Opinione scritta da AriMonda

14 risultati - visualizzati 1 - 14
 
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
AriMonda Opinione inserita da AriMonda    19 Febbraio, 2021
Top 500 Opinionisti  -  

Il piacere è tutto mio

“Porci con le ali”, pubblicato nel 1976, è frutto della collaborazione di due giovanissimi autori di sinistra: Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice. Un testo interessante e a quanto pare divisivo, allora come adesso: c’è chi ne ha apprezzato il contenuto e il significato critico e chi lo ha bollato di oscenità o si è trovato d'accordo con l'immagine politica che restituiva. Questo testo non è andato incontro al processo per oscenità come “Altri libertini” di Tondelli, pubblicato solo 4 anni dopo, ma ha certamente attirato l’attenzione del pubblico e lo sdegno, soprattutto, dei militanti politici.

La storia narrata a due voci, quella di Antonia e Rocco, e scritta a due mani, quelle di Lidia Ravera e di Marco Lombardo Radice, è un intricarsi di aspetti politici, linguistici, sentimentali e sessuali. Da una parte abbiamo dei ragazzi sedicenni, romani, frequentanti il liceo Mamiani di Roma, che prendono parte a collettivi, riunioni, manifestazioni politiche e si lasciano invaghire dai discorsi dei ragazzi più grandi e politicamente impegnati; dall’altra parte abbiamo il racconto dell’adolescenza, calato all’interno di un contesto sociale specifico, quello dell’Italia post-sessantottina, ma che presenta i caratteri tipici dell’età di mezzo, atteggiamenti e ribellioni che accomunano i giovani di ogni epoca.

Così, pagina dopo pagina, attraverso lo sguardo dei protagonisti, viviamo gli stessi avvenimenti ma raccontati con due sensibilità diverse, quella femminile e quella maschile, e impregnati degli eventi storici e politici del tempo. In un momento storico in cui l’emancipazione femminile e sessuale sono sbandierati con orgoglio nelle piazze, Antonia svela a Rocco il dramma di essere donne e adolescenti, nella costante ricerca di equilibrio tra il sentirsi libere da ogni costrizione e il bisogno di essere apprezzate e desiderate: “se nessuno mi vuole come faccio a essere moglie e poi madre, o fidanzata o corteggiata o ammirata o uno di quei tremila participi passati che usano per definirci? Come faccio a essere quella che devo essere?”; e mentre gli uomini si vantano di essere femministi e aperti alle più svariate esperienze di genere e di sessualità, Rocco affronta una crisi di identità legata alla virilità e al proprio posto nel mondo, cerca nella compagnia dei ragazzi la possibilità di determinarsi e allo stesso tempo la possibilità di essere fragile.

Mentre gli adolescenti vivono in maniera per niente rivoluzionaria questa età difficile e dell’incertezza, ribellandosi al padre e alla madre, all’istituzione familiare in quanto tale, prendendo posizioni contradditorie e critiche nei confronti dei genitori, osservati con il disprezzo che solo gli adolescenti possono mostrare, mentre cercano con affanno una propria dimensione e di potersi definire, mostrano con chiarezza i limiti e le contraddizioni di un movimento giovanile che alla fine degli anni ’70 si stava già sclerotizzando e ripiegando in atteggiamenti stereotipati e convenzionali, tanto che le figure più importanti del movimento politico che appaiono all’interno del romanzo, non sono altro che uomini interessanti ad esercitare sessualmente il loro fascino sui più giovani, usandoli e manipolandoli.

La storia d’amore tra Rocco e Antonia è storia di due ragazzi acerbi e disillusi, che scoprono il sesso e si scoprono tra loro, che tastano con mano il desiderio di stare insieme e la delusione di fronte ad una realtà che non regge il confronto con le aspettative.

Questo romanzo, il cui linguaggio è volutamente portato agli eccessi, sia per documentare una precisa sottocultura, sia per operare una riflessione sul contesto sociale e linguistico del momento, l’ho trovato coinvolgente, interessante e soprattutto capace di raccontare le pene dell'adolescenza.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Altri libertini
Trovi utile questa opinione? 
120
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
AriMonda Opinione inserita da AriMonda    25 Gennaio, 2021
Top 500 Opinionisti  -  

Essere donna ed essere altro

“Ragazza, donna, altro” di Bernardine Evaristo, vincitore del Booker Price (insieme a “Testamenti” di Margaret Atwood) è un genere ibrido, romanzo e raccolta di racconti allo stesso tempo. Dodici donne, protagoniste indiscusse di dodici racconti, le cui storie si intrecciano tra loro in maniera più o meno evidente, fanno una capolino nella vita delle altre, si intrecciano, si conoscono, si amano, oppure no..

