. In questo libro - ed è perché vuole dimostrare qualcosa invece che raccontare che l’ho apprezzato meno degli altri suoi - a Rufin preme mostrare che i motivi ideali / ideologici addotti per giustificare la violenza sono pretesti con cui nascondere rancori personali. Per cui sarei curiosa di sapere perché Rufin ha scritto proprio durante la “primavera araba” questo libro che non condanna, però smaschera chi si ribella in nome della giustizia. Come dire che Antigone e Navalny sono buoni in quanto martiri.
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“itinerarium mentis in Mortem"
DISSIPATIO H.G.
di GUIDO MORSELLI (1912-1973)
Libro tanto più struggente sapendo che Morselli si suicidò pochi mesi dopo averlo scritto e aver visto respinto per l’ennesima volta dall’editore un suo manoscritto. Libro crudele verso lui stesso molto più che verso l’umanità, questo scritto è la “bottiglia-a-mare” (p. 133) di un uomo che si definisce “monade intellettuale senza aperture né impegni” e che in innumerevoli passaggi confessa la sua “stipsi affettiva”, il suo “solipsismo”, insomma la sua incapacità di amare e infine il suo “cupio dissolvi”. Accorata confessione dell’inguaribile male di vivere di un uomo ferocemente autocritico. Colui che racconta, l’io narrante, lo chiamerò Guido.
CONTENUTO. Guido vive a Crisopoli, la Città d’Oro, dove si concentra quel che la civiltà umana ha prodotto di più detestabile per lui, dalle macchine alla Borsa al turismo di massa, tutte cose che hanno alterato la natura. Incapace ormai di vivere con gli altri uomini, non bastandogli più cercare rifugio nelle solitudini dove albergano i camosci o, tutt’al più, i “suoi pastori”, che allevano un paio di capre e di mucche, decide di uccidersi scomparendo in un pozzo d’acqua all’interno di una grotta. Sul punto di saltare nel vuoto, però, vi rinuncia, torna a casa, si addormenta tenendo la sua pistola vicino alla bocca per spararsi (ma “Pigrizia e viltà si rifiutano” p. 135), e, destatosi, si arrende gradualmente all’evidenza che gli altri uomini, tutti, sono scomparsi senza tracce di qualsivoglia violenza giocando un’immane BURLA a lui che voleva scomparire e … si è assentato, per così dire, proprio nel momento in cui tutti gli altri si dileguavano. E si dileguavano, ognuno per proprio conto e consapevoli di ciò che li attendeva, nella notte fra l’1 e il 2 giugno, come Guido apprende leggendo una pagina di diario che trova in una camera d’albergo: “Il momento supremo per lei, per me, per tutti gli uomini è giunto, e non vedremo il sole di domani. (…) Soddisfatta del nostro consenso, tacito ma unanime, stanotte Essa verrà a prenderci, senza agonia per noi, senza angoscia. E questo epilogo, per moltissimi o per tutti sarà (...) il rimedio insperato di mali insoffribili” (p. 95).
Ora che gli altri se ne sono andati e lo hanno lasciato nella sua solitudine, Guido è incapace del “[suo] solito gioco, parentesizzare l’esistenza dei [suoi] simili, figurar[si] come l’unico pensante in una creazione tutta deserta” (p. 51), e anzi, mentre la pioggia cade ininterrotta sulla città deserta, dove i topi e i camosci circolano ormai indisturbati, ben presto la paura lo attanaglia (paura è la parola più ricorrente nel libro), e con la paura un’irrimediabile nostalgia degli uomini: “L’ignoto mi è addosso, e io sono solo, senza scampo. (…) Fatemi morire, nel bene e nel male li devo raggiungere. Non ero diverso da loro, mi assomigliavano molto. Ignoranza e superbia incluse” (p. 111). La nostalgia si fa via via così acuta che Guido simula un facsimile di umanità con i manichini che prende nei negozi, per infine sedersi ad aspettare che venga a salvarlo l’unico uomo - morto ammazzato da un folle - dal quale si è sentito compreso, il dottor Karpinski, quel “dottorino” dall’aria modesta, forse ebreo forse in odore di sovversivismo che lo aveva curato quando cercava di curare le sue nevrosi. Guido se lo immagina così: “Ritto nel suo camice bianco, macchiato di sangue sul petto dove l’hanno colpito. A braccia aperte. Ma la testa china (…)” (ultima pagina): vi ricorda qualcuno?
GIUDIZIO. Libro da leggere due volte di seguito secondo me, perché la prima volta può sembrare che Morselli “ironizzi e cultureggi”, per usare due parole molto significative che l’io narrante riferisce a se stesso, in un ennesimo accesso di spirito autocritico, mentre alla seconda lettura è difficile ingannarsi sull’autenticità della disperazione di chi scrive.
A proposito del finale, non posso togliermi dalla testa l’immagine del Piccolo principe, che scompare dal luogo ignoto a noi lettori in cui il serpente-la morte gli ha dato appuntamento. Spero che anche Morselli sia andato su una stella e da lì guardi i suoi simili, infine riconciliato. “Poi mi sono fatto la predica. Ti si chiede di riconciliarti, non lo capisci?” (p. 153)
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“la vita, in tutta la sua invereconda sconcezza”
LA MACCHIA UMANA (2000)
di PHILIP ROTH
GENERALE. Come in altri romanzi, Roth racconta una storia dando la parola a Nathan Zuckermann (NZ), che è al tempo stesso uno degli attori della storia e il romanziere che racconta sia le cose che ha vissuto personalmente nel contesto di quella storia sia ciò che la sua immaginazione di scrittore gli suggerisce avendo conosciuto le persone di cui parla. Questa volta NZ racconta la storia di Coleman Silk (CS) e di Faunia Farley (FF), “che ora sono morti” (p. 59).
IL TITOLO. È Faunia che parla della “macchia umana” e NZ commenta: “Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui (…) è in ognuno di noi” (p. 266-7). Insomma, non è diverso per esempio da quel che dice Baudelaire nel poema liminare dei Fiori del Male “Al lettore” … Comunque il titolo vuole coagulare i tanti temi che si intrecciano nel romanzo intorno al concetto della “macchia” che ogni personaggio ha in sé e che costituisce il suo segreto.
TRAMA. USA, fine ‘900. Lui, CS, era solo un vicino di casa con cui NZ aveva giusto scambiato un Buongiorno! Buonasera! finché un giorno non era piombato sconvolto in casa sua dopo i funerali della moglie. “Dovevo scrivere una cosa per lui”, “scrivere di come i suoi nemici ad Athena, nel menar botte contro di lui, dicendo di lui tutto ciò che non era e non avrebbe mai potuto essere, avevano non soltanto snaturato una carriera professionale svoltasi all’insegna della massima serietà e dedizione, ma anche ucciso quella che era stata sua moglie per più di quarant’anni” (p.14). NZ apprende così che CS, docente di letteratura greca, anni prima aveva rivoluzionato l’università di Athena in qualità di preside per migliorarne il livello e si era così inimicato non poche persone, le quali alla prima occasione gliel’avevano fatta pagare approfittando della denuncia di razzismo da parte di due suoi studenti di colore che avevano voluto interpretare in quel senso una parola - una parola! - da lui pronunciata. Quella parola aveva innescato una serie di fatti che lo avevano condotto prima alle dimissioni da preside di facoltà, poi anche alle dimissioni dall’insegnamento e all’esclusione dall’ambiente accademico. Di quello che CS gli ha chiesto di scrivere non si fa più menzione nel romanzo, però i due uomini stringono una forte amicizia, tanto che, due anni dopo, il primo confida all’altro che “all’età di settant’un anni [ha] una relazione con una donna delle pulizie trentaquattrenne che lavor[a] al college” (p. 3). Si tratta di Faunia (nome che evoca la selvatichezza), non bella né colta, ma talmente disincantata, per le prove cui la vita l’ha sottoposta da essere refrattaria a qualunque idealismo e anche aspettativa sentimentale. E questo amore, forte senza pretendere di chiamarsi amore, in cui l’una e l’altro si possiedono senza promessa di un domani, permette a CS di ritrovare il piacere di vivere e a Faunia … non lo so, un po’ di serenità, credo. Senonchè pochi mesi dopo che NZ è venuto al corrente di questa relazione morranno uscendo di strada con la loro auto. NZ è convinto che l’incidente sia stato provocato dall’ex-marito di lei, Lester Farley (LF), un reduce del Vietnam che non ha mai superato le sue ossessioni. In occasione del funerale dell’amico, cui partecipa la sorella di CS, NZ scopre che l’amico aveva un segreto grande come una casa: lui non era un ebreo bianco come si era accreditato fin da quando si era arruolato nei marines, bensì figlio di neri che nei secoli si erano talora incrociati con dei bianchi, per cui, per uno scherzo della genetica, lui poteva sembrare un bianco. Ovviamente lo aveva fatto per avere tutte le chance dei bianchi. E perché nessuno, nemmeno sua moglie potesse saperlo, aveva escluso la sua famiglia dalla sua vita. Al funerale di CS NZ tenta di spingere i familiari di CS a far sì che si indaghi sulla morte dei due amanti, ma senza risultato. D’altra parte, la storia si conclude con una lunga conversazione di NZ con LF intento a pescare nel ghiaccio nella solitudine più assoluta (“Lontano dall’uomo, vicino a Dio”) ed armato di una trivella ben affilata per forare il ghiaccio. Alla fine NZ si allontana e, capendo che LF ha capito che lui ha capito, scrive: “Sapevo che, se e quando avessi terminato il libro, sarei dovuto andare a vivere altrove” (p. 394). Dopo aver appreso il segreto di CS NZ ha infatti deciso di scrivere la storia di Coleman e Faunia.
I TEMI. Troppi: non solo la discriminazione razziale e l’ipocrisia in materia sessuale (lo scandalo Clinton-Lewinski del 1998 è sullo sfondo), che Roth sovrappone o comunque associa a mio avviso indebitamente, ma anche il recupero psicologico dei reduci del Vietnam, la critica del sistema scolastico e accademico, il mobbing e persino l’agricoltura (vedi le pagine dedicate alla fattoria modello dove lavora Faunia), temi su ognuno dei quali scrive pagine che sembrano dei pezzi d’autore appunto su quella materia.
GIUDIZIO. Dopo aver letto “Pastorale americana” francamente mi aspettavo che il piacere della lettura si rinnovasse nella stessa misura, e invece no. Riconosco senz’altro la grandissima acutezza di Roth in materia di psicologia, però 1. accumula troppi temi, come detto sopra; e 2. la lingua ha l’immediatezza ma anche i difetti di una narrazione orale abbastanza impromptu, soprattutto la verbosità (vedi il frequentissimo ricorso alla ripetizione del tipo “era un uomo, un uomo così, un uomo che …”) e la monotonia sintattica delle molte pagine in cui frasi brevi o brevissime si susseguono così veloci che non se ne sente … il sapore, se così si può dire. Personalmente, poi, non amo molto che un autore o un regista giochi a rimpiattino con me come se lui fosse il gatto e io il topo. Mi riferisco al segreto di CS. Nel primo capitolo ma anche oltre, per bocca di NZ, Roth si esprime più volte in modo da indurre il lettore a pensare che CS sia un ebreo bianco, però a posteriori si capisce il senso di questo passaggio a p. 19: “Tutto sommato rimaneva, anche alla sua età, un discreto pezzo d’uomo, il tipo di ebreo col naso piccolo e la mascella sporgente, uno di quei neri molto chiari che a volte vengono scambiati per bianchi”.
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Gli inganni del cuore, gli inganni della storia
IL GIARDINO DEI FINZI-CONTINI (1962)
di Giorgio Bassani
Oh, finalmente dopo mezzo secolo che mi imbattevo in questo titolo, finalmente l’ho letto! Bello! Breve romanzo che si legge d’un sol fiato per varie ragioni:
1. È di facile lettura: i capitoli si susseguono cronologicamente addirittura con l’indicazione dell’anno e della stagione in cui si situa quanto in essi viene narrato, ed è scritto in un italiano colloquiale, come se la voce narrante, che è quella del protagonista, che chiamerò Roberto (poi dirò perchè), fosse la voce di uno che racconta ad un amico o scrivesse per sé. In particolare, Roberto usa spesso la modalità del discorso indiretto quando ricostruisce le conversazioni, il che gli consente di esprimersi come si esprimono le persone cui dà voce, coi loro vezzi, i sottintesi e l’ironia scanzonata, questa soprattutto e spesso quando parla Micol Finzi-Contini, la giovane donna di cui Roberto è innamorato, ma anche Roberto è capace, retrospettivamente, di vedere. A questo proposito, “sentendo parlare” Micol, la quale come un po’ tutti gli altri dissemina le sue frasi di parole dialettali, immagino la Mariangela Melato in versione ferrarese-romagnola, piuttosto che la francese Dominique Sanda che ne interpreta il ruolo nel film di Vittorio De Sica, e che ho visto troppo tempo fa per ricordarmene e capire come mai Bassani lo ha disconosciuto, ho letto in wikipedia.
2. Parla, Bassani, tra l’incanto e il disincanto, del baudeleriano “vert paradis des amours enfantines” (citato due volte), cioè parla delle prime attrazioni amorose e in generale di giovani ognuno in modo diverso idealista e in fondo fragile, parla della confusione dei sentimenti tipica della giovinezza, del rapporto coi genitori anche: e ci siamo passati tutti, credo.
3. I personaggi, nessuno dei quali peraltro è negativo, sono “attachants”, direbbero i francesi, cioè ci si affeziona loro e sembra di vederli e sentirli davvero, pagina dopo pagina, soprattutto 1. Micol, giovane donna determinata, innamorata dei “láttimi” che va collezionando ma anche capace di tirare il collo alle galline destinate alla cucina “pur amando le bestie”, per la quale l’amore è “per gente decisa a sopraffarsi a vicenda, uno sport crudele, ben più crudele e feroce del tennis! [il tennis non figura qui casualmente] Da praticarsi senza esclusione di colpi e senza mai scomodare, per mitigarlo, bontà d’animo e onestà di propositi” (p. 162): altro che “vert paradis!”; 2. il prof. Ermanno suo padre, di cui dirò più avanti; 3. “il Giampi”, Giampiero Malnate, il chimico comunista convinto della vittoria dei lavoratori; 4. Roberto, infine, naturalmente, con le sue insicurezze. Ah, l’ho chiamato Roberto, il personaggio che racconta la storia dei Finzi-Contini, perchè assomiglia moltissimo allo studente troppo serio e insicuro del film Il sorpasso di Dino Risi che hanno appena ridato in TV, il quale appunto si chiama così (per fortuna nel romanzo nessuno assomiglia però al personaggio interpretato da Gassman).
4. Bassani, di famiglia ebraica, che riuscì a scampare allo sterminio così come il personaggio narrante (accenna al “carcere” a non so più che pagina), ci fa conoscere, attraverso questo suo romanzo, un pezzo di storia italiana di cui non si parla moltissimo: gli anni che precedono la Seconda guerra mondiale, quando vengono promulgate le leggi razziali (1938), anni che non sono oggetto di moltissimi film ed opere scritte a differenza di quanto accadeva nei lager, soprattutto quelli tedeschi però … E mette in luce come mai e poi mai gli ebrei italiani si aspettavano che l’Italia e il Duce li avrebbero ingannati! Come tutti i romanzi che per me vale la pena di leggere, anche questo è dunque ben lungi dal solipsismo e dal puro divertissement. In particolare, la storia della famiglia Finzi-Contini ricalca quella della famiglia del ferrarese Silvio Finzi-Magrini, di appartenenza ebraica (vedi in Internet “R2 La vera storia dei Finzi-Contini” in repubblica.it oppure “Ferrara ebraica, una famiglia che ha fatto la storia” in ferraraitalia.it), e il padre di G. Bassani era sostenitore del fascismo e patriota come il padre di Roberto e molti ebrei italiani (vedi per es. Internet “Giorgio Bassani e Arrigo Levi: due sguardi incrociati su “italianità” e “ebraicità” negli anni del fascismo e della persecuzione”). Di tutti i Finzi-Contini sappiamo fin dal Prologo che verranno deportati e non scamperanno alla morte, ma l’autore ci risparmia la narrazione della fine e gliene sono grata.
Detto tra parentesi, le pagine che più specificamente raccontano il tradimento degli ebrei italiani, sono proprio al centro del libro (p. 118.120).
5. Nonostante la trama vera e propria sia l’evoluzione dei rapporti tra Roberto, Micol e i suoi familiari e gli amici che ruotano intorno a Micol e a suo fratello Alberto, personaggio a mio parere poco delineato, una tensione costante sostiene la lettura: fino all’ultima pagina si attende di scoprire i sentimenti di Micol per Roberto: cosa prova lei per lui? ama forse un altro? e se lei lo ama, quanto tempo potranno amarsi prima che Micol verrà portata via dai nazifascisti? Non a tutte queste domande avremo risposta, perché Roberto, che racconta e per primo si interroga sui sentimenti che via via Micol prova per lui, non sa tutto, similmente a … un uomo reale piuttosto che ad un romanziere onnisciente, e d’altra parte quanta parte del vissuto degli altri ci resta segreto?
6. Il contesto geografico e culturale è appunto la città estense, ma dietro a Ferrara si intravede Venezia, quel centro del Mediterraneo in cui confluivano cose e genti da Oriente bizantino e da Occidente per formare una civiltà cosmopolita e variegata che continuerà nell’Impero Austro-Ungarico, col suo bel ramo spagnolo: non per caso il prof. Ermanno Finzi-Contini, papà di Micol, è figlio della baronessa Josette Artom, “ammiratrice fanatica della Germania dell’elmo chiodato di Bismarck”, ed è sposato con “una Herrera di Venezia” i cui fratelli, per come sono descritti, fanno pensare ai personaggi delle tele di El Greco.
Ecco, la famiglia dei Finzi-Contini rappresenta la quintessenza di una civiltà cosmopolita spesso colta destinata ad estinguersi nei forni crematori, con radici sparse per il mondo ma capace di radicarsi profondamente in un territorio: i Finzi-Contini sono ricchissimi proprietari terrieri, facilmente passano dall’italiano al dialetto ferrarese, ma anche sono coltissimi, prediligendo e conoscendo proprio la cultura italiana più classica. La casa in cui abitano, poi, che Roberto scopre progressivamente stanza dopo stanza fino - ultima - la stanza di Micol, che neanche a farlo apposta è quella più in alto, racchiude oggetti che testimoniano dell’arte e della storia italiane degli ultimi secoli, mentre la grande biblioteca del professore contiene la summa di tutto ciò che la cultura, sia umanistica sia scientifica, ha prodotto. E mi chiedo se siano proprio casuali quei passaggi dedicati ad oggetti tecnici: dalla derivazione telefonica alla macchina da scrivere o se non siano indizio della versatilità della cultura ebraica (come non pensare per esempio ad Adriano Olivetti?).
La casa è il cuore di un immenso parco circondato da mura, ricco di ogni sorta di piante che Micol ama e conosce, anche alberi da frutta, attraversato da un canale e vi si trova persino una fattoria con sei mucche! Da quella casa, come fosse un ghetto protettivo all’interno della città, nessuno dei Finzi-Contini desidera né sa uscire se non, raramente, di nascosto, più per il piacere dell’avventura che perché si avverta la mancanza di qualcosa lì dentro. È per questo loro isolamento e per il rifiuto ad aderire come tutti al partito fascista che gli altri ebrei di Ferrara li reputano altezzosi e sminuiscono la loro reazione, discreta ma significativa, alle prime misure antisemite. Eppure le persone “bene educate”, quelle per cui varrebbe il motto “Fa quel che vuoi” della cosiddetta “abbazia” di Thélème di Rabelais, sono invitate a partecipare alla loro vita nel modo più generoso e liberale.
Ora, oltre alla casa, che forse è metaforicamente il luogo del pensiero e dell’intimità, in quel parco c’è un altro punto vitale: il campo da tennis, il luogo dell’azione in senso stretto, ed è lì che Micol, Alberto e i loro amici si misurano, si combattono e rafforzano ognuno la propria capacità di “giocare” contro l’altro, come più tardi, nell’inverno, Roberto e “il Giampi” si misureranno e si combatteranno a colpi di discussioni politiche, oscuramente - forse - per la conquista di Micol, anche se Micol non è lì di persona … Roberto perde la partita finale: in lui Micol vedrà sempre - affettuosamente - il bambino che al Tempio, occhieggiava dieci anni prima verso di lei da sotto il thaled bucherellato di suo padre. Chissà, forse se fosse assomigliato a quel Julien Sorel del Rosso e il Nero che Roberto legge a un certo punto …
In realtà nessuno vince. L’educazione sentimentale di Roberto si compie infatti quando lui accetterà di non aver “vinto” Micol e avrà allora il cuore libero per riavvicinarsi al padre, che anche lui ha perso: ha capito che una volta ancora gli Ebrei saranno il capro espiatorio della storia. E anche il Giampi ha perso, perché l’URSS concluderà un patto scellerato con Hitler alla faccia dei lavoratori.
DOMANDA: Qualcuno sa se Bassani ha intitolato il libro così per analogia col Giardino dei ciliegi, che racconta anch’esso la fine di un mondo e di un’epoca?
P.S. IL PROLOGO. Bassani (o il personaggio narrante) lo ha scritto per spiegare come mai vent’anni dopo che tutto è finito, nel ‘57, ha sentito il bisogno di raccontare quei giorni “incredibili” dell’estate del ‘38, così aperti alla gioia e ancora ignari di cosa si stava preparando e poi quelli più opachi dell’inverno che seguì: le parole pronunciate dalla bambina dei conoscenti con cui visita delle tombe etrusche lo inducono a pensare che le tombe degli Etruschi esistono ancora e qualcuno persino le visita sia pur non per affetto, mentre di tutta una famiglia da lui amata come di tante altre conosciute, la tomba non c’è o è vuota. Corpi passati per il camino.
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IL PICCOLO MONDO ANTICO DI S. SATTA
IL GIORNO DEL GIUDIZIO
di SALVATORE SATTA
pubbl. postumo nel 1977
INTRODUZIONE. S. Satta (1902-1975), “uno dei più grandi giuristi italiani”, come si legge in wikipedia, scrisse moltissime opere di procedura civile, ma evidentemente la sua sensibilità non si esauriva nelle opere di natura giuridica e trovava invece posto nelle pagine tra l’autobiografico e lo storico scoperte dopo la sua morte, tra cui quelle pubblicate col titolo “Il giorno del giudizio”.
CONTENUTO. Premesso che alla Parte prima segue un’ unica pagina della Parte seconda, l’autore racconta alla prima persona, entrando apertamente nella narrazione, la storia della famiglia del notaio di Nuoro Sebastiano Sanna Carboni e di sua moglie Donna Vincenza fino alla maggiore età del figlio minore nel primo dopoguerra, in nulla uniti se non dal vincolo matrimoniale e dal desiderio di assicurare un futuro ai loro sette figli, e cioè una laurea e beni al sole: terra, fondamentalmente. Con la loro storia si intreccia quella di tutto un mondo - la Sardegna della giovinezza dell’autore presumibilmente, “la selvaggia Barbagia” - che va scomparendo (e che nel 1973 era già soprattutto un fantasma del passato) non solo per la morte di coloro che in questo mondo vivevano e che lui rievoca con profonda comprensione e affetto, ma anche per i cambiamenti fatalmente portati dal tempo, presentati come contaminazioni che vengono dal “continente” e dall’amministrazione statale. Attraverso la narrazione delle vicende di singoli pastori, contadini, maestri, preti, avvocati nullafacenti e altri più o meno poveri rappresentanti di questo mondo, ma anche attraverso pagine bellissime dedicate al “mistero del vino” o alla cottura del pane, Satta fa rivivere una società ormai tutta seppellita nel cimitero di Nuoro dove l’io narrante (e tutto fa pensare che sia Satta stesso) si reca, tornato dal “continente”. Come si vede, si tratta soprattutto di un grande mosaico composto di tanti tasselli.
IL TITOLO. A p. 103, a conclusione del cap. VII, si legge: “Come in una di quelle assurde processioni del paradiso dantesco, sfilano in teorie interminabili (…) gli uomini della mia gente. Tutti si rivolgono a me, tutti vogliono deporre nelle mie mani il fardello della loro vita (…) E forse mentre penso la loro vita, perché scrivo la loro vita, mi sentono come un ridicolo dio, che li ha chiamati a raccolta nel giorno del giudizio, per liberarli in eterno dalla loro memoria”. Noto che ha scritto “paradiso” e suppongo perciò che tutti questi uomini e donne che furono vennero da Dio giudicati innocenti, per cui non riesco a spiegarmi l’idea del “fardello” e del “ridicolo dio” che dovrebbe “liberarli”. Un’idea simile, ma più comprensibile - mi sembra - si trova anche alla fine della prima e unica pagina della Parte seconda: “Per conoscersi bisogna svolgere la propria vita fino in fondo, fino al momento in cui si cala nella fossa. E anche allora bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti risusciti, ti racconti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale”. Perchè Satta abbia poi continuato dicendo quanto segue, non lo so: “È quello che ho fatto io in questi anni, che vorrei non aver fatto e continuerò a fare perché ormai non si tratta dell’altrui destino ma del mio”. Forse è qualcosa che si collega a questo passaggio: “Sono venuto qui [nel cimitero di Nuoro], tra un piroscafo e l’altro, per vedere se riesco a mettere un po’ d’ordine nella mia vita, a riunire i due monconi, a ristabilire il colloquio senza il quale queste pagine non possono continuare, ed eccomi vagare (…) in balia di vani ricordi” (p. 97-98). Chissà!
OPINIONE. Questo libro, nella forma in cui è stato pubblicato, cioè senza la prevista Parte seconda, è il più ottocentesco fra i libri del ‘900 che ho letto, non tanto perché racconta un mondo rurale ancora fortemente ancorato a usi e valori ormai antichi e non sostanzialmente diverso da quello narrato dalla Deledda (1871-1936), quanto per la visione nostalgica - nostalgica, benchè non propriamente idealizzante - con cui questo mondo viene rappresentato, una visione che si stenta a immaginare contemporanea di una cultura europea in cui già nel 1902 ha potuto vedere la luce per esempio “L’immoralista” di Gide, una visione peraltro non molto lontana, in fondo, da quella di un maestro della generazione precedente: Verga (1840-1922), anch’egli diffidente e pessimista nei confronti della modernità e dello Stato. Anche la lingua, molto colta e spesso impregnata di poesia mi sembra più vicina a quella di Carducci (1835-1907) o di Pascoli (1855-1912) che a quella di Pirandello (1867-1936), e talora presenta delle oscurità che forse sarebbero state corrette se l’autore avesse potuto ancora lavorare a quest’opera, ciò non toglie che ci sono molte bellissime pagine e che i ritratti sono spesso vividi. Concludendo, alla domanda che a p. 158 l’io narrante si pone: “È possibile che io perda il tempo (e sia pure questi miei tardi anni) a dare realtà a persone che realtà non hanno mai avuta neè potevano avere, che non possono interessare nessuno, perché la loro esistenza si riduce a un atto di nascita e un atto di morte?”, la risposta sicuramente è no, non è stata una perdita di tempo.
P.S. Ho colto in non poche pagine una certa affinità con la scrittura di Sebastiano Vassalli, che secondo me aveva letto quest’opera con fervore: non a caso anche nel Giorno del giudizio la parola “sogno” ricorre con una certa frequenza e soprattutto accomuna i due scrittori il sentimento del tempo, di Chronos che divora i suoi figli, e dello sguardo di un dio o di dei che guardano dall’alto verso il palcoscenico delle vicende umane. Cito questo passaggio: “Ma può darsi che la vita di un paese si svolga in un’unità di tempo e di luogo, come le antiche tragedie, e la successione degli eventi abbia la misteriosa fissità del cimitero. Vista da Dio, nel giorno del giudizio, credo che la vita appaia veramente così.” (p. 198)
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Alceste in Germania 300 anni dopo
OPINIONI DI UN CLOWN
HEINRICH BÖLL (1963)
Riflettendo sul titolo di questa mia “opinione” e cercando una formula che potesse dire molto con poco, mi è venuto in mente Alceste, il protagonista di una delle più note e amare commedie di Molière: “Il misantropo o l’atrabiliare innamorato”, che secondo me assomiglia moltissimo a Hans Schnier, il personaggio di Böll, il clown di ricca e potente famiglia che finisce per mendicare sui gradini della stazione cantando la Litania lauretana. Entrambi riconoscono e condannano aspramente l’ipocrisia, ovunque essa si annidi, cioè dappertutto, inimicandosi tutti coloro con cui hanno a che fare (tranne i pochissimi senza macchia), ed entrambi si innamorano di una persona “sbagliata”. Alceste, che fa parte dell’aristocrazia e ne fustiga i difetti, si innamora infatti di una giovane donna che in quegli ambienti ci sta come un pesce nell’acqua, mentre Hans è innamorato di Maria, la giovane di modestissima condizione e, secondo le parole di lui, “non molto intelligente” con cui vive, la quale crede con fervore nei valori e pure nei dogmi del cattolicesimo, che condivide con gli ultracattolici del “Circolo” (il Kreis) che frequenta (con Hans), i quali tutti hanno aderito al nazismo e ora corteggiano i nuovi poteri insediatisi. In altre parole, lei ama ciò che lui detesta apertamente: la “strana coppia” del film omonimo è forse persino più compatibile di quella formata da Hans e Maria.
