Opinione scritta da Anna_

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Anna_ Opinione inserita da Anna_    30 Settembre, 2023
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L'arancione e il violetto

L'indigenza della sua famiglia la chiama al sacrificio e tirarsi indietro non è una scelta possibile. Lo capisce bene Griet, giovane di origine protestante, della piccola cittadina di Delft, che a sedici anni accetta di andare a servizio presso una ricca famiglia cattolica nel Quartiere dei Papisti. Ma non si tratta di una qualsiasi famiglia ricca bensì di quella del famoso pittore Johannes Vermeer e di sua moglie Catharina. Griet si è già imbattuta nella sua maestria ammirandone la Veduta di Delft che le ha restituito uno sguardo così diverso su quei luoghi a lei noti che è come se li avesse visti per la prima volta.

Le nuove giornate di Griet sono scandite dai pregiudizi che gravano sulle fantesche soprattutto se belle e giovani, dal faticoso lavoro domestico in una famiglia con prole numerosa e in crescita, dalla non ingiustificata gelosia di Catharina, dalla perspicacia e dallo spirito pratico di Maria Thins, suocera del pittore, dall'umore altalenante della domestica Tanneke, dai dispetti di una bambina, Cornelia, ben oltre che indisponente, dal peso di una famiglia che si affida a lei per superare lo scoglio dell'indigenza, dalle attenzioni non gradite del più facoltoso e assiduo cliente di Vermeer e da quel buon diavolo di Pieter.

Si incastona in questa cornice il nucleo centrale del romanzo del 1999, per il quale l'autrice si è ispirata a "La ragazza col turbante", opera inizialmente conosciuta come "Un ritratto in stile turco" e solo di recente come "La ragazza con l'orecchino di perla" (perla che, secondo recenti ipotesi, non sarebbe vera ma di vetro, di quelle che erano vendute a quei tempi dai soffiatori di vetro venziani).
Si tratta della più famosa opera della "Sfinge di Delft" come fu soprannominato Vermeer, uno dei maggiori esponenti della pittura fiamminga del XVII secolo in Olanda, per il mistero che da sempre avvolge la sua vita (di cui si sa poco) e le sue opere. (Dopo la morte del pittore si persero le tracce del dipinto che ricomparve nel 1881 quando fu acquistato all'asta per l'irrisoria cifra di due fiorini e trenta centesimi.)

Catturata prima dai colori e dalla luce che ricade sul viso della misteriosa ragazza del tronie e poi dal suo sguardo ambiguo, come da lei affermato, l'autrice ha inteso con la sua penna dare risposta a interrogativi che ancora oggi sono oggetto di teorie e smentite: la ragazza del tronie è davvero esistita o è l'idealizzazione del femminile da parte del pittore? Si tratta davvero, come taluni sostengono, di Maria, sua figlia maggiore, che ai tempi del dipinto aveva all'incirca dieci anni? Si tratta di un dipinto realizzato su iniziativa personale del Vermeer o su commissione di un facoltoso mecenate come suggerisce l'uso del blu oltremare, costoso pigmento (a quei tempi anche più dell'oro) ricavato dal lapislazzuli di provenienza afghana?
Partendo da questi interrogativi la scrittrice delinea una fittizia e plausibile identità della giovane, ce ne racconta la storia regalando al suo pubblico l'incontro tra due mondi distanti che l'arte è capace di avvicinare.

Dietro la figura di un'indigente fantesca si cela un animo - ribelle e - istintivamente votato all'arte, alla ricerca del dettaglio che conquista l'occhio e ne fa la differenza. Si fa strada in Griet il coraggio di porre domande e intervenire nel processo creativo del pittore in nome di un sentimento che va ben oltre l'ammirazione, è devozione totale, illusoria, malriposta, disattesa perché pre-ordinata e funzionale alla maniacale e ossessiva ricerca della perfezione da parte del Vermeer.

"Lui è un uomo eccezionale" proseguì Van Leeuwenhoek. "I suoi occhi valgono quanto una stanza colma d'oro, ma talvolta vede il mondo come lui vorrebbe che fosse, e non com'è. Non capisce quali conseguenze ha sugli altri questo suo idealismo. Pensa solo a se stesso e al suo lavoro, non a te. Quindi devi stare attenta... Attenta a rimanere te stessa".

Del resto "... l'arancione e il violetto non sono vicini. Perché mai? ... "Quei colori fanno a pugni quando sono vicini, signore".

Tra finzione e realtà, Tracy Chevalier regala al suo pubblico una storia che, pur priva dei particolari slanci narrativi, si rivela apprezzabile sia da chi già nutre interesse per l'arte e la pittura sia da chi si avvicina in punta di piedi ad essa e alla conoscenza del pittore fiammingo e della sua "Gioconda del Nord".

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Anna_ Opinione inserita da Anna_    20 Mag, 2022
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Fuori dal mio solito binario

"È un sollievo essere di nuovo sul treno delle 8:04... Voglio soltanto affondare nel morbido schienale di velluto, sentire il calore del sole che filtra dal finestrino, cullata dal dondolio del vagone, al ritmo confortante delle ruote che corrono sui binari. Preferisco stare qui, a guardare le case che sfilano una dietro l'altra, più che in qualsiasi altro posto".

Abbandonare ogni pensiero, lasciare che il treno ti conduca a destinazione mentre lo sguardo, fuori dal finestrino, abbraccia paesaggi, case, persone, coglie alcuni momenti della vita di due sconosciuti e li plasma al punto da dare a quella "coppia perfetta" un nome, Jason e Jess, e a immaginare delle loro vite ciò che l'occhio non vede. Fino al giorno in cui qualcosa irrompe a spezzare quella perfezione.
Accade questo a Rachel Watson, la principale voce narrante, che ogni giorno prende il solito treno per recarsi al lavoro o almeno così crede chi la conosce. Rachel, nella sua solitudine, si affeziona agli abitanti del civico 15 di Blenheim Road.

Poco più in là, al numero 23, c'è la casa in cui lei ha vissuto con Tom: qui il suo ex marito (del quale Rachel continua a usare il cognome) abita ora con la nuova moglie Anna, (seconda voce narrante), con cui l'aveva tradita. E con Evie, la loro bambina, quel figlio che Rachel non era riuscita ad avere.

Rachel, Anna e Megan (la cui voce si intreccia con le due precedenti), una donna, a detta dei suoi amici, " meravigliosa, divertente, bella, generosa. Amata." Ma Megan, la Jess di Rachel, "non era la ragazza attraente e spensierata che vedevo seduta in terrazza. Non era la moglie amorevole, e nemmeno una bella persona. Era una bugiarda, un'imbrogliona. E un'assassina."

Quando Megan scompare l'unica certezza che prende piede è che non ritornerà.

Una cortina di nebbia e una fragilità, ora più manifesta ora più latente, attraversano le vite delle tre donne.
Superare quell'angoscia in cui il suo segreto la ingabbia, portarlo alla luce raccontandolo finalmente a qualcuno diventa un bisogno impellente per Megan ma lei lo sa che non può confidarsi con suo marito Scott (il Jason di Rachel): inizierebbe a guardarla con occhi diversi, non la perdonerebbe.

Confusa, sconnessa, inattendibile: la mente di Rachel non riesce a recuperare quei ricordi in cui, lei lo sente, si nasconde la chiave per scoprire la verità ma l'alcol le rende difficile recuperarli. Le ricadute non mancano, ma Rachel sente di dover fare qualcosa "In un modo o nell'altro, ormai, faccio parte di questa storia e non sopporto di rimanerne esclusa. Devo sapere che cosa sta succedendo. Ho elaborato un piano".

"Non riesco a smettere di pensare al fatto che Rachel era qui la sera della scomparsa di Megan; era sbronza, fuori di sé, poi di colpo è sparita.": l'opprimente presenza di Rachel, la sua instabilità, proteggere Evie, il pensiero di aver affidato per qualche tempo la sua bambina a Megan, la paura di vivere vicino a quella casa sono le nubi che si addensano ora attorno ad Anna.

Un libro fuori dal mio solito binario, ma in un modo o nell'altro, proprio come Rachel, nel corso della lettura mi sono ritrovata parte della storia: l'intreccio e il piglio incalzante della narrazione portano a seguire il flusso di pensieri delle tre protagoniste (quelli di Rachel, soprattutto, sono solo vaneggiamenti?) per giungere a quell'inevitabile punto di rottura e di svolta. Da lì ritrovarsi all'epilogo è un attimo.

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Anna_ Opinione inserita da Anna_    02 Mag, 2022
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Alla ri-scoperta di Dante Alighieri

"È forse questa la gradita revoca per cui Dante Alighieri è richiamato in patria dopo aver patito quasi per tre lustri l'esilio?... Questo i sudori e le fatiche continuate nello studio?... Non è questa la via del ritorno in patria, o padre mio, ma se prima voi e poi altri ne troverete un'altra, che non limiti la fama e l'onore di Dante, quella percorrerò, non con lenti passi; e se non si entra a Firenze per tale via, a Firenze non entrerò mai."

Tanta, tanta storia politica ma anche economica e sociale di Firenze (e di riflesso della Toscana e dell'Italia) tra Due-Trecento nel mezzo della quale prende forma il racconto della vita di Dante (com'era solito autonominarsi e firmarsi in luogo di Durante, il suo nome di battesimo), della formazione del suo pensiero, dell'analisi delle sue opere (da "Vita Nova" alla "Commedia").

Emergono nei loro tratti distintivi soprattutto le figure dell'uomo politico e dello scrittore, meno quelle del Dante marito (di Gemma Donati, matrimonio che per l'Alighieri fu più prestigioso dal punto di vista sociale che conveniente sotto l'aspetto economico) e padre di Pietro, Iacopo e Antonia (e forse anche di un quarto, un certo Giovanni) che ebbero per lui una grande ammirazione se non "un vero culto" (entrambi i figli maschi studiarono e diffusero le sue opere e nella decisione di Antonia di assumere il nome di Beatrice potrebbe ravvisarsi un omaggio al padre).

Dante (colui che "dà, elargisce agli altri i grandi doni intellettuali ricevuti da Dio") matura sin da giovane l'idea di essere un diverso, un predestinato e a riprova di ciò egli tende a cogliere in ogni evento della sua vita un segno della volontà divina che lo ha investito della "missione profetica di salvare l'umanità".

E dunque ecco un uomo con un'alta considerazione di sé, animato dalla volontà di nobilitare le sue origini mediocri, interessato alla musica e al disegno, provato dalla solitudine e dai bisogni materiali conseguenti all'esilio, orgoglioso ma all'occorrenza capace di "valutazioni di convenienza", spirito contraddittorio (nel modo antitetico, per esempio, di intendere le innovazioni "a seconda che incidano sulla sfera artistico-culturale o su quella politico-sociale) ma anche nostalgico, legato a miti e simboli (Battistero di San Giovanni) che "vivono ormai solo dentro di lui", "scrittore insofferente di ogni regola prestabilita e proiettato costantemente verso il nuovo".

Sebbene qualche passaggio storico poteva essere sintetizzato e non tutti gli aneddoti si accolgono con la stessa curiosità (parere del tutto soggettivo e opinabile), è innegabile che la ricchezza di contenuti e il modo in cui sono raccontati ben valgono la lettura.


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Anna_ Opinione inserita da Anna_    24 Novembre, 2021
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Ciò che il Senno non rappresenta

"No, davvero, non sono mai troppo occupata da non pensare a S&S. Non posso scordarmelo più di quanto una madre possa scordarsi di allattare un figlio": così Jane Austen parlava di "Sense and Sensibility" a sua sorella Cassandra in una lettera dell'aprile del 1811. Il romanzo, la cui stesura la scrittrice aveva avviato nel 1795 con forma epistolare e con l'iniziale titolo di "Elinor and Marianne", fu poi pubblicato, primo fra tutti quelli austeniani, nell'ottobre dello stesso anno con l'anonima firma "By a lady" dall'editore Thomas Egerton.

Le vicende sentimentali delle due maggiori delle sorelle Dashwood rappresentano il cuore di "Ragione e Sentimento"; il titolo ne racchiude già il tema, principale ma non unico, e allo stesso tempo ne anticipa la conclusione nonché il pensiero della scrittrice (un equilibrio tra i due estremi è il presupposto per una stabile felicità). Che poi la preferenza della Austen sia stata per la più grande è lei stessa a scriverne nella lettera di cui sopra: "Mrs K. si rammarica in maniera molto lusinghiera di dover aspettare... Credo che le piacerà la mia Elinor".

L'assennatezza, la prudenza e l'autocontrollo di Elinor in ogni situazione - anche nell'esternare i suoi sentimenti verso il colto quanto introverso Edward - la rendono, da un lato, una saggia consigliera per la madre, donna impulsiva e imprudente, dall'altro sono il motivo per cui la sorella le riconosce un "cuore freddo".

Romantica e intrepida, Marianne, infatti, vive ogni sentimento senza quella moderazione che appartiene a Elinor. Che siano di gioia o di dolore, che nascano dalla musica o dai versi di Cowper (entrambi interessi anche di Jane Austen), dalla nostalgica bellezza del paesaggio o che siano per il giovane e affascinante Willoughby, Marianne vive i suoi sentimenti in modo manifesto ma anche (eccessivamente) estremo. È evidente dal suo agire una contrapposizione tra la sua personale morale e quella collettiva, socialmente riconosciuta.

Il contrasto Elinor-Ragione (Senno) e Marianne-Sentimento (Sensibilità) è tanto iniziale quanto mai del tutto privo di eccezioni.
Marianne, alla fine, acquisisce quell'assennatezza utile a non lasciarsi sopraffare da una sensibilità per nulla contenuta, impara ad attuare, con fatica, quell'autocontrollo che in Elinor viene meno alla fine e comprende che la vivacità di parole e azioni non è l'unica forma del sentimento.
Parimenti sua madre: "La signora Dashwood fu colpita dal vedere la sofferenza dipinta sul volto di Elinor... la sofferenza di Marianne, perché più riconosciuta e immediatamente sotto i suoi occhi, aveva monopolizzato la sua tenerezza e l'aveva portata a dimenticare che in Elinor poteva avere una figlia che soffriva quasi altrettanto e certo con minore autocommiserazione e maggiore coraggio."