Bernardine Evaristo porta sulla scena i vissuti di donne di colore o di sangue misto, di diversa estrazione sociale, di orientamento sessuale differente, con pensieri e posizioni politiche/ sociali che non sempre combaciano: cerca di restituire in maniera semplice e genuina il ritratto delle femminilità, al plurale, perché è impossibile racchiudere in una categoria, in un aggettivo, in un unico concetto cosa significhi essere donna.

Lo spazio presente entro cui si muovono le protagoniste è essenzialmente quello londinese, ma il tempo del ricordo e della memoria non conosce confini, spazia e vaga nel mondo, dalla Africa all’America, alla ricerca del proprio passato, di un'infanzia terminata troppo presto, di tradizioni che sbiadiscono e che vengono negate e allontanate dalla seconda generazione di donne nere londinesi.

Le donne del romanzo portano sulla scena letteraria delle vicende umane molto complesse e commoventi, alcune storie sono particolarmente dolorose, altre sono attraversate dal velo della noia e della frustrazione. Si alternano donne di successo e donne che hanno faticato per riuscire a ritagliarsi un piccolo spazio di tranquillità; storie di amori travagliati, osteggiati e spesso sopravvalutati; storie di razzismo, di prepotenza, di violenza, di maternità.

In modo particolare, però, la riflessione che emerge e che tocca in maniera poco velata ogni racconto è proprio l’appartenenza al genere femminile (genere e non sesso biologico). Un tentativo, ben riuscito, di scavare nella profondità dell’animo e dell’essere donna, nel cercare di portare allo scoperto stereotipi, luoghi comuni, difficoltà e ostacoli, insiti nella società e inculcati negli individui, fino a quando qualcuno decide che non ci sta più. Importante e non marginale, ma anzi sullo stesso piano del discorso sul femminismo e su cosa significhi essere donna, vi è anche la questione della razza, che accumuna tutte le protagoniste e la stessa autrice, un problema che esiste ancora, anche nella Londra multiculturale.

Lo stile in cui è scritto il romanzo è interessante. La prosa è quasi del tutto priva di punteggiatura, soprattutto di pause forti, si frammenta in tanti paragrafi senza maiuscole, seguendo un flusso che, superato un primo momento di smarrimento, non fatica a coinvolgere e trascinare nella narrazione. La rottura con la tradizione è chiara e forte, nello stile come nel contenuto: Bernardine Evaristo si impossessa pienamente del genere narrativo, da sempre appannaggio di uomini e soprattutto bianchi, e porta orgogliosamente in primo piano delle donne, di colore, che non avrebbero altrimenti modo di far sentire la propria voce e lo fa con uno stile che non si pone in continuità con la tradizione a cui siamo comunemente abituati.

Quello che emerge man mano che si prosegue nella lettura, mentre si scoprono lati della personalità delle protagoniste, è l’idea che l’essere donna non può essere imbrigliato in una categoria, non può essere racchiuso in una serie di ruoli, compiti, obblighi e doveri. L’essere umano, femminile in questo caso, viene scandagliato nei suoi aspetti di luce e di oscurità, vengono portati a galla i meriti e i peccati, gli errori commessi, i sacrifici fatti, le offese subite, gli ostacoli superati, le delusioni, i compromessi, le occhiate, le parole di denigrazione, il rapporto tra genitori e figli, tra donne e uomini, tra “razze”.

Un romanzo potentissimo, emozionante, che racconta ma non giudica, che invita all’ascolto, alla comprensione, alla sospensione del giudizio e soprattutto ci mette davanti ai nostri pregiudizi, ci invita ad analizzarli, a destrutturarli, ad andare a fondo alle nostre convinzioni, a rimodellarle se necessario.

Un romanzo che deve assolutamente essere letto, una rivoluzione.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
70
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.5
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
3.0
AriMonda Opinione inserita da AriMonda    19 Gennaio, 2021
Top 500 Opinionisti  -  

Il viaggio del linguaggio

Il tempo materiale è un romanzo complesso, difficile e metaforico.

Il protagonista del romanzo è un bambino di Palermo, di un 11 anni, che si presenta con l'appellativo di Nimbo, il quale assieme ai compagni di classe decide di formare una cellula terroristica ispirata alle Brigate Rosse.
I tre ragazzini subiscono il fascino degli avvenimenti storici che ruotano attorno al 1978, al sequestro e alla morte di Aldo Moro, vengono stregati dai comunicati delle Brigate Rosse che ascoltano in televisione e leggono sui giornali, si lasciano ispirare e irretire.
Di fronte all'ironia, all'ipocrisia e alla strumentalizzazione che la società italiana mette in atto di fronte ai gravi fatti politici e sociali, lasciandosi inebetire dalla moda dei costumi, della canzone e del cinema, Nimbo insieme ai suoi "compagni" decide di mettere in atto un tentativo di eversione, una piccola lotta armata.