Attraverso i pensieri che si dipanano nella mente di Hans nelle ore successive alla scoperta che Maria non solo lo ha abbandonato, ma anche si è sposata con un altro (e che altro!) - sono questi pensieri che costituiscono la materia del libro -, veniamo a conoscere la vita che l’amata Maria conduceva con lui, recalcitrante di fronte a qualunque miserabile condizionamento dall’alto della sua integrità, e tra questi innanzitutto l’obbligo di firmare il documento, necessario per sposarsi, con cui si sarebbe impegnato a educare i figli cristianamente. Tra le tante cose, apprendiamo che Maria ha avuto due aborti spontanei dovuti forse - dico io - alle fatiche cui si sottoponeva per seguirlo di città in città con le valige in mano, apprendiamo che lei spesso piange per le aggressioni verbali di lui alle persone colpevoli di opportunismo o avarizia o smania di potere ecc., che non di rado vivevano di carità perché lui non è uomo da piegarsi a “compromessi”. Beh, stante ciò, come non capire che alla fine lei gli abbia preferito un uomo un po’ meno integro ma potente membro della borghesia cattolica, peraltro avviato a una fulgida carriera politica? (il quale l’avrebbe sposata, dice lui in un inciso, “forse per salvarla” dall’immoralità del concubinato: mah! altra “strana coppia”).
Insomma, non è che io voglia esortare a sposarsi “tappandosi il naso”, tanto per utilizzare un’espressione che pesco da altro contesto, ma trovo la storia di Hans e Maria poco verisimile (così come la rappresentazione di una Germania bigotta) e francamente insopportabile questo Alceste della Germania postbellica. Quanto alla cattolicissima Maria, la frivola Célimène amata da Alceste è più credibile di lei, simile ad Elvira, la donna ingannata da Don Giovanni, anch’egli a suo modo un clown … Capisco che la psicologia di Hans è “segnata” da una madre-mostro (assimilabile alla molieresca bigotta Arsinoé), che è stata capace di incoraggiare la figlia Henriette a partecipare alla difesa del “sacro suolo” della patria - e Henriette non tornerà -, ma questo non giustifica che lui dal canto suo sacrifichi la felicità della donna che dice di amare.
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Giobbe americano
PASTORALE AMERICANA (1997)
di PHILIP ROTH (1933-2018)
GIOBBE AMERICANO
1. IL TITOLO.
Il titolo ha chiaramente una coloritura religiosa così come il titolo delle tre parti in cui il libro è diviso (ognuna suddivisa in tre capitoli): Paradiso ricordato, La caduta, Paradiso perduto. Non ho conoscenze sufficienti per addentrarmi in questo aspetto, al di là di quello che si desume chiaramente dalla trama: la caduta di un uomo angelico, tendenzialmente perfetto, in seguito all’implosione di quello che credeva essere il paradiso: la sua famiglia, il suo paese. Un altro elemento è legato al racconto biblico: tra le letture d’infanzia del protagonista c’è “Il ragazzo di Tomkinsville”, “Libro di Giobbe per ragazzi” (p. 11), che insegna come la virtù non sia necessariamente ricompensata con la felicità. Che è in estrema sintesi quel che il libro racconta.
2. TEMA.
Questo libro straripante di intelligenza e di sentimento si affaccia su due versanti: 1. da un lato quello della vita intima e familiare di un uomo, Seymour Levov detto “lo Svedese”, quarta generazione di ebrei trapiantati negli Stati Uniti, che tra la fine degli anni ‘40 e i ’50 faceva “sognare” tutta la comunità ebraica di Prince Street coi suoi successi sportivi e la sua bellezza assolutamente yankee (e non se la tirava!); 2. dall’altro lato quello politico dei cambiamenti sociali, politici e culturali negli USA dalla fine della Seconda guerra mondiale fino agli anni ‘90, e cioè dai mitici anni dell’infanzia del personaggio narratore, quelli dell’America gigante forte e buono, a una ventina di anni fa: ad oggi, si può dire. In questo arco di tempo il “sogno americano” si è disgregato. Nell’America (o nell’Occidente?) raccontata da Roth, l’amore per la propria famiglia e l’amore per il proprio lavoro, anzi, più precisamente, per il prodotto del proprio lavoro, vengono soppiantati da egoismo lassismo pirateria morale, portando al degrado tutta una società che si considerava (che il protagonista considerava) felice.
3. TRAMA E STRUTTURA.
Il romanzo comincia così: “Lo Svedese. Negli anni della guerra, quando ero ancora alle elementari, questo era un nome magico nel nostro quartiere di Newark”: è lo scrittore Nathan Zuckerman, alter ego di Roth anche in altri romanzi - ho letto - che racconta la storia di Seymour Levov, l’idolo della sua infanzia e della sua giovinezza, tanto da pesare sulla formazione del suo sistema valoriale. La racconta dopo che nel 1995 apprende, in occasione della 45a riunione degli ex allievi della sua scuola, che il suo vecchio idolo Seymour Levov è morto di cancro pochi giorni prima. In realtà dopo averlo perso di vista per trentasei anni, nel 1985 Zuckermann aveva già incontrato Seymour casualmente e lo aveva rivisto poco dopo in un incontro sollecitato da Seymour stesso per parlargli - gli aveva scritto - di suo padre Lou, morto l’anno prima, perché scrivesse qualcosa su di lui. Ora, per tutto il loro incontro Seymour non aveva fatto che parlargli entusiasticamente dei suoi tre figli Kent, Steve e Chris, senza dirgli nulla di significativo: di autentico, e Zuckermann aveva trovato straordinariamente insulso quell’uomo che pure era stato un mito per lui e per tanti altri: “Mi sbagliavo. Non mi ero mai sbagliato di più sul conto di nessuno in vita mia” (p.41). Capisce infatti, in quella riunione di ex -allievi, che Seymour gli aveva taciuto proprio ciò che era stato un dramma per lui, uomo innamorato del proprio lavoro della propria famiglia dell’America: un primo matrimonio da cui gli era nata una figlia, Meredith, detta Merry cioè “lieta”, che nel ‘68 aveva ucciso una persona in un attentato terroristico, rinnegando proprio tutto ciò in cui tutta la sua famiglia credeva. Così, intanto che balla con una vecchia ex allieva con cui in gioventù ha amoreggiato, a Zuckermann accade una cosa:
“Sognai - dice - una cronaca realistica. Cominciai a studiare la sua vita (…) e inspiegabilmente, zacchete! lo trovai a Deal, New Jersey, nella casa al mare (...)” (p. 92).
Zuckermann comincia così a immaginare, con una ricchezza una finezza una profondità veramente geniali, tutte le situazioni e i possibili scenari della vita di Seymour, di sua moglie Dawn e di Merry, la quale crescendo era diventata uno dei tanti “ferali difensori degli oppressi della terra” (p. 416) e poi una seguace del giainismo, che in nome di una non violenza spinta agli estremi aspira alla morte.
Una scelta singolare di Roth è di raccontare, attraverso lo scrittore Zuckermann, non tutta la vita dello “Svedese”, ma quello che gli era accaduto (poteva essergli accaduto) fino a circa 15 anni prima della sua morte e della riunione degli ex allievi in cui Zuckermann apprende la sua morte. Immagina cioè la sua storia fino alle ore immediatamente successive al momento in cui Seymour ha ritrovato la figlia ex-terrorista e ora giaina in un sottopassaggio ferroviario dove vive senza neanche più lavarsi nè quasi mangiare e, sconvolto, torna a casa, dove sono riunite per cena alcuni amici di famiglia, compresa l’amatissima moglie Dawn, Miss New Jersey da giovane benchè figlia di un immigrato irlandese, che sorprende in un atteggiamento inequivocabile con un ospite. E che succede poco dopo, cioè nell’ultima pagina? Succede una scenata grandguignolesca degna di Grosz o di Canetti: la vecchia amica di famiglia Jessie, ubriaca, colpisce al viso con una forchetta il padre di Seymour che vuole convincerla a non bere più. Al che, Marcia Umanoff (quindi altra figlia di immigrati), “professoressa di lettere a New York, (…) una nonconformista militante estremamente sicura di sé, molto portata al sarcasmo e a dichiarazioni calcolatamente apocalittiche destinate a mettere a disagio i signori della terra” (p. 339), vedendo il vecchio Levov con la faccia insanguinata e incredulo di fronte alla follia della vecchia amica Jessie, “Cominciò a ridere (…) a ridere e ridere e ridere di tutti loro, colonne di una società che, con sua grande gioia, stava rapidamente colando a picco; a ridere e a mostrare il proprio godimento (…) per l’ampiezza che aveva preso il disordine galoppante, apprezzando enormemente l’attaccabilità, la fragilità, l’indebolimento di cose che avrebbero dovuto essere robuste. Sì, si era aperta una breccia nel loro fortilizio (…) e ora che era aperta non si sarebbe più chiusa. (…) Tutto è contro di loro, tutto ciò e tutti coloro che non apprezzano la loro vita (…) MA COS’HA LA LORO VITA CHE NON VA? COSA DIAVOLO C’È DI MENO RIPROVEVOLE DELLA VITA DEI LEVOV?”
Su ciò che è accaduto allo Svedese dopo questo momento drammatico, ossia nei quindici anni antecedenti la sua morte, noi apprendiamo nel cap. 3 della prima parte quel poco che ne dice a Zuckermann il fratello Jerry in occasione della riunione degli ex allievi: lo Svedese aveva avuto un’altra moglie e altri figli, quei tre di cui Seymour gli aveva raccontato quando si erano rivisti nell’85, e ha rivisto più volte sua figlia che intanto è morta o forse no (cenno a p. 85): nient’altro. Evidentemente questa seconda vita di Seymour era un’altra storia oppure semplicemente ci volevano altre 500 pagine per raccontarla e Roth non se la sentiva :)
4. COSA HA DISTRUTTO “IL SOGNO AMERICANO” E QUELLI CHE CI CREDEVANO ?
Nel mondo rappresentato e amato da Seymour Levov l’economia e il lavoro erano basati su un’industria manifatturiera in cui determinante era il saper fare, ben diverso dal semplice eseguire gesti meccanici, e leggendo il libro non si finirà di stupirsi di quanta conoscenza c’è in certa manualità: non per caso il prodotto che ha fatto la ricchezza e l’orgoglio dei Levov sono i guanti (non ricordo in che capitolo Lou Levov spiega al figlio come la struttura della mano abbia determinato lo sviluppo dell’intelligenza della specie umana). Certo Roth piange la scomparsa di quel modello economico in cui il padrone e l’operaio (parola che non compare mai nel libro, mi sembra) erano accomunati dall’amore per ciò che fabbricavano. In effetti, attraverso i suoi personaggi, Roth parla in termini molto critici degli imprenditori che hanno delocalizzato la produzione accontentandosi di una più scarsa qualità del lavoro e dei prodotti in nome di un maggior profitto, così come esprime la più netta disapprovazione per la guerra nel Vietnam, per la classe politica coinvolta nel Watergate, i simpatizzanti del Ku Klux Klan. Però anche e forse soprattutto Roth denuncia il progressivo svilimento della morale puritana dell’America dura ma aperta al merito di tanti emigrati di diverse religioni e culture, svilimento favorito dai partigiani del “politically correct”, in primis l’intelligentsia di sinistra, che per esempio ha “sdoganato” un film quale “Gola profonda” o dato un appoggio incondizionato alle idee di Angela Davis (mi sembra che ci sia qualche analogia tra le idee di Roth e quelle della Fallaci).
5. STILE.
Roth ha un talento veramente insuperabile nell’immaginare delle scene alla stregua di un regista, e certe pagine potrebbero essere pagine di una sceneggiatura. Però lui vuol render conto non solo e non tanto di quello che si dice e si fa, ma soprattutto di quei milioni di cose che si pensano intanto che si parla o si agisce altrimenti, cose appartenenti ai momenti più diversi della vita, e quindi ... come montare su una pellicola sia le parole che si dicono sia i contenuti così vari del vissuto interiore dei personaggi che sono … in scena? E poi Roth vuole raccontare nientedimeno che … una vita! E non basta. Vuole raccontare anche almeno l’essenziale delle vite che si intrecciano con quella vita: perché c’è sì il protagonista, Seymour “lo Svedese”, personaggio indimenticabile, ma poi ci sono suo padre, sua madre, il fratello, la moglie Dawn, la figlia Merry, quella che mette la bomba, ci sono i vecchi compagni di scuola ... Quindi il teatro no, ma neanche il cinema. La scrittura invece supera qualunque limitazione perché il lettore può rileggere, sospendere la lettura, riprendere ...
È chiaro che una scrittura che renda conto della continua invasione del campo visibile da parte delle parole che pronunciamo interiormente è una scrittura che richiede attenzione da parte del lettore. Se per esempio la narrazione di una cena o di un incontro fra ex-allievi si dipana lungo decine e decine di pagine, il lettore non apprende soltanto ciò che i personaggi fanno e dicono, ma anche ciò che il personaggio principale pensa (spesso su ciò che gli altri pensano). Per cui tra la battuta “Butto giù la pasta?” e “Scolò la pasta” - sto inventando -, abbiamo letto decine di pagine che con quella pasta non c’entrano niente o c’entrano molto indirettamente. Si dirà: come Proust! Sì, ma fino a un certo punto, soprattutto perché mai in Roth le frasi sono lunghe e complesse, anzi la sua lingua è estremamente “naturale”: i suoi personaggi parlano agli altri e a se stessi come chiunque di noi. Inoltre, almeno per me, le gioie e le sofferenze di Seymour, gli interrogativi che si pone, gli sforzi che fa per salvaguardare la felicità dei propri cari è troppo coinvolgente per non conquistare il cuore del lettore. Per cui, al bisogno, si rilegge volentieri :). Anzi, devo dire che intanto che scrivo queste righe, sentendo le voci di giovani padri e madri che parlano coi loro bambini piccoli che giocano e ridono, penso allo Svedese e a Dawn, e mi auguro che mai questi genitori e questi bambini vedano la distruzione del loro paradiso.
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Anche il mondo finirà. Intanto vivremo.
IL BAMBINO CHE SOGNAVA LA FINE DEL MONDO
di ANTONIO SCURATI (pubbl. marzo 2009)
Un paio di anni fa avevo già letto questo libro segnalatomi dalla collega di lettere E.M., ma l’avevo letto talmente tutto d’un fiato che non ricordavo più perché mi fosse piaciuto, e a questo proposito devo dire che sono un po’ sorpresa nel constatare che le opinioni espresse su di esso in questo sito sono quasi tutte molto negative, sorpresa perché trovo che difficilmente in un libro così denso non si trovi qualche elemento di soddisfazione. Almeno tre cose mi sembrano dover “agganciare” il lettore: 1. il fatto che si ispiri molto da vicino a fatti realmente accaduti fra il giugno 2007 e il giugno 2008, per quanto raccontati con la libertà che ogni romanziere giustamente rivendica, la quale gli consente di inserire singoli fatti di cronaca in contesti più ampi: quello dell’interpretazione della realtà storico-sociale e quello dell’esperienza personale, cosa a cui aspirano tutti i grandi romanzieri; 2. i molti passaggi in cui Scurati parla - in modo acuto/arguto - di esperienze che tutti noi, uomini del 21° secolo viviamo (dallo stravolgimento del paesaggio agricolo e più in generale il dissesto ambientale alla morte lenta dell’amore romantico alla paura della procreazione al rapporto con genitori anziani ...); 3. una lingua mai banale, che indulge talora, a mio parere non eccessivamente, ai colori forti di certo vocabolario riecheggiante il Romanticismo satanico e, non casualmente, come si vedrà, l’Apocalisse.
IL TEMA
Nella pagina che precede la dedica dell’autore alla sua bambina che sta per nascere, è precisato (credo dall’editore) che “questo romanzo appartiene al genere dei componimenti misti di cronaca e d’invenzione”. Nella fattispecie, in senso stretto si tratta di ciò che l’autore sintetizza nel Prologo: la nascita, lo sviluppo e la fine dell’ondata di isteria collettiva nata da dicerie e pregiudizi, che tra il 2007 e il 2008 spinge gli Italiani (ma poteva succedere anche agli abitanti di altri paesi) a credere che un’orda di pedofili attenti alla sicurezza dei loro bambini: dapprima nella scuola materna Sorelli di Brescia, poi nella scuola materna Rodari di Bergamo, infine dappertutto, soprattutto nei luoghi fino ad allora considerati luoghi protetti per antonomasia: parrocchia, scuola, famiglia. Ondata di isteria che alla fine fortunatamente si infrange contro gli scogli della realtà (nessun abuso sulle piccole presunte vittime è stato perpetrato), lasciando però l’amaro in bocca a tutti coloro che, pur rallegrandosi dell’esito della storiaccia, osservano con amarezza quanto poco, anzi nulla ci sia voluto perché la paura generatrice di odio e follia esplodesse nella nostra società “opulenta” (vedi l’esergo). Opulenta, ma malata in modo evidentemente grave, pensa Scurati, che rappresenta questo fenomeno di isteria di massa alla stregua di una malattia (morale) altamente contagiosa: la peste, riprendendo un’immagine che risale almeno a Boccaccio, “peste” che galoppa attraverso i massmedia (e qui francamente non so se Gramellini e Mentana non si siano sentiti “sputtanati” da Scurati ...). E qui, come si vede, la narrazione attinge una dimensione che trascende la cronaca e si allarga ad una riflessione sulla nostra società. Pessimistica, si può immaginare. E ovviamente quello che accade da almeno un anno e mezzo di pandemia da covid 19, con tutte le psicosi e polemiche di varia natura ad essa legate rendono questo libro ancor più attuale.
A proposito di peste, anche lo psicanalista Paolo Ferliga ha pensato alla peste riunendo nel dossier “Falsi abusi a Brescia: una nuova Colonna infame”, consultabile nel suo sito, tutti gli elementi chiave del caso dell’asilo Sorelli e della sentenza pienamente assolutoria del processo di Cassazione: nella “Storia della colonna infame” Manzoni ricostruisce come in occasione della pestilenza del 1630, a partire da dicerie e false credenze, a Milano vennero giustiziati due “untori” ed eretta una colonna ammonitrice sulle rovine della casa rasa al suolo di uno dei due infelici.
Sempre a proposito di peste, non c’è nessuna analogia con la “peste” di Camus, il quale mette in scena una peste vera e propria e osserva come gli uomini reagiscono a questo “male”, il “male” inteso come sofferenza “assurda”, cioè non conseguente ad una colpa bensì semplicemente appartenente alla naturalità dell’esistente. Nel romanzo di Scurati, invece, la “peste” si sovrappone al “Male”, con tanto di M maiuscola, e persino al “Diavolo”, evocando l’idea di colpa, ed evocandola in termini religiosi. In effetti, nei “Ringraziamenti” finali Scurati dice che il suo libro “deve molto” a due opere, che hanno entrambe un risvolto legato alla religione:
1. la biografia romanzata scritta da E. Ferrero di Gilles de Rais, personaggio storico rappresentato da Ferrero come malato di “sconforto metafisico” (un po’ come il Don Giovanni di Molière, che però, almeno, non ammazzava ecc. …), che credo sia lo smarrimento morale che per Scurati i due casi hanno portato alla luce, uno smarrimento che in un certo senso trova conforto nella paura di qualcosa o qualcuno: almeno si sa con chi prendersela!;
2. il saggio di M. Marzano “Cattolicesimo magico” del gennaio 2009, in cui si parla - mi sembra di aver capito leggendo la breve presentazione nel sito della Bompiani - delle forme che il cattolicesimo “magico”, quello popolare, avrebbe assunto oggi in Italia (mentre la Chiesa si sforza di espungere la pedofilia di suoi membri che a lungo ha coperto), incrociando pregiudizi sociali quali la xenofobia. E qua si torna alla necessità di qualcosa o qualcuno di cui aver paura e con cui prendersela ...
LA STRUTTURA DEL ROMANZO E COS’È QUESTA STORIA DEL BAMBINO CHE SOGNAVA ECC.
Il romanzo è costruito in modo originale: tra il Prologo e l’Epilogo (quest’ultimo in corsivo) ci sono 12 capitoli il cui titolo compare nell’indice (il primo si riferisce al giorno dell’evento scatenante, l’ultimo al giorno in cui tutto si chiarisce, gli altri segnano, mese dopo mese, l’avanzata della “pestilenza dell’anima e delle menti”), e questi 12 capitoli sono inframezzati da svariati capitoli in corsivo come l’Epilogo non titolati e non inclusi nell’indice, in cui si parla de “il bambino”, quello che “sognava la fine del mondo”, che ben presto si può immaginare, per riferimenti ad elementi autobiografici, essere Scurati bambino, afflitto da turbe del sonno, sempre che l’io narrante coincida in tutto e per tutto con l’autore. In relazione ai fatti di cui parla, dire il vissuto de “il bambino” serve a Scurati innanzitutto per dire che ogni bambino filtra e rielabora in modo proprio e ben diversamente dall’adulto le suggestioni che gli vengono da cose sentite o viste: dalle parole degli adulti alle cose viste in TV alle fiabe ai racconti di ogni genere, tutto ha un’eco, nel cuore e nella mente di un bambino, che l’adulto neanche immagina, anzi ben diversa da quella che l’adulto immagina. Per cui se alcuni bambini dissero cose che fecero pensare ad abusi è perché oscuramente sentivano la pressione degli adulti in determinate direzioni. In secondo luogo parlare de “il bambino” serve a Scurati per dire che non si finisce mai di essere i bambini che si è stati: perlomeno nel romanzo lui (o l’io narrante) era suggestionabile da piccolo - glielo dice la sua vecchia mamma a p. 266 - e lui (o l’io narrante) giornalista e docente universitario arriva a non poter più dormire e persino a rifiutare l’idea di paternità a causa del coinvolgimento emotivo nei fatti di cui deve occuparsi: bambini circondati da adulti diventati dementi in un mondo stravolto.
Guarisce. Guarisce perché l’esperienza della sofferenza psichica dei bambini di Bergamo e di Brescia, vittime non di abusi sessuali ma delle loro fantasie di bambini e soprattutto degli errori degli adulti lo aiuta a capire di essere stato un bambino come tanti, un bambino che “sogna”, che fantastica anche cose terribili, forse sentendosi amato e al contempo non abbastanza amato dalla mamma. Guarisce e riesce anche a voler diventare padre, ed è questo il segno più certo della guarigione. Non ha smesso di pensare alla fine del mondo, ma mentre “il bambino” sognava che il mondo sarebbe finito distrutto dalle fiamme, l’adulto immagina - più realisticamente - una fine graduale della civiltà umana: sa che il mondo finirà, che il sole si spegnerà. Perchè la fine è iscritta nelle cose. Però “non piangere, bambino, non piangere. Non hai nulla da temere dal futuro. La fine è già arrivata. Tanto tempo fa.”: così si conclude l’Epilogo, facendo eco all’inizio del Prologo: “Nei primi anni del terzo millennio ...”.
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le estasi di suor Giulia
IO, PARTENOPE di S. Vassalli (2015, l’anno della morte dell’autore)
Nel Congedo, che fa pendant alla Premessa, in cui l’autore incontra i suoi personaggi e … si mette in ascolto di quel che loro gli narrano, così come peraltro nella Premessa di “Un infinito numero”, Vassalli scrive: “Io, Partenope” è l’ultima tappa di un viaggio che mi ha portato a vedere il mio paese, l’Italia, dalla parte delle radici. In cinque storie del passato che servono a capire il presente, e che si svolgono in cinque regioni diverse. L’Italia è un patchwork di popoli e di culture (...)”.
Preciso, per chi volesse leggerle in sequenza, che le cinque storie sono quelle dei romanzi seguenti: La chimera (1990): la Lombardia della fine del ‘500; Marco e Mattio (1992): la Venezia ormai moribonda del ‘700; La notte della cometa (1984): Dino Campana e la Firenze della belle époque italiana; Il cigno (1993): la Sicilia del primo maxiprocesso di mafia; Io, Partenope (2015): Napoli (insomma il regno delle Due Sicilie o l’Italia dei Viceré) e Roma nel primo ‘600. Di queste opere io ho letto la prima, la seconda e l’ultima, e posso perciò dire che tutte e tre affrontano il tema della religione e/o della Chiesa: la fede folle di Mattio in “Marco e Mattio”, la paura della donna da parte della Chiesa nel caso de La chimera e di Io, Partenope.
Ora, Vassalli è un abile NARRATORE/PITTORE: punta il suo binocolo su un luogo così come è in una certa epoca (non per niente l’incipit è : “Questa storia comincia in un paesaggio di quattro secoli fa e ci accompagnerà fino ai nostri giorni. Comincia con una veduta di Roma in bianco e nero (...)”), poi sceglie gli individui da mettere in primo piano, attraverso i quali quel quadro può più efficacemente prendere vita, e li racconta mettendoli originalmente in relazione fra loro. Come in “Marco e Mattio” dipinge con la penna mercati veneziani che sembrano trasposti pari pari dai quadri fiamminghi, così in “Io, Partenope” Vassalli dipinge la Napoli e poi la Roma del primo ‘600, quella della Controriforma, e per dar loro vita sceglie una quasi forse santa, Suor Giulia-Partenope, nonchè colui che dà forma marmorea al sogno di potenza universale della Roma di allora, Gian Lorenzo Bernini, e li collega immaginando che nell’Estasi di Santa Teresa egli abbia ritratto Suor Partenope sulla base dei disegni che suo padre Pietro ne aveva fatto.
Come sempre, il punto di partenza è la vita di un personaggio attestato storicamente; in questo caso Vassalli racconta LA STORIA DI SUOR GIULIA DI MARCO (nata a Sepino, in Molise, fra il 1570 e il 1580, e morta nel 16…, fortunatamente non arsa sulla pubblica piazza come la povera Antonia, “la strega di Zardino”), chiamata anche suor Partenope fin dal suo soggiorno napoletano. Su di lei ho letto quel che se ne dice nel sito della Treccani, e ho appreso che esistono ben pochi documenti d’epoca, per cui ritengo che Vassalli sia dovuto arrivare ad una sua verità storica interpretando quei documenti sulla base delle sue conoscenze storiche e di archivista e molto con la sua immaginazione di romanziere.
Cosa rende speciale la storia di questa suora terziaria? Beh, intanto, pur nata da famiglia poverissima, suor Giulia-Partenope nel giro di pochi anni crea a Napoli, che naturalmente sotto la penna/pennello di Vassalli si anima come in un quadro di Murillo, una Comunità di Preghiera organizzatissima che conta tra i suoi adepti innumerevoli personaggi illustri, fra cui persino la moglie del viceré di Napoli. Una comunità che predica una religiosità intima, non formalistica, e insegna una modalità di preghiera così intima da suscitare una condizione di estasi che coinvolge il corpo fino ad assumere una connotazione erotica. Tutto questo fa paura alla Chiesa, tanto più che si tratta di una religiosità “femminile”, e da sempre la Chiesa vede in Eva un pericolo, scrive Vassalli ripetutamente. In questi decenni che seguono lo scisma ormai irreversibile fra Chiesa Riformata e Chiesa cattolica, quest’ultima, sostenuta in particolare dalla Spagna e quindi anche dal Regno di Napoli, tenta con la Controriforma un rilancio della propria immagine e della propria potenza nel mondo attraverso le missioni e lo sfarzo della liturgia e delle chiese. La recente santificazione della spagnola Teresa di Avila rientra in questa politica di seduzione degli spiriti, ma la preghiera diretta con Dio, peraltro tipica della Riforma luterana, non può essere tollerata da una Chiesa fortemente centralizzatrice. Suor Giulia-Partenope viene perciò processata per aver pregato e insegnato a pregare accompagnando la preghiera - questa è l’accusa - con atti lascivi ecc. ecc. e, essendo stata ammessa all’abiura, ammette tutto senza esitare, stando alla narrazione di Vassalli, vivendo poi a Roma una vita fin troppo normale rispetto a questi accadimenti. La cosa più importante della vita di suor Giulia dopo il processo, quantomeno nel romanzo, è l’amicizia con Gian Lorenzo Bernini, nella cui Santa Teresa d’Avila lei riconoscerà il proprio volto, essendo stata ritratta dal padre dello scultore quando questi frequentava la Comunità di preghiera di Napoli. Qua finisce il racconto di Giulia.
QUALCHE RISERVA. Dal punto di vista dello stile, Vassalli è sempre un maestro di chiarezza, ma in questo libro la lingua è persino troppo scorrevole e pertanto meno suggestiva che in altre opere, e, a partire dalla narrazione del processo, persino un po’ … come dire? troppo moderna per essere quella di una vecchia suora del primo ‘600 che era stata così intima di Dio (però anche così debole nella carne da abiurare prontamente, come detto sopra). Poi, a dispetto della scorrevolezza, l’estasi rimane un mistero assoluto fino in fondo all’ultima pagina perché probabilmente non è facile neanche per un Vassalli capirne e spiegarne la natura, però, estasi o non estasi, come mai - mi chiedo -, se questa donna aveva un rapporto così intimo con Dio, quando il destino le diventa avverso ‘sto Dio sparisce praticamente dalla sua vita? la quale vita oltretutto tornerà a svolgersi nei palazzi dei potenti della terra! Infine, mi sembra un po’ forzoso quel concetto del “puttanesimo” (parola di Suor Giulia!) come esito di un’emancipazione femminile distorta in quanto ostacolata dalla Chiesa e dalla “religione dei papi”, che consisterebbe nel dominare gli uomini sessualmente essendo ostracizzate dalla vita pubblica, a causa anche se non soprattutto di una Chiesa maschilista. Le parole del Congedo citate in alto: “questa storia (…) ci accompagnerà fino ai nostri giorni”si riferiscono a questo? Al maschilismo della Chiesa cattolica e della società italiana? Nonchè al “puttanesimo”? Ma cosa pensava Vassalli veramente delle estasi di Suor Partenope? Insomma, ho delle domande senza risposta.