Se il percorso di evoluzione di Marianne è più 'lineare', quello di Elinor è disseminato di eccezioni che indicano come la sua prudenza e il suo autocontrollo, pur espressione delle convenzioni sociali del suo tempo, non siano assenza o negazione del sentimento né totale mancanza di sensibilità: tradisce "tanto calore", pur sentendosi poi a disagio, parlando di Edward, si avvede della "forte sensibilità" del colonnello Brandon per il quale Elinor matura rispetto e compassione prima, gratitudine poi; e ancora la malattia della sorella non le risparmia ore "nell'ansia più atroce", non la lascia indifferente la tardiva quanto non giustificante spiegazione di Willoughby e da ultimo lei stessa si scopre più vulnerabile di quanto credesse: "Elinor si accorgeva adesso della differenza che esiste tra l'attesa di un evento temuto, nonostante quanto si possa dire e fare perché la mente lo accetti per certo, e la certezza di esso."

Se Ragione equivale a freddezza estrema, totale mancanza di sensibilità allora come non pensare all'egoista Fanny Dashwood: a lei appartiene una fine e astuta dialettica che fa venir meno ogni buona (ma evidentemente debole) intenzione di John Dashwood, cui il padre morente affida gli interessi della matrigna e delle sorelle (sorellastre secondo una puntualizzazione di sua moglie).

Ma "Ragione e Sentimento" oltre il tema cui il titolo rimanda è anche altro: è la critica all'ozio, alla dissipazione e al lusso; è i soldi quale misura della classe sociale di appartenenza e dell'opportunità di un buon partito; è il matrimonio quale momento centrale della vita di una donna. Matrimonio che la Austen mostra (con riferimento a quelli che maturano nel corso del romanzo) sotto diversi punti di vista (ora a ragione della società del suo tempo ora a ragione del suo pensiero): uno strumento di ricerca di una ricchezza personale atta a soddisfare la propria vanità e/o a ricavarne una rispettabile posizione, un riconoscimento sociale come nei casi di Willoughby che sceglie il matrimonio con la ben più ricca Sophia e di Lucy Steele con Robert, fratello minore di Edward; il matrimonio come epilogo di un percorso di educazione (o adattamento?) progressivo e totalizzante del cuore che si avvede grazie al buon senso maturato (e grazie agli incoraggiamenti?) dell'opportunità, anche socialmente riconosciuta, di un carattere piuttosto di un altro: è il caso di Marianne e del colonnello Brandon di cui all'inizio la giovane Dashwood aveva sottolineato con impeto che "non ha né talento, né gusto, né spirito. Che la sua mente non ha niente di brillante, i suoi sentimenti non hanno passione e la sua voce non ha espressione."
E, da ultimo, il matrimonio tra Elinor e Edward che è quello più vicino al sentire della Austen ("Nulla può essere paragonato alla disgrazia di un legame senza amore") eppure non scevro da quell'aspetto materiale (tanto fittizio e antico quanto reale e attuale) di un vivere dignitoso ("Erano uniti dal reciproco affetto...e nessuno dei due era accecato dall'amore tanto da credere che trecentocinquanta sterline l'anno li avrebbero mantenuti negli agi").

Leggere "Ragione e Sentimento" dopo "Orgoglio e Pregiudizio" mi ha portata a un confronto che ha favorito, nell'immediato, la prima lettura. Ciò sia per l'inizio freddo e incolore di "Ragione e Sentimento" rispetto a quello più movimentato e irriverente di "Orgoglio e Pregiudizio" grazie allo scambio di battute tra i coniugi Bennet che tanto resta impresso sia per caratteri (Mr Palmer, Edward, Lucy Steele) che, pur ben delineati nel contesto del romanzo, non riescono a conquistarsi la stessa simpatia di altri del romanzo successivo (Mr Bennet, Mr Darcy, Charlotte Lucas) sia per le storie delle sorelle Bennet che appaiono più coinvolgenti. Eppure alla fine posso affermare che tra queste due opere della Austen, la mia preferenza è proprio per "Ragione e Sentimento" tra le cui pagine vi è, o almeno a me è parso di cogliere, un fondo di maggiore e più tangibile realismo.

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Anna_ Opinione inserita da Anna_    13 Settembre, 2021
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Una breve luce

"Valérie le aveva dato la vita, l'aveva vestita e nutrita e aveva provveduto a darle un solido tetto sopra la testa. Non l'aveva mai picchiata né maltrattata. Semplicemente l'aveva ignorata".
"Maman, cercherò di perdonarti".

Cos'ha incrinato nel tempo il rapporto tra Émilie de la Martinière, giovane veterinaria di trent'anni, discendente da una nobile famiglia, e sua madre Valérie, "una tra le più belle, affascinanti e munifiche signore di tutta Parigi"?

"Da bambina Château de la Martinière era stato il suo santuario, un luogo di pace, un rifugio sicuro; quella tranquillità era impressa in maniera indelebile nel profondo del suo animo."

Alla morte della madre, Émilie si ritrova, sola e disorientata, a ereditare un maestoso ma fatiscente castello nel Sud della Francia. Cosa deciderà di farne?

Sono questi interrogativi a mantenere inizialmente viva l'attenzione di chi legge.

Ma dal momento in cui si assiste a un salto indietro nel tempo, agli anni della Seconda guerra mondiale ed entrano in scena la bellissima e sfortunata Sophia, il suo protettivo e intrepido fratello Édouard (il papà silenzioso e riflessivo di Émilie), e l'altrettanto coraggiosa inglese Constance, ecco che la vita della giovane de la Martinière, la sua storia con Sebastian (il nipote di Constance), il rapporto conflittuale di quest'ultimo con il fratello Alex, il legame di Émilie con la madre e le scelte per il suo futuro cedono il passo.
Infatti le pagine nelle quali si racconta di Sophia (di cui a Émilie giunge un vecchio taccuino di poesie) e si ricompone la storia della famiglia de la Martinière sono le più apprezzabili: qui si concentrano tenerezza, amore, paure, orrore e coraggio dinanzi al Nazismo e alla guerra e queste pagine, intervallandosi con il presente di Émilie, diventano il vero input per proseguire nella lettura.

Poi la scrittura semplice e scorrevole, l'alternarsi tra presente e passato che non toglie fluidità alla narrazione (anzi l'arricchisce), le ambientazioni suggestive (qui si va dalla bellezza del Sud della Francia alla più desolante brughiera inglese) fanno sì che le pagine, pur poco meno di cinquecento, si susseguano con facilità fino all'ultima.

"La luce alla finestra" è il secondo libro che ho letto della Riley e lo preferisco a "La stanza delle farfalle", tuttavia resto dell'idea che le storie dell'autrice siano letture romantiche, leggere e disimpegnate che però nel tempo non si riveleranno indimenticabili.

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Consigliato a chi ama Lucinda Riley e a chi, per ragioni diverse, sceglie anche letture romantiche e disimpegnate.
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Anna_ Opinione inserita da Anna_    16 Agosto, 2021
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Le voci di Konradin e Simon Elsas

"L'amico ritrovato" e "Un'anima non vile" costituiscono un unico corpo narrativo della "Trilogia del ritorno" di Uhlman, due facce della stessa medaglia.
Hans Schwarz, figlio di un medico ebreo e protagonista del primo libro, ha incontrato nel tempo un pubblico che gli si è affezionato e che talvolta ritorna al suo racconto anche a distanza di anni.
"Un'anima non vile" ripercorre quella stessa storia di cui, dunque, già si conoscono protagonisti, luoghi, situazioni, epilogo: leggerla potrebbe non avere senso. Ma forse Uhlman avrà voluto restituire al pubblico il puzzle completo di quest'amicizia senza tempo e, per farlo, l'unico modo era dare spazio e voce anche ai pensieri di Konradin von Hohenfels, figlio di una ricca famiglia aristocratica, l'altro giovane protagonista de "L'amico ritrovato".

In "Un'anima non vile", Konradin è la voce di chi è stato vinto dalla sua famiglia prima e più che dalla Storia. Ormai adulto, scrive all'amico di un tempo, anche se non è certo che Hans riceverà la sua lettera: Konradin non vuole giustificarsi ma spiegare, raccontarsi per essere compreso, magari anche perdonato.
Ecco allora che quella "figura che, trasudava agio e distinzione" tale da intimorire i compagni di classe, ripercorre la sua infanzia, la solitudine dell'adolescenza ("I miei genitori, com'è logico, facevano quello che credevano essere la sola cosa importante: pagare. Non hanno mai dimenticato Natale e il mio compleanno... ma d'altra parte il figlio di un contadino greco ha ricevuto più amore in un giorno che io in tutta la vita"), il suo bisogno di amicizia, il suo rivendicare il diritto di scegliere da sé, e difendere finché potrà, il suo migliore amico, l'ipocrisia del padre, i pregiudizi della madre verso gli Ebrei e l'importanza per quest'ultima della forma (non importa che un principe sia un idiota, è pur sempre un Principe, pertanto persona da frequentare), la sua illusoria euforia giovanile nell'abbracciare un ideale, seppur sbagliato, e nel sentirsi parte di qualcosa di "importante".

Konradin ha sbagliato, e lo sa. Il suo non è un racconto ordinato né poetico e suggestivo quanto quello di Hans; il suo tono è amareggiato, impaurito, talvolta confuso, proprio di chi vuole dire tanto, tutto, e sa di avere, letteralmente, i giorni contati per tentare di restituirsi all'amico di un tempo.

In "Niente resurrezioni, per favore", romanzo che conclude la trilogia, Il protagonista, Simon Elsas, non ha alcun legame con Hans e Konradin ma è la voce di un ebreo che, dopo vent'anni, sente, inspiegabilmente, il bisogno di ritornare nella Germania che ha amato e da cui è dovuto fuggire per scampare all'inferno nazista.

"Negli ultimi recessi della sua mente c'era qualche cosa che non sapeva spiegare".

Turbato, sospeso a metà tra la sensazione di un déjà vu e di estraneità proprio di chi si trova in una terra sconosciuta, Elsas sente che "c'era qualcuno che desiderava incontrare, qualcuno di cui aveva quasi dimenticato il nome, ma che aveva avuto una parte importante nella sua vita."

È questo il romanzo del confronto con il passato, col peso della Storia e dei ricordi che esasperano ancora: "Questo suo ritorno aveva fatto sì che la memoria, come un torrente fangoso, scoperchiasse le tombe di morti dimenticati, per trasportarne le ombre da una riva all'altra dell'Acheronte e distruggere la diga da Elsas costruita con tanta cura perché il passato non lo inghiottisse e gli lasciasse iniziare una nuova vita."

"Niente resurrezioni, per favore" è un romanzo di tristezza e nostalgia, amore e odio, confronti e incomprensioni. È, dei tre, quello che, alla fine, lascia un senso di amara compiuta consapevolezza e di necessaria speranza.

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Anna_ Opinione inserita da Anna_    09 Luglio, 2021
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Non un amico qualsiasi

In una Stoccarda degli anni '30 in cui il vento del Nazismo non ha ancora cominciato a soffiare impetuoso, nasce l'amicizia tra due adolescenti sedicenni: Hans, figlio di un medico ebreo "rispettato sia dagli ebrei che dai gentili" e decorato con la Croce di Ferro, e Konradin von Hoenfels, appartenente a una ricca famiglia aristocratica che vanta un glorioso passato.

Hans - nella cui figura si ritrovano elementi autobiografici - ha "un'idea romantica di amicizia" e una prospettiva ancora incerta sul suo futuro, sicuramente meno pratica di quella che tanti suoi compagni di classe hanno del loro avvenire; pur simpatici, in nessuno di essi riesce a scorgere quell'amico che risponde al suo bisogno di fiducia, di lealtà e di abnegazione.
Konradin con un volto fiero, un portamento elegante, una "figura che, trasudava agio e distinzione" suscita ammirazione e al tempo stesso agitazione, non soltanto in Hans.

Entrambi timidi e solitari, si scoprono uniti dalla comune passione per le monete, per i libri e la poesia, per l'arte e il teatro, discutono di religione, di Dio e di ragazze.
Ma "l'occhio del tifone" non è così lontano, così esterno al loro "cerchio magico".

Tanti favorevoli giudizi di critica e di pubblico ne hanno fatto un piccolo grande classico da leggere senza esitazione.
Aspettarsi che il libro (di cui conoscevo il successo ma che non avevo ancora letto) restituisca, per il suo particolare contesto storico, in modo più compiuto e diretto una testimonianza di questa pagina nera della Storia del Novecento può in qualche modo 'guastare' la lettura.
In realtà, "questo smilzo volumetto" è da apprezzarsi in quanto, prima di tutto, storia di un'amicizia - narrata a distanza di anni dallo stesso Hans - nella quale si ritrova ciò che in ogni tempo, pur con sfumature diverse, contraddistingue quelle tipiche dell'età adolescenziale.

C'è, prima di ogni cosa, il bisogno stesso di amicizia - e per Hans non di un amico qualsiasi (ma lo stesso è per Konradin che lo confermerà poi anche in "Un'anima non vile", secondo libro della "Trilogia del ritorno" di Uhlman: "cercavo così disperatamente l'amicizia", "tutto quello che volevo era abbattere ogni barriera sociale che ci separava").
Ci sono poi l'ammirazione e il senso di inferiorità ("Cosa potevo mai offrire io, che ero figlio di un medico ebreo... a quel ragazzo dai capelli d'oro il cui solo nome bastava a riempirmi di tanta rispettosa ammirazione?"); l'affetto e la rabbia ("ora scoprivo con ripugnanza che, a causa di Konradin, mi comportavo come un piccolo snob idiota", "Per la seconda volta in meno di un'ora provai un sentimento di odio nei confronti del mio innocente amico"); il voler essere accettato ma non umiliato ("preferisco la solitudine alle umiliazioni. Valgo quanto tutti gli Hoenfels del mondo."); i pregiudizi ("E mia madre non solo detesta gli ebrei, ma li teme... Se stesse per morire e non ci fosse nessuno, tranne tuo padre, in grado di salvarla, dubito che si deciderebbe a chiamarlo."); la delusione, la vulnerabilità, la nostalgia, un amaro 'ritorno'.