La prima parte del romanzo è occupata dalla teoria, dai discorsi e dagli incontri nella radura per ragionare sugli eventi e sull'identità,
La seconda parte del libro è invece concreta e pratica, vede i protagonisti all'opera, cercando di riprodurre in scala gli atroci avvenimenti di intimidazione e di violenza degli anni di piombo. Con una strategia lucida e per nulla infantile, i ragazzi seminano il panico a scuola e non solo, fino ad arrivare all'atto estremo.

Ma "Il tempo materiale" è innanzitutto una riflessione sul linguaggio, sull'autenticità e sulle possibilità che questo può assumere, una continuo interrogarsi sul valore della parola e della vita. La riflessione sorvola e supera la questione della lotta armata e del brigatismo, lo capiamo immediatamente, nel momento in cui leggiamo le parole e i pensieri di Nimbo, assolutamente implausibili per un bambino di 11 anni e non appena conosciamo la bambina di cui si innamora, una bambina muta.

Il testo non è semplice, a tratti procede veloce e con un ritmo sostenuto, in altri momenti rallenta, si sofferma, si ripiega su se stesso. L'impressione generale e finale, per questo, resta sospesa.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
80
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.5
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
4.0
AriMonda Opinione inserita da AriMonda    07 Gennaio, 2021
Top 500 Opinionisti  -  

Salvare un nome

“L’appello”, il nuovo romanzo di D’Avenia, è ambientato tra i banchi di scuola, un mondo che l’autore conosce bene e dove si muove con la maestria di chi ha vissuto sulla propria pelle le ore trascorse tra il suonare di una campanella e un’altra.

La trama vede intrecciarsi le vicende di un professore diventato cieco, Omero, con le vite di dieci studenti scapestrati di una classe quinta del liceo scientifico. Il professore torna dietro la cattedra dopo cinque anni di pausa, a causa della malattia sopraggiunta, e si ritrova a dover affrontare le difficoltà dell’insegnamento caricate dal peso di una perdita che lo fa sentire insicuro ed impaurito.

Il progetto Appello è un metodo che il professore inventa per necessità, quella di poter conoscere i suoi studenti attraverso i sensi che ancora funzionano, ma soprattutto attraverso l’attenzione e la cura per la persona, che oggi sempre di più viene a mancare all’interno della scuola. Un progetto che diventa una vera e propria rivoluzione, perché fa sperimentare agli studenti la consapevolezza di essere importanti, di avere un’anima e una storia, mentre prima erano solo corpi fisici che dovevano attestare la loro presenza materiale seduti ai loro banchi.

Ho trovato l’idea del romanzo interessante e sicuramente emerge la curiosità, la cura e la passione del professore che sta dietro allo scrittore. Il mestiere dell’insegnante spesso e volentieri si appiattisce di fronte ai programmi ministeriali e dell’istituto, si bruciano esperienze e conversazioni per la fretta di ultimare il libro di testo e per avere un numero di voti sufficiente per la valutazione della fine del trimestre, e la persona, l’alunno, con il suo nome e la sua storia, finisce per essere un mero sfondo. Dietro alla storia di Omero Romeo vi è la storia di tanti insegnanti che non si rassegnano e che continuano a mettere lo studente al centro del sistema scuola e non viceversa.

La storia narrata, invece, l’ho trovata pregna di un sentimentalismo esagerato e sbandierato; ricca di citazioni e di riferimenti letterari, filosofici e scientifici che spesso e volentieri non reggevano con la trama e inserite per aumentare l’effetto drammatico (o melodrammatico) del momento.
Si tratta di un romanzo leggero, che si legge velocemente e tutto sommato piacevole, sicuramente commerciale e adatto ad un certo pubblico (soprattutto adolescenziale), ricco di ideali e di speranze, ma poco credibile e verosimile, dalla scelta dell’onomastica dei personaggi (chiaramente metaforica) alla costruzione delle storie degli studenti, tutti con famiglie e storie disastrate, pieni fino al collo di problemi che raramente si presentano in maniera così compatta e massiva in una sola classe.