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il re delle storie
IL TRONO DI LEGNO di CARLO SGORLON, premio Campiello 1973
Sempre nella mia recente esplorazione di autori italiani del ‘900 che non conoscevo, ho letto per la prima volta un libro dello scrittore friulano Sgorlon, e devo dire che mi è capitata una cosa singolare: che il libro mi è piaciuto, insomma l’ho letto volentieri, apprezzandone la scrittura ma non pienamente “il messaggio”, che, anticipato in vari punti del romanzo, viene esplicitato nelle ultime pagine, da cui estrapolo quanto segue:
“Da sempre tendevo alle storie e al racconto. Già più volte avevo avuto la sensazione che le parole e il racconto fossero le cose più solide del mondo. Mentre le altre passavano fatalmente (come era passato il carnevale) perché il tempo, il Grande Illusionista, ne simulava soltanto la concretezza e la solidità, quando in realtà le disgregava, ed esse erano soltanto simulacri, fantasmi che correvano dal futuro al passato, le parole invece erano eterne, e potevano servire per sempre a suscitare la suggestione delle cose. Dunque, l’avventura da me cercata, la festa lontana, non avevano altro luogo che nel mondo della parola.
Adesso ero certo di essere uno degli uomini segnati, predestinati, che hanno qualcosa di preciso da fare nel mondo. (…) Ora sapevo di essere soltanto uno strumento nelle mani di qualcosa che mi sovrastava [Preciso che Sgorlon non fa nessuna allusione a cosa sia questo “qualcosa”]. (…) Era tempo di cominciare. Più volte avevo tentato di scrivere dei racconti (…) Mi piaceva raccontare non soltanto scrivendo, ma anche a voce. I miei ascoltatori erano (...) anche i bambini di Cretis [villaggio di montagna di fantasia] (…) Così la vecchia storia del mondo si ripeteva e i bambini, senza saperlo, ricopiavano un antico modello, come avevo fatto io quando avevo i loro anni. Un giorno avrebbero scoperto che non c’era nulla di vero, che si trattava soltanto di sogni e di apparenze che si spostavano sempre più in là. (…) Le esperienze di Pietro diventavano le mie, e così pure quelle di Flora, di Lia, di Maddalena, o di quelli che non avevo conosciuto direttamente, ma di cui avevo letto nei libri (…) Per narrare delle storie bisognava arrivare proprio a questo: riuscire a sentire la vita di tutti come fosse la propria. (…) Il tempo passava e ci limava e consumava tutti (…) La casa era così silenziosa che a volte pareva disabitata, e coloro che ci vivevano ombre di antenati, tornate per dare un’occhiata alle stanze, soprattutto a quella senza finestre, il centro della casa, dove continuava a troneggiare il seggiolone di Pietro”.
Come si vede, quest’opera è un elogio della parola e dell’arte del racconto “sapiente”, che nasce dalla comprensione profonda del sentire collettivo. Mi ha colpito moltissimo a questo proposito come la prosa di Sgorlon abbia gli stessi accenti di quella di Sebastiano Vassalli, che sicuramente questo libro lo conosceva, e d’altra parte è innegabile che il tema è lo stesso di Un infinito numero (1999), benché affrontato in modo diverso, ma pur sempre secondo le movenze del mito, ponendosi su un piano intermedio fra quello reale e quello fantastico. E fin qui tutto fila. Poi, però, se si considera che il personaggio che scrive quelle parole ha sì e no 25 anni e nella sua vita ha più letto che sperimentato (in ogni caso le sue “avventure” sono solo accennate), è difficile non sentire l’artificiosità di questa storia, in cui non succede quasi nulla - siamo tra la fine dell’800 e i primi del ‘900, e non sulla luna - e i personaggi vivono tutti in una dimensione di assoluta irrealtà, salvo però non pochi passaggi del tutto credibili sul piano dell’analisi psicologica. Quelle parole può invece dirle a ragione Pietro, il vecchio che racconta stando seduto sul suo modesto ma pur sempre regale seggiolone di legno, di cui l’io narrante scrive: “Il mio modello più vero non poteva essere che Pietro, l’uomo dalle mille peripezie, dalle mille vicende, che era stato dappertutto, ma tutto aveva trasformato in favola e in leggenda” (fine del penultimo capitolo). Però può anche essere che io abbia torto a pensare che il genio letterario si debba nutrire di molta esperienza di vita, perchè tanti esempi mostrano che il genio letterario non dipende necessariamente né da una vita movimentata né da una vita regolare: Rimbaud scrive a 16 anni “Il battello ebbro” e Flaubert se ne è sempre stato rintanato in casa ... Alla fine quel che conta è la sensibilità o intuito o immaginazione, che dir si voglia ...
La lingua, mai contorta e spesso suggestiva, salva comunque quest’opera da un certo ridicolo. E qui ribadisco che mi ha colpito moltissimo la consonanza della lingua di Sgorlon con quella di Sebastiano Vassalli, tanto che numerosi passaggi li si potrebbe molto facilmente ascrivere a quest’ultimo. Come questo, che esprime un’idea tipica di Vassalli : “La storia si ripeteva. Tutte le storie tornavano infinite volte, ormai lo sapevo, e noi non eravamo che forme vuote che che servivano a Dio per recitare sempre daccapo un eterno canovaccio. Eppure tutto ciò non era soltanto noioso, come lo è la ripetizione prevista, ma anche grandioso, misterioso e liberatorio, perché si acquistava l’impressione di occupare un posto preciso in un immnso complesso, e di essere liberati dall’affanno di doversi dedicare totalmente alla propria persona, tanto essa era effimera e senza importanza” (p. 253 ed. Mondadori).
Postilla. In misura minore, soprattutto nella prima parte del libro, dove Sgorlon celebra la suggestione della montagna e della natura invernale, la lingua ricorda quella di Mario Rigoni Stern. Avendo infine il coraggio di osare, potrei azzardare un accostamento, a livello però di contenuto, con la “rivelazione” proustiana del “tempo ritrovato”: la letteratura, cioè la scrittura, è ciò che salva, cristallizzandolo, il tempo della vita, individuale e sociale, dal suo completo dissolvimento. Che poi è l’idea intorno a cui ruota “Un infinito numero” … di Vassalli.
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Dalla violenza alla pace, finchè dura il mondo
UN INFINITO NUMERO (1999) di SEBASTIANO VASSALLI (1941-2015)
“Un infinito numero” non è veramente un romanzo storico, a differenza de “La chimera” (1990); Vassalli lascia infatti che, nel reale, l’immaginario irrompa fin dalle due pagine iniziali in corsivo, che fanno da prologo, quando in “una bella giornata d’autunno” in cui il rumore di trebbiatrici ed aerei sovrasta “lo stormire delle fronde e il cinguettio degli uccelli” (cioè il rumore caratteristico dell’epoca corrente rende quasi inudibile il suono costantemente invariato di fondo), l’autore si ritrova a conversare in giardino con uno dei suoi personaggi, ancora “sconosciuto” benchè lo nomini (“Timodemo”). Guardando altri personaggi che nel frattempo “passeggiavano tra gli alberi e parlavano tra di loro in modo piuttosto animato”, Timodemo osserva che ognuno di loro “sta soltanto recitando una parte: la sua parte, e continua a ripeterla”: insomma, le storie finora scritte dall’autore, le storie di quei personaggi, sono circoscritte, limitate, incomplete. Invece, dice Timodemo, “Ci sono storie che rimangono sospese fuori del tempo perché i loro personaggi ne conoscono soltanto una piccola parte, e perché nessuno riesce a vederle per intero”, storie che rimandano a qualcosa di più ampio e di misterioso. E “il mio amico Virgilio - continua Timodemo -, nei suoi ultimi giorni e mesi di vita, si era reso conto di essere passato vicino a una di quelle storie, e di non avere saputo riconoscerla ...”. Ecco, ciò che da qui in poi leggiamo fino alle due pagine finali anch’esse in corsivo è “la trascrizione (…) di quel lungo monologo”.
1. Dopo questo incipit anodino che ci proietta su un piano fantastico, Timodemo racconta, con una sensibilità moderna, realismo ed uno stile elegantemente scorrevole (gli si perdoni l’uso di “gli” per “loro”), la storia di cui lui è un personaggio insieme a tre dei più famosi uomini dell’Antichità: il poeta mantovano Virgilio (70-19 a.C.), che con Timodemo rappresenta la cultura che il potere cerca di sedurre per servirsene come arma di propaganda; Mecenate (68-8 a.C.), “l’Etrusco”, “uno degli uomini più potenti di Roma, cioè del mondo intero” (p.37), colui grazie al quale “Roma era diventata il centro mondiale, oltre che della politica, anche della letteratura e dell’arte” (p. 41) “l’arbitro della politica e del gusto, il dominatore delle mode e della cultura”; Ottaviano, infine, figlio adottivo di Cesare e futuro primo imperatore romano col nome di Augusto (27 a.C.-14 d.C.). È quindi il I secolo avanti Cristo, e Timodemo, nato in Grecia e venduto ancora bambino ad un mercante di schiavi, da questi fatto allevare come grammatico e poi portato al mercato degli schiavi di Napoli, “il più grande d’Italia cioè del mondo” (p. 23), viene acquistato proprio da Virgilio, che fa la spola tra la sua villa di Pozzuoli e la capitale, già famoso per avere scritto le Georgiche, e ne diventa presto segretario ed amico, a lui eternamente grato per averlo iniziato alla lettura e, con essa, a qualcos’altro: “mi abituai a guardare il mondo con cento occhi, anziché con i miei due soli, e a sentire nella mia testa cento pensieri diversi anziché il mio solo pensiero. Gli uomini, senza la lettura, non conoscono che una piccolissima parte di ciò che potrebbero conoscere. Credono di essere felici perché fottono, si riempiono le pance di cibo e di vino (…) ma la lettura gli darebbe cento mille vite, e una sapienza e un dominio sulle cose del mondo che appartengono solamente agli dei ” (p. 31). Si noti fin d’ora che per bocca del suo personaggio Vassalli fa l’elogio della scrittura, senza la quale non si darebbe lettura ...
2. Con la battaglia di Azio del 31 Ottaviano batte definitivamente il rivale Marco Antonio mettendo così fine a sessant’anni di guerre civili (vedi p. 33-35) e inaugurando il periodo di massima potenza di Roma (“una nuova stagione: così ricca di energie, così rigogliosa, così splendida” p. 46) (ma l’apice della potenza segna di per sè l’inizio del declino …). “Fu allora che la poesia (…) diventò un affare di Stato” (p. 50): Ottaviano Augusto, “il principe”, presto solo “Augusto”, “si era persuaso che il dominio di Roma sul mondo, e il suo dominio personale, non potevano basarsi soltanto sulla superiorità delle armi. Bisognava che Roma si presentasse ai suoi sudditi con un’immagine di grandezza, oltre che di forza; e che le sue origini, e le origini del suo principe, fossero racchiuse in un mito” (p. 52). Ora, secondo l’etrusco Mecenate, “ tutto ciò che era sorto, in un lontano passato, sulle rive del Tevere, era sorto per opera dei Rasna, cioè degli Etruschi” (p. 53) e all’obiezione di Virgilio, incredulo che dagli Etruschi possa essere derivata la grande civiltà romana non avendo essi lasciato nulla di scritto, Mecenate risponde: “Che ti importa se non abbiamo avuto poeti? Avremo te: e tu sarai il nostro cantore, come Omero lo fu per i popoli dell’antica Grecia ...” (p.53).
3. Mecenate e Virgilio partono perciò con Timodemo e qualche altro compagno di viaggio alla volta del paese dei Rasna: “soltanto lassù (…) Virgilio avrebbe potuto scoprire le vere origini di Roma” (p. 60), e il racconto del viaggio verso l’alta Toscana, lungo la via Cassia fin dove possibile, è l’occasione per raccontare realisticamente un’antica Roma non per caso molto simile al mondo di oggi (per es. p. 97). A Timodemo, che si stupisce dei variegati tratti somatici e costumi che vede, Virgilio risponde che “l’Italia, ormai, era diventata un miscuglio di popoli (…) si potevano incontrare, mescolati alle popolazioni locali, i Galli e i Germani dalla pelle rosea e dai capelli del colore della stoppa, gli Iberici dai capelli neri come la pece e i Siriani dalle lunghe barbe e dagli sguardi obliqui ...” (p. 71). E ancora: “incontrammo altri villaggi abitati dai veterani delle guerre civili (…) originari di tutte le province di Roma, anche di quelle africane e asiatiche. Velthune, il dio della vita e delle metamorfosi (“Lui è la forza che fa nascere gli animali e le piante, e che fa avvicendare le stagioni … Insomma è la vita!”), avrebbe avuto il suo da fare, nei secoli futuri, per trasformare tutta quella gente in Etruschi!” (p. 81).
4. I nostri viaggiatori arrivano infine a Sacni (Santuario), il cuore del paese dei Rasna, non lontano da Siena, che potrei localizzare nella regione di Larderello, in cui il cielo è costantemente velato dai vapori delle terme, dove “erano stati ricostruiti i templi di Velthune e delle altre principali divinità etrusche, e dov’erano custoditi gli antichi Libri del Culto” (p. 98). Virgilio, Timodemo e Mecenate chiedono di essere ricevuti appunto dal sommo sacerdote di Velthune (“Lui solo avrebbe potuto rivelarci i segreti della religione etrusca; e avrebbe anche potuto dirci qualcosa di nuovo e di importante sull’origine di Roma ...” p. 101), ma “i segni in cielo” sono tutti contrari per ora alla loro visita. Nell’attesa di essere infine ricevuti, i nostri visitano i tre templi principali di questo luogo sacro: il tempio di Velthune, dio della vita e delle trasformazioni, il tempio di Northia, personificazione del tempo (ossia della durata), dove, in una parete, sono conficcati tanti chiodi quanti sono gli anni di vita della civiltà etrusca (e solo un angolino è ormai vuoto), e il tempio di Mantus, dio-dea della morte e dell’Oltretomba. In quest’ultimo tempio “sono conservate le storie dei Rasna” (p. 108). “Una mattina, accadde finalmente qualcosa di nuovo (…) ci veniva data la possibilità di visitare l’interno del tempio di Mantus e di scendere nei suoi sotterranei (p. 121): “Scenderete nel pozzo dei misteri e viaggerete nel tempo (…) state per morire (...), ma la vostra morte non sarà una vera morte (…) Se anche doveste rimanere mille anni laggiù dove andrete, alla fine vi ritroverete qui (…) e sarà l’alba di domani mattina” (p. 122-126), viene spiegato loro. Richiesti di scegliere se viaggiare nel futuro o nel passato, i nostri scelgono il passato: “Siamo qui per conoscere le origini di Roma”, risponde infatti Mecenate. I tre viaggiatori si ritrovano perciò sprofondati ognuno per suo conto nella notte della storia.
5. Comincia qua la parte del romanzo in cui, presumibilmente nella mente di Timodemo (p. 145: “Chiudo gli occhi e sento le voci che mi attraversano. Vedo immagini ...”), riecheggiano le voci - voci di conquistatori e voci di vinti - di uomini di quella terra che sarà poi l’Etruria. Le voci e le epoche si susseguono a partire da quando i Lidi, scampati all’assedio di Troia, approdarono sulla sponda del Tirreno e si insediarono, con l’inganno e la violenza, nel territorio abitato dai Sabini, uccidendo gli uomini e i bambini e impadronendosi delle donne, allo scopo di moltiplicarsi e rinsanguare il loro popolo. Sono.
Ecco la prima voce: “Cammino verso oriente con i miei quattro fratelli (…) e ammazzo tutti i maiali maschi che incontro sulla mia strada. Non so dire quanti ne ho scannati finora, perché io riesco a contare soltanto sulle dita della mia mano (…) I maiali assomigliano nell’aspetto agli uomini, ma non sanno esprimersi come gli uomini e non sanno nemmeno vestirsi. Non conoscono le scarpe (…) Li abbiamo sgozzati mentre lavoravano nei campi, o mentre tagliavano la legna, o mentre conducevano per strada un asino carico di fascine. (…) Un giorno, quando tutti i maiali a due zampe saranno stati sgozzati, il nostro capo dei capi, il grande Eneas, darà a ognuno di noi una parte di questa terra e un certo numero di femmine, perché le faccia lavorare di giorno e le ingravidi di notte” (p. 130-131). La voce successiva, quella di Sethu, “il più giovane dei Lidi scampati alla guerra e alla distruzione della città di Troia” (p. 132), esprime invece lo smarrimento di chi vede la disumanità del comportamento dei suoi compagni e ci dice con ciò che il seme dell’umanità è sempre vivo ...
Alcune voci, poi, preannunciano qualcosa che è ancora violenza ma anche inizio di qualcos’altro. In particolare, un Lidio dice : “Per comunicare con le mie donne, e per essere ubbidito e servito, io ho dovuto imparare molte delle loro parole; e, se non c’è nessuno che mi ascolta, le uso (…) Adulissa (…) non riesce a impedirsi di provare piacere; e questo fa sì che , oltre a odiare me, odia anche se stessa. (Ma il suo istinto, fortunatamente, continua a essere più forte del suo odio) (…) i figli sono la cosa più importante che abbiamo, dopo le tragedie che ci hanno colpito (a noi in Lidia, e a loro in questa terra che chiamano Lazio). È soltanto grazie ai figli, nostri e loro, che i nostri due popoli potranno continuare a esistere” Inoltre: “Le altre mie donne sono più tranquille. Yahrissa è grassa e rosea come una giovane scrofa, e non ha pensieri di nessun genere: nemmeno pensieri di vendetta. (…) Truysia, infine, (…) del passato, non ha certamente molto da rimpiangere!” (p. 141-143).
Un’esigenza si fa strada in questo nuovo popolo nato dai Lidi fuggiti da Troia e dalle donne dei Sabini da loro rese schiave: cancellare la violenza delle origini: “Nessuna traccia di quella violenza dovrà rimanere tra di noi. Nessun racconto di cantastorie, nessun poema (…) nessun affresco e nessuna scultura. Basterà dire semplicemente: un giorno, in questa terra ricca di messi e di ogni genere di metalli, è nato un popolo che prima non c’era. Il popolo dei Rasenna (Rasna) ...” (p. 145). E infatti nessuno dei discendenti di quei massacratori saprà la verità: “Mio nonno parlava in un modo strano. Tutti gli uomini della sua età parlavano e si comportavano in un modo strano. Dicevano di essere venuti da un paese di là dal mare e raccontavano di avere combattuto una guerra lunga e crudele contro i Greci; una guerra che, alla fine, i Greci avevano vinto con l’inganno (…) Dopo un lungo viaggio si erano fermati in Italia, nel Lazio, perché qui c’era il dio di cui, allora, avevano bisogno. Il dio delle trasformazioni Velthune” (p. 145) In quest’opera di nascondimento della verità storica da parte dei Lidi un ruolo importante lo svolge il poema di “un famoso cantore: il grande Aveles (…) cieco dalla nascita”, che “raccontò la fuga dei Lidi dopo la caduta di Troia (…), le loro guerre eroiche contro i selvaggi del Lazio (…) ma soprattutto celebrò il senno e la possanza di Eneas” (p. 146).
IL TEMPO PASSA, LE STORIE SI RIPETONO, I VINCITORI DI UN TEMPO SONO A LORO VOLTA VINTI. La voce di un vecchio racconta infatti, guardando la gente che fugge: “i discendenti di tutti gli assassini e di tutti i ladri del popolo Etrusco, cioè i Romani, avevano deciso di annientarci e (...) stavano distruggendo, una dopo l’altra, le nostre Dodici Città. (...) sono rimasto solo con mia moglie Culni. Ci teniamo la mano nella mano e guardiamo fuori della finestra, sulla strada dove continuano a passare uomini e carri, diretti verso chissà dove. ”(…) Sbrigatevi a scappare, perché stanno arrivando i Romani! Ma io e Culni abbiamo deciso di rimanere qui, davanti a questa finestra, e di aspettare i nostri assassini per guardarli in faccia” (p. 151-152). Un altro dice: “Nelle nostre città, ormai, comandano gli stranieri (…) Per ogni nostra necessità dobbiamo ricorrere ai funzionari dell’amministrazione civile di Roma” (p. 153) Infine: “A Perugia, nella ricorrenza delle idi di marzo, più di trecento uomini della nobiltà locale (…) sono stati trascinati come animali sugli altari di pietra e abbattuti a colpi di scure (…) Si vedevano all’orizzonte le nuvole di polvere dell’esercito di Ottaviano che si stava spostando; e le grandi masse di fumo degli incendi (…) (p. 154). Ecco, le voci appartengono ormai all’“oggi”, il tempo di Ottaviano, quello della storia di cui sono personaggi Virgilio, Timodemo e Mecenate.
6. “Riaprii gli occhi” - racconta Timodemo - “Ognuno di noi aveva avuto la possibilità di conoscere, per suo conto, l’intera storia dei Rasna. Eravamo nati e morti decine di volte” (p. 157). A questo punto i nostri tre viaggiatori ricevono infine l’invito a recarsi dal sommo sacerdote di Velthune, “un omino grinzoso e deforme” (p. 164) che più volte hanno intravisto lungo il percorso, il quale dice loro: “l’epoca dei Rasna finisce oggi” (p. 166). A lui Virgilio chiede: “Perchè non avete mai scritto la vostra storia, e nemmeno le vostre riflessioni sulla vita e sul mondo? (…) Perché la scrittura vi ha sempre fatto orrore?” (p. 166). La risposta è quanto mai sibillina e non spiega “veramente” : “ La scrittura ci fa orrore come ci fa orrore la morte. La parola scritta è un segnale di morte” (p. 166). Quanto alla religione dei Rasna, l’omino spiega che essa “era antica di quasi dieci secoli e che era nata nel Lazio, tra i Lidi della terza generazione dopo lo sbarco di Eneas (p. 168): all’inizio “l’universo era il regno del dio del nulla Mantus e della “sua fedele ombra Mania” (p. 168), poi il dio della vita Velthune e il dio-dea del tempo Northia riempirono l’universo di cose e di vita, ma Mantus inventò un nome per ogni cosa “e l’infelicità penetrò” in esse (p. 169), ossia un principio di morte. Mania diede forma scritta a ogni nome “e il mondo si riempì di parole scritte, cioè di involucri vuoti e affamati di vita. (…) La seconda epoca del mondo (…) è stata l’epoca di Mania, ed è durata circa mille anni come la precedente. La terza epoca è quella dei Rasna (…) che è finita stasera (…) L’età della ragione e della gioia di vivere. Nessun popolo, in futuro, riuscirà a tenere a bada l’infelicità e perfino la morte come abbiamo fatto noi! ” (p. 171) (“Ma le epoche del mondo sono cinque” (p. 170), ha detto il sommo sacerdote: quali siano la quarta e la quinta Vassalli non lo dice). “La scrittura uccide” (p.174), insiste il sommo sacerdote, che scrive il proprio nome, quello della moglie e quello della moglie-figlia, che infatti muoiono poco dopo.
7. Tornati a Sacni, i tre viaggiatori partecipano al banchetto funebre in onore di Velia, la moglie-figlia del sommo sacerdote. Timodemo: “Quella notte a Sacni, io ho avuto l’impressione di tornare indietro nel tempo, fino a un’epoca che conoscevo, perché c’ero vissuto, in cui i funerali dei morti erano un’esplosione di vita (Cioè, in pratica, di violenza e di sesso)” (p. 184) e la musica che accompagna gli ultimi festeggiamenti “era il canto dell’Etruria libera e felice”. Virgilio, Timodemo e Mecenate si rimettono poi in viaggio per Roma e poi Napoli, carichi della vera storia delle origini di Roma. Racconta Timodemo: “Confrontavamo i nostri ricordi. Anche Virgilio, ormi, si era convinto che Roma era stata una città etrusca, e che la sua storia era un rivolo della storia dei Rasna; ma, a differenza di Mecenate, lui credeva che quella discendenza andasse tenuta nascosta. Il vero Eneas era impresentabile. La realtà, mi diceva il mio padrone, è sempre impresentabile; e l’arte esiste anche per questo scopo specifico, di renderla migliore e degna di essere raccontata (…) La poesia (…) deve mostrarci la parte migliore dei nostri sentimenti (…) Io ascoltavo e non ero convinto. Omero – gli facevo osservare – doveva avere, sulla poesia, delle idee un po’ diverse dalle tue, perché se avesse voluto mostrarci gli aspetti migliori della natura umana, ci avrebbe dato un Achille più pietoso, e un Ulisse più leale e più giusto … E nemmeno Eschilo e nemmeno Sofocle, a mio avviso, si sono posti i problemi che ti poni tu! È vero. - ammetteva Virgilio - (…) forse si illudevano che gli uomini avrebbero finito per correggersi da soli, riflettendo sui loro sbagli (…) ma, purtroppo, le cose sono andate in un altro modo. La ferocia e la follia, invece di diminuire con la civiltà, sono cresciute con lei; e la nostra epoca, tanto più colta e progredita delle epoche precedenti, ha dovuto assistere, in Italia, agli orrori delle guerre civili!” (p. 201-202). Intanto il potere si è fatto assoluto e sospettoso, la buona stella di Mecenate è impallidita e Virgilio si sottrae a fatica all’ingiunzione di Ottaviano Augusto di consegnargli il poema delle origini di Roma che sta scrivendo seguendo, pur fra tanti dubbi, il modello idealizzante dei cantastorie che del “massacratore di bambini e di donne” Eneas (p. 211) hanno fatto l’eroe da cui gli antichi Romani discendono direttamente, ignorando completamente il popolo etrusco, nonostante il loro determinante contributo di sapienza artistica e tecnologica. Sentendosi minacciati di morte dall’imperatore, Virgilio e Timodemo acquistano “una fattoria di quattrocento schiavi e di seimila iugeri nel paese dei Daunii” (p. 213), in Apulia, cioè nelle Puglie, senonchè “Virgilio non ha mai messo piede nella sua nuova proprietà; e io, che pensavo di averla comperata per lui, ci sono venuto ad abitare sotto un falso nome per sfuggire all’ira del principe, e ci vivo facendo il contadino, da quasi dieci anni (…) e anche questo è un segno della volontà di Velthune, il dio della vita e delle metamorfosi che ci ha fatti incontrare, e che è l’autore della nostra storia e di tutte le storie del mondo” (p. 214)
8. Come tutti sanno, alla fine l’Eneide diventa effettivamente il poema nazionale di Roma imperiale, ma ciò accade perché i pretoriani di Ottaviano Augusto si impadroniscono del manoscritto del falso mito di Enea, costringendo Timodemo alla fuga per sottrarsi alla morte, mentre Virgilio si ammala e muore amareggiato: “Sarei diventato un grandissimo poeta, un nuovo Omero, se non mi fossi illuso che l’arte può servire a migliorare gli uomini e se non avessi creduto di cambiare il mondo con la poesia” (p. 229).
9. Il racconto di Timodemo volge alla fine: “Ma Giove, ormai, ha distolto il suo sguardo da quello che succede a Roma; e la Fortuna, che è la più scellerata delle dee, fa il suo mestiere, favorendo gli spergiuri e ogni genere di delinquenti” (p. 233). E: “Non è trascorso nemmeno un quarto di secolo, mi dico, da quando Mecenate era il padrone di Roma e uno dei padroni del mondo; e ora, Roma e il mondo si sono dimenticati di lui (…) Mi domando cosa sia la memoria di un uomo, e non so rispondere (…) Che memoria può avere, il tempo, degl uomini che lo fanno esistere, senza la scrittura? La scrittura: è lei la protagonista della storia che sto raccontando. Il popolo dei Rasna (…) aveva scoperto, in alternativa alla scrittura, un modo di rivivere il passato (…) ma quel modo non aggiunge e non toglie niente ai singoli uomini, e non modifica le loro storie. La scrittura, invece, può durare (e di solito effettivamente dura) ben più di chi se ne serve” (p. 239-240).
10. Ed ecco la fine del romanzo: nella sua “Solaria” Timodemo è riuscito a costruirsi una piccola grande felicità (vedi p. 241-245) e solo una volta il passato gli ritorna. In sogno, l’omino grinzoso con la gobba, il sommo sacerdote di Sacni, gli dice: “Benvenuto nell’epoca della scrittura! (…) Il tempo degli uomini, da quando Velthune e Northia hanno smesso di occuparsi di loro, si è ridotto a essere una rincorsa tra presente e futuro, sempre più affannosa e sempre più folle (…) Voglio mostrarti il mondo dominato da Mantus e da Mania: il mondo scritto, con gli uomini che si dibattono tra i fili delle loro stesse parole come le mosche nella tela del ragno ...”.
11. GIUDIZIO. Ho apprezzato le parti della narrazione che attualizzano la storia di Roma e ho trovato abbastanza affascinanti le parti in cui Vassalli cerca di far rivivere la civiltà etrusca. Non particolarmente interessante è invece il modo in cui viene affrontato il tema della funzione della letteratura: celebrativa? educativa? garanzia di Fama per chi lo scrive e per chi vi viene celebrato? Preferisco di gran lunga per esempio “Lo scherzo” di Milan Kundera. Quanto al tema della scrittura mortifera per gli Etruschi, è solo un pretesto narrativo, giacché Vassalli, ovviamente, fa l’elogio della lettura e della scrittura. Anche le parti in cui si parla del ruolo del caso nella storia (“il caso non esiste (…) ogni avvenimento si colloca in una catena infinita di eventi” p. 113-114) mi sembrano più a effetto che pregne di sostanza. Quello che invece ho apprezzato e condivido sul piano del contenuto, e che secondo me è l’idea che Vassalli sviluppa forse in tutta la sua narrativa (sto leggendo qualcos’altro di lui), è che la storia è fatta di UN INFINITO NUMERO di variazioni dello stesso processo: violenza e pacificazione attraverso la rimozione della violenza iniziale… In questo senso trovo che sia un romanzo filosofico.