E, in questo caso, sullo sfondo - ma non così tanto - lei, la Storia, che Uhlman ci consegna qui non attraverso i 'fatti grandi' bensì attraverso gli occhi di Hans e Konradin e delle rispettive famiglie, in un misto e in una contrapposizione tra forte attaccamento alla patria, lingua e cultura tedesca ("Eravamo prima di tutto svevi, poi tedeschi e infine ebrei"), un'impotente rassegnazione ("Il lungo e crudele processo che mi avrebbe portato a perdere le mie radici era iniziato e già le luci che avevano guidato il mio cammino si stavano affievolendo"), atavici pregiudizi e ingenua fiducia in un'ideologia.

Da leggere anche "Un'anima non vile", in cui Uhlman, a completamento della narrazione, ci restituisce sì la stessa storia ma stavolta la affida alla voce di un Konradin von Hoenfels anch'egli ormai adulto e prossimo a quell'epilogo, inaspettato, con cui lo si ritrova nelle ultime pagine del racconto di Hans.

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Anna_ Opinione inserita da Anna_    12 Aprile, 2021
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"Nella speranza c'è volontà, futuro e dolcezza"

"Noi che ci vogliamo così bene" (primo libro che leggo di Marcela Serrano) è il romanzo d'esordio della scrittrice cilena che dopo il golpe di Pinochet fu in esilio a Roma.

Attraverso le storie di Ana, Isabel, Sara e María, la Serrano dà voce, da un lato, all'universo femminile nelle sue più diverse sfaccettature (amicizia, rapporto con il materno, con la famiglia di origine, amori, impegno e passione politica, emancipazione femminile), dall'altro, alla storia del Cile di Pinochet.

Diverse per carattere e per il contesto sociale e affettivo di origine, le quattro protagoniste si sono incontrate per la prima volta dieci anni addietro presso l'Istituto di Ricerca di Santiago: da colleghe ad amiche.
Nella casa sul lago nel Sud del Cile, in cui ha già avuto modo di soggiornare durante le estati precedenti con la sua famiglia, Ana attende, con entusiasmo ma anche con un po' di paura, l'arrivo delle sue amiche per una vacanza lontane da impegni lavorativi, da mariti e figli: potrebbe essere quella la loro ultima occasione per ritrovarsi tutte insieme, per raccontarsi, per comprendere il presente e guardare al futuro.

Ana, la maggiore, è forse la meno interessante e coinvolgente delle quattro con una vita che appare grigia. Racconta poco di sé - "Non sono né bella né brutta. Né alta né bassa... Il mio aspetto rispecchia profondamente il mio essere. Né eccentrica né invisibile" - e nel corso della lettura ci si ricorda di lei soprattutto perché sua è la voce narrante. Eppure quel poco basta a farla percepire come punto di riferimento, certezza all'interno del gruppo.

Sara, nata e cresciuta in un ambiente in cui l'unica voce maschile, quella di suo nonno, non è mai riuscita a farsi sentire, ha ricevuto nella casa materna amore, cure e dedizione; donna intelligente, forte, pratica e amorevole, nata con la fortuna di "non considerare molto l'opinione di nessuno, di fronte alle decisioni che aveva già preso", eppure la sua non manca di essere una storia di rinunce per quei momenti della sua vita in cui non "ha circonferenziato nulla".

Isabel, quanta fretta nel voler diventare grande "per occuparsi della casa e dei suoi fratelli. Essendo l'unica femmina, le sembrava naturale assumere questo ruolo", e quanta fretta poi nel doverlo divenire per "poter coprire le spalle alla mamma di fronte al papà". Poi suo marito, la casa, i figli: amare ed esserci, ascoltare senza ascoltarsi, essere ad un passo dal crollo emotivo.

Ma su tutte prevale la storia di Maria, la più giovane delle quattro, nata "in quell'ambiente fisico e sociale dove qualsiasi arrivista avrebbe voluto nascere". Maria, "bella ma tonta", la più combattiva tra tutte, spirito indipendente e ribelle, donna dagli amori liberi e paralleli, colei che più si è data all'amore e più in realtà se ne è sottratta: farsi coinvolgere, vivere in simbiosi è ciò che più la spaventa. Maria che "chiedeva silenzio, ma gridando, per poter essere ascoltata".

La penna della Serrano non è incisiva né graffiante, è pacata, a volte un po' lenta ma mai noiosa, tiene buona compagnia perché riesce a rendere vicine le sue protagoniste a cui appartengono sentimenti, errori, speranze disattese e nuove possibilità in cui ci si può riconoscere.
Tuttavia il racconto delle vite delle protagoniste ci restituisce un mosaico femminile sì multiforme ma forse troppo ampio.
Alcune 'donne minori' (Piedad, Rita, Laura, ...), infatti, appaiono quel di più che non aggiunge nulla alla storia.
La presenza di tante altre donne invece aiuta a comprendere meglio la personalità e il vissuto delle protagoniste nel cui presente - come spesso ci accade - si possono cogliere, per similitudine o contrapposizione, i riflessi dei legami del passato: tali sono le laboriose e solidali donne della famiglia di Sara; la fragile Neva, madre di Isabel; doña Marita, madre di Maria, donna bellissima così dedita alla religione da sfiorare a volte "forme estreme di puritanesimo" e Magda e Soledad, le sorelle di Maria, non belle come lei ma intelligenti e tenaci come il loro padre.

Maria, Magda, Soledad. Può il destino essere una strada già tracciata? E le scelte, giuste o sbagliate che si compiono, sono in realtà tappe già pre-destinate? Doña Carmela, una vecchia "guaritrice, la levatrice, l'indovina. La strega in poche parole" lo aveva già veramente predetto il loro destino?
"I semi sono quattro e voi siete tre." La carta di bastoni a Magda, la spada a Soledad e quella di coppe a Maria. "Gli ori dovrete cercarli altrove".

Gli ori, Esperanza. "Nella speranza c'è volontà, futuro e dolcezza."

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Anna_ Opinione inserita da Anna_    18 Marzo, 2021
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Una sedia vuota

Diretto, crudo, disturbante. Eppure ogni pagina chiede la successiva, fino alla fine. E alla fine la storia resta per ciò cui essa dà voce: l'ambivalenza dell'animo umano, le sue più intime contraddizioni, il suo essere amore e disamore (verso sé, verso l'altro), bianco e pure nero.

"Quando è stato? Tre ore fa, forse anche meno. Tre ore fa ero un uomo uguale a tutti gli altri. Com'è subdolo il dolore, come corre."

Timoteo, un affermato chirurgo, "un uomo che ha imparato a dividere, a separare la parte sana da quella malata" salvando molte vite, ma non la sua, si ritrova di colpo dall'altra parte: è solo, in attesa, in una fredda stanza attigua alla sala operatoria dove sua figlia Angela, appena quindicenne, lotta per non morire a seguito di un grave incidente.

Due sedie vuote attorno a lui. Una sedia vuota dentro di lui.

E il lettore, che inizialmente lo incontra nella sua veste più umana, quella di "un padre qualunque, un povero padre sfondato dal dolore, senza saliva in bocca, sudato e freddo tra i capelli", si accomoda su una di quelle sedie, empatizza con lui, lo segue mentre per il dolore scivola lì dove si trova sua figlia, in quello stesso "limbo di tubi", per raccontarle di una donna.

Italia ritorna. Ritorna il suo ricordo, Timoteo ha bisogno che lei si fermi lì, su quella sedia vuota dentro di lui.
Sedici anni prima, un bar di periferia, il caldo soffocante, un guasto all'auto, il malumore, la vodka che gli restituisce "una testa sgarbata".
Capelli decolorati malamente, viso magro, gambe magre, "non era un corpo desiderabile quello, anzi appariva inospitale".

Il lettore lo ascolta, ma quel racconto a mano a mano diventa disturbante, vorrebbe continuare a stare accanto al padre ma scopre l'uomo, la "sua parte malata" e allora ci sono disgusto e rabbia.

Per Timoteo "È l'emorragia della vita che bussa alle tempie". È la "zoppia dell'anima" che non può curarsi solo con il tempo. È un riannodare i ricordi: la violenza commessa, la vergogna, la repulsione, la reiterazione e poi il bisogno, l'inspiegabilità di quell'amore, "Il corpo può amare ciò che la mente disprezza?".

Italia, una donna docile, una derelitta, un mondo alieno, distante da quello di Timoteo in cui tutto è tanto perfetto quanto vuoto, in cui ogni cosa sembra preordinata, "segno preciso nel grafico che la vita aveva tracciato": la sua professione, i suoi colleghi, i convegni, le vacanze, sua moglie Elsa, sua figlia.

"Il vento trascina lontano tutto ciò che credevo di volere".

Italia, tenerezza e pietà al tempo stesso, essa pure anima guastata dal suo passato, eppure giusto incastro nel disordine dell'anima di Timoteo.

È un rintracciare il coraggio mancato, l'occasione perduta. Italia, il loro bambino.

"Guardami, Italia, siediti su questa sedia vuota che ho dentro, e guardami. Davvero sei venuta a riprendermela?... Taglia quella nuvola, Italia, tagliala come una cicogna. Restituiscimi Angela."

"Non ti muovere" diventa allora la preghiera di un padre che non accetta di veder morire sua figlia, è l'urgenza di una pietà nuova, di un perdono definitivo.

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Anna_ Opinione inserita da Anna_    12 Febbraio, 2021
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Ombre e aurora

"Piccolo mondo antico", capolavoro di Fogazzaro pubblicato nel 1895, contribuì, l'anno successivo, alla sua nomina a senatore (nomina convalidata, però, quattro anni più tardi perché il censo del Fogazzaro non era ancora quello stabilito dalla legge).

Il romanzo, che inizialmente avrebbe dovuto intitolarsi "Storia quieta", rimanda per alcuni aspetti ad un altro classico dell'Ottocento italiano, "I Promessi Sposi" (ambientazione in Lombardia, narrazione delle vicissitudini matrimoniali dei protagonisti, le loro vite che si intrecciano con le vicende storico-politiche di un'epoca precisa, ...).

Se con il Manzoni siamo nell'Italia del 1600 durante la dominazione spagnola, il Fogazzaro invece ci porta nel piccolo mondo della Valsolda (luogo di origine della madre, "patria dei suoi ricordi sereni e profondi") ai tempi del Risorgimento.
Mentre però Manzoni narra le vicissitudini che Renzo e Lucia affrontano per giungere, solo alla fine, al matrimonio (dando risalto a tanti altri sentimenti e meno all'amore tra i due protagonisti), Franco e Luisa si sposano, anche loro in segreto, già all'inizio del romanzo. Il Fogazzaro infatti si addentra quasi sin da subito nel tema dell'unione coniugale e delle sue difficoltà.

Franco è nobile, sognatore, impetuoso ma disposto al perdono, amante della natura e della musica, ha idee liberali ma è un idealista passivo; Luisa è intelligente, istruita, fiera, condivide gli ideali liberali del marito ma non è nobile né ricca, motivi questi per cui la nonna di lui, la "vecchia signora di marmo", l'arcigna e austriacante marchesa Maironi, disapprova il loro matrimonio.
Alla natura più oziosa e contemplativa di lui si contrappone quella più laboriosa e attiva di lei ma le differenze tra i due abbracciano anche la fede religiosa, qui fortemente messa in discussione.
Da un lato c'è la fede di Franco, fatta di credenze e precetti osservati in modo scrupoloso ma passivo, lui "credeva fervidamente nella vita futura ma di fatto si attaccava con passione a tutto ciò che la vita terrena ha di bello, di buono e di onestamente piacevole". Luisa, invece, non ha "mai potuto veramente sentire, per quanto mi sforzassi, questo amore di un Essere invisibile e incomprensibile, non ho mai potuto capire il frutto di costringer la mia ragione ad accettare cose che non intende"; lei è animata piuttosto da un concreto spirito di verità e giustizia che deve, però, realizzarsi nella vita terrena.
Questa profonda differenza si riflette sull'educazione di Maria, la loro bambina: "Poi ell'aveva in cuore una Maria futura probabilmente diversa da quella che aveva in cuore Franco. Anche per questo non le poteva rincrescere di aver un predominio morale sulla figliuola. Vedeva il pericolo che Franco favorisse uno sviluppo troppo forte del sentimento religioso... occorreva che Maria, fatta donna, sapesse trovare il perno della propria vita in un senso morale sicuro e forte per sé... Serbar fede al Giusto, al Vero, fuor di qualsiasi altra fede"; Franco invece teme che Luisa educhi la figlia secondo le sue idee.

Anche il testamento di cui Franco è beneficiario, e che proverebbe che la nonna gli ha usurpato l'eredità, è motivo di dissidio tra i due. Lui, mosso da un senso di carità e da affetto verso la nonna, non vuole servirsene perché ciò la disonorerebbe; Luisa invece vorrebbe che fosse eseguito per il solo amore della giustizia.

Ne viene fuori il contrasto tra due anime che, nonostante l'amore e il matrimonio, non hanno ancora raggiunto un'unione totalizzante perché profondamente diverse, uguali solo nella presunzione di ognuna nel sentirsi superiore all'altra e nell'orgoglio che nessuna delle due riconosce a sé ma vede nell'altra.

Le stringenti difficoltà economiche della famiglia, aggravate dal licenziamento del magnanimo e pacato zio Piero (per lui il Fogazzaro si è ispirato a suo zio materno Pietro Barrera da cui nei primi anni di matrimonio ricevette aiuto morale ed economico), inducono Franco a cercare lavoro a Torino.

Il dramma della morte precoce della piccola Maria, unica gioia dello zio Piero, acuisce la distanza tra i due. Per Franco questo dolore è un altro momento di crescita, inizialmente protagonista debole e inetto, lo vediamo trovare conforto proprio nella fede che gli dà la spinta per re-agire, servendo anche nell'azione i suoi ideali patriottici; Luisa, a dispetto della sua iniziale forza razionale e della sua lucida intelligenza, diventa fragile.

Alla vigilia della Seconda guerra di indipendenza alla quale parteciperà Franco (nella cui figura l'autore ricorda il padre che, antiaustriaco, prese parte ai moti del 1848), sull'isola Bella avviene, dopo anni, l'incontro pacificatore tra i due, segnato da un lato dalla morte dello zio Piero, a simboleggiare la fine del mondo antico, e dall'altro dalla consapevolezza di Luisa di essere madre per la seconda volta come a sancire un nuovo inizio.