La sensazione finale che il libro mi ha lasciato, una volta chiuso, è stata contraddittoria e forse va bene così. Il romanzo mi ha lasciata con un po’ di amaro in bocca, perché è difficile leggere un libro che parla di scuola, quando nella scuola uno ci lavora, e trovare credibile la storia raccontata, ma passando oltre la retorica infarcita di pensieri costruiti per emozionare e scaldare il cuore (per pochi secondi), ho trovato nell’entusiasmo del professore e nell’interesse, nella cura e nel dolore che egli prova di fronte alle cadute e ai fallimenti dei propri studenti, una sensazione non nuova, ma che dovrebbe animare e “tormentare” gli insegnanti di tutte le scuole.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
  • no
Trovi utile questa opinione? 
100
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
AriMonda Opinione inserita da AriMonda    22 Dicembre, 2020
Top 500 Opinionisti  -  

La stanza del destino

Romanzo breve ma intenso, si chiude il libro un senso di pesantezza sulle spalle e di sconforto nell'animo.

David è il protagonista del romanzo di Baldwin, un ragazzo americano che si rifugia a Parigi con l'illusione di scappare dalle sue paure più inconfessabili, con il desiderio di costruirsi un'identità stabile, ma inevitabilmente e inconsciamente finendo tra le braccia del suo incubo più grande.

Il romanzo, come lo stesso Baldwin dichiara "non parla tanto di omosessualità, ma di ciò che succede quando hai talmente tanta paura da finire con non l'essere più in grado di amare nessuno". David è attanagliato dal senso di colpa di essere quello che è, fugge lontano da casa pensando di mettere tra la sua prima esperienza omosessuale e il futuro una distanza tale da renderlo una persona diversa, ma non può che confermare i desideri più reconditi.

Parigi è la città della perdizione, delle libertà sfrenate e la speranza di David di potersi costruire una vita normale, con una donna qualunque, capace di dargli figli e stabilità si dissolve non appena incontra lo sguardo di Giovanni, un barista italiano trapiantato nella vita parigina, squattrinato e gioioso. L'incontro sarà fatale e l'entrata nella stanza di Giovanni indelebile sulla pelle di David, una scelta irreversibile.

La storia è dolorosa, tormentata e si comprende chiaramente il contrasto che si anima all'interno del protagonista, diviso tra la volontà di dare alla sua vita un'impronta di normalità e di sicurezza e dall'altra parte il richiamo del corpo, del desiderio.

"Pensai: se non apro subito la porta ed esco da qui, sono perduto. Ma sapevo che non ci sarei riuscito, sapevo che era troppo tardi; presto sarebbe stato troppo tardi per fare qualsiasi cosa se non gemere. [...] Ogni singola parte di me urlava 'no!', ma tutto di me disse a bassa voce 'sì'.

Ma non è solo la storia di David, sebbene sia la voce narrante e racconti il suo dramma cercando di scandagliare ogni aspetto della vicenda e di analizzare con lucidità le scelte e i sentimenti che lo hanno guidato; vi è anche la storia di Giovanni, un ragazzo con un passato difficile e un presente incerto, costretto ad abbassarsi a gesti vili per sopravvivere un giorno in più in una città che non ha pietà di nessuno.

Il romanzo di Baldwin è di una delicatezza estrema, riesce a toccare corde profonde e a mettere a nudo il senso di colpa, di vergogna e di impotenza che l'epoca passata faceva ricadere sull'omossesualità, una gogna che pesa sul collo di ciascun uomo che passeggia per la città francese cercando di dissimulare con la sfrontatezza il senso di ridicolo che lo perseguita e di affogare nell'alcol la consapevolezza che non è concessa alcuna felicità.

Ciononostante la vicenda non si discosta troppo dalle storie di omosessuali, uomini e donne, che circolavano allora, storie coraggiose, sì, ma con un finale quasi sempre scontato, ripetitivo, quello dalla morte, della denuncia, dell'autolesionismo, della carcerazione. "The price of salt" di Patricia Highsmith, romanzo di poco precedente alla pubblicazione de "La stanza di Giovanni" propone per la prima volta un finale diverso, azzarderei dire, lieto!

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Carol
Trovi utile questa opinione? 
130
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.3
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
3.0
AriMonda Opinione inserita da AriMonda    16 Giugno, 2020
Top 500 Opinionisti  -  

La coscienza di Scout

“Il buio oltre la siepe” è per molti, me compresa, un grande classico del Novecento, un capolavoro che fonde insieme una tematica scottante e toccante quale il razzismo in America e la paura per il diverso con la curiosità dell’infanzia, la volontà di andare oltre i limiti degli adulti, il porsi domande continue per non fermarsi all'apparenza. Il sequel di Harper Lee in un qualche modo sembrare creare una frattura tra il romanzo che l’ha consacrata con questo nuovo mondo; una nuova protagonista cresciuta, una nuova Maycomb e non quella che avevamo imparato ad amare nelle sue stranezze e nelle sue convenzioni attraverso gli occhi della piccola Scout.