12. Come rimandi ad altre opere, mi sembra di poter segnalare “Candido” di Voltaire (il viaggio, il caso, la formula “Bisogna coltivare il proprio giardino”) e il monumentale “Giuseppe e i suoi fratelli” di Thomas Mann (per la ricostituzione di epoche remote)
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p. 355: "Chi non è innocente è colpevole"
NON LUOGO A PROCEDERE di CLAUDIO MAGRIS (2015).
L’altro giorno mi è capitato di vedere l’immagine di una povera pecora vicina a soccombere a causa dell’enorme vello che nessuno negli ultimi anni le aveva tosato, e mi sono detta: “Ecco, anche questo romanzo di Magris starebbe molto molto meglio se fosse … beh, diciamo sforbiciato!”. Sì, perché gli ingredienti per un buon o persino ottimo romanzo ci sono: maestria linguistica, una storia originale, solide conoscenze storiche. Però il carico di parole e di elementi che entrano nella narrazione mi è sembrato eccessivo - cosa che non mi viene in mente di dire leggendo Hugo Balzac Zola Proust – tanto da spegnere l’emozione, come peraltro ha segnalato chi ha già espresso la sua opinione su quest’opera. O forse bisogna semplicemente essere lettori più pazienti di me.
Cosa racconta Magris in questo romanzo? Racconta, pur senza mai nominarlo se non nella Nota finale (“LUI” nel romanzo), LA STORIA (VERA) DI DIEGO DE HENRIQUEZ, però nel contesto di questa storia particolare racconta tanti altri destini legati a Trieste, la città natale dell’autore, parte, fino alla fine della Grande guerra, di un impero praticamente mondiale, quello austro-ungarico, che si estendeva dall’Europa dell’Est al Nuovo Mondo, destini che dovrebbero formare un mosaico in cui appaia che tutto è interconnesso da sempre, ma anche che tutto è guerra (però … “giocare alla guerra. Giocare per non farla” p. 36), però poi in particolare che i Triestini hanno voluto rimuovere le loro responsabilità nei confronti degli ebrei negli anni del nazifascismo. Un po’ tante cose, mi sembra, troppe per integrarsi coerentemente fra loro.
Già la figura storica di Diego de Henriquez, il protagonista, offre molta materia per farne un romanzo. Nato a Trieste nel 1909 “da una famiglia di ascendenza nobiliare spagnola e di tradizioni legate alla Marina Imperiale Asburgica” (wikipedia; vedi anche p. 28-29), fin dagli anni della Seconda guerra collezionò materiale bellico - dai panzer alle foto ai libri di guerra - in vista della fondazione, che realmente ebbe luogo dopo mille difficoltà, di un “MUSEO DELLA GUERRA PER LA PACE”, a cui egli sacrificò tempo denaro e salute. Leggendo la storia di de Henriquez nel sito del Museo, constato che Magris non si discosta dai fatti nonostante la rivendicazione della libertà di invenzione del romanziere contenuta nella Nota: realmente de Henriquez dedicò la sua vita al Museo, realmente vi fissò la sua dimora, realmente morì nell’incendio del 1974, che costituisce il finale del libro e non può non evocare il finale di “Autodafé” di Canetti anche se il senso è profondamente diverso (nel rogo di Magris muore colui che vuole testimoniare della colpa della città e con lui bruciano i taccuini coi nomi dei colpevoli). Poi è chiaro che ogni biografia richiede immaginazione. Nel caso di quest’uomo, poi, ce ne vuole parecchia ...
Per aiutare a farsi un’idea della complessità della visione di Diego de Henriquez e di come dunque Magris abbia dovuto far lavorare la sua immaginazione di romanziere per parlarne, trascrivo dal sito del Museo il passaggio seguente, perché nel romanzo “lui” esprime ripetutamente questi concetti: “Diego de Henriquez arrivò a sviluppare una concezione del tutto particolare, di non facile comprensione, e cioè quella dell’abolizione della morte e del male dal futuro e dal passato tramite lo svincolamento dallo spazio-tempo o inversione del tempo. (...) Leggendo la storia scritta si diveniva compartecipi di fatti paralleli che (...) assumevano la connotazione della contemporaneità”. Se anche si legge, sempre nel sito del Museo, come Diego de Henriquez denominò il Museo per un certo periodo (e quelle parole si ritrovano tali e quali nel romanzo), si vede bene che si tratta più di “illuminazioni” che di idee cartesiane, che Magris interpreta, giustamente a mio avviso, come visione sincretica o analogica - non so quale delle due parole è da preferire - che stabilisce paralleli fra cose apparentemente lontane fra loro, come per esempio tra una vittoria del Praga sul Borussia Dortmund e la vittoria del ceko Ziska sull’imperatore Sigismondo a Vitkov 519 anni prima (p. 129) o tra la cimice e il carro armato sovietico T-34 e tra le cimici e gli zingari e gli ebrei (p. 211-212).
Il problema, se così vogliamo chiamarlo, è che questo pensiero sincretico o analogico Magris lo fa suo sia accogliendo nel romanzo molteplici storie (per esempio quella dello scienziato praghese A. V. Fric e dell’indio paraguayano Cervuis Piosad Mendoza, quella di Otto Schimek, quella di Massimiliano del Messico, quella di Luisa di Navarrete) sia stabilendo lui stesso paralleli fra fenomeni di natura diversa, due fenomeni sopra tutti gli altri: LA SHOAH E LA TRATTA DEGLI SCHIAVI AFRICANI.
Come riesce Magris a riunire questi due fenomeni così lontani tra loro nel tempo? Mediante il personaggio (fittizio) della giovane donna incaricata di prendere in consegna da “lui”, per sistemarlo, il materiale da esporre nel futuro museo: LUISA SIMEONI BROOKS (a proposito di questo nome ho avuto anch’io la mia brava illuminazione: Vuoi vedere - mi sono detta - che Magris aveva in mente “lui+sa”? Ma vabbè, l’ho sparata lì), figlia di una donna la cui madre si salvò dal lager forse per aver denunciato altri ebrei, e di un soldato americano di colore, e quindi discendente di africani deportati in America. È lei che racconta di de Henriquez alla terza persona, ma talvolta è il cosiddetto narratore esterno o onnisciente o anche de Henriquez stesso, di cui Luisa trascrive i taccuini, autorizzata comunque a scrivere di lui dicendo “io” …
Come si vede, il discorso è fin troppo ampio se non ingarbugliato: da una parte c’è la condanna della guerra, attraverso la descrizione minuziosa e certo non neutra dei materiali bellici di ogni genere da esporre nel Museo, sala dopo sala, dall’altra parte c’è la denuncia di una realtà particolare, ossia l’ignavia, il collaborazionismo e le complicità anche postbelliche fra nazisti, Triestini collaborazionisti o semplicemente compiacenti e anglo-americani, con tanto di nomi e dettagli storici, giacchè Diego de Henriquez ricopiava per davvero le scritte che gli ebrei rinchiusi nella Risiera scrivevano sui muri e che poi furono cancellate con un’opportuna mano di calce ... Però non ho abbastanza conoscenze per dire in che misura Diego de Henriquez fosse impegnato in una sua guerra personale contro la rimozione delle responsabilità dei Triestini dopo la guerra. Ora, a proposito della sovrabbondanza di parole cui accennavo più in alto, ho avuto un dubbio maligno: non è che Magris in qualche modo voglia compensare con un profluvio di parole peraltro il più possibile icastiche (notare anche la frequenza dell’immagine della mazza) il fatto che denunci ben settant’anni dopo la guerra l’ignavia dei suoi conterranei che volsero la testa dall’altra parte o addirittura ci lucrarono quando tanti vennero rinchiusi e bruciati nella Risiera di San Sabba? Anche perchè ho avuto fin da subito l’impressione che le sue parole siano più sarcastiche che sinceramente indignate per quanto accadde in quegli anni, e che insomma l’opera non sia da lui veramente sentita, ma risponda a un suo bisogno di scrivere. Comunque sia, tornando a quanto dicevo all’inizio, è un peccato che l’autore abbia voluto mettere così tante cose in questo libro, perché le pagine in cui trova la giusta misura, come quelle del capitolo Storia di Luisa VIII, sono bellissime e ti dici : “Caspita! É proprio così, ha ragione!”.
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Ecco perchè l'ho uccisa
LA SONATA A KREUTZER è un breve romanzo a tesi del 1889 di LEV TOLSTOI (1828-1910), che fin dalle due citazioni in esergo, tratte dal Vangelo di Matteo relative alla sessualità, esplicita il suo tema. Attraverso il racconto in prima persona di un uxoricida e la “Postilla dell’autore”, l’autore consegna il frutto delle sue riflessioni sulla sessualità dopo la crisi spirituale che lo porta a una religiosità evangelica del tutto personale, indipendente da qualsiasi istituzione ecclesiastica e da qualsiasi teologia precostituita, e perciò avversata dalle chiese, certo, ma anche dal potere civile, sempre ostile a chi antepone Dio, e quindi la propria coscienza, a qualsiasi autorità, da qui le censure e le condanne.
Il pensiero di Tolstoi posso sintetizzarlo così:
“bisogna smettere di pensare che l’amore carnale sia qualcosa di particolarmente elevato, e bisogna invece capire che (...) l’innamoramento e il congiungimento con l’oggetto dell’amore (…) non rende mai più agevole il raggiungimento di un fine degno dell’uomo (ha nominato “la dedizione all’umanità, alla patria, alla scienza o all’arte, senza poi parlare della dedizione a Dio”), bensì più difficile”(p. 130 dell’ed. Univ. Econ. Feltrinelli). Non bisogna temere che l’umanità si estingua, perché anche se tutti riconoscessero che “la continenza è migliore della depravazione” (p. 131) (e per “depravazione” Tolstoi intende il sesso non finalizzato alla procreazione, bensì - per lui tertium non datur - al piacere), non tutti sarebbero in grado di accettarne le conseguenze, ma anche se ciò fosse e tutti rinunciassero all’unione carnale perseguendo la perfezione (io la chiamerei “santità”), non sarebbe di per sé un male che l’umanità si estinguesse, poiché d’altra parte la scomparsa degli uomini è nei disegni di Dio.
Come si vede, è un pensiero radicale. Lontanissimo da quello di Freud, che intanto ha teorizzato l’importanza “fondativa” della sessualità per la persona.
È chiaro che il punto di vista di Tolstoi è lontano anni luce da noi, cittadini delle società occidentali del 21° secolo. E però ... Anche l’illuminista Diderot aveva affrontato il tema della sessualità, anzi, più precisamente della “morale sessuale”, nel dialogo filosofico intitolato “Supplemento al viaggio di Bougainville o Dialogo tra A e B su … (attenzione!) l’inappropriatezza di applicare idee morali a certe azioni fisiche che non ne comportano”, operetta scritta nel 1772 e pubblicata nel 1796, in cui i Tahitiani apprendono con stupore che il Dio dei loro visitatori europei permette la sessualità solo nell’ambito del matrimonio, benchè non impedisca che essa sia praticata anche al di fuori di esso, con gravi sofferenze per “il peccatore” e il corpo sociale. Ora, lo stupore dei Tahitiani serviva a Diderot per mostrare che anche su materie così importanti come la nozione di Dio e la “morale sessuale” non c’è una verità, ma punti di vista. Cosa voglio dire con questo? Voglio dire che non si tratta tanto di stabilire se il punto di vista di Tolstoi sia giusto o no, come nel caso dell’opera di Diderot non è questione di stabilire se hanno ragione “i selvaggi” o gli europei, bensì si tratta di capire se l’“altro” punto di vista sia sostenuto da una sua logica interna oppure no e porsi in posizione dialettica rispetto ad esso. E a me sembra che il punto di vista illustrato da Tolstoi sia ben argomentato e che valga perciò la pena di lasciarsi da esso interrogare.
Devo dire che quando ho cominciato a leggerlo mi chiedevo: “Ma come ha fatto il mio amico X a dirmi che è modernissimo?”, perché lo trovavo pedissequamente moralistico e anche vecchio per quei ripetuti attacchi a “i dottori”, in quanto secondo Tolstoi questi antepongono la salute del corpo alla salute dell’anima e alla volontà di Dio (chi ha letto La peste di Camus non potrà non ripensare alla scelta di Padre Paneloux di non curarsi). Poi, a pag. 70 circa (!) Tolstoi comincia ad analizzare l’evoluzione delle relazioni tra i coniugi fino all’uxoricidio per gelosia - la forma più frequente che l’odio assume nei rapporti di coppia - e lo fa con tali verosimiglianza ed acutezza da dare l’impressione netta di un vissuto autentico - e infatti il matrimonio di Tolstoi fu infelice-, e a quel punto, sentendomi infine coinvolta nella narrazione, mi sono aperta alla comprensione delle idee che l’autore vi sostiene e le ho trovate assolutamente sostenibili, sempre dalla posizione del cristiano che voglia regolarsi sulla parola di Gesù quale i Vangeli la tramandano.
Come tutti sappiamo, l’amore sensuale, insomma l’attrazione tra un femminile e un maschile - e molto più spesso quello infelice che quello felice - ha in moltissime epoche ispirato innumerevoli opere in Occidente (vedi il saggio di Denis de Rougemont), ma lo studio delL’AMORE NEL MATRIMONIO diventa oggetto di interesse per scrittori ed artisti nell’800, quando all’edonismo gioioso del ‘700 (ri-vedi per esempio lo scritto di Diderot citato sopra) subentrano l’esaltazione romantica dell’amore (unico, puro e purificante) e però anche un’etica borghese che vorrebbe conciliare amore romantico e matrimonio cioè famiglia. Con che successo, già Flaubert lo racconta magistralmente in “Madame Bovary”. E che il binomio matrimonio/famiglia stia sempre peggio in salute ce lo dicono il numero crescente di divorzi e il crollo delle nascite, indici entrambi di una minore attrattività del progetto famigliare, perché se l’amore (che Flaubert nell’Educazione sentimentale mostra molto bene essere una favola romantica, così come Proust anche solo nel brevissimo ma folgorante cap. VI di “Fantasticherie color del tempo”) è concepito e vissuto come “complicità” e intesa sessuale, difficilmente può dar forza sufficiente per sostenere i tanti sacrifici e sforzi di varia natura che comporta avere una famiglia. Questo giusto per dire che vale la pena di interrogarsi sul tema “matrimonio/famiglia e amore” all’epoca di Youporn.
Qualche nota a margine: 1. Il tema della sessualità e dell’identità sessuale, legato al tema del diritto individuale alla felicità, viene affrontato in modo molto moderno e coraggioso da André Gide fin dai primi anni del ‘900; 2. Il tema del potere della musica su “i nervi”, da sempre ben noto, altrimenti Orfeo non avrebbe con essa persino incantato gli animali, è particolarmente frequente nella letteratura di fine ’800- inizio ‘900 e dice come essa “intenerisca”, cioè indebolisca la volontà a vantaggio della sensibilità o dei sensi, che dir si voglia. Come accade per esempio nella novella “Tristan” di Thomas Mann del 1902.
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Come le piante, gli uomini hanno radici.
PRESENTAZIONE GENERALE. L’estate scorsa in Francia a causa del covid non c’erano fuori dalle librerie i soliti banchetti di libri usati fra cui mi piace rovistare per scoprire autori ed opere che non conosco, e così ho dovuto chiedere suggerimenti alla libraia, la quale, sostenuta da una cliente, entusiasticamente mi ha segnalato L’ARTE DI PERDERE (2017) della giovanissima ALICE ZENITER. Beh, non poteva consigliarmi meglio! Enuncio qui di seguito le principali caratteristiche di quest’opera che ho apprezzato grandemente, la quale tra i premi ottenuti conta il “Prix Goncourt des lycéens”, conferito ad opere che saranno lette anche nelle scuole. E non a caso, come si capirà più avanti.
1. STILE. L’espressione è di una chiarezza straordinaria qualunque sia l’oggetto, dalla sensazione effimera al concetto storico, e personalmente sono sempre grata all’autore di darmi strumenti sufficienti per capire quanto dice, quelli della logica e quelli della suggestione poetica. Inoltre, per la vividezza e l’autenticità di tante osservazioni anche minute, poco letterarie, il lettore intuisce anche senza aver letto la biografia dell’autrice che molto di ciò che “Je” racconta di Naima e della sua famiglia, Alice Zeniter lo ha vissuto in modo personale, come si dirà più avanti. E che ci abbia messo il cuore oltre all’intelligenza, si vede bene persino da come ringrazia tutti coloro che l’hanno aiutata a ricostruire la storia che racconta (vedi i Ringraziamenti alla fine del libro).
2. TEMA.“Certo, se scrivessi la storia di Naima, questa non comincerebbe con l’Algeria. Lei nasce in Normandia (…) Eppure, a sentire Naima, l’Algeria c’è sempre stata, lì da qualche parte. Era una somma di componenti: il suo nome, la sua pelle scura, i suoi capelli neri, le domeniche da Yema. Questa è un’Algeria che non ha mai potuto dimenticare perchè la portava in lei e sul suo volto. Se qualcuno le dicesse che ciò di cui parla non è affatto l’Algeria, che sono marcatori di un’immigrazione magrebina in Francia di cui lei rappresenta la seconda generazione (come se non si smettesse mai di immigrare (…), ma che l’Algeria è un paese reale, fisicamente esistente dall’altra parte del Mediterraneo, Naima si fermerebbe un attimo e poi riconoscerebbe che sì, è vero, l’”altra” Algeria, il paese, ha cominciato ad esistere per lei molto più tardi (…) Ci vorrà il viaggio per questo” (Prologo).
Come si vede, il tema è nel senso più ampio il legame con un paese che si conosce solo attraverso ricordi e consuetudini familiari sempre più tenui, il quale paese però, per gli autoctoni e i discendenti degli immigrati, spesso costituisce “le origini” o “le radici”, anche se si è nati e cresciuti in un altro paese assorbendone cultura e costumi, addirittura integrandovisi con successo, come Hamid e ancor più sua figlia Naima, professionista presso una prestigiosa galleria d’arte parigina, che “torna” brevemente nel paese “d’origine” per capire quanto di quel paese ci sia veramente in lei.
Ora, poiché il paese “d’origine” non è un paese qualunque, bensì l’Algeria, questo tema generale si innesta sul tema particolare della storia dei rapporti complicati tra l’Algeria e la Francia, rapporti complicati non solo per il passato coloniale e post-coloniale, ma anche per come una parte della prima e ancor più della seconda generazione di immigrati vive la sua identità, una parte che è rappresentata (in modo forse non del tutto compiuto, ma ci sarebbero volute altre 100 pagine) solo da Mohamed, lo zio di Naïma, nato in Francia, il quale “si è eretto a guardiano di un paese perduto senza averci messo piede” (p. 593 dell’edizione J’ai lu), pronto ad impartire “una grande lezione di morale” alle donne della famiglia, che “hanno dimenticato da dove vengono” e “si comportanto come puttane” (Prologo).
Per capire la complessità del tema, bisogna tener conto di come l’Algeria arrivò all’indipendenza e di cosa nel 1962 portò tanti Algerini in Francia. Tanto per cominciare, una delle due citazioni in epigrafe alla Parte III recita: “Non ci sono ancora le condizioni per visite di harkis (…) E’ esattamente come se si chiedesse ad un Francese della Resistenza di toccare la mano ad un collaborazionista”. Detto dal presidente algerino Bouteflika nel 2000! Chi sono gli harkis? Sono quegli Algerini (l’Algeria era stata conquistata dai Francesi tra il 1830 e il 1847) che combatterono e morirono a fianco degli Alleati nella Seconda Guerra Mondiale, inquadrati con i soldati della France Libre di De Gaulle, e poi non scelsero di schierarsi con l’FLN, il Fronte di Liberazione Nazionale, considerandolo alla stregua di un gruppo di terroristi, per cui nel giugno del ‘62, alla proclamazione dell’indipendenza che chiudeva la “guerra d’Algeria”, in gran numero lasciarono l’Algeria ed emigrarono più o meno fortunosamente in Francia per non rinunciare alle peraltro non regalate pensioni di guerra e per sfuggire alle rappresaglie dei loro connazionali. (:::) Siccome la radice dell’odio non muore mai, gli harkis sono ancor oggi considerati dei traditori non solo dagli Algerini d’Algeria (Naima evita di dire agli intellettuali algerini suoi amici di discendere da uno di loro) ma anche dai loro stessi figli nati e cresciuti in Francia sedotti dal fondamentalismo per rivalsa nei confronti di un paese da cui si sentono esclusi. A torto o a ragione … vedi più avanti.
LA TRAMA. Attraverso quale trama viene affrontato questo tema così complesso? Innanzitutto l’autrice, figlia di un harki e di una francese come Naima, ha studiato con evidente impegno la storia dell’Algeria dagli anni ‘50 ad oggi, in particolare fino al 2015, l’anno dell’attentato al Bataclan rivendicato dall’Isis, ed ha così ricostruito, con le risorse fornitele dall’immaginazione oltre che dalle ricerche, la storia e il vissuto di 1. coloro che lasciarono “L’Algeria di papà” (Parte 1, storia di Ali), come la chiamò De Gaulle nel ‘62 quando disse che quell’Algeria lì non esisteva più perché l’Algeria indipendente era nata; 2. di coloro che crebbero in Francia (Parte II, “La Francia fredda”, storia di Hamid), per dedicarsi infine nella Parte III, “Parigi è una festa”, al breve viaggio di Naima in Algeria, che le consentirà di fare i conti con la sua “algerinità” e rendersi conto che sì, “quel viaggio l’ha certo pacificata, e che alcune delle sue domande avevano avuto delle risposte, ma sarebbe sbagliato - continua Alice Zeniter - scrivere un testo teleologico intorno ad esso alla maniera dei romanzi di formazione. Lei non è “arrivata” da nessuna parte nel momento in cui decido di chiudere questo testo, lei è movimento, lei va ancora” (p. 604). D’altra parte Naima scopre che quell’“Algeria che lei non ha mai potuto dimenticare perché la portava in lei e sul suo viso” non è il “paese reale, che esiste fisicamente dall’altra parte del Mediterraneo”. Questo paese reale che lei scopre è “un paese vitale, in movimento, fatto di circostanze storiche modificabili e non di fatalità irreversibili”, molto diverso da quell’“Algeria rurale in cui tutti si occupavano dell’oliva” (p. 598) dei pochi ricordi di famiglia a lei trasmessi. Il risultato del viaggio, dell’incontro col paese reale, è che Naïma, “invece di mettere i suoi passi nei passi di suo padre e di suo nonno, sta forse costruendo il suo proprio legame con l’Algeria, un legame che non sarebbe né di necessità né di radici ma di amicizia e contingenze” (p. 548-549).
IL “MESSAGGIO”. La Zeniter mostra molto bene quanto la Francia sia stata “fredda” con gli harkis, di quanto merito questi abbiano dovuto dar prova per essere accettati (è il caso di Hamid, che per integrarsi pienamente rifiuta la sua cultura d’origine), ma mostra anche il maschilismo dei tradizionalisti. Tuttavia la cosa più significativa è che Naima, la quale guarda criticamente sia “la Francia fredda” sia i nostalgici di un paese che in realtà non hanno mai conosciuto come suo zio Mohamed sia i fondamentalisti, si è integrata con successo! Insomma, indirettamente la Zeniter dice che la Francia non manca di apprezzare il talento e il desiderio di integrazione: è di questo che la Francia vorrebbe convincere i giovani delle banlieues ed è per questo, secondo me, che il libro ha avuto il Prix Goncourt pour les lycéens. Partire implica sì una perdita, integrarsi implica sì la rinuncia a qualcosa, ma la consapevolezza cui arriva Naima è che la storia continua e nulla resta fermo. D’altra parte - e vengo con ciò al TITOLO - come dice la poetessa americana Elisabeth Bishop,“Nell’arte di perdere non è difficile diventare maestri (…) Ho perso (...) dei regni che avevo, due fiumi, tutt’un paese. / Mi mancano, ma in ciò non vi fu un disastro” (p. 592), ma, soprattutto, nel vuoto lasciato da “quella terra lontana, immobilizzata nel c’era una volta” (p.598), ci sono un paese reale e la possibilità di uno slancio verso il futuro alleggerito di vecchi debiti.
DUE OSSERVAZIONI FINALI: 1. Mentre da un canto i giovani discendenti di harkis rimproverano ai loro genitori di non aver scelto di stare dalla parte giusta, dall’altra i giovani francesi chiedono (ma non in gran numero, per quanto ne so) “Qu’as-tu fait en Algérie, papa?”, evidentemente sospettando fortemente che i loro papà abbiano partecipato agli eccidi …; 2. Inutile dire che nonostante si parli di Algeria, il lettore non può non allargare la riflessione alla complessità di tutti i fenomeni di colonizzazione, decolonizzazione e immigrazione dalle ex-colonie, cioè “i paesi poveri” di oggi, e persino all’incompiuta integrazione fra il Nord e il Sud dell’Italia.
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una matassa imbrogliata da dipanare
LA MIGLIOR VITA di FULVIO TOMIZZA ha vinto nel 1977 il premio Strega e nel 1979 il premio di Stato austriaco per la letteratura europea; io però, se fossi stato l’editore che per primo ha letto il manoscritto di quest’opera, avrei detto all’autore: “Non è male, ci sono molti buoni elementi, ma prenditi un paio di mesi di tempo per studiare di più la materia, rivedi l’espressione e poi me lo riporti”. Ecco, riconosco a Tomizza sia l’originalità del punto di vista che adotta per raccontare le vicende della popolazione istriana dall’inizio del ‘900 agli anni ‘60 (quello del sagrestano di Radovani, borgo vicino alla marittima Umago) sia la presenza di intere pagine e passaggi a margine dei quali ho scritto “bello!” (e anche il titolo è molto suggestivo). Noto però due difetti gravi che spesso mi hanno reso la lettura frustrante, soprattutto man mano che ci si avvia verso la fine del romanzo: 1. un’espressione spesso oscura, involuta, e talora inutilmente verbosa (cui si aggiungono numerosi refusi nell’edizione Mondadori) e 2. una vaghezza che in un romanzo di ricostruzione storica è imperdonabile, soprattutto se ci si rivolge a posteri che magari sanno poco o nulla delle vicende di quella terra di confine. Oltretutto, questo che Tomizza racconta è un confine complicatissimo e mobile: tra l’entroterra delle montagne carsiche e la costa, fra etnie e culture slave ed etnie e culture italiche, fra mondo cristiano e mondo cattolico, tra mondo contadino e mondo cittadino, tra mondo capitalista e mondo socialista dopo la Seconda guerra mondiale e, infine, fra le generazioni che vissero tutto queste tensioni e le generazioni nate dopo l’uniformizzazione e la scristianizzazione di quel mondo così complesso dopo l’insediamento del regime titino. Insomma, la materia è tanta, però tutto resta, come dicevo, abbastanza impreciso e d’altra nessuna nota esplicativa consente di decifrare cenni più o meno allusivi. Nell’articolo comunque lusinghiero di Paolo Milano del ‘77 inserito nell’edizione Mondadori a mo’ di postfazione, si legge infatti: “(…) come mai, noi lettori, quanto più aspri si fanno a Radovani i conflitti fra genti diverse, tanto meno ne cogliamo il filo?” (p. 307). Io rispondo: Perchè non tutti i romanzieri si documentano approfonditamente come uno Zola o un Vassalli o una Alice Zeniter e sanno rendere conto di quanto hanno appreso. Gli unici elementi storici precisi sono quelli a p. 220 e ss., che illustrano un pochino cosa comportò il passaggio al regime socialista. Inoltre, mi sembra che non sia dato di capire perchè in certi momenti quella popolazione reagisca con la solidarietà di una vera comunità e in altri momenti si mostri invece grettamente individualista. Infine, sono rimasta di stucco nel constatare che Martin Crusich, il sagrestano diventato bibliotecario e scrittore che funge da io narrante, dedica alla pur recente morte della moglie sette righe e mezza (p. 283), mentre si dilunga per pagine e pagine in una verbosissima analisi psicologica peraltro abbastanza improbabile e moraleggiante del prete motomunito e innamorato don Miro e dell’antipatica maestra zagrebese.
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il giardino dei ciliegi di La Capria
INTRODUZIONE. Il romanzo di Raffaele La Capria FERITO A MORTE (Premio Strega 1961) consta di dieci capitoli, di cui i primi sei - praticamente due terzi dell’opera - richiedono un grosso sforzo di comprensione da parte del lettore perché sono una sorta di copione teatrale fatto di sole battute e monologhi (interiori ovviamente), privo di indicazioni sceniche e temporali, in cui - soprattutto - il nome del personaggio che parla o pensa è stato soppresso, e i fogli scompigliati in modo da sovrapporre i vari livelli temporali dell’azione, ammesso che di azione si possa parlare. In particolare, i primi sei capitoli, tranne i pochi passaggi in cui è un “narratore esterno” a raccontare, consistono essenzialmente in una fittissima serie di scampoli di conversazioni che hanno luogo in epoche diverse fra vari personaggi, nella quale si inseriscono senza soluzione di continuità i pensieri di alcuni di loro (soprattutto Massimo, il personaggio principale, e in misura minore Gaetano). Per lo più il lettore può capire chi parla a chi, cosa dice esattamente e a cosa si riferiscono i pensieri riportati, cercando indizi nella pagina o in altre pagine, e a dire il vero ammetto di non avere capito compiutamente persino un punto su cui La Capria torna ripetutamente. Gli ultimi quattro capitoli, invece, sono strutturati in modo chiaro (è chiaro chi dice cosa) e il lettore è almeno un po’ ripagato degli sforzi fatti per capire quanto precede. Insomma, lettura faticosa, benchè LA LINGUA sia elegante, tranne - ovviamente :)) - laddove La Capria riporta il discorso orale dei suoi personaggi.