Alcuni particolari momenti narrativi (tra cui il ritorno a casa di Franco richiamato con urgenza per la sciagura di Maria e la morte della piccola), le descrizioni suggestive dei paesaggi, la possibilità di riconoscersi, ancora oggi, nelle vicende e nei sentimenti di Luisa e Franco (finanche di altri protagonisti, pur minori, di cui si percepiscono pregi e difetti che li fanno amare e odiare contemporaneamente), l'uso del dialetto (che mi trasmette un personaggio come più vero e familiare), mi hanno fatto apprezzare questo romanzo più di quello manzoniano.


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Anna_ Opinione inserita da Anna_    17 Gennaio, 2021
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"Ci sono cose che si possono vedere solo al buio"

Le opinioni positive un po' ovunque espresse alla fine mi hanno convinta a leggere il libro verso cui non ero propensa per il genere giallo cui è, primariamente, ricondotto.

La storia incuriosisce e cattura sin dalle prime pagine per l'alone di segretezza che avvolge il luogo in cui, come a voler rispettare un rituale, il libraio Sempere conduce per la prima volta suo figlio Daniel, di quasi undici anni, in un giorno d'estate del 1945. Lettura che prosegue poi senza difficoltà rivelando un giallo sì, ma un po' atipico e, comunque, non soltanto un giallo.

Tanto segreto quanto misterioso, del Cimitero dei Libri Dimenticati, non si sa per certo né come né quando sia sorto ma di esso si conosce il (pregevole) compito: preservare quei libri che, altrimenti, il tempo destinerebbe all'oblio, nella speranza che un giorno ognuno di essi possa trovare un nuovo lettore che se ne prenda cura e si impegni a "mantenerlo vivo" per sempre.
Con (immancabile) stupore, Daniel si aggira (e con lui anche il lettore) in "quel labirinto che odorava di carta vecchia, polvere e magia" e alla fine, "tra titoli ormai illeggibili e scoloriti dal tempo... rilegato in pelle color vino, col titolo impresso sul dorso a caratteri dorati", trova il 'suo' libro: "L'ombra del vento" di Julián Carax, una storia che lo affascina al punto da voler leggere poi tutte le altre opere dell'autore.
Ma il mistero avvolge la vita di Carax: nato a Barcellona all'inizio del secolo, sulla sua sorte non si sa nulla di certo, mentre uno sconosciuto si dà da fare per reperire e bruciare tutte le sue opere.
Il lettore segue un Daniel curioso, ingenuo ma a suo modo anche tenace, nel suo percorso di crescita per circa un decennio in una Barcellona sotto il potere del franchismo, mentre indaga sulla vita di Carax e, passo dopo passo, vede la sua intrecciarsi sempre di più con quella di Julián: dal passato dell'autore emergono amori inconsapevolmente impossibili, amicizie indissolubili, infanzie tormentate, antiche gelosie e rancori mai dissipati, un segreto a lungo nascosto e la follia omicida del perfido ispettore Fumero.
Una serie di somiglianze avvicina la vita di Daniel e quella di Carax: entrambi appassionati di libri, ad entrambi apparterrà una penna che un tempo era stata di Victor Hugo e poi la relazione tra Daniel e Bea che sembra ricalcare quella di Julián e Penélope, "la bella Penélope, era donna e pertanto tesoro, non tesoriere".

Al fianco di Daniel ci saranno un padre dall'animo malinconico, il più delle volte in disparte a differenza di un vagabondo, Fermin, che diventerà per Daniel un amico fedele, insospettabilmente perspicace e coraggioso (di certo uno dei personaggi che conquista più facilmente le simpatie del lettore assieme a Miquel, l'amico di Julián e a Nuria Monfort, la donna da sempre innamorata di Carax).

Non mi sento di sconsigliare la lettura di questo libro, tuttavia non posso annoverarmi tra i lettori a cui è stato "capace di toccargli davvero il cuore" e dirne con il loro stesso entusiasmo.

"L'eco di parole che crediamo dimenticate ci accompagna per tutta la vita ed erige nella nostra memoria un palazzo al quale - non importa quanti altri libri leggeremo, quanti mondi scopriremo, quante cose apprenderemo - prima o poi faremo ritorno".

Personalmente non ho trovato tra queste pagine il palazzo di parole cui farò ritorno.
Del libro però ricorderò l'immagine del Cimitero dei libri dimenticati, un'immagine che mi fa pensare al più piccolo, ma non per questo meno ricco e labirintico, 'cimitero di storie dimenticate' che risiede, dove più dove meno, nella memoria di ognuno di noi. Storie che un giorno potrebbero lasciarsi scegliere da qualcuno, o scegliere qualcuno, cui affidarsi per continuare a vivere. Un 'nuovo lettore' grazie al quale l'eco di quelle vecchie storie risuonerà in modo diverso e si ritroverà "la voce e la penna" per scriverne (o almeno provare a scriverne) di nuove.

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Anna_ Opinione inserita da Anna_    31 Dicembre, 2020
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Dovrai perdermi... Per ritrovarmi...

Tomàs, con le sue incertezze, è il protagonista adulto di una favola moderna, non ha ancora trovato la sua vera strada, ha poca fiducia in sé, vive la vita senza entusiasmo.

"Aveva imparato da qualche parte che quando un sogno ti resta incollato addosso per molto tempo significa che non è più un'illusione, ma un segnale che ti sta indicando la tua missione nella vita. Cucinare spaghetti. Fare calcoli. Riparare orologi. Ciascuno ha la sua e l'errore consiste nel credere che una sia più importante dell'altra, solo perché non tutte procurano fama e denaro."

Ogni sua relazione è destinata al fallimento perché le emozioni per Tomàs vanno tenute a distanza.

Attraverso un viaggio simbolico presso le Terme dell'Anima dove troverà di volta in volta dei maestri che lo guideranno alla ricerca di sé, Tomàs si guarderà dentro, riuscirà a vedere se stesso e gli altri da una prospettiva diversa, i ricordi del passato non potrà cancellarli ma imparerà a lasciare andare il dolore associato ad essi, a trovare un senso agli eventi e alle scelte, anche a quelle sbagliate.

"Ora che hai visto il senso di tutto, sai che tutto aveva un senso... Perciò ti ripeto la domanda: vuoi andare avanti?"

La chiave per giungere al lieto fine è la più ovvia e al tempo stesso anche la più difficile: l'amore (e il perdono) per se stessi prima, per gli altri poi. Solo così potrà buttare via la rassegnazione e 'abbracciare' anche la paura riscoprendo il coraggio. Perché: "Passa attraverso mille strade la verità che cerca il viaggiatore, ma tutte conducono allo stesso luogo: l'amore".

Ho trovato passaggi e citazioni piacevoli, la trama in sé non mi è dispiaciuta, ma dopo una prima parte, abbastanza scorrevole a leggersi, mi sono imbattuta nel viaggio alle Terme dell'Anima dove 'un troppo' nella narrazione ha fatto venir meno fluidità e leggerezza nella lettura.

Libro per me distante da "Fai bei sogni" che mi è piaciuto certamente di più.

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Anna_ Opinione inserita da Anna_    20 Dicembre, 2020
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Il presepe napoletano

Alberista o presepista?

La distinzione tra i due per Luciano De Crescenzo era "tanto importante che, secondo me, dovrebbe comparire sui documenti di identità... Il primo tiene in gran conto la Forma, il Denaro e il Potere; il secondo, invece, pone ai primi posti l'Amore e la Poesia. Tra le due categorie non ci può essere colloquio, uno parla e l'altro non capisce".

Ingegnere, scrittore, sceneggiatore, attore e regista, sempre affascinato (non solo lui) da quella stradina del centro storico, San Gregorio Armeno, dai suoi pastori e dalle meraviglie dei maestri presepisti, De Crescenzo, scomparso lo scorso anno, con "Gesù è nato a Napoli", ha provato a trasmettere ai lettori la sua stessa passione per il presepe.

Muovendo dalle similitudini tra la cultura pagana e quella cristiana, lo scrittore intreccia, con ironia, mito, storia e ricordi personali arrivando fino al presepe napoletano.
Così facendo, da un lato, ne ricostruisce le origini e ne descrive i vari personaggi, dai re Magi alla lavandaia, da Stefania all'oste fino ad arrivare ai suoi preferiti, il Pastore della Meraviglia, "la personificazione dello stupore... È come un omino delle emozioni", e Benino, "forse il più simpatico dei pastori che vanno a adorare Cristo, perché dovete sapere che lui è il pastore che dorme... Benino interrompe il suo sonno all'Annuncio della Nascita e per questo il suo risveglio simboleggia la rinascita a una nuova vita".
Dall'altro lato evidenzia come il presepe sia appunto luogo di simbologie (l'acqua, il pozzo, la lavandaia, ...) ma anche di anacronismi (il cacciatore con il fucile, alcuni bottegai, ...).

Un presepe, quello napoletano, che ogni anno si arricchisce di nuovi pastori ispirati ai personaggi attuali e moderni le cui statuine nascono dalla fantasia dei vari artigiani di San Gregorio Armeno: "Visto che andranno sul presepe, però, non dovete pensare che quei personaggi siano tutti buoni". Lo stesso De Crescenzo è divenuto a suo tempo un pastore: "quando me l'hanno regalato, sono tornato a casa pieno di orgoglio e ho sistemato il pastore De Crescenzo fra tutti i premi che ho ricevuto nella vita".

Un libro che regala qualche ora di storia e curiosità agli amanti, e non, del presepe.











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Anna_ Opinione inserita da Anna_    12 Dicembre, 2020
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Tra parentesi, una camelia.

"Come facciamo presto, dall'apparenza e dalla posizione, a trarre conclusioni sull'intelligenza di tutti gli esseri".

Bassa, brutta, grassottella, sempre educata, consapevole di non essere amata ma tollerata perché "corrispondo fedelmente al paradigma della portinaia forgiato dal comune sentire": Madame Michel, Renée, è, da ventisette anni, lì nella guardiola del lussuoso palazzo al numero 7 di rue de Grenelle, a Parigi.

Ma com'è una portinaia secondo "il comune sentire"? Per certo non può leggere Marx né Husserl, o avere interesse per opere di storia e di letteratura (soprattutto letteratura russa), per la cultura giapponese, il cinema e l'arte; e se per il "comune sentire" non sorprende che una portinaia scambi un incunabolo per "qualcosa di scabroso", non altrettanto normale è che chiuda la porta in faccia alla ricca e saccente di turno ("Questa poi, è il colmo!"), che però bussa alla guardiola un'ora prima dell'orario di apertura, o che si astenga dall'annaffiare le piante, anche se è domenica.

Renée (con la sua attitudine alla filosofia -materia di cui l'autrice è stata docente - che proprio non riesco a condividere, mi ha reso un po' pesante la lettura di alcune pagine) ci tiene a "rimanere discreta", a tenere celata la sua identità di colta autodidatta, e può di certo stare tranquilla: quando, incauta, con quel suo "modo strampalato" cita al giovane Antoine Pallières "L'ideologia tedesca", a proteggerla c'è la "forza di pregiudizi millenari" a cui il Pallières non sfugge; lì nel palazzo i ricchi (eccetto qualcuno), troppo pieni della convinzione che "la loro vita segue un solco celeste scavato naturalmente per loro dal potere del denaro", la conoscono sì, "ma non l'hanno mai vista" per cui come potrebbero cogliere ciò che lei da tempo ha racchiuso nella sua "interiorità inaccessibile a chiunque"?

Anche la dodicenne Paloma, che vive nello stesso stabile, in uno dei suoi lussuosi appartamenti, ha un'interiorità di cui nessuno si accorge. Suo padre è un ricco politico, sua madre "si è letta l'opera omnia di Balzac e cita Flaubert a tutte le cene" ma vede la vita come "una serie di azioni esorcizzanti... che danno una breve illusione di sicurezza", sua sorella Colombe pensa che lei sia un'idiota. Consapevole della sua ''intelligenza addirittura eccezionale" nonché di essere, rispetto agli adulti, "molto più furba della maggior parte di loro", Paloma non condivide il modo di vivere e vedere il mondo né dei genitori né della sorella, lei da grande "nella boccia dei pesci rossi" non vuole finirci. Lei (la cui sensibilità ci sta, ma la cui genialità e lucidità di critica mi sembrano po' eccessive per i suoi dodici anni) capisce quando qualcuno è "uno cattivo sul serio", osservando ciò che succede intorno a lei, sa scorgere l'intelligenza dietro un'apparente stupidità. Il suo malessere la porta a meditare di suicidarsi nel giorno del suo tredicesimo compleanno.

L'asimmetria per età, condizione sociale e vissuto non impediscono l'amicizia tra Renée e Paloma, possibile grazie all'arrivo di Monsieur Ozu.

"Si direbbe che voglia essere smascherata".

Monsieur Ozu. Il senso e la bellezza del libro, per me, risiedono in lui: uomo "piuttosto basso, magro, il viso rugoso ma ben delineato. Tutta la sua persona trasuda benevolenza, ma avverto anche decisione, allegria e una bella determinazione". Monsieur Ozu, ricco sì pure lui, "che cerca le persone e che vede oltre", scorge i dettagli, e si fa strada verso quell'interiorità che, poggiando su un'antica paura, per Madame Michel è divenuta nel tempo rifugio (e anche un po' prigione). Perché Renée con suo marito Lucien è stata felice, alla sua amica Manuela affiderebbe la sua vita, ma "affidare la propria vita a qualcuno non è la stessa cosa che aprire il proprio animo".

Chiudersi a riccio è difesa, bisogno, assenza di attese, ma quell' "insaputo" prima o poi trova il modo di percorrere la sua strada in noi per trasformare, a suo tempo, quell' "interiorità inaccessibile a chiunque" in porta che si (ri)apre alla ricerca del proprio, personale "istante di bellezza dove il tempo non è più lo stesso".

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Anna_ Opinione inserita da Anna_    29 Novembre, 2020
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Vana ricerca, vana illusione.

Vana ricerca, vana illusione.