Noto che a molti questo romanzo non è piaciuto. Sicuramente presenta nella trama qualche vuoto e dei dialoghi che sembrano non arrivare mai al dunque, con un che di incompiuto, di non rifinito e limato. Ma non è solo questo aspetto, più tecnico e formale, a lasciare interdetti. Sono, infatti, i personaggi che sembrano andare incontro ad uno stravolgimento che lascia un po’ di amaro in bocca: l’integerrimo Atticus Finch, difensore della legge e degli oppressi, siede accanto a razzisti vanagloriosi che si battono per impedire alla popolazione di colore di ottenere pari diritti; la dolce e apprensiva Calpurnia, ormai anziana e rinsecchita, respinge Scout e si chiude in un silenzio di sdegno “Cosa ci state facendo, tutti voi?”.

Cosa è successo? Harper Lee rinnega il romanzo pubblicato precedentemente? Ci propone una storia che danneggia irreparabilmente i personaggi che abbiamo imparato ad amare? Si tratta di un espediente editoriale per riscuotere attenzioni e denaro?

Personalmente, credo che “Va’, metti una sentinella” sia anche molto altro. E' lo stesso narratore a chiarirlo, forse memore della lezione di Flaubert in Madame Bovary: se ci avviciniamo troppo ai nostri idoli, spesso rischiamo che la doratura ci resti tra le mani, svelando statue di argilla, o peggio, di fango. Il padre di Scout, il grande Atticus, immortalato nella rigida compostezza ne “Il buio oltre a siepe”, nella sua fede nella giustizia, nell'ardore della difesa degli oppressi, ora mostra un nuovo volto, o meglio, l’altro volto. Abbiamo imparato ad apprezzare l’uomo, già avanti con l’età, che si schierava in difesa di un povero innocente contro la città intera, attraverso gli occhi di una bambina, che vedeva il proprio padre con il filtro che solo i figli, ancora piccoli, riescono a frapporre tra sé e la realtà. Un grande Atticus perché osservato da una piccola Jean Louise.

Possiamo intendere questo romanzo come un romanzo di formazione, dove la protagonista, ormai donna, deve fare i conti con la figura paterna, tagliare il filo invisibile che confondeva e fondeva la sua coscienza con quella di Atticus. Lo scontro è inevitabile e doloroso, come in ogni romanzo di formazione che si rispetti: Scout ha scoperto qualcosa di inconciliabile con valori che la muovono, proprio quei valori ereditati dal padre. L’esito della rottura non consiste nel tagliare i ponti, fare le valige e dire addio per sempre a quel mondo incantato della sua infanzia, ma significa chiudere una porta per aprirne una nuova, imparare a convivere con idee contrastanti, imparare ad accettare i limiti dell’uomo che si nascondeva dietro alla maschera di un dio.

Ho letto il romanzo in quest’ottica, senza avvertire una rottura con il precedente ma una normale evoluzione. La letteratura non è statica, ma deve rappresentare la vita e la vita è cambiamento, mutamento, metamorfosi. Indubbiamente il primo romanzo rimane un capolavoro, insuperabile e non paragonabile nella tecnica e nei contenuti a questo sequel, ma non credo che sia da condannare (nonostante la trovata editoriale di pubblicarlo dopo così tanto tempo).

Il tema dei diritti civili, dell’emancipazione e della lotta della comunità afro-americana è tenuto in secondo piano, perché “Va’, metti una sentinella” è un dramma fortemente familiare e personale che ogni individuo deve sicuramente aver vissuto, magari in maniera meno drastica, nel proprio percorso di crescita. Rimane comunque un tema importante e quanto mai attuale in questo momento storico e lascia aperta la possibilità di una speranza!

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Il buio oltre la siepe
Trovi utile questa opinione? 
90
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
AriMonda Opinione inserita da AriMonda    22 Marzo, 2020
Top 500 Opinionisti  -  

Mal bianco dell'uomo contemporaneo

Finalmente questo libro ha scalato la lista dei “libri da leggere” ed arrivato in cima. È arrivato in cima proprio nel periodo in cui l’Italia veniva dichiarata zona rossa. A volte il caso ci mette di fronte a delle situazioni inspiegabili, forse quasi paradossali. Ero indecisa di fronte alla possibilità di addentrarmi nella lettura di quest’opera, visto il contenuto, ma ho pensato che nello sconforto e di fronte alle tristi notizie che ogni giorno ci venivano (e ci vengono) date, poteva essere un buono strumento per comprende il periodo e per cercare delle risposte a domande personali ed intime che mi stavano tormentando..