IL TEMA del romanzo è IL DECLINO, MORALE E FISICO, DI UNA CERTA NAPOLI E LA SCOMPARSA DI UN’EPOCA A SUO MODO GLORIOSA DELLA VITA DI QUESTA CITTÀ, tra gli anni in cui il jet set internazionale frequentava Capri e Ischia e gli anni del boom economico, essendo comunque la città rappresentata attraverso UN SOLO AMBIENTE, che dirò più sotto, che non è affatto quello popolare come per esempio ne “La pelle” di C. Malaparte. Declinato, questo tema del declino, in modo piuttosto intimistico nei primi sei capitoli e piuttosto socio-politico negli ultimi quattro, i quali costituiscono un amaro pamphlet contro l’affarismo che ha dato il colpo di grazia finale ad una città illustre benchè in sfacelo e ad un mare che prima - “jadis”, scriveva François Villon nella ballata “des dames du temps jadis” - traboccava di vita e di bellezza. E a proposito di mare, quello di La Capria ne è un omaggio da innamorato.
LA TRAMA, SE COSÌ SI PUÒ DEFINIRE. Nei primi sei capitoli La Capria illustra, nei modi che ho detto nell’introduzione, il modo di vita dei frequentatori del “Circolo”, in cui i rampolli (le rampolle no: le donne sono preda, il segno del successo) di famiglie ormai decadute dall’originario rango socio-economico o anche nobiliare benchè ancora abitino antichi famosi palazzi, nonchè coloro che ruotano intorno a loro, ammazzano il tempo chiacchierando, guardando i motoscafi che sfrecciano sullo specchio di mare antistante, registrando le presenze femminili a bordo, un pochino giocando a tennis e soprattutto giocandosi al poker gli ultimi soldi propri o i soldi del socio o dell’amico ricco o addirittura della vecchia domestica che “li ha visti nascere”. Tutti rivaleggiano contendendosi il favore dei pochi veramente ricchi (da sfruttare) e il favore dell’uomo più ammirato del momento, quello capace di rendere indimenticabile una serata con la sua spavalderia ed è percio ricercato dai ricchi e dalle belle, le quali belle però, molto più concrete dei maschi, sposano il partito più danaroso ... Tra tutti questi uomini ce n’è uno, Massimo (La Capria giovane?), che ha uno sguardo critico sugli altri pur passando le sue giornate con loro, sempre sognando di “partire” e sempre rinviando la partenza. Colto e incline all’introversione, dapprima egli condivide la repulsione per quel modo di vivere col giovane comunista Gaetano, salvo infine prendere le distanze da lui perché in realtà troppo intimamente legato a quel tempo della giovinezza, il tempo della sensibilità esacerbata e delle giornate trascorse immergendosi nell’incanto di un mare pieno di pesci su cui si affacciano ville patrizie e palazzi barocchi che via via si sfanno. Negli ultimi capitoli apprendiamo che Massimo è riuscito dopo tanta esitazione a strapparsi da Napoli, non però per trasferirsi a Milano, luogo della razionalità opposto a Napoli-Foresta Vergine dove si è trasferito Gaetano, bensì a Roma, la capitale della politica e dell’affarismo dove chissà ... Tornato occasionalmente a Napoli, nell’accogliente alveo familiare, attraverso i suoi ricordi e le conversazioni con gli amici di un tempo (è la materia degli ultimi quattro capitoli) scopriamo cosa ne è stato dei tanti protagonisti della sua vita di ieri, quando i sogni - e tra tutti il sogno di un amore romantico- e l’ingenuità erano possibili. Persino Sasà, idolo di uomini e donne di allora, si è ridotto a ridicolo vieux beau, mentre l’antico Palazzo Medina si trasforma in residence di lusso per ricchi parvenus. LA GIOVINEZZA È SVANITA, E NEANCHE I SOGNI SONO PIÙ QUELLI DI UN TEMPO.
Il TITOLO “Ferito a morte” mi sembra francamente attagliarsi poco ad un uomo che, come avviene a tutti o quasi, vede svanire i sogni della giovinezza ma resta in vita e conduce una vita tutto sommato “normale”.
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la tragedia classica ... in chiave moderna
HOMO FABER (1957) dello scrittore svizzero-tedesco MAX FRISCH (1911-1991)
Commentando La chiave a stella di Primo Levi mi è venuto in mente questo romanzo di Frisch (architetto, prima di dedicarsi completamente alla letteratura, così come Levi era chimico), e così l’ho riletto, in tedesco a dire il vero perché oggi le opere di questo scrittore, che a suo tempo è stato famoso anche in Italia, sono fuori catalogo, benché i suoi temi e il suo stile siano tuttora attuali e avvincenti. Segnalo fin d’ora che il regista Schlöndorff ne ha tratto un film, un cui fotogramma si vede nella copertina dell’edizione Suhrkamp Taschenbuch del libro.
LO STILE è caratterizzato da una sintassi rapida (frasi brevi, spesso ellittiche) ed un lessico “quotidiano” al servizio di una narrazione retrospettiva alla prima persona in forma di annotazioni personali da parte di un personaggio che registra fatti più che sentimenti, citando anche elementi di dettaglio non strettamente funzionali all’azione ma tali da rendere realistica la narrazione. E d’altra parte il sottotitolo è “Resoconto” (o “rapporto”).
QUANTO AL CONTENUTO, fin dal titolo Frisch mette in campo l’uomo in quanto animale tecnologico, manipolatore della materia e signore della natura, però, mentre Levi col personaggio di Faussone esalta l’”homo faber”, trasmettendo al lettore un sentimento di ottimismo rispetto all’umanità e al futuro, Frisch costruisce UNA SORTA DI MODERNA TRAGEDIA GRECA, mettendo in scena un uomo che crede di poter governare il proprio destino e la natura, e così, colpevole di “hybris”, “sfida gli dei”, provocandone la collera e la punizione. Credo altresì che non a caso la storia di Faber si concluda proprio in Grecia, la Grecia degli antichi templi, che fanno pendant ai templi dei Maya così spesso evocati nella prima parte del libro, ambientata nell’America centrale e meridionale.
IL PROTAGONISTA, Walter Faber, è un ingegnere meccanico che per conto dell’UNESCO si occupa di progetti di sfruttamento di paesi del Terzo mondo, facendo perciò la spola tra capitali occidentali supersviluppate e territori in cui una natura ancora primigenia palesa tutta la sua potenza annichilente (anche sugli Occidentali costretti a vivere lì: Herbert e Joachim), e gli uomini vivono come ai primordi della storia. Faber pensa che gli elementi in gioco siano sempre pre-vedibili in base ad un calcolo delle probabilità e che perciò si possa sapere tutto di sé e delle conseguenze delle proprie azioni. Però come in lui alberga un cancro che non sa di avere e che alla fine lo ucciderà, così NELLA SUA VITA C’È UNA COLPA DI CUI È INCONSAPEVOLE o di cui forse non vuole prender coscienza, per cui LE SUE AZIONI, APPARENTEMENTE INCOLPEVOLI E NON CONCATENATE FRA LORO, COSTITUISCONO IN REALTÀ UNA CATENA DI EVENTI CHE CONDURRANNO FATALMENTE ALLA CATASTROFE FINALE: la morte della figlia che non sapeva di avere, l’infelicità della madre della giovane, e la sua stessa morte.
QUAL È NELLA FATTISPECIE LA COLPA DI FABER? In sostanza la stessa di Edipo, proprio quello della tragedia di Sofocle, che si credeva esente da colpa non avendo volontariamente compiuto un’azione colpevole, senonché una sua antica azione - l’uccisione di un uomo sconosciuto che però era suo padre - lo porterà a unirsi carnalmente con la propria madre. Walter Faber, dal canto suo, PER LA CARRIERA HA NON SOLO RINVIATO SINE DIE IL MATRIMONIO CON LA SUA FIDANZATA DI ALLORA, HANNA, PERALTRO PER METÀ EBREA (E SI È NELLA PRIMA METÀ DEGLI ANNI ‘30; VEDI P.46-48), MA ANCHE DESIDERATO E PREDISPOSTO LA MORTE DI QUELLA FIGLIA CHE HANNA AVEVA IN GREMBO, MOTIVO PER CUI HANNA LO AVEVA LASCIATO. SENONCHÉ IL FATO HA VOLUTO VENT’ANNI PIÙ TARDI FARE DI LUI L’AMANTE DI QUELLA FIGLIA. Sia Edipo sia Faber riconoscono la propria colpevolezza e DESIDERANO LA PUNIZIONE per essere stati ciechi innanzi alla loro colpa: Edipo si trafigge gli occhi e si mette al bando dalla comunità, e Faber dice, in attesa dell’intervento chirurgico: “Perchè non prendere queste due forchette, stringerle ritte nei miei pugni e farci cadere sopra la mia faccia, per liberarmi degli occhi?” (p. 192). NELLA MORTE DI FABER C’È PERÒ UN ELEMENTO CHE NON MI PARE CI SIA NELL’”EDIPO RE”: Faber desidera sì la sua morte, ma prima di morire conosce la felicità poiché i suoi occhi si sono aperti su tutto quel che fino ad allora aveva rinnegato: bellezza sentimento paura speranza desiderio … (p. 194 e ss.). Davvero alla fine lui “vede la vita con altri occhi”, quella vita che “prima” “ gli scorreva davanti come un film (vedi i tantissimi riferimenti al fatto che lui filma tutto, dai terreni che ispeziona al corpo del suo vecchio amico che si è impiccato ai sorrisi della giovane Sabeth). Dal suo letto d’ospedale scrive infatti: “ NON SONO SOLO, HANNA È IL MIO AMICO, E NON SONO SOLO” (p. 198), e in un certo senso Faber Hanna e la loro figlia Sabeth sono infine uniti in una forma d’amore che trascende le contingenze.
ALTRO:
1. STRUTTURA DEL ROMANZO. Il romanzo è articolato in due “Stationen”, parola che può anche significare stazioni di un calvario, ma che qui corrispondono alle ultime due tappe della vita di Faber: nella prima (di gran lunga preminente come numero di pagine) egli ricostruisce la catena di eventi “casuali” che uno dopo l’altro lo hanno condotto a conoscere la giovane Sabeth e a intraprendere una relazione amorosa causandone involontariamente la morte, fino alla scoperta della sua paternità; nella seconda Faber non cerca più giustificazioni o attenuanti: ha capito che la morte lo attende e ha capito di voler morire là dove sono Hanna e la tomba di sua figlia. In un certo senso liberato da quella cecità che gli impediva di sentire l’umanità delle persone e di amarle invece che sentirsi sempre estraneo o da loro infastidito. Così prende l’ultimo aereo della sua vita, che guarda caso è proprio un Super-Constellation come quello dell’inizio del suo “resoconto”, quello in cui “il fato” fa viaggiare anche il fratello dell’amico di gioventù Joachim, cosa che mette in moto la catena di eventi che porterà alla “catastrofe”. Insomma prima e dopo la consapevolezza della colpa.
2. MORTE DI SABETH. In wikipedia è scritto che Sabeth muore uccisa da una vipera: no, lei viene sì morsicata da una vipera, ma è scritto chiaramente che morirà non per il morso della vipera, bensì in seguito alla caduta fatta durante la lunga passeggiata notturna con Faber sulla costa. Però si può certo fare qualche ipotesi sulla valenza simbolica del morso della vipera come elemento che comunque gioca nella morte di Sabeth.
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Il Tartufo maritato
LA SCUOLA DELLE MOGLI: no, non la commedia di Molière del 1662, ma il romanzo di ANDRÉ GIDE del 1929 ! (fuori catalogo in Italia)
DUE PAROLE PER INQUADRARE L’AUTORE. André Gide è uno di quegli scrittori che si definiscono “a cavallo tra l’800 e il 900”: nasce nel 1869 (Marcel Proust nasce due anni dopo) e muore nel 1951, cioè nasce quando Baudelaire è ancora in vita e muore avendo visto anche il secondo dopoguerra. La sua generazione precede dunque immediatamente quella di Albert Camus e di Jean-Paul Sartre. Gide conta tra i più importanti intellettuali francesi (Premio Nobel per la letteratura nel 1947) ma anche tra i più discussi (“sulfureux”, direbbe un francese) per aver combattuto contro tutti i tabù relativi alla sessualità, in particolare difendendo l’omosessualità. Ma non solo. Confesso che come prof solo una volta ho avuto il coraggio di far leggere alcune sue pagine in cui era chiaro il riferimento alla pederastia del protagonista (nell’Immoralista, del 1902). E d’altra parte se come prof di italiano parlassi ai miei allievi di Pasolini, farei fatica a far leggere loro Petrolio. Comunque, a prescindere da questo aspetto, di Gide secondo me si devono apprezzare almeno tre cose: l’aver tirato fuori la letteratura dalla palude del decadentismo iniettandole una buona dose di provocazione, la straordinaria acutezza dell’analisi psicologica, l’originalità di alcuni romanzi (penso a I sotterranei/ le segrete del Vaticano e a I falsari).
STRUTTURA DEL ROMANZO (è meno complicato di quanto non sembri leggendo quanto segue). L’opera consta di TRE PARTI: “La scuola delle mogli”, “Robert”, “Geneviève o la confidenza incompiuta” (incompleta/ parziale).
Come mai sono tre? Perchè come fa quasi sempre, Gide gioca col lettore, e d’altra parte non siamo più ai tempi per esempio di Zola, ma di “Ceci n’est pas une pipe” ...
1a parte. Gide finge di pubblicare il diario di una donna ormai scomparsa, scritto in due diversi momenti della sua vita (durante il fidanzamento e vent’anni dopo il matrimonio ...), diario inviatogli anonimamente dalla figlia che gli chiede di pubblicarlo casomai “possa essere profittevole per qualche giovane donna” e anche gliene suggerisce il titolo.
2a parte. Gide mostra il gioco di finzione (“Ceci n’est pas une pipe”) riportando la richiesta (vera? falsa?) dell’amico Ernest Robert Curtius di scrivere la “memoria” in cui il vedovo Robert (che peraltro si è risposato una volta scaduto il tempo del lutto ...) si difende dalle critiche contenute nel diario della moglie, che egli chiama Eveline.
3a parte. Gide finge infine di aver ricevuto e di pubblicare “l’inizio di una narrazione (un récit) in qualche modo complementare” inviatogli come manoscritto in un secondo momento sempre dalla stessa giovane donna di cui sopra, che dice a Gide di chiamarla Ginevra, anche se non è il suo vero nome :)
TEMATICHE. Il riferimento alla commedia omonima di Molière contenuto nel titolo complessivo dell’opera, non è casuale, non solo perché due secoli prima Molière ha reso ridicoli gli uomini che volevano dominare le donne imprigionandole nel cerchio della vita famigliare, così come pretenderebbe “Robert”, ma anche e soprattutto perchè Molière nelle sue commedie più impegnate ha stigmatizzato un certo atteggiamento mentale: quello dei Tartuffe e delle Arsinoé, che noi chiamiamo “sepolcri imbiancati” o“farisei”, e Robert ne è un esempio, come la sua fidanzata Eveline comprende troppo tardi per evitare il matrimonio. QUA FINISCE QUEL CHE HANNO IN COMUNE I DUE AUTORI.
Nella prima parte, intitolata - ripeto - “La scuola delle mogli” -, cioè nel diario di Eveline, ma anche nella terza, il manoscritto incompiuto di Ginevra, dove però c’è anche altro, come dirò, Gide fa quel che ha già fatto in altri due suoi brevi romanzi, La porta stretta (1909) e La sinfonia pastorale (1919), cioè CRITICA LA MORALE DEL DOVERE FINE A SE STESSO. Però, mentre nei due romanzi citati, che volgono in tragedia, Gide mostra che il dovere “puro”, quello che rinnega la vita, porta all’infelicità e persino alla colpa, ne “La scuola delle mogli” egli indica la via che da una morale di sacrificio alla fin fine inutile oltre che frustrante, conduce ad una morale che è libertà, libertà anche nell’impegno per gli altri (Eveline lascia infine il marito e va al fronte come infermiera). A chi conosce I sotterranei del Vaticano faccio notare a quest’ultimo proposito che siamo ben lontani dall’”atto gratuito” di Lafcadio.
SE VOGLIAMO CONFRONTARE EVELINE CON QUALCHE ALTRO PERSONAGGIO FEMMINILE CELEBRE, direi che è agli antipodi di Emma Bovary, che vede la realtà attraverso la lente dei suoi desideri, mentre assomiglia moltissimo, per tensione morale e capacità di autoanalisi, alla PROTAGONISTA DEL ROMANZO “LA PRINCIPESSA DI CLÈVES” di Madame de La Fayette (1678), la quale sa scandagliare il suo cuore e ha forza morale sufficiente per rinunciare alla felicità (amorosa): sul diritto alla felicità fa prevalere il dovere morale di non tradire la “fede data”, cioè la fiducia del marito, uomo innamorato e del tutto meritevole di amore (ma al cuor non si comanda ...), e poi, essendo il marito morto di crepacuore sapendosi non amato, ha orrore di godere dei vantaggi della colpa. Tutto sommato, per fortuna Eveline ha un gioco più facile avendo un marito non degno di lei … :)
Nella seconda parte, “Robert”, Gide in fondo non va molto oltre Molière: di “Robert” dico solo che è un Tartuffe moderno, fustigato a sangue dall’autore, che dissemina sapientemente lo scritto del suo personaggio di piccoli indizi che ne smascherano la sostanziale insipienza morale.
Nella terza parte, infine, “Ginevra o la confidenza incompiuta”, che contiene bellissime pagine sulla confusione dell’adolescenza (però forse le ultime trenta pagine sono un po’ troppo didascaliche), Gide pone una questione di gran lunga in anticipo sui suoi tempi: per la giovane “Ginevra” non è ormai più questione di sottomettersi o non sottomettersi ad un uomo, marito o padre che sia, bensì di avere un figlio al di fuori dal matrimonio. E perché? Perchè non sono gli uomini che la attraggono. Così perlomeno si intuisce dalla sua “confidenza incompiuta”.
Tengo molto a precisare che nell’affrontare temi relativi al sesso Gide non è mai ammiccante: i suoi personaggi “positivi”, quali appunto Ginevra, non sono certo caratterizzati da “pruderie”, ma si analizzano, ragionano, sentono, sfidano. Insomma sono persone morali :)
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Il lavoro come l'amore
LA CHIAVE A STELLA, di PRIMO LEVI (1978)
TRAMA. In questo bel romanzo che già da tempo volevo rileggere, la narrazione alla prima persona non è di un personaggio di finzione, bensì dell’autore stesso, chimico di professione fino al ‘75, che - chissà se questo invece è finzione - trovandosi per lavoro nell’URSS di prima della caduta del muro (che non sembra proprio un paradiso: vedi in particolare p. 173), fa la conoscenza di un montatore che anche è lì in trasferta: Faussone. Nonostante la differenza d’età, tra i due nasce un rapporto di stima e di comprensione reciproca, accomunati come sono dalla passione per il lavoro, il lavoro tecnico, quello che mette a confronto l’intelligenza con la materia. Levi, che ha ormai deciso di dedicarsi completamente alla scrittura (vedi il capitolo “Acciughe, I” p. 148 e ss.), riporta al lettore, talora esplicitamente evocato (es.: “lo ho sempre lasciato parlare come voleva e per tutto il tempo che voleva, e del resto il lettore ne è testimone” p. 98), le conversazioni che soprattutto la sera, in mensa, si dipanano fra lui e Faussone - Faussone è il cognome, ma tra colleghi … - , o piuttosto riporta quello che Faussone gli racconta del suo lavoro. E alla fine si congedano, avendo fatto quel che dovevano fare.
Ora uno potrebbe chiedersi: Ma come ci si può fare un libro, con questo??”: altrochè se si può, se si mettono in gioco lo stile colloquiale di Levi, la sua verve nel rendere il lato buffo delle situazioni o dei personaggi, un personaggio credibile come Faussone nonchè il suo linguaggio colorito di bellissime espressioni idiomatiche piemontesi. Detto per inciso, già il titolo dice il talento dell’autore, perché è vero che la chiave a stella è un attrezzo, ma … quanta poesia nel nome di questo attrezzo! Faussone dice che essa “È PER NOI COME LA SPADA PER I CAVALIERI DI UNA VOLTA” (p. 74). E in effetti Faussone appare un po’ come un cavaliere di una moderna epopea: quella di un’Italia in via di modernizzazione in cui si moltiplicano le autostrade e gli elettrodotti ad alta tensione, quella di un mondo in cui con l’acciaio e il cemento l’uomo sfida la profondità dell’oceano come la forza dei venti di alta montagna, quella in cui l’aereo ha ormai accorciato le distanze tra i continenti.
Cosa vuole dire Primo Levi con questo libro? Ecco alcuni passaggi della p. 81 dell’edizione Einaudi che ne sintetizzano il significato:
“SE SI ESCLUDONO ISTANTI PRODIGIOSI E SINGOLI CHE IL DESTINO CI PUÒ DONARE, L’AMARE IL PROPRIO LAVORO (CHE PURTROPPO È PRIVILEGIO DI POCHI) COSTITUISCE LA MIGLIORE APPROSSIMAZIONE CONCRETA DELLA FELICITÀ SULLA TERRA: MA QUESTA È UNA VERITÀ CHE NON MOLTI CONOSCONO (…) Per esaltare il lavoro, nelle cerimonie ufficiali viene mobilitata una retorica insidiosa, (…); però esiste anche una retorica di segno opposto (…) che tende a denigrarlo, a dipingerlo vile, come se del lavoro, proprio o altrui, si potesse fare a meno, non solo in Utopia ma oggi e qui; come se chi sa lavorare fosse per definizione un servo, e come se, per converso, chi lavorare non sa, o sa male, o non vuole, fosse per ciò stesso un uomo libero. (…).
Molto significativamente, Faussone di nome si chiama Libertino, perché suo padre pensava che significasse la stessa cosa che “libero” (che il prete non voleva accettare): “Il termine “libertà” ha notoriamente molti sensi - scrive Levi -, ma FORSE IL TIPO DI LIBERTÀ PIÙ ACCESSIBILE, PIÙ GODUTO SOGGETTIVAMENTE, E PIÙ UTILE AL CONSORZIO UMANO, COINCIDE CON L’ESSERE COMPETENTI NEL PROPRIO LAVORO, E QUINDI NEL PROVARE PIACERE SVOLGENDOLO” (p. 145).
Ovviamente, come scrive Levi sempre a p. 81, “ E’ malinconicamente vero che molti lavori non sono amabili, ma è nocivo scendere in campo carichi di odio preconcetto: chi lo fa, si condanna per la vita a odiare non solo il lavoro, ma se stesso e il mondo. Si può e si deve combattere perché il frutto del lavoro rimanga nelle mani di chi lo fa, e perché il lavoro stesso non sia una pena, ma l’amore o rispettivamente l’odio per l’opera sono un dato interno, originario, che dipende molto dalla storia dell’individuo, e meno di quanto si creda dalle strutture produttive entro cui il lavoro si svolge.”
Come si vede, “La chiave a stella” è UNA CELEBRAZIONE DELL’HOMO FABER E DEL LAVORO, IN PARTICOLARE DEL LAVORO DELLE MANI O - MEGLIO - TECNICO: “Le avevo davanti agli occhi, le mani di Faussone: lunghe, solide e veloci, molto più espressive del suo viso. (…) Mi avevano richiamato alla mente lontane letture darwiniane, sulla mano artefice che, fabbricando strumenti e curvando la materia, ha tratto dal torpore il cervello umano, e che ancora lo guida stimola e tira come fa il cane col padrone cieco” (p. 162-3). Levi trova parole persino commoventi per “cantare”, come si diceva una volta, il lavoro artigiano, e le fa dire a Faussone che parla di suo padre anziano e dei suoi amici: “Avevano tutti fatto la guerra, chi in Russia, chi in Africa (…), così, essendo che erano tutti più o meno del mestiere, uno sapeva saldare, uno tirava la lima, uno batteva la lastra e così via, avevano combinato di fare un monumento e di regalarlo al paese, ma doveva essere un monumento all’incontrario. Di ferro invece che di bronzo, e invece che tutte le aquile e le corone di gloria e il soldato che viene avanti con la baionetta, volevano fare la statua del panettiere ignoto: sì, quello che ha inventato la maniera di fare le pagnotte”.
Quando Primo Levi scriveva, il dibattito pubblico intorno al lavoro non si incentrava già più sul carattere alienante del lavoro alla catena di montaggio, e infatti chi nel libro impersona il lavoro, il lavoro appagante perché mette alla prova e quindi può essere occasione di vittoria sulle difficoltà e sui propri limiti, sono il chimico-scrittore e l’operaio specializzato, che hanno ormai maturato una competenza tale da consentir loro di decidere in autonomia per risolvere problemi difficili : perché, come diceva il padre di Faussone, “è meglio essere testa d’anguilla che coda di storione”. Rispetto a quando Levi ne parla, il lavoro tecnico o manuale si è deprezzato: esso è ritenuto vile rispetto a quello intellettuale (e infatti le scuole tecniche e professionali sono, nell’opinione di molti, riservate ai ragazzi meno capaci o socialmente svantaggiati) e i paesi più avanzati hanno via via delegato la produzione ai paesi poveri e alla manovalanza immigrata. O comunque a tutti quei giovani che per campare sono disposti a fare le bestie da soma. Comunque il discorso qua si fa complicato, ma voglio riprendere il brano a p. 81 che ho citato sopra: “L’AMORE O RISPETTIVAMENTE L’ODIO PER L’OPERA SONO UN DATO INTERNO, ORIGINARIO, CHE DIPENDE MOLTO DALLA STORIA DELL’INDIVIDUO, E MENO DI QUANTO SI CREDA DALLE STRUTTURE PRODUTTIVE ENTRO CUI IL LAVORO SI SVOLGE.”. Ecco, un tema presente nell’opera è il rapporto tra le generazioni, tra padre e figlio: se Faussone ama il suo lavoro (più di quanto non ami le donne), è perché suo padre - a cui Faussone pensa spesso con struggimento di cuore - gli ha trasmesso il gusto di “batter la lastra” ad arte (vedi il bellissimo capitolo Batter la lastra e p. 128), suo padre .
Postilla finale che faccio come ex-prof di francese. Il mio pensiero è andato a due autori: al Voltaire di “Candide”, che dice “Bisogna coltivare il nostro giardino” (che si opponeva alla vana interrogazione metafisica e non ha niente a che fare con l’espressione “coltivare il proprio orticello”) e a Diderot, la cui Encyclopédie mostra quanta intelligenza si dispiega nel lavoro e quanta intelligenza richiede la fabbricazione di una macchina.
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"Tutto fu esattamente così"
ALEKSANDR SOLZENICYN (1918-2008), premio Nobel per la letteratura nel 1970, scrive ARCIPELAGO GULAG tra il 1958 e il 1968; riesce a farne pervenire clandestinamente un microfilm in Francia, dove l’opera viene pubblicata nel 1973 (in Italia l’anno dopo); nel 1974 Solzenycin è arrestato e costretto all’esilio, da cui rientra nel 1994.
Ecco la dedica:
Dedico questo libro
a tutti coloro cui la vita non è bastata per raccontare.
Mi perdonino
se non ho veduto tutto,
se non tutto ricordo,
se non tutto ho intuito.
Quando ho visto questo titolo in un negozio dell’usato, non mi ero resa conto che era il primo di tre volumi. Bene. Ora, se avete letto i Racconti della Kolyma di Varlam Salamov (potete eventualmente leggere la mia “opinione” in questo sito), sappiate che il primo volume di “Arcipelago gulag” si presta benissimo a introdurli poiché ricostruisce in modo, mi sembra, esaustivo e comunque preciso e ampio tutto quanto succede (e succedono molte cose) prima di finire in un campo di lavori forzati sovietici, un GULag appunto, dove “lag” sta per “lager”.
Trattandosi di un autore e di un’opera molto noti, mi limito qua a dire le mie semplici impressioni di lettrice. Ebbene, al di là del contenuto, mi hanno colpito il vigore e l’immediatezza che animano quello che a ragione Solzenicyn definisce nel sottotitolo “SAGGIO DI INCHIESTA NARRATIVA”. Un saggio di inchiesta che attraverso una parola tesa fra la nuda cifra e il battito d’ali della poesia ricostruisce fatti dati e destini di un’epoca forse non ancora finita:
“Da una all’altra isola dell’Arcipelago sono tesi sottili fili di vite umane. S’intrecciano, si sfiorano una notte, magari in uno di questi strepitanti vagoni semibui, poi si allontanano per sempre: porgi l’orecchio al loro fievole ronzio e all’uniforme rumore delle ruote. E’ il fuso della vita che batte”.
Un saggio, che però dà l’impressione di un racconto di viva voce, e di una voce che racconta con sapienza artistica, per cui giustamente l’autore dice la sua inchiesta “narrativa. D’altra parte, quando racconta vicende che ha appreso, è la sua immaginazione di artista che gli consente di colmare il vuoto fra le parole della testimonianza raccolta e la palpitante realtà degli accadimenti.
Io non sono in generale molto sensibile alla poesia vera e propria, ma sempre mi commuove profondamente un poema di André Chénier, rivoluzionario ghigliottinato da altri rivoluzionari (la storia si ripete …), che comincia col verso “Quand au mouton bêlant la sombre boucherie ...”: anche Chénier come Solzenicyn vuole testimoniare l’ingiustizia fatta agli “agnelli” immolati sull’altare del Terrore, anche lui soffre di sentirsi dimenticato da quelli che sono fuori e però si sforza di giustificarli conoscendo il rischio ... La differenza è che nelle segrete del Terrore della Francia del 1793 non si restava 10, 20 anni né si era sfruttati come mano d’opera gratuita a perdere nei vasti deserti siberiani. Nè quel Terrore stritolò milioni di persone e per decenni. Insomma, anche nel Terrore ci sono gradazioni diverse. Ecco, se queste ultime parole le dicesse Solzenicyn, le pronuncerebbe con l’amaro sarcasmo in cui nel tempo si è stemperato il grido di Chénier.