Mattia Pascal, protagonista e narratore del romanzo, ad un certo punto della sua vita, ha la possibilità di lasciarsi tutto alla spalle: la sua giovinezza dissipata, un matrimonio infelice (una famiglia-prigione rispetto alla famiglia-nido di origine), una suocera arcigna e insopportabile, l'oppressione dei creditori dovuta all'avido Malagna, a cui la madre aveva ingenuamente affidato l'amministrazione dei beni di famiglia: "Come una cieca, s'era abbandonata alla guida del marito, rimastene senza, si sentì sperduta nel mondo".

Proprio quando, ormai, non ha più alcuna speranza di realizzare una vita più felice e autentica, il caso, infatti, comincia a sorridergli.
Viene prima una vincita al gioco a Montecarlo, poi, la notizia del ritrovamento di un cadavere, lì nella gora della Stia, a Miragno, nei giorni in cui, stanco di quella vita e addolorato per la perdita degli affetti a lui più cari, era fuggito lontano da casa; chiunque egli sia, in quel morto, la moglie Romilda e la madre di lei, la vedova Pescatore, forse non senza malafede, riconoscono lui.
E allora perché non profittarsi del favore del caso? Quel morto è la sua seconda occasione (chi non ne vorrebbe una?) per fare le scelte giuste, essere finalmente se stesso, condursi verso una vita più vera.
"Io dovevo acquistare un nuovo sentimento della vita, senza avvalermi neppure minimamente della sciagurata esperienze del fu Mattia Pascal... Procurerò di farmela più tosto con le cose che si sogliono chiamare inanimate, e andrò in cerca di belle vedute, di ameni luoghi tranquilli. Mi darò a poco a poco una nuova educazione... sicché, alla fine, io possa dire non solo di aver vissuto due vite, ma d'essere stato due uomini".

Nasce così, nel nome e gradualmente nell'aspetto, un uomo nuovo, Adriano Meis.
"Recisa di netto ogni memoria in me della vita precedente,... l'anima mi tumultuava nella gioia di quella nuova libertà".
Ma Adriano Meis ha un passato frutto della fantasia e, poco a poco, quella libertà gli rivela ogni suo disinganno.
"Chi sono io? Che rappresento in questa casa?"
Adriano Meis vorrebbe un cane e una casa tutta sua ma non può averli, si innamora ma non può sposarsi, gli rubano del denaro ma non può difendersi: Adriano Meis cade anch'egli nella rete di nuove limitazioni, assurdità, e di relazioni che non può vivere fino in fondo perché la sua identità anagrafica non è riconosciuta dalla società. Rassegnato, il protagonista decide allora di far morire Adriano Meis, inscenandone il suicidio, onde consentire all'altro, Mattia Pascal, di ritornare alla vita.

"Dovevo rinnestarmi alle mie radici sepolte... Folle! Come mi ero illuso che potesse vivere un tronco reciso dalle sue radici?... Folle!... M'era parsa quella la liberazione! Sì, con la cappa di piombo della menzogna addosso!"

Ma a Miragno la situazione è diversa da quella che lui crede: la moglie si è risposata e nessuno si ricorda di lui; decide di non far valere i suoi diritti legali sulla moglie, non torna entro quella forma in cui un tempo si era chiuso, entro quelle forme (maschere di figlio, marito, amico, bibliotecario) attraverso cui si è definiti dagli altri e la società consente di vivere. E egli non vive.

Troviamo nel romanzo i temi cari a Pirandello: apparenza verso realtà (per cui la verità non è mai una soltanto), la solitudine dell'uomo e il suo bisogno di evadere da una società che impone delle maschere, l'inutile ribellione alla forma perché al di fuori della gabbia delle convenzioni sociali non c'è vita ma solo esclusione, l'incidenza del caso sulla vita.

Mattia Pascal, infatti, si ribella ma null'altro gli è concesso che una parentesi di illusoria felicità; morto due volte, morto e vivo allo stesso tempo, vittima della sua inettitudine e del suo desiderio di una nuova vita. Da persona reale quale è all'inizio del romanzo, egli diventa un uomo vuoto, da persona è divenuto personaggio: gli rimane solo, alla fine, il veder vivere e il lasciarsi vivere all'ombra della sua unica certezza, egli è il "fu" Mattia Pascal.

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Anna_ Opinione inserita da Anna_    16 Novembre, 2020
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Poco oltre. A volte non di più.

Intelligente ma a suo dire anche imbranato, sognatore, amante della poesia e di Petrarca, Federico, il giovane diciassettenne protagonista del romanzo (alter ego dello scrittore), si interroga: "Cosa è tutta questa vita scomposta dentro di me a cui non riesco a dare un nome?" perché "Ci sono giorni in cui il vuoto morde il petto e il nulla logora le viscere, so che dovrei darmi una mossa ma tutto quel vuoto e quel nulla mi paralizzano".
E nel mentre va cercando le risposte, continua la sua vita di ragazzo della 'Palermo bene' e si prepara a partire, ora che la scuola è finita, per una vacanza studio vicino a Oxford proprio come ha fatto tempo prima suo fratello Manfredi, più grande di lui: i genitori infatti sono fissati con l'inglese e poi se Manfredi è d'accordo vuol dire che è la cosa giusta da fare.
Le domande di Federico trovano pian piano risposta. Poco oltre. Perché a volte non serve di più.

3P, Padre Pino Puglisi, il professore di religione, lo invita a dargli una mano, prima di partire, a Brancaccio, periferia di Palermo, dove lui cammina, instancabile, a testa alta tra le strade del quartiere, a stretto contatto con i bisogni di una realtà dove tutto "È troppo pericoloso" perché "Quella è gente che è meglio starci lontano" e cerca di offrire un modello alternativo alla mafia soprattutto ai bambini, che sono i più fragili, i primi a subire il fascino degli uomini di rispetto: "bisogna cominciare dai bambini, bisogna prenderli prima che la strada se li mangi, prima che gli si formi la crosta intorno al cuore".
Federico accetta.
E poi...
Un pugno in faccia, una bici rubata e l'inferno "attaccato addosso", "portato dentro casa come un virus sconosciuto".
E poi...
E poi lì, a Brancaccio, c'è Lucia che frequenta le magistrali perché vuole diventare maestra, ama il teatro e, tenace e con la sua "scanzonata fierezza", non vuole andarsene dal suo quartiere; e c'è Francesco, sei anni, che scoppia a piangere perché lui "vuole aggiustare le cose, non romperle"; e ancora Totò il cui "padre è un operaio e la mamma una parrucchiera... una di quelle famiglie che lavora in silenzio e cerca di educare i figli come può... Lo sfottono perché da grande vuole fare il direttore d'orchestra". E poi ancora Dario, Riccardo, Serena...

Intrecciando finzione narrativa e realtà, con questo romanzo di formazione in cui a crescere e ad affrontare le proprie incertezze e fragilità non è solo il suo protagonista principale, D'Avenia ha condiviso con i suoi lettori il ricordo di Padre Pino Puglisi, da lui conosciuto durante gli anni del liceo, il parroco dal sorriso sempre disponibile, sorriso mantenuto fino all'ultimo, quando è stato ucciso dalla mafia a Brancaccio, nel giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno, perché 'reo' di essere stato un parroco tra la gente, per la gente.

Poco oltre, non di più: è questa una delle sensazioni che rimane dopo la lettura del romanzo. Perché poco oltre i confini che (de)limitano la nostra realtà, la nostra quotidianità, ve n'è sempre un'altra di cui si sa poco o nulla ma che vive parimenti di sogni e desideri, frammisti a sacrifici e incertezze finanche a indifferenza e violenza.
E trovare il bello e il buono che anch'essa nasconde è possibile solo smettendo gli occhi del pregiudizio e del giudizio, che inizialmente animano Federico e il fratello.
Perché dopotutto "L'elemosina non basta, ci vuole l'amore... Non ci vuole la forza, ci vogliono la testa e il cuore. E le braccia".

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Anna_ Opinione inserita da Anna_    05 Novembre, 2020
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Nel cuore di una "piccola, goffa harami"

Il cuore di Nana è pieno di risentimento verso la vita e le parole di quel risentimento sono quelle con cui si rivolge a sua figlia Mariam. Mandare a scuola lei? E perché esaudire questo suo desiderio? "Sarebbe come lustrare una sputacchiera". A donne come loro serve imparare una sola abilità nella vita: il tahamul, la sopportazione, e ad insegnargliela può bastare lei. Sì, perché Nana ne è convinta: il destino di sua figlia è già segnato. È una donna e "il dito accusatore dell'uomo trova sempre una donna a cui dare la colpa". Ma sopra ogni cosa, Mariam è una harami, una bastarda, "qualcosa di indesiderato", e mai avrebbe potuto rivendicare per sé le stesse cose cui i suoi fratelli e le sue sorelle, degli estranei per lei, hanno invece diritto: "l'amore, la famiglia, la casa, l'essere accettata".

"Pensi che ti consideri una figlia?... Non hai altro che me al mondo, Mariam... Sai che ti voglio bene, Mariam jo."

Tuttavia Mariam si fida di Jalil, suo padre, uno degli uomini più ricchi di Herat; lui le insegna a pescare, a disegnare un elefante con un solo tratto, le insegna poesiole. Lei lo attende con ansia ogni giovedì alla kolba di legno in cima ad una collina. Accanto a lui, Mariam "sentiva di meritare tutta la bellezza e la bontà che la vita aveva da offrire".

È il 1974 e i suoi quindici anni segnano una triste svolta nella sua vita. Il risentimento di Nana le raccontava la verità: Jalil, suo padre, non ha il dil, il coraggio, e lei, Mariam, per le sue tre mogli legittime rappresenta "la personificazione in carne ed ossa della loro vergogna" e ora, che Nana non c'è più, non rinunciano all'occasione di allontanarla per sempre dalle loro vite.

Laila, "Bellezza della notte", "Ragazza Inqilabi, ragazza Rivoluzionaria" perché nata la notte del colpo di stato dell'aprile 1978, è invece orgogliosa del suo Baba, "orgogliosa della dedizione che le riservava e determinata a continuare gli studi come aveva fatto lui". La presenza di suo padre però compensa solo in parte l'assenza di Fariba, sua madre, ancorata al ricordo di Ahmad e Nur, i figli che la jihad le ha portato via. Laila non ha che un vago ricordo di loro, "Era difficile sentire, sentire veramente la perdita patita dalla mamma". Per lei suo fratello è Tariq, il figlio dei vicini, suo compagno di giochi che la difende dai dispetti dei coetanei. Tariq, un amico, un amico speciale.

Ad unire le vite, così diverse, di Mariam e Laila ci saranno la guerra e Rashid.
La guerra, inferno per il paese, per Kabul, priva Laila dei suoi affetti, ma le insegna a mettere da parte se stessa quando c'è un bene più grande da preservare.
Quella stessa guerra 'concede' a Mariam di vedere la sua vita attraversata da "alcuni momenti di bellezza".

"Pensa come deve pensare una madre, Laila jo. Pensa come una madre. Io lo sto facendo."

Sotto la coltre del tahamul, della vergogna, del disprezzo, dei falsi spiragli di felicità, quella "piccola, goffa harami" ha custodito la capacità di dare amore e una silenziosa e insospettabile forza.

"Pensò al suo ingresso in questo mondo, figlia harami di una povera ragazza di paese, una cosa indesiderata, un malaugurato, increscioso incidente, un'erbaccia. Eppure lo lasciava dopo essere stata un'amica, una compagna, una donna che si era presa cura degli altri. Una madre. Una persona di valore, finalmente. No. Non era poi tanto male che dovesse morire in quel modo, pensò Mariam. Era la fine legittima di una vita che aveva avuto un inizio illegittimo".

Un romanzo coinvolgente che dà spazio all'Afghanistan, alla sua storia e alla sua cultura soprattutto attraverso le voci e la forza delle donne.





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Anna_ Opinione inserita da Anna_    25 Ottobre, 2020
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Giungo all'ultima pagina del romanzo e sorrido.

Vanità e orgoglio. Superiorità di classe e pregiudizio. Matrimonio d'amore e matrimonio di interesse: sono questi i temi di "Orgoglio e Pregiudizio" che Jane Austen definì "my own darling Child", il mio adorato Bambino. Si dedicò alla sua stesura quando aveva solo ventun'anni, anche se il romanzo rimase inedito fino al 1813.
"First impressions" era il titolo originario, che richiamava quelle prime erronee impressioni che Mr Darcy ed Elisabeth Bennet hanno inizialmente l'uno dell'altra. "È passabile, ma non abbastanza bella da tentare me; e al momento non sono dell'umore adatto per dare importanza a ragazze che sono ignorate da altri cavalieri", dice lui della secondogenita dei Bennet; dal canto suo, lei "con sentimenti non molto cordiali nei suoi confronti. Tuttavia raccontò la storia con grande spirito alle sue amiche". Pur d'accordo con la sua amica Charlotte secondo cui "non ci si può meravigliare che un giovanotto così raffinato... abbia un'alta opinione di se stesso", Elisabeth afferma "potrei facilmente perdonare il suo orgoglio, se non avesse umiliato il mio".
E saranno proprio loro, Mr Darcy ed Elisabeth, le creature letterarie più care alla Austen che della giovane Bennet dirà che è "la creatura più delicata mai stampata".

Nata e cresciuta in una famiglia con sei fratelli, vissuta a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, epoca in cui era impensabile che una donna potesse occuparsi in modo professionale di scrittura e guadagnare con essa, la Austen riflette la società del suo tempo (la socialità basata sulle visite ai vicini, i balli quali occasioni per trovare un marito, il matrimonio come mezzo affinché una donna di ceto medio-alto potesse sistemarsi) e pone la sua attenzione preminentemente sull'universo femminile offrendo una varietà di caratteri.

"Donna di intelligenza mediocre, di poco sapere e di un umore instabile", dai modi indecorosi e con l'unica preoccupazione di vedere le figlie convenientemente sposate: è Mrs Bennet, la madre di Elisabeth e delle sue sorelle.
Sono ben cinque e tutte diverse tra loro le giovani Bennet. Jane, la primogenita, è bella e amabile anche se è eccessivo quel suo credere che "tutto il mondo è buono e simpatico"; Elisabeth, Lizzy o Eliza come affettuosamente la chiamano, ha un'intelligenza vivace, è allegra ma anche troppo orgogliosa della sua capacita di discernimento che non la mette al riparo dal pregiudizio. Il legame tra le due rimarca quello che per affetto e confidenze unì Jane alla sorella maggiore Cassandra. Mary, pomposa e stupida, appare la più insignificante tra le sorelle Bennet; Catherine e Lydia, le minori, sono pigre, ignoranti e vanitose, insicura la prima e pertanto facilmente influenzabile dall'altra che è assai più frivola.