Cecità è un ‘opera interessante, con il senno di poi, non so se è stato un bene leggere un libro così crudo, cinico e concreto in un momento in cui la morte è attorno a noi, nelle nostre case, in quelle dei nostri vicini, dei nostri cari. Ma sicuramente è stata illuminante, per comprendere come la natura umana riesca ad affrontare le situazioni più disparate, tirando fuori, spesso e volentieri, il lato peggiore della nostra indole.
L’epidemia, che colpisce l’imprecisato Paese in cui si svolge la vicenda, rende ciechi gli uomini e le donne, li priva di un senso, quello della vista, che si tende a dare per scontato e non si riflette su come avere un paio d’occhi incida drasticamente sulla nostra vita, sul modo di viverla ma soprattutto di interpretarla. Il male, che emerge da questo mondo immerso nel bianco, è crudele, cinico, spietato, non “guarda in faccia” nessuno. Saramago, con quest’opera che voglio immaginare come distopica, ci illustra un’umanità che dopo aver perso la possibilità di vedere, scende uno dopo l’altro i gradini della dignità, della solidarietà, della gentilezza, della condivisione, lasciando che ne emerga solo una massa di ciechi egoisti e arrabbiati. Non tutti, alcuni riescono a tenersi aggrappati ai quei pochi brandelli di umanità e di bontà che gli restano e sono coloro che ruotano attorno all’unica donna che non ha perso l’uso degli occhi, l'unica che continua a vedere il sole sorgere e il resto del mondo sprofondare negli istinti animali e nello sconforto totale.

Il “mal bianco” a cui sono condannati questi uomini e queste donne è un male che non si vede ma che causa la fine della civiltà, del buon vivere, delle regole sociali. Si forma un mondo dove vige la legge del più forte, del più furbo, del più veloce. In questo mondo disilluso, in cui il cibo non è scontato, l’acqua è un miraggio, l’igiene personale un’abitudine che si ricorda solo con indeterminatezza, la morte, la povertà, la malattia sono agli angoli delle strade, sono sui vestiti laceri delle persone, nell'odore che si portano dietro. Saramago ci mostra un’umanità vinta, persa, naufragata, incapace senza gli occhi di poter vivere in società, di potersi organizzare, di poter funzionare.

Al di là della storia, originale quanto spiazzante, il messaggio è forte, l’impatto non lascia indifferenti, oggi più di tutti gli altri giorni. In un momento di grande criticità come quello che stiamo vivendo, l’umanità lancia grida contrastanti, ma molto chiare. Niente di diverso da quello che leggiamo in Cecità. L’egoismo e l’indifferenza nei confronti di chi non è colpito dal male, la sordità di fronte alle richieste di aiuto, la cecità di fronte a chi tende una mano, la paura di ciò che non si capisce e poi.. poi tutti nel baratro, senza possibilità di scampo e allora l’egoismo e l’indifferenza si trasformano in rabbia, in aggressività, in desiderio di sopravvivere facendo soccombere gli altri, e poi.. poi la morte, la morte che si crede sempre lontana, come se si trattasse di un’estranea, come il contrario della vita, quando la morte è dentro la vita, ma ce ne dimentichiamo, fino a quando non ci tocca.

“Chissà se tra questi morti non ci saranno i miei genitori, disse la ragazza dagli occhiali scuri, e io, magari, passo accanto a loro e non li vedo, E’ una vecchia abitudine dell’umanità, passare accanto ai morti e non vederli, disse la moglie del medico.”

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
140
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
AriMonda Opinione inserita da AriMonda    11 Marzo, 2020
Top 500 Opinionisti  -  

Il fratello sbagliato?

Caino, il fratricida, il traditore della famiglia. La fama di questo personaggio è nota a tutti, anche a chi non ha dimestichezza con la Bibbia, associato indelebilmente al fratello Abele, che ha ucciso perché Dio ne ha preferito il sacrificio. Il Male dunque incarnato in una persona, il simbolo della perdizione.

Ma Saramago nella sua opera ribalta la prospettiva tradizionale e ci tratteggia un personaggio che non è altro che un uomo, con i suoi limiti e i suoi difetti, ma pur sempre un uomo. Perché Dio ha preferito il sacrificio di Abele? Perché non poteva accettarli entrambi? Perché ha dovuto umiliare un fratello per far primeggiare l’altro? L’omicidio commesso da Caino non viene giustificato, ma la colpa, in questa versione, è smorzata e sdrammatizzata, non ricade su un’unica persona. Dio stesso è colpevole e Caino non si risparmia ad accusarlo di cattiveria ingiustificata e gratuita.