Ecco alcuni brevissimi passaggi:
1. “Anche ammettendo che la natura umana cambi, non cambia molto più rapidamente dell’aspetto geologico della terra” (p. 557 dell’edizione Mondadori del ‘74)
2. “La memoria sia il tuo tascapane da viaggio. Ricorda, fissa nella memoria. Soltanto quegli amari semi germoglieranno forse un giorno (…) E parla meno: udrai di più.” (p. 514) ;
3. “Dove esiste la legge, esiste anche il delitto” (p. 83): ovviamente si riferisce al fatto che le leggi possono essere fabbricate apposta per perseguire chi compie le azioni che quelle leggi configurano come delittuose. Un esempio vicino a noi è il reato di clandestinità: si stabilisce che è reato entrare nel nostro paese senza documenti per poterlo perseguire come atto criminale.
4. “E quella minuscola tempesta delimitata da lastre di acciaio viaggia pacificamente tra sei file di macchine, si ferma ai semafori, segnala le svolte” (p. 528) (le lastre d’acciaio sono quelle del furgone cellulare che trasporta detenuti, la minuscola tempesta è quella tempesta emotiva vissuta da uno dei detenuti durante il viaggio verso la prigione): com’è facile nascondere il sopruso! basta renderlo invisibile! basta mimetizzarlo nella normalità.
5. “… mentre voi vi occupavate a piacere dei misteri, scevri da pericolo, del nucleo atomico, dell’influenza di Heidegger su Sartre e collezionavate riproduzioni di Picasso, partivate in villeggiatura in comode carrozze ferroviarie o finivate di costruirvi una dacia nei dintorni di Mosca, i furgoni carcerari scorrazzavano senza posa per le strade e gli agenti della KGB bussavano e suonavano alle porte” (p. 107): come non pensare al silenzio complice dell’intellighenzia e delle élites culturali in tante occasioni? ma anche e soprattutto al fatto che alla nostre vite “normali” ne scorrono innumerevoli altre segnate dalla sofferenza?
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un seme che non può germogliare
IGNAZIO SILONE (1900-1978) pubblica IL SEME SOTTO LA NEVE in lingua tedesca nel 1941 a Zurigo, dove si trova già da anni come esule antifascista. Qui di seguito alcuni cenni biografici che ho riunito a partire dalla sezione di wikipedia dedicata allo scrittore abruzzese.
LA VITA: travagliata, e perciò estremamente interessante, come quella di tutti gli Italiani che parteciparono attivamente alle lotte politiche successive al Primo conflitto mondiale, da cui nel Ventennio scaturì l’insediamento di regimi totalitari di destra in Europa e di un regime totalitario di sinistra (Silone parla di “fascismo rosso”) in Russia, e, soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, le variegate evoluzioni della posizione degli intellettuali e dei partiti di sinistra dei vari paesi rispetto al regime sovietico.
Nel 1931 Silone è riparato in Svizzera da circa due anni per sfuggire alle prigioni fasciste, quando viene espulso dal PCI per le posizioni antistaliniste che ha assunto fin da quando nel 1927 conobbe da vicino il regime sovietico, essendosi recato in URSS con Togliatti in qualità di delegato al VIII Plenum dell’Internazionale. Respinto da sinistra e avversario del fascismo, è perciò in Svizzera che avvia la sua carriera di saggista politico e di romanziere impegnato, riscuotendo significativi successi con “Fontamara” (1933), “Pane e vino” (1936) e “Il seme sotto la neve” (1941).
Nel ‘44 rientra in Italia, dove è in contatto con eminenti personalità degli ambienti antifascisti (da Pertini a George Orwell) e continua la sua attività di animatore culturale, in particolare da direttore dell’edizione romana dell’Avanti!, con la fondazione e la direzione del giornale Europa socialista, col romanzo “Una manciata di more” (1952), vero j’accuse contro i comunisti che ancora non si sono smarcati da Stalin (il quale avrà il tempo di mietere vittime ancora per un anno). Sul piano dell’attività politica in senso stretto, Silone se ne allontana definitivamente nel ‘53, dopo la sconfitta che subisce alle elezioni politiche nelle liste del PSDI (Partito Socialista Democratico Italiano) di Saragat, per le quali si era candidato proprio nella circoscrizione della sua città natale, Pescina, in Abruzzo. Non per questo si esime però dal prendere posizione in questi anni di guerra fredda da “socialista senza partito”, insofferente nei confronti di tutte le gerarchie, compresa quella ecclesiastica. La fama di cui gode all’estero fin dai tempi di “Fontamara” si estende infine anche in Italia solo verso la metà degli anni ‘60, in seguito alla pubblicazione di “Uscita di sicurezza” (1965), sorta di diario politico che conferma la sua indipendenza di pensiero, tuttavia è “L’avventura di un povero cristiano” (Premio Super Campiello 1968) che gli vale la consacrazione definitiva in patria e che rappresenta secondo i critici l’apice della sua produzione letteraria. In quest’opera Silone racconta, attualizzandola ed evidentemente rispecchiandovisi, la storia di papa Celestino V, quello del “gran rifiuto”, che proprio in terra d’Abruzzo, nacque e si ritirò a vivere da eremita, rifiutando di tradire la purezza del messaggio evangelico.
La sua salute, cagionevole fin dalla giovinezza, gli impongono una progressiva diminuzione dell’impegno di scrittore e di osservatore politico, determinandone la morte a 78 anni.
IL SEME SOTTO LA NEVE. Fra il ‘35 e il ‘36 (a p. 154 si fa cenno a “l’attuale guerricciola d’Abissinia”) Pietro Spanò, ultimo rampollo di una famiglia di contadini agiati che sono ormai, da qualche generazione, entrati nel novero dei notabili di un borgo abruzzese, cioè della cerchia dei “don” (fra i quali c’è anche qualche “don” sacerdote), è rientrato clandestinamente nel suo paese natale, a casa della nonna, donna Maria Vincenza, dopo - si intuisce - esperienze di militante antifascista vicissitudini che lo hanno portato anche all’estero. Per l’appunto, lo si intuisce e mai viene detto cosa abbia fatto da antifascista. D’altra parte nel romanzo non c’è nessun riferimento esplicito alla storia di quegli anni, anzi la politica è chiamata “oratoria”o “arte oratoria”, il fascismo è sistematicamente denominato con le parole “nuova oratoria” e “nuova eloquenza”, e i gerarchi fascisti sono chiamati “(nuovi) oratori”. Il protagonista mi ricorda il personaggio interpretato da Gian Maria Volonté in “A ciascuno il suo”, per la sua sostanziale incapacità di capire la realtà delle cose e degli uomini, insomma per la sua inettitudine. Che però nel caso di Pietro attinge livelli tali che ne fanno un personaggio del tutto irrealistico, ancora più degli altri, in quanto è evidentemente presentato come “puro” e perciò “ideale”. La stragrande maggioranza del testo è occupato da conversazioni, come dirò nel paragrafo successivo, menre l’azione consiste sostanzialmente negli sforzi che la nonna e Simone fanno per salvarlo dal carcere, finchè lui, in un estremo conato di amore per gli ultimi, anzi l’ultimo, cioè il povero scemo che ha preso a cuore, non si attribuisce la responsabilità del parricidio da questi perpetrato. Mah!
CARATTERISTICHE STILISTICHE. Mi dispiace moltissimo, dopo aver letto della vita di Silone, dover dire che sono stata molto delusa da quest’opera, che ho voluto leggere perché “Fontamara” è una delle pietre miliari della mia formazione di adolescente. Questo romanzo è una sequenza infinita di scene teatrali, senza però un crescendo di tensione: si ha l’impressione che si continui a battere la panna in attesa di un esito rivelatore, però alla fine la panna non monta e anzi si liquefa con quell’atto incomprensibile di Pietro che ho detto sopra, utile solo a mettere fine a un romanzo che non sa dove va. Perchè non è realistico che siano spacciati per buoni quel paio di personaggi che si isolano perché tutti gli altri sono cattivi. Insomma, questi “semi” che stanno sotto la neve dell’universale cattiveria non sono semi di bontà se l’umanità è tutta uniformemente cattiva. Oltretutto, a me sembra che in questo romanzo si senta in maniera troppo diretta l’influenza di certi autori che sicuramente Silone ha letto. In particolare Balzac, Flaubert e Zola, oltre a Verga beninteso. Balzac perché nella Commedia umana l’avidità è uno dei vizi capitali degli uomini, però intanto in Balzac l’azione è sempre ben condotta, l’umanità non è tutta uniformemente dominata dall’avidità come nel mondo di Silone, e poi Balzac rende affascinanti anche i suoi mostri. Quanto all’influenza di Flaubert, Silone mi ricorda il piglio quasi cinematografico della descrizione, in Madame Bovary, dei “comizi agricoli”, laddove nei primi capitoli, i più riusciti, “riprende”, spostandosi dagli uni agli altri, i vari gruppi di personaggi nell’atto di conversare tra loro. L’influsso di Zola, infine, ma anche di Verga, con la sua “narrazione corale” (ricordi dei tempi del liceo) è presente nella tecnica di raccontare attraverso il punto di vista dei personaggi. Però Zola racconta fatti cui i personaggi prendono parte, mentre Silone mette in scena, sistematicamente, dei conversari, peraltro ripetitivi, sempre tutti invariabilmente pervasi da invidia avidità e paura di compromettersi. Insomma i suoi personaggi non fanno che parlare.
Mi spiace per Silone, ma ... pollice verso. Rileggerò “Fontamara” per un confronto e per vedere se mi ero sbagliata cinquant’anni fa.
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la colpa l'innocenza
TEMPO DI UCCIDERE (1947) romanzo di ENNIO FLAIANO (1910-1972)
le indicazioni di pagina si riferiscono all’ediz. Rizzoli del 1973
PRESENTAZIONE GENERALE. Il titolo e la copertina di certe edizioni possono far pensare ad un romanzo d’avventura, insomma a un libro di intrattenimento o addirittura commerciale, e invece non è affatto così, tuttavia avvince dalla prima all’ultima pagina. Perché? Perché è il protagonista stesso che racconta la sua storia in prima persona, e lo fa in modo non di rado parziale allusivo ed elusivo, quasi raccontasse a se stesso piuttosto che a un ignaro interlocutore. Perché il suo tono apparentemente razionale e oggettivo, persino banale, fa dapprima pensare ad una narrazione realistica di ciò che “realmente” accade, senonché leggendo intuiamo presto che la sua interpretazione dei fatti e la consapevolezza dei suoi sentimenti è sempre contraddittoria, e siamo perciò costretti a capire al di là delle parole che dice. Perchè pagina dopo pagina ci chiediamo se apprenderemo come l’esperienza narrata si riverberi sul suo presente e se alla fine egli pagherà per quel che ha fatto. In estrema sintesi, infatti, è la storia di un delitto nell’Africa coloniale e degli sforzi tortuosi del militare che lo ha perpetrato - colui che racconta - di sfuggire alle temute conseguenze del suo atto, e Flaiano rende conto magistralmente degli auto-inganni di chi in fondo, ma appunto in fondo, si sa colpevole. Il delitto resterà impunito anche quando il protagonista deciderà infine di costituirsi: “Il prossimo è troppo occupato coi propri delitti per accorgersi dei nostri” (p. 273). Esattamente il contrario di quanto ha espresso Sartre pochi anni prima in “Processo a porte chiuse” (1944): per Sartre la colpa non si estingue mai perché eternamente gli altri la vedranno (“l’inferno sono gli altri”). Tuttavia le ultime righe del romanzo, come si vedrà, fanno pensare che nel proprio foro interiore il colpevole non si assolverà mai.
1. IL TITOLO è desunto dall’Ecclesiaste, e “… tempo di uccidere e tempo di sanare; tempo di … Eccl. III, 3” sono le parole in esergo al libro. Inizialmente però il titolo doveva essere “Il coccodrillo” e in effetti il coccodrillo è un elemento ricorrente nell’opera, prendendo anche la forma del drago infilzato dall’Arcangelo Gabriele nella pittura che il tenente scopre sulla porta della capanna che non a caso sceglie di abitare. Esso rappresenta certo il Male contrapposto al Bene, ma questo Male si configura come il pericolo che non vediamo ma temiamo incomba su di noi, come il coccodrillo acquattato nei fiumi africani, la paura dell’ignoto insomma, e l’uomo “civilizzato” non è capace di governare questa paura, e anzi la civiltà lo ha reso arrogante e ha indebolito la sua forza morale, irretendolo con sofismi.
2. L’AFRICA DI “TEMPO DI UCCIDERE”. Flaiano conosce l’Etiopia per esserci stato come soldato, e della sua esperienza militare io so solo quanto ne traspare in questo romanzo, e cioè che la guerra vi ha portato morte corruzione umiliazione. Su questo piano un passaggio significativo la testimonianza di un commilitone di colui che racconta, su quanto accadde una volta presumibilmente in un ospedale: “Erano briganti, disse, e il colonnello voleva ammazzarli tutti, anche i feriti. Occhio per occhio, diceva. E dove trovava un ferito, sparava. (…) Venne il dottore e disse: Ma se lei non gli spara alla testa, non conclude nulla con questa gente. Allora il colonnello cominciò a sparare al primo ferito che vide. Il cranio scoppiò e il colonnello si trovò imbrattato. Se l’avesse visto! Era su tutte le furie. Investì il dottore di insulti: Bei consigli mi dà, lei! urlava. Dovette andare a cambiarsi” (p. 81).
Tuttavia l’Africa di “Tempo di uccidere” non è soprattutto un luogo geografico né il teatro di eventi bellici, bensì la foresta delle fiabe e delle narrazioni mitiche, quel luogo in cui tutto è possibile, che con la sua alienità, mette alla prova l’uomo che vi si avventura. E qui l’alienità è data non solo e non tanto dalla selvatichezza della natura, ma dal fatto che vi abita un’umanità primigenia, che non conosce il peccato, i cui abitanti sono “antichi” come gli uomini dei tempi della Bibbia. E gli unici personaggi che hanno un nome si chiamano Mariam, Johannes ed Elias.
3. IL CAPITOLO I (il libro è articolato in 7 capitoli suddivisi in sottocapitoli) si intitola “LA SCORCIATOIA”, altro titolo cui Flaiano aveva pensato per questo suo romanzo. Il protagonista comincia qui a raccontare cosa gli occorse nell’ultimo mese e mezzo della sua permanenza in Africa,. Racconta ai tempi del passato, senza nulla dirci del suo presente né quanto questo presente sia lontano dalle vicende narrate.
All’epoca dei fatti egli è un giovane tenente dell’esercito italiano e da diciotto mesi (p. 12) si trova in Etiopia: siamo dunque fra il ‘35 e il ‘36. Ha ottenuto quattro giorni di licenza per raggiungere una città in cui gli potranno curare un dente malato, ma il suo camion si rovescia e poiché il successivo non passa prima del giorno dopo, si avventura per una scorciatoia che gli segnala un uomo dalla “singolare bellezza” (p. 11): “Il Cielo mi guardi dall’insinuare il sospetto che egli sia più di una semplice comparsa e che al suo intervento si debba quanto seguì” (p. 11). Di fatto l’ufficiale si smarrisce in una boscaglia dove anche marciscono i cadaveri di tre abissini scarnificati dai corvi: “non c’era più sentiero” (p.15) e “l’orologio s’era fermato” (p. 17) (il riferimento a Dante mi pare lecito).
Cápita in un “folto d’alberi verdi” dove ritrova la lettera della moglie (“Lei”) che non si era accorto di aver perduto quando evidentemente già era passato da lì : “Tra quei cari alberi ricominciava la vita e ogni cosa ripigliava la sua vera proporzione, anche la mia paura. Ripresi la corsa e lasciavo che le gambe si muovessero automaticamente, ma ancora dovetti fermarmi. Tra gli alberi c’era una donna che stava lavandosi” (p. 19). La bellezza (anche questa “singolare”) della giovane etiope evoca in lui un mondo primigenio di bellezza e di innocenza, intatto come ai tempi della creazione. La donna è nuda: “La guardavo e la purezza del suo sguardo rimaneva intatta” (p. 24); quando si riveste, gli appare “vestita ancora come le donne romane arrivate laggiù, o alle soglie del Sudan, al seguito dei cacciatori di leoni e dei proconsoli” (p. 24). Ed ecco il pensiero fatale: “Io cercavo la sapienza nei libri e lei la possedeva negli occhi, che mi guardavano da duemila anni (…) Fu questo pensiero, credo, che mi trattenne”(p. 25). Preso dalla febbre del desiderio, l’uomo costringe la donna a sedersi: “Mi respinse, quando la toccai, e fece il gesto di levarsi. S’era rabbuiata. La rimisi a sedere bruscamente (…) e lei mi respingeva con fermezza, ma il mio desiderio, così male espresso, non l’offendeva: non ne faceva una questione di belle maniere e di opportunità. Respingeva le mie mani perché così Eva aveva respinto le mani di Adamo, in una boscaglia simile a questa” (p. 25). Lui non capisce perché la giovane lo rifiuti benché lui le abbia offerto due monete d’argento e non sia sposata: “cominciavo a non capirci più (…) Forse, come tutti i soldati conquistatori di questo mondo, presumevo di conoscere la psicologia dei conquistati. Mi sentivo troppo diverso da loro, per ammettere che avessero altri pensieri oltre quelli suggeriti dalla più elementare natura. (…) Potevano vivere conoscendo solo cento parole. Da una parte il Bello e il Buono, dall’altra il Brutto e il cattivo. (…) Nei miei occhi c’erano duemila anni di più e lei lo sentiva. (…) La lotta continuò ancora, e avrebbe potuto continuare (…) e invece, com’era cominciata, così bruscamente finì: ma evitava di guardarmi”.
Dopo questa litote, il racconto prosegue così:“Qualcosa era nato in me che non sarebbe più morto. (…) Oppure avevo ritrovato qualcosa?”(p. 26-27). L’uomo si addormenta brevemente e nel sogno si dice, come fosse finalmente pacificato: “Esisteva qualcosa di diverso? Scendevo alla riva dell’affluente e il coccodrillo aveva l’aria di darmi il benvenuto, e scompariva come un tronco d’albero, lasciandomi felice di quell’accoglienza che mi assolveva” (p. 28). Al risveglio però il suo stato d’animo è mutato: “Dovevo andarmene (…) La donna si era fatta misera e il mio peccato insignificante” (p. 29); di nuovo le offre le due monete: “Non voleva nulla e, purtroppo, ne fui fiero” (p. 29), è però attratta dal suo orologio e lui glielo regala : “Era un orologio da quattro soldi … Quale migliore occasione per abbandonarlo?” (p.30). Dice, ripensando a quel desiderio infantile: “credo di essere arrivato a capire il perché di quella donna. Quel giorno, anzi in quelle ore, stava varcando la soglia della giovinezza, lasciandosi alle spalle l’adolescenza, e i suoi gesti prendevano dell’una e dell’altra età” (p. 30). Nell’affibbiarle l’orologio al polso, lui ha “la sgradevole sensazione di infilarle l’anello nuziale” (p. 31), e forse anche per lei quel dono è stato una sorta di promessa: “Quando vide che me ne andavo davvero, lanciò un grido che mi ferì le viscere” (p. 31), e allora “Ritornai verso gli alberi - continua -, lasciandomi condurre, e la cosa ricominciò. Di nuovo lo sgomento di cadere in quel fiume secolare, di nuovo la gioia di caderci e la certezza che era inutile uscirne” (p. 31). Si addormenta e al risveglio lei non c’è: “Il mio primo moto fu meschino, frugai lo zaino per vedere se avesse tolto qualcosa, e c’era tutto” (p. 31), però l’incapacità di sottrarsi al desiderio che prova per la giovane indigena suscita in lui quel sospetto, che lo accompagna in realtà in ogni sua relazione con gli altri, di essere oggetto di “un odioso disegno (…) Ma quale disegno?” (p. 32). Mentre lui esita, la giovane torna e gli porge “uova e un pane azimo (…) ancora caldo” (p. 32). Mentre mangia, lui la osserva, e ancora non si capacita di tanta bellezza, così diversa da quella tipica delle donne indigene, e volendo toccarle i capelli, cerca di toglierle il turbante che li copre, ma lei “respinse la mano bruscamente” (p. 33). Nel frattempo è calato il buio, impossibile rimettersi in cammino: “Ero in trappola”, dice (p. 34). Alla sua profferta di passare la notte nel suo villaggio lui pensa che “si fa presto a nascondere il cadavere di un ufficiale” (p. 35); davanti al suo rifiuto, la donna gli mostra allora un anfratto: “Era una proposta sciocca e mi ribellai: “Il ponte” ripetei più volte e ancora la spinsi, ma lei si liberò sorridendo” (p. 36). La giovane accende un piccolo fuoco che crea un’atmosfera di “intimità domestica” (p. 36); “Ormai dovevo rassegnarmi - dice - e aggiungerò che questa rassegnazione cominciava a piacermi troppo: dai modi della donna capivo infatti che sarebbe restata a tenermi compagnia” (p. 36). Si amano dunque nuovamente; dopo l’amore, però, il giovane cede alla paura dell’ignoto - qui è un rumore nella boscaglia notturna popolata di animali selvatici o forse di nemici - e spara nel buio: anche qua il caso (caso o destino?) vuole che la pallottola colpisca gravemente la donna e - questo è l’atto indicibile, irreparabile -, temendo che l’assassinio sia scoperto, lui la “finisce” per poterne nascondere il cadavere e con esso la propria colpa, anche a se stesso: “in fondo non l’avevo uccisa, le avevo impedito di soffrire più a lungo” (p.52). Cancella le tracce del delitto, in un crepaccio nasconde il cadavere, avendo avuto cura di togliere l’orologio dal polso, ricopre tutto di pietre; “recitai - dice - una breve preghiera” (p. 53) e infine si allontana, ritrovando quella scorciatoia che, per non averla lui vista, l’aveva condotto alla giovane indigena, che probabilmente si chiamava Mariam, poiché “tutte le Etiopi si chiamano così”.
Da questo momento il senso di una colpa sempre oscuramente sentita e mai pienamente assunta, simboleggiata dalla lebbra che teme di aver contratto dalla donna, che portava il turbante bianco dei malati di lebbra in quelle contrade, lo imprigiona in una spirale di azioni e pensieri contraddittori anche criminosi - il progetto di uccidere il dottore, il furto al maggiore, la pianificazione dell’uccisione di questi, il desiderio di uccidere il vecchio - finalizzati a sfuggire alle conseguenze delle sue azioni, però ... Però, per quanto ripetutamente egli si dica deciso a partire, a lasciare il luogo che è diventato la tomba di lei, sempre inesorabilmente vi ritorna per ragioni che in realtà sono pretesti.
4. CAPITOLO VI (il penultimo). Molto lentamente, senza che la coscienza e la volontà vi giochino un ruolo forse perché non si danno scorciatoie nella vita, qualcosa di simile ad una liberazione e ad una rinascita ha inizio quando infine egli smette i suoi tentativi sempre rinviati di partenza per stabilirsi vicino a quella tomba, nel villaggio distrutto (non è chiaro da chi) dove vivono ormai solo un mulo dimenticato dall’Esercito e il vecchio ascari Johannes, occupato a custodire il tumulo sotto il quale giacciono i suoi morti e a fabbricare dei pali (si saprà alla fine del capitolo a cosa devono servire). Tra i due uomini c’è un non detto che genera una segreta tensione, la quale sfocerà infine in uno scontro fisico: un giorno che la sua abituale compostezza è alterata dall’alcool, il vecchio colpisce l’ufficiale con violenza insospettata, come se cedesse ad un’esigenza a lungo trattenuta, e l’ufficiale lo colpisce a sua volta, acquisendo in quel momento la certezza improvvisa che Johannes è il padre di Mariam e del giovanissimo Elias, datosi a piccoli traffici con gli occupanti. Ferisce il vecchio, ma non lo uccide, nonostante ne sia tentato: “Dopo un’ora di simili snervanti meditazioni arrivai a un compromesso. Non l’avrei ucciso, ma minacciato soltanto”. “Restai - dice - e Johannes guarì in tre giorni, e in quei tre giorni si può dire che diventammo amici, o almeno questa fu la mia illusione” (p. 251). Il quarto giorno, “molto agitato (...) per l’attesa di Elias”, il tenente scende al fiume e qui ha l’impressione che un coccodrillo lo minacci, per cui scarica l’arma là dove vede il sommovimento dell’acqua, dopodiché si riavvia alla capanna, ora quasi sicuro di non voler partire: “Troppi processi mi attendevano, troppi processi e l’ospedale. E verrebbe Lei a visitarmi? (…) Oppure non verrebbe affatto? Una solitudine vale l’altra, insomma” (p. 253). Dal sentiero intravede però dei carabinieri preceduti da Elia, e subito, come sempre, pensa ad un tradimento e fugge. “Giunto sulla riva - racconta - saltai in groppa al mulo e lo spinsi in acqua. (…) non voleva saperne di entrare in acqua (…) Ora, sulla riva, non più lungo di cinque palmi c’era un coccodrillo. Era un coccodrillo giovanissimo (…) Ci guardava , lo guardavamo, e nessuno di noi tre si muoveva (…) Devo agire, ma come? Fu il coccodrillo stesso a suggerirmi, sollevando la testa. (…) La bestia ricevette quel terribile calcio sotto la mascella inferiore. (…) Se ne andava.” (p. 257-8). Arriva Elias: i carabinieri sono andati via - erano venuti perché attratti dai suoi spari di qualche ora prima - e lui può dunque tornare al villaggio. Racconta: “La mattina dopo, all’alba, mi accingevo a lasciare il villaggio (…) Quando salutai Johannes ero convinto che sarei partito, ma ...” (p. 259). Come sempre avviene qualcosa che lo trattiene o che orienta le sue azioni in una direzione diversa da quella annunciata: a Johannes offre del denaro (e anche qua le sue intenzioni, in cui sempre entra il calcolo, non sono univoche), ma Johannes gli fa capire che desidera piuttosto l’orologio che lui ha al polso, l’orologio che lui aveva donato a Mariam e tolto dal polso di lei prima di nasconderla nel crepaccio: “Gli occhi di Johannes non si staccavano dai miei e, più del mio pallore, dovette tradirmi il gesto istintivo che feci di nascondere l’orologio: quell’orologio che la donna tornando al villaggio aveva certo mostrato. Quando potei parlare, dissi: “Andiamo”. E lo lasciai solo davanti alla tomba di Mariam. Ed io non partii. Non partii perché aveva ammesso l’esistenza di Mariam (ormai ognuno di loro sa che l’altro sa) e ora avrebbe parlato di Mariam e avrebbe detto se la mia debole speranza era o no infondata. Quando, il giorno dopo (…) gli chiesi ciò che volevo sapere, il vecchio rispose. Gli mostrai le mie piaghe e allora scosse il capo. Le guardò a lungo. La sera stessa mi applicava il primo disgustoso impiastro sul ventre e sulla mano. Io lo ricevetti singhiozzando ma senza crederci, non era possibile, non poteva essere vero che sarei guarito. Singhiozzai al punto da restare stordito nella capanna (…) sino all’alba” (p. 259). Come prima l’ufficiale italiano ha “sanato” il vecchio, per dirla con Flaiano, ora il vecchio ha “sanato” l’ufficiale.
“La mattina del quarantunesimo giorno (sempre scandisce con precisione i tempi della sua “avventura”, quasi rendesse conto di un tempo lungamente meditato) presi la scorciatoia per l’altopiano, andavo a costituirmi. Inutile nascondersi ormai. Le piaghe stavano guarendo. (…) Passando davanti alla tomba di Mariam, vidi che era coperta da una tettoia di paglia. La sorreggevano i pali che il vecchio aveva tagliato con tanta ostinazione” (p. 260). Così finisce questo capitolo, e il lettore crede che qua si sia rivelato il senso della storia: il protagonista ha riconosciuto la sua colpa e desidera espiare, come in “Delitto e castigo” per esempio. E invece segue un ultimo capitolo che si è tentati di considerare del tutto avulso da quanto precede perché strutturalmente diverso, ma come sempre … “in cauda venenum”.