E poi c'è lei, Charlotte Lucas, che affronta il matrimonio con un pragmatismo che sorprende e delude la sua amica Lizzy che vuole innamorarsi e sposare l'uomo che ama. Come la Austen rifiutò alcune offerte di matrimonio così Lizzy rifiuta di sposare Mr Collins. (Difatti in una lettera della Austen alla nipote Fanny Knight si legge " Qualsiasi cosa è preferibile o più tollerabile dello sposarsi senza affetto"). Charlotte invece è consapevole che il matrimonio "era infatti l'unica sistemazione possibile per una giovane donna di buona famiglia e con pochi mezzi e, sebbene non desse la certezza della felicità, era pur sempre la miglior garanza contro la povertà". (Analogamente in un'altra sua lettera la Austen scrive " Le donne nubili hanno una terribile propensione a essere povere - il che è un argomento molto forte in favore del matrimonio").
La superba altezzosità, l'orgoglio e la presunzione di Lady Catherine de Bourgh, zia di Mr Darcy, superano di gran lunga quelli delle sorelle Bingley.

Anche l'universo maschile offre una varietà di caratteri. Mr Darcy è altezzoso, riservato, orgoglioso ma in realtà è generoso e di animo buono, il suo amico Bingley invece è allegro e gioviale, spontaneo e signorile. Altrettanto gioviale ma non certo onesto è Wickham. Il signor Bennet "era un miscuglio di prontezza di spirito, umorismo sarcastico, riservatezza e volubilità", "a sua moglie doveva ben poco, se non il fatto che la sua ignoranza e stupidità avevano contribuito a farlo divertire" e proprio in ciò Lizzy ravvisa la sconvenienza del suo comportamento che lo porta a rifuggire dai suoi doveri di genitore né evita di "esporre la moglie al disprezzo dei suoi stessi figli".
Mr Collins invece è il personaggio più assurdo in assoluto, un po' a metà tra il noioso e il grottesco: è un uomo di poca intelligenza, ossequioso, pomposo, servile e presuntuoso fino ai limiti del comico come nella scena della proposta di matrimonio a Lizzy.

Giungo all'ultima pagina del romanzo e sorrido. Sono sì passati oltre duecento anni da quando Jane Austen ha pubblicato il suo romanzo eppure ho il sentore che (tra gli altri) delle signore in stile Mrs Bennet, a lei vicina per l'irriducibile convinzione, pur forse fondata su motivi diversi, dell'opportunità del matrimonio per una donna, le conosco anche io.
E forse è davvero proprio questo uno dei tratti distintivi del romanzo: i suoi personaggi.
La Austen ne tratteggia di sciocchi, frivoli, romantici, generosi, superbamente orgogliosi, presuntuosi, pragmatici, bizzarri, indolenti: sbagliano, tutti e spesso, perché sono fragili e imperfetti, comuni ma non banali, non impossibili né mai troppo lontani.

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Anna_ Opinione inserita da Anna_    12 Ottobre, 2020
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Incontrare la verità

"Che disgrazia.
Così giovane.
Povero bambino.
Brutto male.
Come se fosse esistito un male bello che ti faceva l'elemosina di lasciarti vivo."

Brutto male ha portato via la mamma di Massimo quando lui aveva appena nove anni. Una mezza verità. Perché ci sono verità che ai bambini non si possono raccontare per intero: sono piccoli e non possono capire. Magari un giorno, quando saranno grandi...
Ma di quella verità, il piccolo Massimo, inconsciamente, coglie, si avvicina alla metà che gli verrà taciuta per quarant'anni. Nessuno gliene parlerà prima, nemmeno suo padre. Già, suo padre. Un uomo capace di essere severo ma non anche sensibile, non un maschio femmina, un "maschio e basta, cresciuto nel mito di due uomini forti: nonna Emma e Napoleone."

"Una sola volta osai chiedergli quale fosse, in una classifica ipotetica delle disgrazie, la più meritevole del primo posto: la scomparsa prematura di una moglie o di una madre... Mi tenne un discorso molto razionale... dei due chi stava messo peggio ero io, perché una moglie si può sostituire, una mamma no."

Ma il piccolo Massimo prova a riempire quel vuoto cercando affetto anche nella rigida Mita, la tata da cui si aspettava di essere "riempito di baci e torte di cioccolato".
Massimo diventa grande in mezzo a tanti "se": se la mamma era scappata con Brutto male era perché non gli voleva più bene, "se ogni tanto qualcuno facesse il tifo per me", se la mamma fosse stata viva avrebbe potuto chiederle dei consigli sulle ragazze.
"Non sei più quel che eri, bambìn. Hai preso freddo. Ogni tanto penso al calduccio in cui saresti cresciuto, se ci fosse stata la tua mamma."
Massimo, ormai adulto, ancora ci ripensa con rabbia: "Nessuno mi ha insegnato niente. Nessuno!"

Se c'è un amore per il quale è inconcepibile che possa essere fragile, arrendevole, egoista, è certo l'amore di un genitore per il proprio figlio, e ancora di più quello di una madre.
Eppure "Sapevo da sempre com'era morta, ma avevo deciso da subito di non volerlo sapere."
Per il Massimo adulto giunge il momento di guardarsi indietro per l'ultima volta. Ci sono domande per le quali una risposta, dopo tanti anni, non ha più alcuna importanza. Non serve, non più ormai. Perché è tempo di smettere di annaspare in un mare di rabbia e di se. È tempo di lasciare andare. Perdonare e perdonarsi.

"Fai bei sogni", è uno spaccato autobiografico che Gramellini condivide con i suoi lettori, ripercorrendo la perdita della madre e il suo percorso di crescita fatto di insicurezze e paure dovute all'assenza di quegli abbracci che sanno di "slancio primordiale".
Chi si aspetta un romanzo che faccia commuovere fino alle lacrime non lo troverà: l'autore sceglie una prosa leggera, asciutta, a tratti ironica ma non per questo meno capace di offrire uno spunto di riflessione sull'incapacità che hanno talvolta gli adulti sia nell'affrontare il proprio dolore per la perdita di un affetto sia nell'aiutare un bambino che si ritrova a vivere, anche se in una veste diversa, quello stesso dolore.
La lettura suscita, nel contempo, tenerezza verso il Massimo bambino e un sorriso dinanzi alla descrizione di nonna Emma e infonde un senso di speranza perché la vita ad un certo punto può (davvero per tutti?) finalmente "risorgere come una corrente d'aria fresca".

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Anna_ Opinione inserita da Anna_    05 Ottobre, 2020
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La rosa, la volpe e i baobab

Favola moderna dai tratti autobiografici, "Il Piccolo Principe" è uno dei libri più letti e venduti al mondo, vanta centinaia di traduzioni tra cui anche quelle in vari dialetti italiani (in napoletano, salentino, milanese per citarne alcuni). Pubblicato per la prima volta in lingua inglese nel 1943, in Francia uscì dopo la scomparsa del suo autore.
Saint-Exupéry lo dedicò ad un suo grandissimo amico, Leon Werth, scrittore ebreo francese, che non riuscì a fuggire dalla Francia prima dell'arrivo dei nazisti. Come lo stesso Saint-Exupéry ha sottolineato, il suo racconto è più propriamente dedicato "al bambino che questa grande persona è stato", con ciò indicando i bambini come i lettori principali ma non unici del suo libro.

Sin dall'inizio si coglie un tratto autobiografico: il Narratore- protagonista è un pilota che, a seguito di un'avaria, si ritrova nel deserto del Sahara e la sua prima preoccupazione è riparare al più presto il motore prima che la sua riserva di acqua si esaurisca; analogo incidente era capitato nel 1935 a Saint-Exupéry, infatti volare e scrivere sono sempre state le due più grandi e inscindibili passioni dell'autore.
Nel deserto il Narratore-aviatore (l'adulto) incontra il Piccolo Principe (il sé bambino): la contrapposizione dei due mondi, quello degli adulti e dei bambini, attraversa tutto il racconto e già dalle prime pagine emergono alcuni messaggi del libro: diventando adulti si perdono la curiosità, la fantasia e la creatività tipiche dei bambini e gli adulti, con il loro modo razionale e pratico, finiscono con lo scoraggiare i bambini. Tale infatti era stata l'esperienza del Narratore che a sei anni aveva mostrato ad alcuni adulti due disegni di un boa che aveva ingoiato un serpente ma in entrambi i casi gli adulti vi avevano visto sostanzialmente un cappello scoraggiando così ogni interesse del bambino per il disegno.
Il Piccolo Principe invece no, lui riesce a comprendere quel disegno e a vedere poi una piccola pecora che dorme in quella che al primo impatto è una cassetta con tre fori. Questo perché "L'essenziale è invisibile agli occhi", proprio come poi confiderà la volpe al Piccolo Principe.

Ma esiste davvero il Piccolo Principe? Da dove arriva? Ai grandi, affinché credano alla sua esistenza, non basterà sapere che era bellissimo e voleva una pecora, loro vorranno dati certi e perciò il Narratore precisa e descrive da dove viene il Piccolo Principe, dall'asteroide B 612.

Insieme a questo piccolo ometto, noi lettori compiamo un viaggio in cui tutto è metafora di qualcosa e porta un messaggio (a volte ovvio ma non poi così tanto visto che nella realtà sovente noi grandi ce ne dimentichiamo).
Così è per il deserto quale luogo di smarrimento, sia per il Narratore-pilota sia per il Piccolo Principe, ma anche luogo di ritrovamento di se stessi.
Alla rosa, bella, delicata, vanitosa, si ricollega l'unicità di un rapporto che è tale non per la bellezza del fiore quanto per la cura e la dedizione che il Piccolo Principe le dimostra e per il fatto che lei profumi il suo pianeta; un legame di cui lui però non è ancora consapevole, ha difficoltà nel gestire il suo rapporto con lei, come confiderà poi al serpente, e per questo parte per un viaggio che, tuttavia, si rivela necessario alla sua crescita personale.
I baobab, semi cattivi che ogni giorno il Piccolo Principe estirpa dal suo pianeta prima che diventino alberi grandi perché "un baobab se si arriva troppo tardi, non si riesce più a sbarazzarsene", ben possono rappresentare le emozioni negative dell'animo umano, tristezza e rabbia finanche le paure; altri affermano che Saint-Exupéry con i baobab intendesse riferirsi alla minaccia del Nazismo.
Gli stessi umani che il Piccolo Principe incontra nel suo viaggio mettono in risalto difetti del mondo degli adulti: l'illusione del potere e dell'autorità (il re); la maggiore importanza data all'apparire e non all'essere (uomo vanitoso); l'avidità (uomo d'affari); la corsa contro il tempo (mercante di pillole).

L'incontro con la volpe, che qui non è il tradizionale animale furbo ma si rivela saggio, è determinante per il Piccolo Principe: è da lei che questo ometto imparerà il vero significato dell'amicizia e dell'unicità del suo legame con la rosa; addomesticare, gli spiegherà la volpe, significa creare legami, diventare "unico al mondo per qualcuno" ma perché ciò avvenga sono necessari la pazienza e i riti. E anche quando un'amicizia finisce, non occorre piangere per questo, occorre pensare al legame affettivo che si è creato e che di certo ci arricchisce proprio come avviene per la volpe con il suo piccolo amico. "Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell'oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano..."

Durante il suo viaggio il Piccolo Principe maturerà il sentimento di rimorso per aver abbandonato la sua rosa, per averla giudicata dalle sue parole e avrà desiderio di tornare a casa: desiderio per il quale lo aiuterà il serpente.

Ad una tenace curiosità, tipica dei bambini, che lo porta a porre continue domande e ad insistere per avere delle risposte, il piccolo ometto contrappone una certa ritrosia nel rispondere a quelle che invece gli vengono poste, e talvolta (altro aspetto autobiografico) arrossisce; la sua figura può non trovare unanimi consensi: a qualche lettore può suscitare tenerezza ad altri può venire a noia. Io mi sento parte dei primi e consiglio questa lettura.

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Anna_ Opinione inserita da Anna_    28 Settembre, 2020
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Compagno di vita

In "Attraverso i miei piccoli occhi" (romanzo che ha avuto grande successo in Spagna), Emilio Ortiz attinge alla sua personale esperienza: egli stesso affetto da una malattia progressiva che lo ha reso prima ipovedente, poi totalmente cieco, ha sperimentato cosa significhi poter contare nel quotidiano su un fedele ed inseparabile amico a quattro zampe, il suo cane guida Spock. In queste pagine ci consegna una nuova testimonianza di un legame unico e speciale e lo fa in modo inconsueto.

Impulsivo, curioso, giocherellone, assai goloso, ma anche leale, fiero ed orgoglioso del suo lavoro: lui è Cross, giovane Golden retriever di diciannove mesi, che sin dalla nascita è stato scelto per essere un cane guida. Protagonista ma anche voce narrante della storia, Cross ci racconta di sé e di Mario, il suo padrone che "profuma di biscotto lontano": con il tempo imparano a prendersi cura l'uno dell'altro.
Accanto a Mario, Cross sperimenta la sensazione di appartenere a qualcuno e diventa sempre più consapevole che il suo è un compito di responsabilità: "Ma che cavolo di differenza fa per un cieco se è notte o giorno? Anni dopo, o forse soltanto qualche mese dopo, compresi o percepii che... Ci sono luoghi che durante il giorno sono caotici e di notte tranquilli, anche se a volte può capitare l'opposto. E poi c'è qualcosa che cambia in noi e nei bipedi, non ci sentiamo allo stesso modo di giorno o di notte. I ciechi, anche se non vedono la luce, percepiscono comunque questi cambiamenti, e sebbene non saprei spiegarlo né a parole né abbaiando, non si guida nello stesso modo di notte o di giorno. Punto e basta."
Dal canto suo Mario, grazie a Cross, supera la sua indifferenza verso gli animali e impara un modo di vivere senza rancore "né tristezza che non sia passeggera". Cross diviene gli occhi di Mario, ogni felicità, tensione, entusiasmo, o disorientamento di Mario diventano quelli di Cross.