Dio viene presentato come un personaggio comico per certi versi, vanaglorioso, superbo, irritabile e suscettibile alla più piccola offesa. È un dio, ma con la d minuscola, crudele, meschino, che non si fa nessun tipo di remore a uccidere persone e bambini, bruciare città, devastare il mondo da lui creato. L’immagine che l’autore vuole restituire è di una divinità che di divino ha solo il potere di poter decidere cosa e come gestire le vite degli uomini, ma i motivi che lo muovono hanno una natura completamente umana. Egli gioca con le vite dei suoi seguaci come se fossero le pedine di un gioco da tavola di cui egli è l’unico giocatore.

Caino compie un viaggio simbolico, temporale e spaziale, che lo mette in diretto contatto con alcuni importanti personaggi dell’Antico Testamento, ma quello che possiamo evincere stando al passo dell’uomo e del suo giumento, è la profonda umanità che si cela nell’animo del fratello sopravvissuto, pentito a tratti del delitto commesso, ma sempre presente a se stesso, sempre pronto a constatare la mancanza di umanità nel dio creatore, un dio capace di chiedere a un padre di uccidere il figlio e di ridurre sul lastrico e coperto di piaghe il suo più caro fedele.

Caino è il campione di umanità all’interno di questa storia, il vero protagonista, la voce della ragione e della verità, un uomo per cui non possiamo non provare compassione e di cui non possiamo ignorare le opinioni e le idee. Il suo senso di giustizia è vicino al nostro modo di sentire, non possiamo non indignarci insieme a lui e non provare la stessa rabbia, mentre non riusciamo a capire cosa spinga il Signore a compiere atti orribili e punitivi, dimenticando gli innocenti, i buoni, gli onesti.
Perché Caino, come dio, è un peccatore, ma a differenza di quest'ultimo, ne è consapevole e si muove nel mondo atemporale della sua punizione senza dimenticarlo e senza mai perdere di vista chi incarna il vero Male.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
90
Segnala questa recensione ad un moderatore
Storia e biografie
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuti 
 
5.0
Approfondimento 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
AriMonda Opinione inserita da AriMonda    01 Marzo, 2020
Top 500 Opinionisti  -  

L'importanza della memoria

Settantacinque anni sono passati dalla liberazione del campo di Auschwitz e cogliendo il monito di Primo Levi di conoscere per non dimenticare ma soprattutto per evitare di commettere gli stessi errori, mi sono avventurata in questa opera, in questo saggio che l’autore ha scritto quarant'anni dopo di "Se questo è un uomo".

Un’analisi lucida, attenta e spietata che il chimico deportato e scampato alla morte, a cui è condannata la popolazione dei campi di concentramento, riesce a rendere con uno stile sobrio, pacato e allo stesso tempo profondo. Levi cerca di rispondere alle domande che noi, persone vissute dopo il sterminio, ci poniamo e poniamo ai sopravvissuti. Con una razionalità e una sincerità che spesso lascia interdetti e spaventa, Primo Levi racconta della difficoltà dei reduci a ricordare i peggiori momenti della loro vita, dove la vergogna si lega al senso di colpa, dove la vittima finisce per essere irrimediabilmente corrotta. Infatti uno dei punti che Levi affronta nella sua disamina sull'argomento coinvolge proprio questo aspetto e più di tutti sconvolge, ci lascia sospesi e ci fa riflettere sulla natura umana e sul male che è possibile fare, ma soprattutto sul male che si instilla dentro alle vittime, rendendo impossibile per loro un riscatto, una pace dopo la tempesta.

Levi riesce a rispondere, attraverso quest’opera, a domande scomode che tutti noi ci siamo posti mentre studiavamo questo periodo storico o che avremmo voluto rivolgere alle persone scampate allo sterminio. Egli passa in rassegna della materia scottante ma su cui noi difficilmente potremmo muoverci senza una guida-testimone di quei fatti. Racconta dell’impossibilità umana nel giudicare le azioni commesse da una parte dell’umanità che ha preso parte a questo delicato e terribile momento, quella parte di uomini e donne, che si sono piegati al potere e si sono lasciati trascinare dalla parte del carnefice. Egli ci parla dell’importanza della comunicazione e del disagio provato dai prigionieri deportati da varie parti d’Europa, costretti a convivere senza la possibilità di comprendersi; dell’arma a doppio taglio che può essere la formazione scolastica e la cultura in un contesto disumanizzato dove tutto si riduce a un rapporto padrone-bestia; della difficoltà nel gestire i ricordi e nel capire quanto fragile sia la memoria che modifica i fatti per reagire a traumi che preferisce dimenticare.

