Opinione scritta da Lady Brett Ashley
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"Il Signore del Tempo"
In genere non amo la serialità, la letteratura d'evasione non mi interessa-il divertissement pascaliano lo cerco altrove-diffido costituzionalmente dai casi editoriali e vi applico un rigoroso esercizio di dubbio metodico eppure questa è l'eccezione che conferma, la fa vacillare problematizzandola .Una donna, una persona ambigua e sfuggente, un vecchio amore, ricompare nella vita di un avvocato, attento ma insicuro (i due ritratti sono delineati con grande maestria) e gli chiede di difendere suo figlio, imputato di omicidio. Da qui si dipanano due storie, costruite in un montaggio alternato, alla Griffith, verso il passato di quell’amore e il futuro della sentenza attesa. Una sapiente costruzione, in cui si riflettono le inquietudini del nostro tempo, e il cui protagonista è proprio il tempo (donde il titolo), che si incarica di trovare una soluzione alle due storie. Dal processo emergerà una nuova verità, ma non un nuovo colpevole, che sarà alla fine individuato in altro modo. Sotto queste vicende si nasconde un vero e proprio “conte philosophique”. Dietro l’apparenza del “giallo” si celano insegnamenti profondi: la pluralità dei punti di vista; i diversi modi in cui si presenta la realtà; l’invito a dubitare della verità stessa. Due citazioni, una del capolavoro di Kurosawa e una di Canetti, in pagine diverse, rafforzano queste conclusioni. Carofiglio si conferma come una delle voci più importanti della narrativa italiana.» Queste le parole di accompagnamento di Sabino Cassese alla candidaturà allo
Strega dello scorso anno:trovo che alcunché estrinsechi con maggiore efficacia di sintesi e pregnanza espressiva lo stile ed il nucleo contenutistico del romanzo. Questa è una di quelle storie in cui le latenze vibrano, pungolano, insinuano dubbi, eccitano la capacità immaginativa di una lettrice che sente un sostrato di parole che giace oltre, sotto o forse dentro le parole scritte, il non detto che scalpita, erompe debordante ma si ferma ad una scomposta intuizione.C' è una cifra di sadismo mistificatorio in questo libro, un'alternanza di registri che confonde, avvince accostato ad un intenzionale spinta verso il basso, la superficie, la banalità eppure solo apparente, necessario intervallo a qualcosa che disturba, fa male.Mi piace cenare con gli amici. Allora perché debbo morire?Questa frase icastica, spietata contrassegna l'inizio ed ancora Pochi mesi prima di morire mamma ha detto una cosa che mi ha lasciato sbigottito, mi ha detto:-Ha detto che le era difficile immaginare il mondo senza di lei. Quando sei giovane e pensi ad un tempo e ad un mondo senza di te, la cosa non ti turba erché la storia sembra dotata di una direzione implicita che porta fatalmente al momento in cui sei tu a irrompere sulla scena. Il mondo senza di noi prima di noi è una lunga fase preparatoria. Il mondo senza di noi dopo di noi invece è semplicemente il mondo senza di noi. Finché appare lontano riusciamo a placare l’angoscia dell’idea. Ma io so che fra qualche settimana, al massimo qualche mese, non ci sarò più e il mondo continuerà a esistere, senza nemmeno una increspatura. Senza nemmeno un sussulto. Voi piangerete, ma poi dovrete occuparvi delle questioni pratiche e smetterete di piangere. E comunque sarete sollevati che questa sofferenza non ci sia più. Potrete distogliere lo sguardo e occuparvi di vivere. Come è giusto. E tutto sarà finito.Un romanzo sul tempo, sulla nostra incapacità di reificarlo senza ricorrere a metafore, simboli quantificazioni misure: esso esiste, persiste indefesso, spietato eppure ignoto, impalpabile; più vicino al sensibile che al tangibile. E poi Lorenza Delle Foglie la quale incarna la misura stessa del tempo, una donna estremamente affascinante, polarizzante, uno sguardo in equilibrio fra malinconia ed arroganza, con lo stesso irredimibile atteggiamento: disinteresse verso gli altri, totalmente concentrata su se stessa, pervasa da un pervicace. risentimento verso il mondo incapace di riconoscere il suo talento; spudoratamente ambiguofobica secondo la fortunosa espressione di David Foster Wallace.Sembrerebbe la descrizione di una personalità orrifica, ripugnante