5. L’ULTIMO CAPITOLO. Il tenente scopre che nessuno lo cerca per giudicarlo e che può prepararsi alla partenza per l’Italia coi commilitoni. Ha raccontato la sua storia (quella che nel frattempo abbiamo letto?) ad un sottotenente suo amico e riporta la lunga conversazione con lui, nel corso della quale l’amico, invece di parlargli di colpa ed espiazione come lui si aspettava (p.261) analizza “i punti oscuri” della storia fino a disarticolare i fatti finché tutto svanisce nell’incertezza, e innanzitutto la colpa, anzi le colpe, del giovane tenente. “Come tutte le storie di questo mondo - gli dice l’amico -, anche la tua sfugge a un’indagine. (…) Come cavarne una morale? Eccoti diventato una persona saggia, da quel giovane superficiale che eri (…) Tacemmo. L’aver ucciso Mariam ora mi appariva un delitto indispensabile, ma non per le ragioni che me l’avevano suggerito. Più che un delitto, anzi, mi appariva una crisi, una malattia, che mi avrebbe difeso per sempre, rivelandomi a me stesso. Amavo, ora, la mia vittima, e potevo temere soltanto che mi abbandonasse”. Il “tempo di uccidere” è finito ed è ora “tempo di sanare”, secondo l’esergo al libro. E per guarire, meglio non conoscere con certezza le conseguenze delle proprie azioni: “I dubbi confortano, meglio tenerseli”, ossia, meglio l’incertezza circa moventi e conseguenze di ciò che si fa, dice il nostro all’amico che gli chiede se vuole verificare se il maggiore è morto a causa del dado tolto dalla gomma del camion (p. 272). E d’altra parte, “Il prossimo è troppo occupato coi propri delitti per accorgersi dei nostri” (p.273). “Se nessuno mi ha denunciato meglio così. Tuttavia non si ha diritto di essere tanto generosi”, dice il nostro, come se fosse dovere degli altri punire piuttosto che dovere del colpevole esporsi al castigo), e l’amico gli risponde: “ O prendere o lasciare”. Il nostro “prende”. Squilla infatti la tromba che chiama all’adunata in vista della partenza: “È una tromba abbastanza comica per il mio Giudizio, dissi, ma a ciascuno la sua tromba”. “Non farti illusioni, disse il sottotenente, non ci saranno altre trombe. Le uniche che udrai sono queste (…) Eppure, dissi, questa valle …” Ma non seguitai (inutile citare un autore, quando di un foglio del suo libro abbiamo fatto cartine per sigarette)” (p. 273). L’allusione è a Dio e alla Bibbia, delle cui pagine il tenente ha fatto cartine per sigarette.
6. MA QUAL È IL SENSO DI QUESTA STORIA? Ha condizionato la vita del protagonista? Poche cose sono certe in questo romanzo sospeso tra realtà percezione soggettiva e non detto, però alcuni elementi fanno pensare ad un suo cambiamento. Dell’uccisione di Mariam il protagonista dice: “ora mi appariva un delitto indispensabile (...) , anzi (...) una crisi, una malattia, che mi avrebbe difeso per sempre, rivelandomi a me stesso”, ma queste parole non sono risolutive perché i tempi verbali sono quelli del passato e non ci sono indizi sicuri che questo sentimento perduri nel presente. Più significativo, per quanto sibillino, mi sembra il passaggio seguente nella parte finale : “Non c’erano denunce. C’era soltanto una lettera di Lei, ma non l’ho ancora aperta. Comincio a credere che dovrò abbandonare il mio ultimo complice [Lei]. Per quel suo volto dei momenti gravi (sono le stesse parole che usa parlando di “Lei” a p. 48), ho ucciso la donna. (…) Dovrò lasciarla [Lei]. Credevo che la sua malinconia [di Lei] le venisse dall’esperienza del cuore e fosse meditatissima e sentita. Ora dovrò convincermi che in lei (ora con lettera iniziale minuscola ma non può essere che Lei) è soltanto una traspirazione organica, un alito freddo e fetido. Forse lo stesso fiato che mi angustiava un tempo, rammentandomi ciò che più temevo (forse che non c’era amore?). Se lei dovesse entrare in acqua senza spogliarsi (giacché Lei non è donna da entrare in acqua nuda), facendomi cenno di seguirla (come era avvenuto con Mariam), starei fermo sulla riva, incapace di accettare le leggi della sua ipocrita pazzia. (…) Il postino (…) non trovava la lettera. E io sentivo che, la trovasse o no, la cosa non aveva importanza. Non l’ho ancora aperta” (p. 262-3). In queste parole io leggo che “Lei”, cioè la casa, il luogo delle certezze, si sono rivelati vuoti simulacri di miti in cui in realtà lui non crede più.
Il romanzo si chiude con parole enigmatiche: “Camminavo accanto al sottotenente e di colpo sentii il suo profumo (di Mariam, il “gentile effluvio” che già più volte ha sentito senza spiegarsene la causa (...) Una pomata dal profumo delicato, infantile, (...) il caldo di quella valle faceva dolciastra, putrida di fiori lungamente marciti, un fiato velenoso. Affrettai il passo, ma la scia di quel fetore mi precedeva”. Gli altri non vedranno mai la colpa, ma lui sempre la sentirà?
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"ciò che io ho veduto, l’uomo non dovrebbe mai ved
I RACCONTI DI KOLYMA (O “DELLA KOLYMA”, visto che la Kolyma è una regione: la Siberia orientale, nell’estremo nord-est della Russia) di VARLAM SALAMOV (1907-1982).
Varlam Salamov comincia a redigere i “Racconti della Kolyma” dopo la morte di Stalin, avvenuta nel novembre ‘53, quando può infine lasciare la Siberia dove per motivi politici è stato costretto a lavori forzati fin dal 1937, e vi mette la parola fine nel 1973 (in Italia i Racconti vengono pubblicati nel 1976). Più o meno negli stessi anni Alexandr Solgenicyn scrive “Arcipelago gulag”, ma non avendolo letto, non posso fare un confronto fra le due opere.
La parola “RACCONTI” del titolo non inganni: si tratta infatti dei molti ricordi - ben circostanziati e per nulla costretti nella cornice di un racconto vero e proprio, che imporrebbe un finale prevedibile oppure al contrario un finale a sorpresa - degli interminabili anni (diciassette!) passati nei gulag della “terra della morte bianca”, regione paludosa grande quanto la Francia, come si legge in wikipedia, dove però nella brevissima estate “nugoli di zanzare si incollavano al viso” (p. 106, ne “Il mullah tataro e la vita all’aria aperta”, che può fare da introduzione all’opera). Quando Salamov vi è detenuto, la Siberia, che a quei tempi è soprattutto terra di giacimenti auriferi e di legname, è sempre il tratto finale dell’apparato digerente di quello sterminato paese che dal regime zarista passa senza soluzione di continuità al regime sovietico (a p. 110 un confronto tra le condizioni di vita nei campi di lavori forzati all’epoca zarista e a quella staliniana). Salamov si salva fondamentalmente perché riesce a farsi integrare nel personale infermieristico, e a ciò che succede nei reparti ospedalieri della Kolyma sono dedicati vari racconti, soprattutto dopo la metà del primo volume.
Lungo circa 1300 pagine Salamov testimonia “con quanto facilità l’uomo dimentica di essere un uomo” - per l’ennesima volta, come sappiamo - e lo fa senza nulla aggiungere in omaggio alla “letteratura”, tanto che inizialmente si può restare delusi di come termina un “racconto”: termina spesso in modo insignificante, o meglio “non significante”, proprio come le cose terminano nella vita reale. Oppure a volte prendono una direzione che porta altrove rispetto a quanto ci si aspetta come lettore di opere di finzione narrativa (sull’elaborazione dei racconti, vedi p. XIX). Riguardo alla lingua, Salamov si permette slanci di pur sobrio lirismo quando parla di paesaggi e animali (vedi per es. “La resurrezione del larice”); per il resto racconta fatti, nel modo più neutro e oggettivo possibile, solo lasciandosi talora sfuggire punte di amara ironia, e la materia del ricordo risulta vivida sia per l’acutezza con cui le situazioni vengono interpretate nella loro complessità concreta e psicologica, sia per l’ampiezza e la precisione della TESTIMONIANZA, confermate dalle note a piè di pagina dell’ediz. Einaudi : con nome e cognome di vittime e carnefici (che ricorrono in più Racconti).
Cosa caratterizza i GULAG? L’assoluta discrezionalità nell’esercizio del loro potere da parte dei funzionari di tutti i livelli, la durezza estrema delle condizioni di vita e di lavoro dei detenuti in un territorio non per caso disabitato, la violenza (tacitamente autorizzata dall’alto) dei malavitosi nei confronti dei detenuti politici all’interno delle baracche e delle squadre di lavoro. Su quest’ultimo aspetto già il primo “racconto”, “Sulla parola”, dice tutto quel che c’è da sapere: un uomo viene ucciso perché non vuole cedere al “capo” il suo maglione. “Ora dovevo cercarmi un altro socio per spaccare la legna”, così si chiude questo racconto: non c’è compassione dove la sopravvivenza è in gioco.
Innumerevoli in quest’opera imponente sono le pagine belle e particolarmente interessanti; ne ho scelto quattro dal volume primo (il secondo lo leggerò) per dare un’idea di come e cosa scrive Salamov.
1. Sul regime poliziesco dell’URSS, che perseguita soprattutto soprattutto quelli “dell’articolo 58”, cioè le persone accusate di “attività controrivoluzionaria”, per lo più degli intellettuali:
p. 326-7: “La vigilanza instancabilmente coltivata che aveva finito per trasformarsi in mania, quella di veder spie dappertutto, divenne la malattia di tutto il Paese. Si attribuiva a ogni sciocchezza, a ogni sproposito, a ogni lapsus un significato recondito e malvagio che esigeva di essere interpretato negli uffici dei giudici istruttori. A completamento del regime carcerario, era proibito recapitare ai detenuti sotto istruttoria pacchi di viveri e di vestiario. I saggi del mondo giuridico sostenevano che grazie a due pagnotte del tipo francese, cinque mele e un paio di pantaloni usati si poteva far arrivare in prigione qualunque messaggio, persino un brano dall’Anna Karenina. Questi “segnali da fuori” - che esistevano solo nel cervello infiammato degli zelanti servitori delle Istituzioni - furono assolutamente troncati. restavano solo le rimesse di denaro, per l’esattezza non più di cinquanta rubli al mese per detenuto. Le rimesse dii denaro dovevano essere in cifra tonda: dieci, venti , trenta, quaranta, cinquanta rubli; questo sempre per premunirsi contro l’eventuale invenzione di un nuovo “alfabeto” con segni speciali basati sugli spiccioli. (…) Resta solo da chiedersi perché l’amministrazione non si risolvesse a proibire del tutto gli aiuti di parenti o amici, pur sapendo che neanche una misura del genere avrebbe provocato proteste sia all’interno del carcere sia all’esterno, tra i “liberi”. Ai Russi non piace testimoniare in tribunale. In Russia, tradizionalmente, il testimone in un processo non si distingue molto dall’imputato e il fatto ch’egli abbia avuto comunque qualcosa a che fare con un caso giudiziario costituisce un precedente piuttosto negativo per l’avvenire. La situazione dei detenuti sotto istruttoria è ancora peggiore. Essi sono dei futuri condannati, poiché si ritiene che “la moglie di Cesare debba essere al di sopra di ogni sospetto” e che gli “organi” del ministero degli Interni non possano sbagliare. Nessuno viene arrestato per niente. La condanna non è che il seguito logico dell’arresto, ogni detenuto riceve la sua pena detentiva, che può essere lunga o breve – questo può dipendere sia dalla fortuna del detenuto, dalla sua “buona stella”, sia da tutta una combinazione di fattori, in cui rientrano a pari titolo le pulci che non hanno lasciato dormire l’inquirente la notte prima e quel tal voto al Congresso degli Stati Uniti. (…) il fatto di ricevere una condanna non significava affatto sfuggire all’azione permanente di tutti gli articoli del Codice penale. “
2. Sui detenuti politici
p. 344: “Tanto tempo prima, Krist, giovane diciannovenne, aveva subito la sua prima condanna. L’abnegazione, lo spirito di sacrificio, l’aspirazione non a condannare (questo “condannare” mi pare sia da interpretare nel senso di “criticare a prescindere”, un po’ come si fa oggi nei social) ma a fare ogni cosa con le proprie mani – tutto questo era sempre stato vivo nel suo spirito, insieme a un appassionato sentimento di insubordinazione agli ordini altrui, alla volontà altrui. Nel più profondo dell’anima, Krist aveva sempre desiderato misurarsi con l’uomo che era seduto dall’altra parte del tavolo, con il giudice istruttore, un desiderio alimentato dalla sua stessa infanzia, dalle letture fatte, dalle persone incontrate in giovinezza o di cui aveva sentito parlare. Di persone così in Russia ce n’erano molte, nella Russia dei libri perlomeno, nel pericoloso mondo dei libri.”
Salamov non doveva essere diverso da Krist.
3. Su … (non te lo dico)
Nel racconto In lend leasing è detta dapprima l’ammirazione dei detenuti di fronte alla potenza smagliante dei veicoli forniti dagli USA all’URSS nell’ambito del Lend-Lease Act, il piano “affitti e prestiti” con cui nel 1941 gli USA aiutarono l’URSS ad attrezzarsi tecnologicamente per la guerra:
p. 435 “Sempre in lend-leasing [oltre per es. al lubrificante solidol che, essendo dolce, venne ingurgitato dai detenuti come se fosse stato zucchero] arrivarono certi enormi Diamond neri da cinquanta tonnellate con rimorchi e bordi metallici e Studebaker da cinque tonnellate che affrontavano con facilità qualsiasi salita. Con quei camion veniva trasportato giorno e notte, lungo la rotabile di mille verste, il frumento americano ricevuto in lend-lease dentro certi bei sacchi di tela con l’aquila americana. (…) e arrivò così un trattore che portò alla nostra lingua una nuova parola: “bull-dozer”. (…) Nell’aria ghiacciata si udirono a lungo i sospiri e l’ansito del nuovo animale feroce americano. Il bulldozer tossiva nel gelo, sempre più arrabbiato, poi cominciò a sbuffare senza interruzione e sempre brontolando si lanciò risoluto in avanti, spianando le gobbe del terreno e superando con facilità i ceppi (…) Almeno trecento persone invidiavano con tutte le loro forze il detenuto al volante del trattore americano: Grin’ka Lebedev. Tra i detenuti c’erano trattoristi anche migliori di lui, ma erano tutti dei “cinquantotto”, dei “siglati” (…), mentre Grin’ka Lebedev era dentro per un reato “comune”: parricidio per l’esattezza. (…) Ormai non avremmo più dovuto trascinare per il pendio e accatastare a forza di braccia i tronchi di larice di Dauria pesanti come il piombo (…) Ma per quella sua prima uscita in terra kolymiana, in terra russa al bulldozer venne affidato un compito di tutt’altro genere. (…) adesso vidi e capii di cosa si trattava. E ringraziai Dio di avermi dato il tempo e la forza di essere testimone di tutto questo. (…) La tomba, una fossa comune di detenuti del ‘38, una fossa di pietra colma fino all’orlo di cadaveri non decomposti, aveva cominciato a franare. I morti strisciavano lentamente giù per il pendio, rivelando il segreto della Kolyma. Alla Kolyma i corpi vengono consegnati non alla terra, ma alla pietra. La pietra conserva e rivela i segreti. Ognuno dei nostri cari scomparsi alla Kolyma - tutti quelli fucilati, picchiati a morte, dissanguati dalla fame - ognuno di loro può essere identificato, anche dopo decenni. Alla Kolyma non c’erano camere a gas. I cadaveri aspettano dentro la pietra, nel gelo perenne.(…) Il bulldozer aveva ammucchiato tutti quei cadaveri irrigiditi dal gelo, migliaia di cadaveri, di corpi scheletriti. Tutto era immortale: le dita ricurve delle mani, le dita purulente dei piedi, i monconi delle congelazioni, la pelle secca grattata a sangue e il luccichio famelico degli occhi. Con il mio cervello tormentato, stanco cercavo di capire cosa ci facesse da quelle parti quell’immensa tomba comune. Non c’erano mai stati giacimenti auriferi in quella zona, almeno a mia memoria, eppure ero un veterano della Kolyma. Poi però considerai che in fondo conoscevo soltanto una piccolissima parte di quel mondo, accerchiato com’ero da zony di filo spinato con torrette di guardia, che richiamavano alla memoria modelli architettonici utilizzati per l’urbanistica di Mosca: le coperture piramidali ispirate alle tende. I grattacieli di Mosca sono torrette a guardia della popolazione cittadina, torrette per una città di detenuti. (…) Considerai che conoscevo soltanto un frammento di quel mondo, un’insignificante, piccola parte, e che a venti chilometri da dove mi trovavo ci poteva essere tanto l’izba di una spedizione di geologi in cerca di uranio quanto un giacimento d’oro con trentamila detenuti. Nelle pieghe delle montagne si potevano nascondere moltissime cose. (…) E poi ricordai (…) l’impetuosa fioritura estiva della tajga, che cerca di nascondere sotto l’erba e le foglie tutte le opere dell’uomo, buone o cattive che siano. E ricordai che l’erba è ancora più immemore dell’uomo. (…) Ma la pietra e il gelo perenne non dimenticheranno. (…) Il lavoro era terminato. Il bulldozer ammucchiiò sulla nuova fossa un mucchio di sassi e ghiaia, e i cadaveri tornarono a nascondersi sotto la pietra. ma non scomparvero. (…) Il bulldozer ci passò accanto rombando – sulla sua lama a specchio non c’era un solo graffio, neanche una chiazza.” Fine del racconto.
4. Pensando a ... dopo.
“Mi piacerebbe andar via di qua, s’intende, ma in prigione. Non scherzo. In questo momento non vorrei tornare in famiglia. Loro non capirebbero mai, non potrebbero capire. Ciò che a loro pare importante, so che non vale nulla. Quel che è importante per me - quel poco che mi è rimasto – loro non possono né comprenderlo né sentirlo. (…) ciò che io ho veduto, l’uomo non dovrebbe mai vederlo e neppure saperlo” (p. 463)
Indicazioni utili

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"il pozzo senza fondo del tempo"
LA VALLE DELLE DONNE LUPO, DI LAURA PARIANI (2011, Einaudi). Ispirandosi forse al romanzo “La chiave a stella” di Primo Levi, piemontese come lei, in cui il personaggio stesso si racconta al suo interlocutore-scrittore che ne trascrive le parole così come vengono dette, Laura Pariani immagina che una ricercatrice voglia scrivere un libro su “le tradizioni, le leggende della montagna, le storie di una volta ...” (p. 9) e che per raccogliere materiali metta per iscritto così come vengono raccontati i ricordi de “la Fenisia”, ultima abitante del “Paese Piccolo”, sperduto paese di montagna, che tutti gli altri hanno lasciato per stabilirsi nel “Paese Grande”, giù in pianura. Che il contesto geografico sia il Piemonte si desume solo dal dialetto della Fenisia, perché c’è un unico riferimento esplicito alla regione (p. 55 la testardaggine delle piemontesi). Attraverso il racconto orale dell’anziana donna (classe 1928), infarcito di dialettismi, espressioni idiomatiche locali e massime della cosiddetta saggezza popolare, noi lettori apprendiamo sì la storia della Fenisia e di tutti quelli che fecero parte della sua vita, ma anche ci rendiamo conto di come i fatti nazionali furono percepiti in questi angoli remoti : il fascismo la guerra la resistenza, e poi lo sviluppo industriale, l’urbanizzazione, l’automobile per tutti, abitudini nuove come la villeggiatura, su su fino ai telefonini ... Queste ultime cose però - che consideriamo “la modernità” - si presentano come un’eco sempre più lontana nelle parole della Fenisia, man mano che lei avanza sul cammino della vita. In realtà il vissuto che via via in queste pagine risuscita vivido, vuole essere essenzialmente quello di tutte le comunità rurali che fino al dopoguerra vissero prevalentemente nel chiuso e nella povertà delle loro valli di montagna, solo sfiorate dal progresso tecnico e culturale, società segnate dalla sopraffazione atavica degli uomini nei confronti delle donne, che trovava giustificazione nelle costanti esortazioni dei preti alle donne a sottomettersi e ad accettare “le prove” di Dio. Alcune donne tuttavia non sopportavano supinamente il giogo della violenza maschile: sono “le balenghe”, o donne lupo, come le chiama la Fenisia, riconoscendosi in tutta quella schiera di donne che furono emarginate perché più o meno indocili persino dopo la morte, quando vengono sepolte in terra sconsacrata, nel “prato delle balenghe”. Come lei stessa per esempio, nata cresciuta e poi tornata nella casetta vicino al cimitero del padre beccamorti ad occuparsi anche lei dei “non-più-vivi”, conoscitrice delle erbe e per giunta rossa di capelli, insomma un po’ strega … O come sua cugina “la Ghisa”, che piccolina aveva vissuto per alcuni mesi nella tana di una lupa e che all’ennesimo pugno del padre aveva afferrato le forbici per ucciderlo. E che da lui venne fatta internare in manicomio, da cui uscì infine solo grazie alla legge Basaglia (1978). O come anche “la Tiresia”che si impiccò.
Come non pensare alla consonanza di questo romanzo con quello di un altro piemontese, l’autore de La chimera Sebastiano Vassalli? Una linea diretta collega Antonia “la stria” di Zardino, nella campagna novarese, arsa sul rogo nel 1610, e le “balenghe” della Pariani: tutte vittime dell’atteggiamento prevaricatore degli uomini rispetto alle donne, del maschilismo della Chiesa che nella donna vede il diavolo tentatore (a p. 149 c’è forse un riferimento preciso all’Antonia di Vassalli). Altri fili che collegano le due opere sono la descrizione delle condizioni di lavoro nelle risaie, la sempiterna tentazione dei gruppi sociali di scaricare livori su un capro espiatorio, la lontananza delle istituzioni (la Chiesa, la scuola, lo Stato) dal ceti più poveri … Insomma, a me sembra che l’ ambiente e la mentalità che la Pariani ricrea giungano quasi intatti dai tempi dei roghi delle streghe che racconta Vassalli fino agli anni in cui “il Paese Piccolo” si spopola man mano che gli stabilimenti industriali invadono la pianura, mentre la Privativa diventa un bar e poi un bar col juke box e la televisione. Come se in fondo il Medio Evo fosse morto solo allora nelle valli e nelle montagne. Un altro filo lega i due romanzi, più sottile ma forse il più tenace: lo svanire di ogni cosa nel “pozzo senza fondo del tempo” (p. 125), il tempo della vita e il tempo della storia. Di cui il simbolo più pregnante è la familiarità della Fenisia con la morte, plasticamente rappresentata dalla foto di lei sull’uscio della casa sormontato da una danza macabra: “Un inferno di ingordi che si spulciano nel letamaio, dame riccamente vestite che contemplano nello secchio un viso verminoso, diavoli che strappano occhi e stritolano ossa; eppoi serpenti, scorpioni, ratti; e, sopra il carname dei dannati, la grande ranza del Falciatore ossuto, piantato a gambe divaricate sullo sfacelo del mondo” (p. 161)
fine
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i tempi delle streghe non finiscono mai
LA CHIMERA, DI SEBASTIANO VASSALLI (1990). E’ il primo libro di Vassalli che leggo e mi ha conquistato fin dalle prime righe, non solo perché amo i romanzi storici “seri”, quelli scritti sulla base di una solida documentazione, ma anche perché la prosa di Vassalli è per me tra le più belle e più limpide che io conosca della letteratura italiana. Il suo periodare ha un ritmo regolare come il respiro: calmo, con le pause giuste, così da trattenere il pensiero e l’immaginazione abbastanza a lungo perché accompagnino le parole. Con questa sintassi sciolta e un lessico ricco senza essere prezioso Vassalli racconta la storia di Antonia, giovane donna che nel 1610, a 20 anni di età, fu arsa viva a Zardino, un piccolo borgo poi scomparso vicino a Novara. Di un fatto storico preciso si tratta dunque, ricostituito in tutte le sue sfaccettature grazie ad un lavoro di archivio molto attento e ad un’immaginazione che è solo del genio, la quale colma la distanza tra il documento d’archivio e la vita vissuta. L’esattezza e la vividezza della ricostituzione storica, che nulla hanno da invidiare a quelle per esempio dei romanzi di Zola, non esauriscono però la bellezza del romanzo. Personaggi e avvenimenti sono collocati nello spazio (la campagna novarese) e nella storia vera e propria (quella a cavallo tra ‘500 e ‘600) ma anche nell’ampia prospettiva di un tempo … senza tempo, in cui le cose cominciano, producono rumore e svaniscono: chimere! ombre! cose che hanno la consistenza dei sogni, per quanto grande sia stata la sofferenza di chi queste cose le visse. E’ a causa di questa prospettiva temporale talmente ampia da diventare intemporale (è un gallicismo di mia invenzione :), che fin dalle prime righe ho sentito agire la stessa suggestione, lo stesso fascino, di un altro grande romanzo storico: Memorie di Adriano, della belga Marguerite Yourcenar. Quando Vassalli e Yourcenar raccontano, si è come proiettati sul palcoscenico dell’eternità, perchè il passato ci mostra in forma stilizzata e perciò più visibile\\\\ che il presente di chi visse non è diverso dal presente di chi vive oggi, per quanto cambino i paesaggi e le forme esteriori del vivere. Scrive infatti Vassalli alla fine della Premessa, il cui sottotitolo è “Il nulla”: “ Il presente è rumore: milioni, miliardi di voci che gridano, tutte insieme in tutte le lingue e cercando di sopraffarsi l’una con l’altra, la parola “io”? Io, io, io ...Per cercare le chiavi del presente, e per capirlo, bisogna uscire dal rumore: andare in fondo alla notte (con riferimento al titolo di Céline?), o in fondo al nulla; (…) Nel villaggio fantasma di Zardino, nella storia di Antonia. E così ho fatto.”
Ora, “Il nulla” è anche il sottotitolo del “Congedo”, alla fine di un romanzo che si conclude con la descrizione della grande atroce festa che si tenne in occasione del rogo in cui Antonia venne bruciata in nome di Dio: finalmente la pioggia sarebbe tornata e la morte non avrebbe rapito bambini! In nome di Dio. Ultimo capoverso del libro. “Tutto finito?” Tutto finito, sissignore. O forse no. Forse c’è ancora da rendere conto di un personaggio di questa storia, in nome del quale molte cose si si dissero e molte altre si compirono, e che in quel nulla fuori dalla mia finestra, è assente come è assente ovunque, o forse è lui stesso il nulla, chi può dirlo! E’ lui l’eco di tutto il nostro vano gridare, il vago riflesso d’una nostra immagine che molti, anche tra i viventi di quest’epoca, sentono il bisogno di proiettare là dove tutto è buio, per attenuare la paura che hanno del buio. Colui che conosce il prima e il dopo e le ragioni del tutto e però purtroppo non può dircele per quest’unico motivo, così futile! : che non esiste. Non meno di tutto ciò che l’uomo fa, anche Dio è una “chimera”: è la chimera con cui esorcizziamo la paura “del buio”. Cosa poi sia “il buio”, cambia certo aspetto da uomo a uomo e a seconda delle epoche: per il contadino contemporaneo di Antonia è la precarietà della vita, per il devotissimo vescovo Bascapé, discepolo di Carlo Borromeo, è il Diavolo, però insieme, contadini e preti, immolano Antonia per ristabilire il Bene. Perché proprio intorno ad Antonia si coagula la “paura del buio” in quella precisa situazione? Perché Antonia è un’orfana, è bella ed ha carattere, come si desume molto chiaramente da quanto Vassalli trascrive delle sue dichiarazioni agli inquisitori. E come si coagula l’odio intorno a lei? Do la voce a Vassalli, che lo dice molto bene: “All’inizio del ‘600 (…) le voci nascevano per intero dalle ossessioni e dai livori di chi lle metteva in circolazione e si diffondevano in un solo modo, da bocca a orecchio; ma il risultato finale non aveva poi niente da invidiare a quello di oggi, perché quelle voci passavano con grandissima rapidità da una stalla all’altra intrecciandosi con altre voci d’altre stalle, d’altri villaggi, d’altri inverni: formavano un tessuto inestricabile di menzogne e di mezze verità, un delirio verbale di tutti contro tutti che finiva sempre per sovrapporsi alla realtà, condizionandola, nascondendola, determinandone sviluppi imprevedibili; fino a diventare , esso stesso, la realtà” (p. 73, Ed. Einaudi)
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Trionfo della follia
AUTO DA Fè, di ELIAS CANETTI.
E’ L’UNICO ROMANZO SCRITTO DA CANETTI, essendo questi fondamentalmente un pensatore, peraltro estremamente eclettico, che studiò molteplici ambiti - dalla chimica alle religioni agli insetti -, alla ricerca costante, se non ossessiva, di ciò che egli chiama “massa”, di cui tratta nella sua opera principale: Massa e potere (1960). Ora, nella postfazione contenuta nell’edizione Adelphi di Auto da fé nonché in uno degli ultimi capitoli del romanzo stesso (p. 447), per “massa” lui intende - mi è sembrato di capire - la parte primigenia della specie (animale) umana, che emerge per esempio nelle situazioni rivoluzionarie. E lui Canetti ne visse una a Vienna da giovane, nel 1927, che lo marcò in modo determinante, come sempre spiega nella postfazione: l’insurrezione operaia, repressa nel sangue, nel corso della quale venne incendiato il Palazzo di Giustizia e a cui lui partecipò: “la massa mi assorbì in sé completamente, non avvertivo in me la benché minima resistenza contro ciò che la massa faceva”. Ora, il romanzo di Canetti, di famiglia ebraica oltre che socialista, esce nel ‘35, cioè due anni dopo i roghi di libri (Bücherverbrennungen) del ‘33 da parte dei nazisti in Germania (e l’auto da fé del titolo è il rogo di libri nel quale il suo protagonista si lascia uccidere dalle fiamme) e tre anni prima dell’annessione dell’Austria al Reich (marzo ‘38). Insomma, prima di leggere il romanzo mi aspettavo che ci potesse essere qualche allusione al nazismo, e invece no.