Instancabile, fedele, geloso di quel bastone bianco da cui a volte viene sostituito, Cross non ha bisogno di spiegazioni: quando ormai stanco e non più capace come un tempo di essere d'aiuto per il suo amico, capisce da sé che è giunto il momento di separarsi. "Facevo sempre più fatica a tirarmi su da terra o dalla cuccia per andare a lavorare, le mie ossa erano ogni giorno più pesanti e mi muovevo goffamente, con i riflessi rallentati. Temevo di non poter lavorare come si deve e di danneggiare Mario. Combinai qualche marachella, ma diversa da quelle che avevo combinato da giovane... I miei sbagli senili, invece, lo rattristavano. E rattristavano anche me."

Tra un racconto e l'altro, Cross non risparmia critiche ironiche, irriverenti, e sovente meritate al mondo dei bipedi; diviene quindi portavoce dell'incapacità degli umani di amare senza attaccamento: "Hanno figli e devono essere sempre informati su di loro. Non spezzano mai il cordone ombelicale... Noi tiriamo su i nostri cuccioli e, quando non hanno più bisogno della mamma, li lasciamo liberi perché possano realizzare la loro missione."
E ancora Cross invita a guardare alla scarsa empatia verso i disabili e alle loro difficoltà per avere una piena inclusione sociale.

Chi ha condiviso o condivide il suo quotidiano con un amico a quattro zampe, sia pure soltanto un cane da compagnia, non avrà difficoltà a ritrovare un po' di se stesso o il suo amico peloso in qualcuno dei racconti di Cross.
La lettura leggera, scorrevole, a tratti divertente e commovente, avrebbe avuto una marcia in più se ci fosse stata una maggiore caratterizzazione di Mario, il protagobista umano, e qualche passaggio e/o dialogo un po' piatto in meno. Si fa apprezzare comunque per i riferimenti a film, canzoni, o testi letterari a cui di volta in volta si ispirano i vari capitoli.




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Anna_ Opinione inserita da Anna_    22 Settembre, 2020
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"So chi sei,avevo detto. L'ho sempre saputo"

Pari, tre anni, e Abdullah, dieci anni: le loro vite costituiscono il cuore del romanzo. Non un legame normale ma un legame speciale li unisce. Con instancabile dedizione e grande gioia, Abdullah si prende cura della sua sorellina sin dal giorno in cui la loro mamma è morta dandola alla luce. In lei, che è "la sola vera famiglia che avesse", ritrova parte del candore e dell'allegria della madre il cui volto, nei suoi ricordi, va sbiadendosi.
Pari, "come la città, ma senza la s. Significa fata, in farsi", cresce con la fiduciosa speranza che "niente di male potesse accadere fintanto che lui era al suo fianco". Vicini, anche quando saranno vecchi, per sempre: è questa la promessa che Pari ottiene da suo fratello, mentre su un carretto rosso, sono diretti a Kabul assieme al loro padre Sabur che aveva tentato invano di convincere Abdullah a restare a casa. Tra i bambini e la loro promessa ci sono degli ostacoli troppo grandi per la loro giovane età.

La rigidità degli inverni del piccolo villaggio di Shadbag non 'risparmia' chi nasce povero e questo Sabur e Parwana, la sua seconda moglie, lo sanno bene: occorre tagliare il dito per salvare la mano.
"Qualcosa che, benché doloroso nel breve periodo, avrebbe portato a un bene maggiore e duraturo per tutte le persone coinvolte". No, l'idea di zio Nabi, il fratello maggiore di Parwana, è solo un'idea ingiusta che soddisfa un duplice egoismo: il suo e quello di Nila Wahdati.
"Cos'ero io, Maman?... Un seme di speranza? Un biglietto per traghettarti dalle tenebre? Una pezza sullo strappo che portavi sul cuore? Se questo è vero, allora io non bastavo. Neanche lontanamente."

A volte una quercia, altre un cane o un carretto rosso: su quell'assenza che sembra arrivare dal passato, Pari costruirà la sua vita e troverà un suo equilibrio.
La sua tenera età l'ha un tempo preservata come "la pozione che cancellava i ricordi"; suo fratello Abdullah invece non ha potuto dimenticare né ha mai smesso di coltivare la speranza.

"Come un pesce costretto a risalire la corrente, cercavo di guidare la penna da destra a sinistra, contro la natura della mia mano. Pregavo Baba di farmi smettere, ma lui si rifiutò. Mi diceva che in seguito avrei apprezzato il regalo che mi stava facendo".

"So chi sei, avevo detto. Lo so da sempre."

Un pacchetto stipato in una valigia, sopra una busta con su scritto "Per mia sorella Pari". Nella busta un biglietto, scritto in farsi.
E poi "un piccolo sorriso di gratitudine, anche se tardiva, per tutti i martedì pomeriggio che Baba mi aveva accompagnato a Campbell per la lezione di farsi."

C'è sempre una storia coinvolgente tra le pagine che recano la firma di Khaled Hosseini. Questa volta l'autore afghano, in un arco temporale di circa sessant'anni a partire più o meno dagli anni Cinquanta del Novecento, in un viaggio dall'Afghanistan alla Francia, da San Francisco all'isola greca di Tinos, intesse un romanzo multiforme per personaggi e sentimenti. Alla storia di Pari e Abdullah, infatti, se ne intrecciano altre che ora la spiegano ora l'arricchiscono: è la storia di Parwana e dei suoi segreti o quella del matrimonio tra Nila e Suleiman Wahdati, un matrimonio infelice retto su due infelicità irrisolte. Altre vite invece sembrano microstorie a sé che, seppur interessanti e con messaggi importanti (su tutte la storia di Thalia), sortiscono il solo effetto di allontanare troppo dalle vicende di Pari e Abdullah risultando indesiderate agli occhi del lettore.
Tuttavia non mi sento, per quest'unico neo, di far venir meno il consiglio della lettura di questo libro sia a quanti, come me, apprezzano la scrittura limpida e a tratti poetica di Hosseini sia a chi ancora non conosce l'autore.

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Anna_ Opinione inserita da Anna_    06 Settembre, 2020
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Rebecca Schwart, la figlia del becchino

Rebecca Schwart, la figlia del becchino.
Rebecca Tignor, la signora Niles Tignor.
Hazel Jones. Gallagher. Hazel, chi?

"Quando sei tra i tuoi nemici, non mostrare mai la tua intelligenza né la tua debolezza". Le parole? Solo menzogne. Tu sei "una di loro". Sono passati anni da quel maledetto giorno, ma Rebecca non ha mai dimenticato gli ammonimenti di quell'uomo che un tempo, da bambina, adorava e che poi si era convinta di odiare. Assai prima di quel maledetto giorno.

Allo stesso modo, Rebecca Tignor "disprezzava profondamente la fragilità delle donne. Ne provava vergogna, la mandava in bestia. Era l'antica fragilità delle donne e di Anna Schwart, sua madre. La fragilità di una stirpe sconfitta." Eppure parte di quell'antica fragilità le appartiene e porta il nome di suo marito, Niles Tignor, un uomo che "aveva un'alta opinione di sé", che non rispondeva direttamente alle domande, specie se a porle era una donna. Tignor, il padre del bambino che lei ha ardentemente voluto, il secondo perché il secondo aveva potuto tenerlo. Qualcosa le suggerisce in cuor suo che sarebbe meglio se lo lasciasse ma l' "Amore. Somma debolezza". Lei lo ama e lo perdona ma Tignor non ha bisogno del perdono della SUA "zingarella", della "piccola", della SUA "ebrea". Dopotutto Tignor aveva salvato lei, la figlia del becchino di Milburn.

Lei, Rebecca Schwart, era stata "L'unica di quella dannata famiglia, così si espresse Herschel, a essere venuta al mondo su questa sponda dell'ozeano 'Tlantico... Perché ci aveva messo un casino a nascere... Ma' dilirava, non sembrava manco lei ma n'animale selvaggio... Pa' diceva che per tutto il tempo stava impazzendo per la preoccupazione. Diceva, e se non ci fanno sbarcare?"
Jacob Schwart aveva accettato quel posto di becchino del cimitero comunale, ringraziando i funzionari ma sapeva che "quegli altri" sbeffeggiavano lui e la sua famiglia: "Becchino!", "Ebreo", "Nazista". Leggeva nei loro occhi la pietà esattamente come leggeva negli occhi della moglie e dei figli la paura che avevano di lui. Ma Jacob Schwart aveva progetti per i suoi figli, non sarebbero rimasti a lungo "i figli del becchino"; Herschel e August avrebbero studiato, avrebbero costruito un loro avvenire migliore, loro che rappresentavano quello che la loro famiglia era nella madrepatria. Della più piccolina, a cui non si era affezionato temendo di perderla a pochi mesi, pensava che prima o poi si sarebbe sposata con uno di "quegli altri", e l'avrebbe persa. Era solo questione di tempo: era fuggito da Hitler, sarebbe fuggito anche da Milburn.

La figura di Jacob Schwart porta a chiedersi se un uomo che scappa dalla guerra, può mettere davvero in salvo i suoi figli, se parte di quella stessa guerra la 'porta' in sé, con sé? Forse Jacob Schwart amava i suoi figli, in cuor suo, a modo suo.

Hazel Jones. Rebecca era stata turbata parecchio dall'incontro con quello sconosciuto con il panama e gli occhiali scuri, vi aveva ripensato nei giorni seguenti. Era riuscito ad avvicinarla, le aveva parlato di un lascito da parte di suo padre, il dottor Hendricks, per lei, Hazel Jones. Sì, perché quel tipo non desisteva: era convinto che lei fosse Hazel Jones.
Un pericolo mancato o un'occasione per lei, la figlia del becchino, e per il suo bambino, Niles junior, che lei adora, che non si addormenta senza la radio accesa, che è predisposto alla musica?

Non si abbandona facilmente Rebecca e la sua storia, quel suo continuo rifuggire dal passato, dalla mancanza di un ambiente familiare sano, da vecchie fragilità di cui vuole liberarsi e che invece la portano ad abbracciare quel primo amore che si presenta nella sua veste 'migliore': la protezione; un amore malato che le porta invece nuove fragilità.
Niles Tignor, e una volta di troppo. È da qui che vediamo Rebecca crescere, prendere consapevolezza di sé (anche se è ancora un po' lontana dall'accantonare ogni paura): ora vi è una fragilità che deve essere difesa prima e più della sua; del resto lei se lo era ripromesso: con suo figlio non avrebbe commesso gli stessi errori che i suoi genitori avevano commesso con lei. E poi c'è un sogno, un'ambizione (riscatto per lei? O per il figlio?): un pianista, suo figlio diventerà un pianista, perché ha talento. Grazie anche all'aiuto di una mano amica, sincera, un uomo innamorato, paziente anche se a sua volta e a suo modo irrequieto, Chet Gallagher, Rebecca si reinventa in grembo a quel Nuovo Mondo a cui i suoi genitori, da immigrati, si erano sì affidati ma con poca fiducia e tanta paura. Perché forse suo padre, alla fine, è stato logorato, vinto da quella stessa Storia da cui era scappato. Perché forse la madre è riuscita a racchiudere il suo amore per lei solo in quei pochi attimi in cui sembrava illuminarsi mentre le faceva le sue raccomandazioni a proposito dei pericoli che in strada c'erano per una giovane donna. Era quello il solo modo in cui riusciva a proteggere la figlia e con lei, proteggere una parte di se stessa perché "Ti volevamo, Rebecca. Dio ti voleva. Io ti volevo. Non credere mai a quello che dice quell'uomo".

Dopotutto un motivo deve esserci se lei si è salvata quel maledetto giorno.
Lei "avrebbe conservato per sempre dentro di sé la bellezza e l'intimità di quei momenti."
Un'intima e sussurrata promessa? "Mio figlio. Tuo nipote. La sua faccia ti dirà qualcosa, quando lo vedrai."

Sebbene consigli la lettura di questo libro, le pagine più intense sono, a mio avviso, quelle che precedono la fuga di Rebecca e di suo figlio, una sorta di gioco, "non-fermarsi- mai"; nelle pagine successive infatti non sempre sono riuscita a mantenere costante l'interesse.

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Anna_ Opinione inserita da Anna_    24 Agosto, 2020
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Filèmone, chi?

Abbiamo davvero ciascuno un Angelo Custode che ci accompagna nel corso della vita, che ci indirizza verso le scelte migliori? A leggere la storia di Giò, non si può che rispondere di sì.

Abbiamo un Angelo Custode la cui presenza è tanto costante quanto discreta: pur di restare accanto alla persona che gli viene affidata, va ad infilarsi anche "in posti ben più squallidi del bagno di un aeroporto" e parla con una "voce flebile" che per riuscire ad ascoltare bisogna silenziare quelle più rumorose che si hanno nella testa. Se lo si cerca apertamente, lui si lascerà trovare.

Ed è esattamente quanto accade a Gioconda, detta Giò, che sta attraversando un momento di crisi, a causa sua, nel rapporto con il marito, Leonardo. Giò si ritrova nella casa dove i nonni, che ormai non ci sono più, hanno vissuto, insieme, per ben sessantuno anni. Un amore perfetto, pensa Giò.
Proprio qui, in un cassetto trova una lettera che, anni addietro, sua nonna,di cui le rimane la casa e il nome, aveva scritto al suo Angelo Custode e Giò decide di fare altrettanto perché "In una notte troppo lunga e troppo vuota, mi basta avere anch'io qualcuno a cui scrivere."
Giò scrive al suo Angelo Custode ma non crede che esiste. Non ci crede ma poi va ugualmente a controllare che lui le abbia risposto e, incredibilmente, trova davvero una sua lettera. Inizia così una corrispondenza tra la donna e Filèmone, il suo Angelo, che le promette "Avrò cura di te" e l'aiuterà a raddrizzare la sua vita.