di quelle da tenere a debita distanza giacché incapaci di ascoltare, incontrare, veramente una qualsivoglia forma di alterità. Eppure( quant'è bella questa congiunzione avversativa!) la fascinazione che Lorenza ha emanato e continua seppur diversamente ad emanare su Guido si spande anche su chi legge. Dirò di più credo eziandio di essermi talora riflessa( da irrecuperabile bovarista quale sono) in questa donna schematica, egoica; credo che ci accomuni la propensione perniciosissima ad eludere tutte le zone d'ombra, gli assottigliamenti del vero e del giusto, la spasmodica brama di "un centro di gravità permanente" di staticità, stabilità, certezza, nitore; quel desiderio che rende tremendamente vivo quel "Siede la terra dove nata fui". Un limite forse, sempre più evidente in una società mutevole, fluida, flessibile; eppure credo che in tal caso le ragioni di questo atteggiamento vadano rintracciate nella disposizione d'animo con cui si guarda al proprio sé ed in tal caso ci si arrabatta come meglio si crede, o forse nell' unico modo in cui effettivamente si può. Confesso che per quanto stia provando a ricredermi subisco moltissimo il fascino delle persone fedeli a sé stesse, certamente non scevre di contraddizioni, di "moltitudini", che pure rifulgono in una coerenza interna che le assomma tutte a figurare uno screziato disegno musivo. Frammento indimenticabile, forse quello che maggiormente disvela la trama occulta al romanzo la fantomatica descrizione del "Signore del tempo"le cui fattezze oscillavano fra lo spaventapasseri e l'uomo di latta del Mago di Oz(il primo libro che Lorenza dice di aver letto che è curiosamente per me uno dei primi libri per cui mi sia balenato il pensiero che potesse dire qualcosa che valicasse il confine della parola scritta, suggerendo simboli, evocazioni, traslazioni, metafore)quel granitico Chi lo sa come finiremo? cui segue la consapevolezza che Comunque tutto questo,-fece un gesto vago che alludeva al mare, alla notte, ma anche al vino, al fumo, a noi due, a qualsiasi cosa,-non ce lo potrà più togliere nessuno. Nostro per sempre. Non so, forse l'ho un po' sopravvalutato, forse debbo dar ragione. al caro Leopardi quando chiosa"Mettendomi a leggere coll'animo disposto, trovava tutto gustoso, ogni bellezza mi risaltava all'occhio, tutto mi riscaldava e mi riempieva d'entusiasmo, e lo scrittore da quel momento mi diventava ammirabile ed io continuava sempre ad averlo in gran concetto. In questa tal disposizione forse il giudizio può anche peccare, attribuendo al libro etc. quel merito che in gran parte spetta al lettore."Eppure, quando ho realizzato di arrivare alla conclusione del libro dapprima ho divorato famelicamente le ultime pagine, poi di colpo le ho risfogliate freneticamente alla ricerca di nuove. E lo credo -soggettività a parte-un dato piuttosto significativo.
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"Si può essere troppo vivi per vivere?"
Non so se sia possibile instaurare una relazione empatica con i libri tuttavia,credo che a me con tale romanzo sia accaduto qualcosa di affine.La prima volta che mi sono imbattuta in esso,in tutta franchezza,ho cercato di eluderlo a motivo della trama,a mio avviso troppo impegnativa sotto il profilo emotivo;pur non di meno,ai miei occhi pavidi eppure affascinati,non ne è sfuggito il titolo:”Tutto chiede salvezza”.( salvezza che in tal caso recupera il duplice significato di "Salvezza" ma anche di Salute", in
ottemperanza al vocabolo latino "salus")Pensai che tali parole non ammettessero replica,alcuna ma,al contrario si stagliassero perentorie,icastiche conturbanti,forti di un’autorevolezza propria soltanto alle parole che sanno di Vero, sicché mi balenò il fatidico pensiero che per tutto quel tempo avevo rigettato nella sfera dell’inconscio:Chi non chiede salvezza?Possibile che,in un angolo del mio essere,così recondito da sembrare inesistente,possa anch’io chiedere salvezza?Il romanzo prende avvio con una tormentosa giaculatoria, un mantra salvifico con valore quasi apotropaico configuratasi per lo più come un lento stillicidio,una querula ed inascoltata preghiera collettiva,quasi un rivolgersi dell’ uomo alla sua stessa natura in cerca di pace:O Maria ho perso l’anima,aiutami Madonna