QUAL È LA TRAMA DI QUESTO ROMANZO MAGMATICO? Essa consiste essenzialmente nel susseguirsi degli equivoci che portano il sinologo Peter Kien prima a sposarsi con una megera e infine, dopo una serie di situazioni "cocasses", a dare fuoco a sé e ai suoi libri. Attenzione però! Questo finale non rappresenta la sconfitta della cultura o dello spirito in un mondo dominato dall'egoismo, perché fin dalle primissime pagine Canetti mostra bene come l'eruditissimo Peter Kien sia, rispetto alla realtà, del tutto incapace di interpretarla correttamente, e pure ingeneroso (vedi la scena iniziale col bambino). Ora Canetti dice nella postfazione di essere interessato alla follia, che - sempre se non ho capito male - è l’emersione della “massa”, cioè di quella parte dell’uomo che non si è liquefatta nella civilizzazione e che rende l’individuo unico, sottraendolo all’omologazione. Il suo progetto iniziale d'altra parte - scrive nel capitolo che segue il romanzo nell'edizione Adelphi- era di scrivere una “Commedia umana dei pazzi” (con riferimento alla Commedia umana di Balzac, che a sua volta si contrappone alla Divina Commedia di Dante). Ed effettivamente nel suo universo la follia trionfa perché tutti i personaggi sono dominati da un’idea fissa, la quale è la sola lente attraverso la quale essi leggono la realtà (spesso sembra già il mondo di certe farneticazioni social ...), perché in quest’universo non c’è spazio per alcun sentimento di bontà - e anche questo tradisce la realtà, credo - e perché, infine, la misoginia di Canetti va al di là di qualunque ragionevolezza (vedi soprattutto il dialogo tra il protagonista e suo fratello Georg lo psichiatra). Un personaggio "positivo" nella misura in cui è "normale" (non farnetica e interpreta per lo più correttamente i fatti e le intenzioni degli altri) nel romanzo c'è, ed è appunto lo psichiatra Georg Kien, il fratello di Peter, che è affascinato dalla follia dei suoi pazienti e che nonostante tutta la sua sagacia non riesce a prevedere e prevenire la decisione finale del fratello.
QUAL È IL SENSO DEL ROMANZO? Tenuto conto di come vi è rappresentata l'umanità e tenuto conto del finale, non riesco a interpretarlo che come l'espressione di un tragico “cupio dissolvi”, di un diluvio universale che spazzi via l'umanità e forse la purifichi col fuoco. Neanche Balzac aveva dipinto l’umanità con tinte più fosche, giacché nella sua rappresentazione del mondo c'è ancora spazio per l'idealismo e persino per l'ingenuità. Per come Canetti rappresenta gli uomini - avidi brutali di assoluta malafede del tutto incapaci di senso morale, ma anche e soprattutto incapaci di capire le intenzioni degli altri, stupidi insomma - a me sembra che lo scrittore più vicino a lui sia il contemporaneo Céline, il cui Voyage au bout de la nuit è del 1932. Quanto allo stile, Canetti come Céline fa scomparire l’autore dietro il personaggio: il lettore non conosce tanto i fatti, quanto la percezione, regolarmente distorta come dicevo più sopra, che ne hanno i personaggi. Per quanto riguarda la lingua, però, Canetti è più trasgressivo di Céline (che “trascrive” i pensieri del suo Bardamu così come essi affiorano nella mente), più influenzato dal gusto surrealista Dada e dal teatro dell’assurdo, che destrutturano i personaggi e il linguaggio, non perseguendo più innanzitutto la verosimiglianza. Insomma i personaggi di Canetti sono grotteschi come quelli del suo amico pittore Grosz o come quelli di Ionesco e di Beckett.
Quanto al sentire del lettore, per quanto il romanzo sia eccessivo, ridondante, feroce, volutamente sgradevole, è molto difficile non riconoscere nei mostri di Canetti – Therese, il nano gobbo, il portinaio, lo studioso Kien ecc. - qualcosa di noi stessi, per cui questo romanzo, così come tutti i grandi classici, può essere altamente edificante per chiunque non abbia un pregiudizio positivo nei propri confronti.
Ci sono però delle cose che non mi spiego e su cui sarei grata che mi si desse qualche ragguaglio:
1. come mai Canetti non fa nessun cenno al nazismo? a meno di non voler considerare come denuncia indiretta della Germania nazista e in generale di molta Europa del Ventennio la sua rappresentazione così disperante dell’umanità (sorta di cupido dissolvi?), il che però è prenderla un po’ alla larga e poi comunque uno dei suoi mostri è il nano gobbo dal naso adunco ... che è ebreo! ;
2. in mezzo a tanti pazzi come si spiega la presenza di Georg lo psichiatra? C'è dunque spazio per la "normalità " nell'inferno di Canetti?
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la liberazione negata
LA PELLE, DI CURZIO MALAPARTE (1898-1957), pubblicato dapprima in Francia in francese nel 1949 e alcuni mesi dopo in italiano in Italia.
NOTE SULL’AUTORE. Malaparte è stato uno scrittore e giornalista molto famoso (e chiacchierato) in Italia quando era in vita, ma è oggi molto più noto e apprezzato in Francia che in Italia, tant’è che nella pagina a lui dedicata in wikipedia.fr egli è definito come “uno dei più importanti prosatori della letteratura italiana del ‘900”. Avendo letto di lui “La pelle” e “Kaputt”, le sue opere oggi più note, nonché la sua biografia scritta da Giordano Bruno Guerri (fuori catalogo ma reperibile nelle biblioteche) mi sembra che il romanzo più interessante e intrigante di Malaparte sia … la sua vita, che risente di tutte, proprie tutte, le esperienze politiche e culturali dall’inizio del ‘900 all’anno della sua morte, il ‘57. Se ci si pone fuori da un conformismo culturale che impone di o condannare o lodare gli uomini che vissero in un’epoca in cui nessuno poté sottrarsi alla scelta fra l’adesione a un movimento di massa e la solitudine, Malaparte - come uno stendhaliano Julien Sorel novecentesco - impersonerà, certo non sempre suscitando simpatia a causa del suo egotismo, la complessità della storia.
CONTESTO DI VITA CHE FA DA SFONDO AL ROMANZO. Quando il 25 luglio del ‘43 Mussolini è arrestato e il re Vittorio Emanuele insedia al governo il generale Badoglio, CM rientra dalla Scandinavia dove si trova da più di un anno al seguito delle truppe italo-tedesche come “ufficiale comandato” (e infatti mantiene la divisa di capitano degli Alpini) alle dipendenze dell’ufficio stampa dello Stato Maggiore, e varie pagine de La pelle si riferiscono a episodi da lui vissuti nell’Europa del Nord e dell’Est. Al secondo breve arresto per i suoi trascorsi fascisti viene liberato grazie all’intervento dell’amico Henry Cumming, il colonnello statunitense al quale dedicherà “La pelle”, in cui egli è rappresentato dal colonnello Jack Hamilton. In cambio deve però arruolarsi come ufficiale di collegamento col Corpo Italiano di Liberazione al seguito dell’esercito alleato. Così, dopo un periodo di stanza, allo sfondamento del fronte a Cassino nel maggio ‘44 lascia Napoli con le truppe americane e con esse risale fino a Firenze. Nel romanzo egli segue l’avanzata degli Alleati fino a Milano, la Milano di piazzale Loreto, ma in realtà, una volta a Firenze, egli resterà a Livorno, sempre alle dipendenze di Cumming, per un anno e mezzo.
IL TITOLO. Inizialmente il romanzo doveva intitolarsi La peste, ma siccome Camus ha appena pubblicato il suo La peste, CM sceglie il titolo “La pelle” per motivi cui allude lui stesso in due pagine dell’opera: è per “salvare la pelle” che gli Italiani liberati dal giogo nazifascista si ammalano di peste, ovviamente peste morale (e “La peste” si intitola il primo capitolo), quella che li spinge a prostituire se stessi e finanche i figli per approfittare del denaro dei soldati americani.
CONTENUTO (il numero di pagina si riferisce all’edizione Oscar Mondadori). “La pelle” racconta alla prima persona il soggiorno a Napoli e poi l’avanzata a Roma a Firenze a Milano (dove arriva quando il cadavere di Mussolini è ancora esposto in piazzale Loreto) e infine di nuovo a Napoli, al seguito degli Alleati fra il ‘43 e il ‘44.
In questa narrazione non bisogna tanto cercare la verosimiglianza realistica quanto il racconto di un’immaginazione visionaria che non comporta obbligo di coerenza logica. Ogni capitolo racconta un’avventura, se così si può dire, che talora ne richiama alla memoria una analoga vissuta precedentemente. Spesso CM comincia con qualcosa come “Ero lì con … e facevo questo o quest’altro”, poi continua dicendo che si reca con uno o due suoi amici americani in un certo luogo, dove si affacciano su una stanza, dopodichè assistono o partecipano a qualcosa di molto singolare e a vario titolo disturbante che dà origine al titolo (per esempio la “figliata” che prepara l’orgia finale tra omosessuali, o il seppellimento di un ucraino ridotto da un carro armato a una pelle che può essere montata su un bastone e far da bandiera o quella del banchetto in cui viene servito un pesce che sembra una bambina). Anche il finale è “disturbante”: in una Napoli più pagana che cristiana il Vesuvio ha eruttato e si è spento, e i Napoletani vorrebbero resuscitare quel “dio morto” con processioni e invocazioni. “Eravamo sulla vetta di un vulcano spento. - scrive CM - Il fuoco … s’era spento … e ora a poco a poco la terra si raffreddava ... Non v’erano che uomini vivi e uomini morti, sulla terra. Tutto il resto non contava. Tutto il resto non era che paura, disperazione, pentimento, odio, rancore, perdono, speranza … Quella città laggiù … era popolata non già d’innocenti e di colpevoli, di vincitori e di vinti, ma d’uomini vivi vaganti in cerca di che sfamarsi, d’uomini morti sepolti sotto le macerie delle case” (p. 324). Ecco, in fondo al viaggio dei vincitori fra i vinti non c’è una terra promessa, ma una terra ricondotta alla realtà più elementare: la necessità di ricominciare a vivere.
L’ATTEGGIAMENTO DI MALAPARTE RISPETTO ALLA LIBERAZIONE. Colpito da un “bando morale” a causa dei suoi trascorsi fascisti e quindi filo-tedeschi, Malaparte sente da una parte il bisogno di far conoscere la sua partecipazione agli eventi bellici al fianco degli Americani, di enfatizzare la sua ammirazione per loro e di aumentare a dismisura il periodo del suo confino a Lipari, dall’altra parte il bisogno di ridimensionare il sentimento di vittoria degli Italiani. Come? Rappresentando la Resistenza nel cap. “Il processo” in cui un partigiano fucila a sangue freddo i giovani fascisti sulla scalinata di Santa Maria Novella; additando i tanti “eroi di domani” che hanno aspettano prudentemente nascosti il momento di uscire dalle cantine per gridare “Viva la libertà!” (p. 304 e 307); soprattutto, negando la “liberazione” e parlando piuttosto di “vincitori” e “vinti”. Per quanto riguarda i “vincitori”, che sono i soli Americani, da un lato CM tesse innumerevoli altissime lodi dei soldati americani, “morti inutilmente per la libertà dell’Europa”, dall’altra li rappresenta come coloro che pur involontariamente provocano la peste morale dei “vinti”, rappresentati fondamentalmente dai Napoletani, meritevoli di compassione perché da sempre dalla fame abituati a prostituirsi, ma anche altri: gli ebrei crocifissi agli alberi in Ucraina, l’ucraino ridotto a una bandiera di pelle, il suo povero cane Febo (per fortuna non fa affatto la fine che CM racconta), l’ex-fascista “il Magi” e Mussolini, metaforicamente rappresentato dall’enorme feto (sì, “feto”) della parte finale, espressamente onirica, del penultimo capitolo (“Il processo”). Di Mussolini CM scrive: “al pensiero che quell’uomo, un tempo così superbo e glorioso, ... se talvolta, nella mia cella di Regina Coeli o sulla riva solitaria di Lipari … m’ero compiaciuto di maledirlo … come fa l’amante con la donna che l’ha tradito, ora ch’era lì, feto nudo e schifoso, … arrossivo di rider di lui… io pure, per molti anni, prima di ribellarmi alla sua stupida tirannia, avevo come tutti gli altri piegato la schiena sotto il peso della sua carne trionfante ” (p. 315-316).
GIUDIZIO PERSONALE. Come probabilmente si è intuito leggendo quanto precede, Malaparte vuole colpire, e per colpire è disposto a menar fendenti. La sua musa è piuttosto quella del visionario Peter Brueghel di “Margherita la pazza” piuttosto che quella di Filippo Lippi che pur dice di amare, e da questo punto di vista tra le pagine più significative segnalo quelle della “figliata” (nel cap. “Le rose di carne”). Accanto alle molte pagine degne per esempio del teatro della crudeltà o degli spettacoli di Cocteau o del cinema di Bunuel o degli espressionisti tedeschi, CM intermezza descrizioni paesaggistiche molto belle, per quanto disseminate di troppi aggettivi relativi al colore e dissemina le sue pagine di così tanti elementi apparentemente realistici che si è continuamente sollecitati a verificarne la veridicità, per cui la lettura può esserne tanto più stimolante benchè più lenta. Segnalo qui di seguito le cose che mi hanno urtato:
1. alcune false citazioni (molte di versi poetici), soprattutto quella dell’ordine di Badoglio dell’8 settembre del ‘43 (p. 52);
2. i dialoghi inverosimili, che vorrebbero essere profondi o suggestivi, ma che a me suonano semplicemente sconclusionati e quindi noiosi;
3. “tutto sulle sue labbra diventava pretesto a pettegolezzo” (p. 131): a CM ben si applica quel che lui scrive a proposito di un suo personaggio: poiché CM parla e sparla di molte importanti personalità di cui sottace il nome, con l’intenzione abbastanza scoperta a mio avviso di suscitare la curiosità pettegola dei lettori contemporanei;
4. il fatto che CM menta spudoratamente sulla durata del suo confino a Lipari: a p. 155-156 parla di “anni d’esilio”, quando a Lipari c’è rimasto dal nov. ‘33 al giugno ‘341;
5. l’istrionismo di un uomo certo molto colto, intelligente, brillante, che però lascia perplessi per come mette in scena se stesso: la sua cultura classica e artistica, la sua conoscenza anche delle forme popolari della cultura italiana, il suo multilinguismo, la sua stupenda casa di Capri e la villa di Forte dei Marmi, le sue conoscenze altissimamente locate, la sua partecipazione attiva ai fatti d’arme al seguito di importanti graduati americani …;
5. il suo modo di rappresentare la plebe napoletana - e Napoli non gliel’ha perdonato - , verso la quale pronuncia parole di grande compassione (sì, compassione), ma che rappresenta sempre come più prossima al mondo animale che a quello umano (per es. regolarmente parla di “suoni gutturali” quando parla delle voci), dall’alto di un’aristocraticità che tradisce una sua fondamentale nostalgia per una società Ancien Régime in cui i signori proteggano il popolino, oltre che i migliori letterati e artisti, e il popolino si faccia proteggere dai signori;
6. il sarcasmo feroce sugli omosessuali (solo gli uomini peraltro), che per lui sono tutti colpevolmente marxisti / comunisti e pederasti, arrivando a scrivere per es. che “la corruzione dei costumi, nella gioventù europea, aveva preceduto, non seguito la guerra … Già molto prima dei dolorosi avvenimenti del 1939 era parso che la gioventù europea ... fosse vittima di un piano … diretto con freddo calcolo da una cinica mente ... Quella cert’aria equivoca nei modi, negli atteggiamenti, nei detti, nel tono delle amicizie, nella promiscuità sociale fra giovani borghesi e giovani operai … erano fenomeni già dolorosamente noti molto prima della guerra, specie in Italia (dove, in certi circoli di giovani intellettuali e artisti, massime pittori e poeti, si faceva della pederastia credendo di fare del comunismo) … Ciò che sopra tutto mi sorprendeva era il fatto che tale corruzione dei costumi giovanili ... avvenisse col pretesto del comunismo … E m’ero già più volte domandato … se ciò avvenisse spontaneamente … o non piuttosto in conseguenza di una sottile, cinica, perversa propaganda condotta di lontano, e mirante a dissolvere il tessuto sociale europeo, in previsione di ciò che gli spiriti deboli del nostro tempo salutano come la grande rivoluzione dell’età moderna.” (p. 125-126);
7. Parlando dei soldati americani di colore, mai una volta che dica “neri”, ma sempre “negri”, e questi “negri” sono sempre bestialmente sensuali e poco intelligenti; quanto ai soldati americani bianchi, CM mette in scena praticamente solo gli alti ufficiali che lui frequenta, tra i quali “Jack”, cioè Cumming Hamilton, che recita Omero in esametri greci, mentre i soldati semplici sono sempre evocati in modo indifferenziato come nella dedica: “i bravi, i buoni, gli onesti soldati americani, miei compagni d’arme dal 1943 al 1945, morti inutilmente per la libertà dell’Europa” (sì, scrive proprio “inutilmente” (e spiega il senso di questa parola, in modo molto poco chiaro secondo me, nel documento III a p. 331, stralcio del “diario segreto” scritto durante il 1944).
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la Russia zarista all'epoca di Dostoevskij
IL GIARDINO DEI COSACCHI DELL’OLANDESE JAN BROKKEN (ed. Iperborea, 2016). L’illusione di un libro di memorie autentico è perfetta: sembra davvero di leggere i ricordi del barone Alexander Igorovic von Wrangel relativi alla sua amicizia con Fedor Dostoevskij, di dieci anni più anziano (F. D. nasce nel 1821), che frequenta assiduamente dal 1854, quando sceglie per il suo primo incarico di magistrato (ha solo 22 anni!) una città della Siberia dove lo scrittore già soggiorna.
COME NASCE QUESTO LIBRO? Come si legge a p. 387, nella sezione Ringraziamenti, nel suo ANIME BALTICHE (2014) l’autore del Giardino aveva fatto fra gli altri il ritratto della nobile baltico-tedesca Anna-Liselotte von Wrangel: da lei era poi risalito al barone Alexander di cui Anna Liselotte era pronipote, del quale legge diari lettere e altri scritti personali. Anche Il giardino dei cosacchi mostra bene che Brokken ama ricostruire storie vere e ambienti storici ed è affascinato da quel mondo sconfinato e in molta parte disabitato che dall’estremo Nord dell’Europa - San Pietroburgo, per intenderci - si estende ad ovest verso l’Europa occidentale, a sud verso il Medio Oriente musulmano, i paesi della catena himalayana e la Cina, e ad est fino alla costa che si affaccia verso il Giappone: tutta questa immensità era l’Impero degli zar di Russia in cui si ambienta Il giardino dei cosacchi. Detto per inciso, mi ha molto intrigato che a un certo punto del romanzo venga detto che la lingua in cui Giapponesi e Russi potevano comunicare nell’800 era … l’olandese! e a quel punto come non pensare ai viaggi di carovane e vascelli che portavano merci da Oriente a Occidente? In particolare mi è tornato in mente il poème Invitation au voyage in cui Baudelaire evoca Amsterdam come città che trabocca di merci orientali ...
COME SI SPIEGA IL TITOLO? Alexander I. von Wrangel chiamava “giardino dei cosacchi” la casa di campagna in cui più volte ospitò il suo amico Dostoevskij. Come detto, Brokken si immedesima nel giovane barone e sulla base della sua documentazione ripercorre nel ricordo, seguendo un filo cronologico, quei dieci anni della sua stretta amicizia con l’ingegnere militare (sotto-pagato e sempre squattrinato) Fedor Dostoevskij. Questi, già trentenne, si è fatto notare come scrittore per il suo “Povera gente”, ma non ha ancora scritto i suoi grandi romanzi, avendo prima passato quattro anni in un campo di lavori forzati in Siberia per aver partecipato a riunioni di una società segreta anti-zarista, obbligato poi a prestar servizio come soldato semplice in una città della Siberia e non essendo comunque autorizzato a pubblicare. In questa stessa città il giovanissimo Wrangel (22 anni!) va a ricoprire un incarico di magistrato e siccome apprezza lo scrittore F. D. ne ricerca la conoscenza: la scintilla dell’amicizia si accende fin dal primo incontro e resta accesa per sempre, anche se poi la vita li separerà.
CONTENUTO. Pagina dopo pagina Brokken ricostituisce cronologicamente, non di rado con sorridente ironia, la storia dell’amicizia fra due uomini divisi per età, storia personale e condizione economica, ma uniti dalla sofferenza d’amore per donne che non si concedono mai del tutto. Come spesso però avviene nella realtà, la vita separerà l’uno e l’altro e alla fine il sentimento di amicizia sarà indebolito, se non spento, dall’opportunismo di Dostoevskij, che da Wrangel ha avuto una serie infinita di aiuti anche economici, ma si sottrae col silenzio alla richiesta di aiuto dell’amico quando a sua volta questi avrà bisogno di sostegno economico. Insomma, un grande scrittore indagatore della colpa non necessariamente è innocente e privo di contraddizioni. Col che non si pensi che Brokken alias Wrangel voglia “smascherare” un maestro della letteratura russa, giacché riunendo i suoi ricordi “siberiani”, Wrangel esprime sempre ammirazione e comprensione per il suo amico di un tempo - lui ormai è diventato nel frattempo un padre di famiglia - e solo dice nelle ultime pagine con grande semplicità che D. non risponde alla sua richiesta di aiuto. Queste sia pur finte memorie del barone von Wrangel permettono dunque di conoscere meglio -ovviamente- la personalità di F. D., segnato da un’infanzia infelice, dall’epilessia, dall’esperienza della “falsa fucilazione” (vedi primi capitoli), dai lavori forzati a diretto contatto con criminali nella regione del peggiore arbitrio allora come nella Russia stalinista, dalla disperazione di potersi dedicare alla scrittura, dalla precarietà economica e dall’inesauribile curiosità per le contraddizioni dell’anima, soprattutto dell’anima colpevole. La sua personalità nonchè certe situazioni che saranno per lui fonte di ispirazione per i suoi romanzi. Fra l’altro Wrangel-Brokken mette in luce più volte le ragioni che spinsero Dostoevskij a certe iniziative utili ad ottenere la grazia: l’importante era poter scrivere e pubblicare e, perchè no, anche semplicemente vivere, non marcire in una caserma siberiana.
Attraverso la narrazione di Wrangel, tuttavia, Brokken ci dà uno spaccato della società russa degli anni ‘50 dell’800, di prima dell’incoronazione del primo zar “illuminato”, Alessandro II, una società che ancora non è uscita dall’Ancien Régime, sovraccarica di un potere imperiale illimitato (e nel 1917 all’autocrazia imperiale succederà direttamente quella del partito bolscevico) e di un apparato statale in mano all’aristocrazia, che lo gestisce per soddisfare interessi di casta e personali (vedi per es. p. 152-153 nel divertente capitolo La visita del Governatore generale, in cui si parla di certe realtà che conosciamo molto bene). In questo mondo tutto è determinato dalle pressioni personali dell’uno o dell’altro, più o meno efficaci a seconda della vicinanza minore o maggiore allo zar, secondo una scala infinitamente graduata. Il movimento rivoluzionario decabrista (rivolta anti-zarista del dicembre 1825, cui partecipano anche ufficiali della Guardia imperiale) sembra esser stato digerito ed eliminato nell’immobilismo di uno stato geograficamente sconfinato, dove ancora si caccia la tigre, una lettera arriva a destinazione anche dopo 4 mesi, e popolazioni nomadi di etnie diverse coesistono, separate da migliaia di “verste”, con città dalle architetture più fastose di quelle di Versailles. Tutto ciò mentre a Occidente i fermenti rivoluzionari spingono tutti i paesi verso una graduale modernizzazione socio-politica. Un aspetto che mi è sembrato di cogliere, infine, di questa società aristocratica, è un rapporto col denaro diverso rispetto da quello che si ha in una società borghese: il denaro è per sua essenza mobile, va e viene a seconda del favore di chi sta più in alto nella scala sociale e più che essere accumulato deve garantire un certo tenore di vita: a sé e ai propri “protetti”.
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lo stalinismo visto dall'interno
Oggi parlo di un romanzo secondo me imperdibile per chi ama la letteratura di idee e di storia: BUIO A MEZZOGIORNO di ARTHUR KÖSTLER (1905-1983), precisando innanzitutto che se c’è uno scrittore, anzi, più ampiamente, un intellettuale, che ha riflettuto filosoficamente e vissuto nella propria carne i disastri dei totalitarismi del ‘900, è proprio lui, come si può facilmente immaginare leggendo i seguenti dati biografici fondamentali:
1. A. KÖSTLER nasce a Budapest da una agiata famiglia ebraica fuggita dalla Russia zarista, la quale nei primi anni Venti emigra a Vienna,che fino alla Prima guerra mondiale faceva parte anch’essa, come Budapest, dell’Impero austro-ungarico; 2. attratto dal movimento sionista va in Palestina nel ‘26 (ha 16 anni!) (e il suo bellissimo LADRI NELLA NOTTE del ‘46 racconta la storia dei primi insediamenti ebraici in Palestina: le difficoltà, l’idealismo, le delusioni); 3. deluso dal sionismo, si trasferisce a Berlino, dove co-dirige un giornale e si iscrive al partito comunista; 4. data la situazione politica in Germania, nel ‘34 lui - ebreo e marxista - fugge in Francia dove continua a lavorare come giornalista; 5. trovandosi in Spagna come inviato speciale per seguirvi la guerra civile, viene arrestato e condannato a morte dai franchisti, senonché la diplomazia britannica riesce a ottenerne la liberazione; 6. torna dunque in Francia. Siamo nel ‘39 e le purghe staliniane ormai sono note a chi vuole prenderne atto: Köstler si dimette dal Partito comunista e scrive BUIO A MEZZOGIORNO, attirandosi le critiche di molti intellettuali (Gide no! Sartre non lo so) con conseguente crisi depressiva e tentativo di suicidio; 7. è sempre in Francia, scoppia la Seconda guerra mondiale e lui viene internato per alcuni mesi nel campo di transito di Le Vernet (da dove sono passati anche molti partigiani italiani, tra cui Leo Valiani e Luigi Longo) ; viene liberato e si arruola nella Legione straniera per sfuggire alle persecuzioni antiebraiche che ora hanno luogo anche nella Francia nazificata, e riesce così a raggiungere Londra, dove si stabilisce e lavora come scrittore fino alla morte, ... le cui modalità sono interessanti …
PRESENTAZIONE DEL ROMANZO. Nel manoscritto originale, ritrovato qualche anno fa, esso era intitolato “BORISCIOV” dal nome del protagonista, vittima delle purghe staliniane della seconda metà degli anni ‘30, così come Salamov (1907-82), l’autore de I racconti della Kolyma (vedi commento di qualche settimana fa). Questi però sono i ricordi personali dei molti e lunghi anni di prigionia da lui vissuti nei campi di lavoro forzato nell’estremo nord-est dell’URSS, mentre Köstler ha un altro intento, che è fondamentalmente filosofico: racconta sì il destino di Borisciov, rivoluzionario della prim’ora, ma soprattutto si interroga (in modo per nulla pedante) intorno alla questione SE IL FINE GIUSTIFICHI I MEZZI, ovvero se la pretesa - perché non può essere che questo - di sapere qual è il bene “per l’umanità”, giustifichi che l’obiettivo sia perseguito anche schiacciando persino coloro che non condividono totalmente il modo di pervenirvi (nella pièce “Le mani sporche” del ‘48 Sartre si pone un quesito simile).
Tra le citazioni in epigrafe ai vari capitoli, mi sembra che la seguente, nella sua concisione, dica bene il concetto centrale: “NESSUNO PUÒ GOVERNARE SENZA COLPE” (SAINT-JUST).
TRAMA. K. racconta le ultime settimane di vita di Borisciov, un rivoluzionario della “vecchia guardia”, quelli della guerra civile del 1917-22, il quale ha dedicato quarant’anni anni della sua vita al “trionfo della rivoluzione”. La narrazione va dal momento in cui B. viene arrestato fino alla morte poche settimane più tardi, cioè vari interrogatori dopo, breve periodo durante il quale egli rievoca in modo estremamente vivido le situazioni in cui ha sacrificato al Partito persone che di lui si fidavano, provando un sentimento di colpa di cui solo il suo corpo prende coscienza, più precisamente i suoi denti, finché l’aspettativa della sua stessa morte non lo libererà dall’inganno di cui era stato complice e infine vittima.
Si potrebbe pensare che sia un romanzo di idee o a tesi, che non dia l’impressione della vita vera, e invece ci si affeziona a Borisciov al portinaio Vasilij a Riccardo a Nano Loewy alla Arlova a Rip van Winkle al “402” a Labbro Leporino, persino a Ivanov. Per niente a Gletkin, che come la figlia del portinaio Vasilij rappresenta la giovane generazione dei puri e duri prodotta dalla propaganda staliniana. Si è afferrati per la mente e per i cuore dalla penna di Köstler, che sa mettere in scena con un forte senso dell’azione teatrale i dibattiti tra Borisciov e l’interlocutore di turno, ma anche il dialogo interiore tra Borisciov e se stesso, il suo “compagno silenzioso” o la “finzione grammaticale”, cioè quell’io che il Partito rinnega in nome del “noi”, quello che finalmente trova voce nel diario che Borisciov scrive in cella.
LA PAGINA CHE SI VEDE NELLA FOTOGRAFIA. Il racconto delle ultime ore di Borisciov ricorda così straordinariamente l’ultima pagina de Lo straniero di Albert Camus (1942) che mi chiedo se Camus non lo abbia letto. E dunque, volendo scegliere una sola fra le innumerevoli pagine interessanti e ben scritte, metto a disposizione proprio la foto dell’ultima pagina di Buio a mezzogiorno (anche perché la copertina dell’ed. Mondadori è orribile), segnalando che laddove si parla di “mare” e “acqua” si fa riferimento, credo, al “sentimento oceanico” di cui – come dice Borisciov - parlano Freud e Rolland, cioè quello stato contemplativo o mistico in cui l’uomo si sente parte di un tutto che lo trascende, insomma quello espresso da Leopardi che ben conosciamo. Come L’étranger si smarrisce e trova conforto, prima di essere giustiziato, nel cielo stellato oltre le sbarre.
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