Il libro, scritto a quattro mani, vede Laura Gamberale (di cui leggo per la prima volta qualcosa) prestare la sua penna agli interrogativi e alle insicurezze di Giò mentre Massimo Gramellini presta la sua alle riflessioni e alle risposte di Filèmone.
La lettura è semplice e non impegnativa; sì, è possibile per il lettore scorgere la familiarità tra gli interrogativi che si pone per la propria vita e quelli che Giò si pone per la sua, e trovare nelle risposte - guida di Filèmone una parola buona, un suggerimento utile, tuttavia nel libro prevale un senso di leggerezza più che di acuta e ricercata profondità. La lettura a tratti fa sorridere e non manca di dare, di tanto in tanto, la sensazione di un già sentito dire.



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Anna_ Opinione inserita da Anna_    18 Agosto, 2020
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"Sì, mi piace ricomporre i frammenti"

Titolo e copertina solleticano il lato romantico di chi si ritrova questo libro tra le mani perché, sì, è la storia di un amore profondo e intenso. No, non è solo questo.

È il 1997, il nuovo millennio è alle porte; per Isabel Parkman, che lavora a una tesi complementare, “sarebbe interessante sapere che cosa ne pensano in un paese con molti secoli alle spalle”: l’Egitto. Sì, certo, “anche Roma ha molti secoli alle spalle” ma con l’Egitto “è come risalire ai primordi. Seimila anni di testimonianze storiche”. Omar al Ghamrawi, pianista, direttore d’orchestra e scrittore, “Il maestro Molotov”, “il direttore kalashnikov”, la sta ascoltando e le promette di trovare qualcuno che lì, in Egitto, dove Isabel intende recarsi, potrà aiutarla nelle sue ricerche. È così che in un giorno di primavera del 1997, Amal al Ghamrawi accoglie nella sua casa, al Cairo, “un’americana, una giornalista” ma solo perché glielo ha chiesto suo fratello e intanto si prepara a sentire le solite domande sul ruolo delle donne nell’Islam, sul velo, sui fondamentalisti ma Isabel non fa domande esplicite anzi sembra addirittura timida. Isabel ha con sé qualcosa che, Omar lo sa, interesserà ad Amal e permetterà alla sorella, e a Isabel, di fare una scoperta; è un “vecchio baule antiquato di un cuoio marrone ormai troppo secco e crepato in più punti” che ha viaggiato tanto, lungo tutto un secolo: partito da Londra per il Cairo, è poi tornato indietro, per finire dopo in un appartamento di Manhattan, e infine prendere nuovamente la strada del Cairo.

Ad Amal piace raccontare vecchie storie e quel baule ne custodisce una: un grande diario con la copertina verde, un altro in pelle marrone, ritagli di giornale in arabo e in inglese, due anelli di matrimonio al cui interno c’è una data, 1896, un vestito da neonato, un arazzo con un’immagine faraonica, un quaderno scritto in arabo ruq con “la calligrafia chiara, controllata, della sua nonna”, Layla. Mentre viene meno la sua diffidenza verso Isabel, Amal si dedica a “ricomporre i frammenti” della storia d’amore tra l’inglese Lady Anna, vedova di Edward Winterbourne e bisnonna di Isabel, a cui il baule è un tempo appartenuto, e l’egiziano Sharif Basha al Baroudi, il fratello di Layla, la nonna di Amal.
Un amore, il loro, non privo di ostacoli dovuti non solo alle differenze linguistiche e culturali, alle convenzioni sociali e ai pregiudizi (soprattutto degli amici inglesi di Anna) ma anche alle vicende storico- politiche del loro tempo: quelle dell’Egitto sotto il dominio britannico.

Anna ci ha provato ad aiutare suo marito Edward, dopo il suo ritorno dalla guerra in Sudan; ma si è resa sempre più conto, anche attraverso i tristi e crudi racconti di cui viene man mano a conoscenza, che la malattia che lo ha colpito non è fisica, è una malattia dello spirito. Lei non è riuscita a “trovare la chiave per aprire la porta chiusa della sua mente” e “spazzare via tutti i pensieri terrificanti che vi si nascondono…e riguardano il compito che è stato impegnato a svolgere e che è culminato, all’inizio di questa settimana, con la firma della Convenzione Sudanese. Un evento storico che ha indignato Sir Charles e i suoi amici”. Eppure proprio Sir Charles, il papà di Edward, aveva avvertito il figlio: quella in Sudan “non era una guerra onesta. Era una guerra creata dai politici”. Ma Edward, partecipandovi, credeva di fare la cosa giusta: si è accorto della verità solo quando è stato troppo tardi.
Durante la malattia del marito, “era stata una sorta di decreto soprannaturale” a portare Anna al South Kensington Museum dove era stata rapita dalla “bellezza luminosa” dei quadri di Frederick Lewis (pittore inglese romantico del 1800 noto per i suoi dipinti a temi orientaleggianti con accampamenti nel deserto, interni di harem e moschee). Perciò quando alla morte di Edward, giunge il momento di fare un viaggio “perché la distanza, il tempo e le novità mi restituissero quel sano appetito senza il quale diventiamo insensibili ai meravigliosi doni della vita, pormi come meta l’Egitto mi è parsa la cosa più naturale del mondo”.
In Egitto Anna si riapre lentamente alla vita: sale sulle Piramidi, visita chiese e moschee, impara qualche parola in arabo ma ancora non riesce a cogliere pienamente, in ciò che la circonda, quel significato profondo che aveva avvertito in Inghilterra osservando i quadri di Lewis o sentendo parlare dell’Egitto. Il Sinai: Anna vuole arrivare fino al Sinai ma è consapevole dei rischi che corre, viaggiare per l’Egitto è per una donna più pericoloso che per un uomo. Ne è consapevole ma non desiste… “Ero sincera quando avevo detto a Sharif Basha che avrei incontrato un gruppo di turisti dell’agenzia Cook e che forse mi sarei unita a loro, ma nello stesso tempo respingevo l’idea che mi sarei potuta trovare nel deserto con delle persone troppo simili a me. Intuivo che la loro conversazione, la loro stessa presenza mi avrebbe precluso ogni possibilità di penetrare quella bellezza. E adesso so che sarebbe stato così. Il silenzio diffuso, continuo, la discrezione (o l’indifferenza) dei miei compagni hanno lasciato alla mia anima la libertà di contemplare, di assorbire lo splendore del Sinai.”

Alla storia di Anna che emerge dal passato, si affiancano quelle, nel presente, di Isabel e della malattia della madre Jasmine di cui scoprirà un segreto, di Omar che scorge in Isabel qualcosa di inspiegabilmente familiare dal primo momento che la vede, di Amal, che ha alle spalle un matrimonio finito e i figli, ormai grandi, lontani, e del suo impegno a favore di quella scuola che esiste da circa novant’anni grazie al suo bisnonno prima, a suo nonno e suo padre poi e che ora è stata chiusa perché al governo sostengono che “i maestri, i volontari, sono terroristi che mettono delle idee sbagliate in testa ai bambini”.

Sì, all’inizio può risultare poco facile districarsi tra i vari personaggi ma la storia coinvolge, la narrazione è scorrevole, ricca di passaggi descrittivi e riferimenti storici. Sono palpabili la crescita caratteriale di Anna, la curiosità di Amal e i momenti in cui riesce, anche se a sprazzi, a tirar fuori la sua vivacità e determinazione, la vitalità di Omar, l’autorità che emana Sharif Basha, il senso pratico di Layla, la sua amicizia con Anna. Isabel è forse l’unico personaggio, tra i principali, a cui si fa fatica ad affezionarsi.

A mano a mano che si procede con la lettura ci si rende sempre più conto però che l’Egitto non fa solo da sfondo alle storie narrate. Ahdaf Soueif è una scrittrice di fama internazionale, appartiene a una delle famiglie più politicamente impegnate in Egitto ed è, essa stessa, attivista per i diritti umani; le vite dei protagonisti (principali e non) di questo romanzo, l’impegno politico di Sharif Basha al Baroudi e della sua famiglia prima e di Omar e Amal poi, sono le voci attraverso cui l’autrice ci parla delle tradizioni, della cultura, dei luoghi ricchi di fascino del suo paese ma, soprattutto, ce ne restituisce un pezzo di storia carico della volontà di un popolo di lottare per liberarsi dal dominio, diretto o meno, dello straniero.

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Anna_ Opinione inserita da Anna_    11 Agosto, 2020
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Un atto d'amore

Lettura di un po’ di anni fa, uno dei miei libri preferiti, in cui tra l’orrore, il dolore e l’abbandono c’è sempre uno spiraglio per la speranza e per l’amore. Dal libro, ispirato alla storia vera del suo autore, il giornalista Franco di Mare, è stata tratta, nel 2015, la fiction “L’angelo si Sarajevo”con (il sempre bravo) Beppe Fiorello.

È dicembre 2009 e Marco De Luca si sta preparando per andare al lavoro quando riceve una telefonata. “Dobro jutro brate”: Marco sa a chi appartiene quella voce che risveglia in lui emozioni, paure e suoni di tanti anni prima. È Ljubo che gli dice che Edin sta morendo e ha chiesto di lui. Così ritorna lì, a Sarajevo, dove “all’apparenza è tutto uguale, ma in realtà niente è uguale a prima.”

Con Marco torniamo indietro nel tempo, è il 1992: lui è un giornalista italiano il cui matrimonio con Bianca è finito: “… si chiese per quale ragione alcune donne spendano buona parte della loro vita cercando di cambiare la persona che hanno accanto. E spesso ciò che maggiormente detestano è proprio quello che un tempo le attraeva di più.” Visto che a casa, ormai, Marco non ha più nessuno ad aspettarlo, quando glielo propongono, lui accetta di recarsi a Sarajevo, in Bosnia, come inviato speciale. Sale a bordo del G-222 dell’Aeronautica militare italiana, un viaggio “Dal paradiso all’inferno in un giro di valzer”: sospinta dall’assurda ideologia della pulizia etnica, dall’altra parte dell’Adriatco, è scoppiata la più cruenta guerra fratricida che l’Europa si ritrova a vivere dalla Seconda Guerra Mondiale.

Le sue pagine sono la testimonianza delle atrocità che, come ogni guerra, anche quella di Sarajevo porta con sé: mancanza di generi di prima necessità, mercato nero, case distrutte, donne violentate, cecchini appostati che si sentono il “Dio della Morte”, “l’Angelo sterminatore, quello che decide chi morirà oggi”, bambini “sgozzati e gettati giù da un ponte nella Drina”, granate che non risparmiano neppure gli orfanotrofi.
Ma il libro è anche il racconto della storia personale di Marco, della sua paternità che non è un legame di sangue ma un atto d’amore. Infatti, proprio mentre sta realizzando un servizio su quanto accaduto all’orfanotrofio di Ljubica Ivezic, fa l’incontro che gli cambia la vita. “Malina girò completamente la testa, lo guardò negli occhi e gli regalò il primo sorriso della giornata”.
Portarla via da quell’inferno è forse la cosa più giusta che lui possa fare dopo tanto tempo. Edin e Anisa gli chiedono se sia davvero sicuro della sua scelta, Marco insiste. Non sarà facile: il tempo, la burocrazia e la guerra non sono dalla sua parte…

“Stava dormendo con una bambina, anzi, con la sua bambina al fianco. Ora… capì che cosa volevano dire Anisa ed Edin quando gli parlavano di responsabilità. Malina non gli aveva chiesto di essere portata via, ora che lui lo aveva fatto, lei gli si affidava… Sarebbe stato all’altezza?... Ce l’avrebbe fatta, certo che sì.”

Perché, in fondo, essere genitore non è procreare, è proteggere, rassicurare, dare il meglio che si può, che si sa dare. Con amore. Per amore.




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Anna_ Opinione inserita da Anna_    06 Agosto, 2020
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UNA STORIA PIACEVOLE MA NON INDIMENTICABILE

Admiral House è una splendida casa "con un giardino delle dimensioni di un parco", si trova a Southwold, nel Suffolk e appartiene alla famiglia di Posy da generazioni. Qui lei, protagonista assoluta del romanzo, trascorre la sua infanzia. La vita prima la allontana da questo luogo che lei adora, e dove si diverte con il papà a dare la caccia alle farfalle, e poi ve la riconduce. Posy ha entrambi i genitori ma i suoi punti di riferimento saranno prima il papà ("mio padre significava 'casa' e lo amavo più di qualsiasi altra cosa esistente") e poi, con la sua scomparsa, la nonna paterna ("Poi pensai alla nonna, a quanto fosse stata coraggiosa a farsi carico del ruolo di madre e mi resi subito conto della fortuna che avevo avuto"). La perdita del padre è per Posy un duro colpo. Tra l'amore rassicurante di Jonny e quello totalizzante di Freddie, Posy ha già scelto, ignara però che la vita ha in serbo per lei una strada diversa. A settant'anni Posy è un punto di riferimento per la sua famiglia, è una donna dinamica e lavora part-time in una galleria d'arte. I suoi figli, Sam e Nick, sono assai diversi tra loro: ai continui fallimenti negli affari del primo si contrappongono i successi dell'altro. Un giorno nella sua vita ricompare Freddie che l'aveva lasciata tantissimi anni prima mentre stavolta è intenzionato a a restarle accanto, anche se inspiegabilmente, le lancia segnali contraddittori. Sebbene a malincuore, Posy decide di mettere in vendita Admiral House perchè non è in grado di sostenere la ristrutturazione di cui la casa necessita. Piccoli segreti, che non riguardano solo lei, vengono svelati pian piano ma è la decisione di vendere Admiral House che riporta alla luce IL segreto che ha cambiato il corso della sua vita.
Posy è il personaggio che, a giusta ragione, viene descritto a tutto tondo: la incontriamo bambina innamorata di suo padre e la seguiamo nel suo divenire adulta fino a ritrovarla, a settant’anni, ad occuparsi ancora instancabilmente e con amore della sua famiglia nel mentre ritrova gioia e serenità. Degli altri personaggi, quelli meglio caratterizzati sono i genitori e la nonna di Posy, e Amy, la moglie di Sam.
Nell’assieme né la storia, che pur si legge in modo scorrevole nel suo equilibrato alternarsi tra presente e passato (il papà di Posy partecipa alla Seconda Guerra Mondiale) né i personaggi sono così coinvolgenti da restare a lungo con il lettore.

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Consigliato a chi ha letto...
Consigliato a chi già conosce e ama lo stile della Riley o comunque a chi predilige letture non impegnative.

Non consigliato a chi vuole storie e personaggi emotivamente più coinvolgenti
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