mia!Tali parole scandendo il ritmo del romanzo,sopraggiungono con l’ineluttabilità di una condanna incombente.Il protagonista ed io narrante è Daniele Mencarelli,un ventenne ultrasensibile e sin troppo empatico con il mondo circostante e con le sofferenze altrui,nelle quali si compenetra tanto da viverle come proprie.Egli è uno spirito inquieto, costantemente in preda a ciò che Antonia Pozzi definirebbe saggiamente "febbre del sentire",ansimante fra un’irresistibile vocazione alla vita e,l’immanente incapacità di tollerare il peso della stessa, come scrive Lee Masters:E’una barca che anela al mare eppure lo teme.Ma si può essere troppo vivi per vivere? Si può amarla ed odiarla nel contempo? V' è una frustrazione maggiore del vedere la propria naturale inclinazione alla Grandezza, alla Meraviglia alla Bellezza appiattirsi dinanzi a convenzioni, autoinganni e mediocrità?Leggendo tali righe,viene da domandarsi se, un giovane uomo,riluttante ai canoni di produttività dell’utilitaristica società moderna,possa ritenersi colpevole di una precocee disillusa consapevolezza,ci si domanda se sia vero quanto scritto da Proust:Larga parte dei problemi delle persone intelligenti derivano proprio dalla loro intelligenza?Può definirsi colpa obbedire al richiamo del proprio müssen? Riaffiorano alla mente le parole
del Dottor Faust Goethiano "“Non v’è nulla di più triste a vedersi della tensione spontanea all’ incondizionato in un mondo che è tutto contingente”.Daniele avverte un senso di incompiutezza,rintracciabile forse,nel ricordo di quel Prima,del Paradiso,di Dio,una nostalgia(termine significante proprio dolore per il ritorno)affine al concetto di anamnesi platonica e cagionata dalla consapevolezza di una dicotomia,quasi romantica,fra tensione all'assoluto e meschinità della vita concreta. Ritengo che il disagio esistenziale vissuto dal protagonista sia non solo legittimo ma anche necessario, ineluttabile, un uomo bramoso di vita come può non indignarsi dinanzi alla caducità talora crudele dell' esistere?Come si può rassegnare alla tirannia del tempo incessantemente esercitata a dispetto di ciò che per lui dovrebbe durare per sempre? Comprendo il diffusissimo ricorso al quieto vivere, talvolta inevitabile ma penso che sia possibile, audace e bellissimo che qualcuno non ce la faccia , vi si opponga strenuamente; giacché, come scrive ancora il caro Lee Masters "Cercare un senso alla vita può condurre alla follia, ma una vita senza senso questa è la vera tortura"Tale contraddizione è resa mediante la saggia alternanza di vernacolo romano con intermezzi riflessivi,quasi lirici,i che ne fanno un innovativo prosimetro nel quale le parole ermetiche valicano i confini del non detto,anche grazie alla provvida presenza di spazi bianchi.D’altronde che risposta c’è al dolore?Tutto ciò dà vita ad un romanzo che non dà tregua, ma che al contrario,si configura come un’aporia,nella quale l’unica possibilità è accettare la natura ambivalente di una vita dominata dal caso,le contraddizioni insite nella polarità della giustizia,in un dipanarsi di eventi ove,mai come in tal caso la fortuna è una vox media.Spero tanto che vinca il Premio Strega, sarebbe una piccola grande rioluzione, un peana alla Bellezza della Verità, alla potenza delll' esperienza concreta, carnale, all' audacia di chi narra l'indicibile trasfigurandolo in poesia.Sebbene abbia deciso di recensire questo libro, tengo a precisare come questa scelta sia dettata essenzialmente dalla necessità di estrinsecare e condividere, molto volentieri anche in chiave problematica le riflessioni suscitatemi; detto ciò le parole sono del tutto insufficienti a decodificare il fluido informe della vita, tanto più se essa si rileva in una veste lirica.Io "Io temo tanto la parola degli uomini.
Dicono sempre tutto così chiaro:
questo si chiama cane e quello casa,
e qui è l’inizio e là è la fine!
E mi spaura il modo, lo schernire per gioco,
che sappian tutto ciò che fu e che sarà;
non c’è montagna che li meravigli;
le loro terre e giardini confinano con Dio!
Vorrei ammonirli, fermarli; state lontani!
A Me piace sentire le cose cantare!
Voi le toccate diventano rigide e mute!
Voi mi uccidete le cose!
R.M. Rilke
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