Credo che questo libro, pesante da certi punti di vista, cinico e più che mai realista, sia il modo migliore, visti i tempi attuali, per addentrarsi all'interno di un mondo ormai per noi lontano, per scoprire fino a dove può spingersi la pazzia di un popolo, fino a dove può arrivare la spietatezza e la crudeltà umana. È un’opera spietata, infatti, ma che lascia spazio alla speranza, all'indulgenza anche se non al perdono, che lascia trapelare una luce di positività. Levi non condanna, non punta il dito contro nessuno in particolare, non si lascia ammaliare dalla vendetta, dalla possibilità di ripagare con la stessa moneta i torti subiti, ma ci invita alla comprensione e a sospendere il giudizio, laddove un uomo, un uomo che non ha conosciuto la morte e la cattiveria dei Lager, non può addentrarsi e di lasciare a chi di competenza il compito di emettere di sentenze. Levi invita alla riflessione, alla comprensione se è possibile e all'impegno perché ciò che è accaduto non accada di nuovo.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Libri di storia contemporanea e sui campi di concentramento
Trovi utile questa opinione? 
130
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
AriMonda Opinione inserita da AriMonda    26 Febbraio, 2020
Top 500 Opinionisti  -  

Domani, domani tutto finirà!

Un romanzo irrimediabilmente legato alla vita del suo autore, “Il giocatore” è stata una lotta (contro il tempo e contro i creditori) che Dostoevskij ha ingaggiato e brillantemente superato. Costretto dai debiti, lo scrittore cede all'editore i diritti della sua opera per nove anni se non gli avesse consegnato entro un mese un nuovo romanzo: l’amico Miljukov testimonia l’apprensione dell’autore e la disperazione per l’avvenire. Ma grazie al consiglio dell’amico di avvalersi di una stenografa, Anna Grigorevna Snitkina (che poi diventerà la futura moglie di Dostoevskij) in 25 giorni il libro è pronto per essere presentato all'editore.

Una storia che ha in sé tanti tratti della biografia dell’autore, a partire dal tema principale: il gioco. In una città inventata, Roulettemburg, il protagonista-narratore spia e racconta la vita di ambigui personaggi appartenenti alla borghesia europea, una borghesia presa di mira per l’ipocrisia con cui si presenta e si atteggia, parodiata nei suoi gesti e ridicolizzata nelle forme e nelle parole pronunciate dal “borghesuccio” di turno. Una critica maturata dall'autore grazie ai numerosi viaggi all'estero che lo avevano messo in relazione con un mondo che egli non poteva che disprezzare e rappresentare in tutta la sua superficialità.
La narrazione è concitata, procede rapida e tiene continuamente sospesi, ci si chiede quale sia il nucleo della storia, quando finalmente accadrà qualcosa e quando ci verranno fornite le risposte.
E alla fine scopriamo che il precettore, Aleksej, è innamorato di una donna che lo tiene appeso a un filo ed è legata ambiguamente ad altri personaggi maschili; il generale, il datore di lavoro del protagonista, è tutto occupato a corteggiare una francesina opportunista e interessata solo a soldi e posizione sociale: mentre tutto l’entourage che gira attorno al generale russo spera nella morte della baboulinka, la ricca nonna, che “stendendo le gambe” definitivamente avrebbe permesso ai parenti di vivere scialacquando il patrimonio e ostentando una posizione.

La nonna è indubbiamente il personaggio più interessante dell’intero romanzo, a mio parere. Quando tutti la credono ormai in procinto di abbandonare questo mondo e attendono un telegramma che annunci la sua morte, questa si presenta con il suo seguito e una quantità infinita di valige proprio nella città tedesca del gioco d’azzardo. Con la sua presenza dispotica e tirannica, vivissima contro ogni aspettativa e desiderio, riempie la scena. È ironica, tagliente, sprezzante di ogni regola e buon costume, finisce per essere la più accanita e salace critica della falsità e degli artifici della società di cui lei stessa fa parte. Ma anche lei, dall'alto della sua posizione e della sua età, nonostante si creda più furba e più intelligente del corteo di adulatori che la circonda, finisce vittima del gioco e presa da una smania irrefrenabile e dal desiderio che attanaglia il giocatore, dilapida il suo patrimonio in soli due giorni. La nonna che tutti credevano e volevano morta, per potersi prendere a gomitate una parte della sua ricchezza, è viva e vegeta e ancora dotata di autonomia, libera di decidere di come disporre del proprio denaro e poi schiava di un meccanismo che la lascia senza nulla.

Come disse Mario Soldati, è difficile scrivere di qualcosa che non si conosce e Dostoevskij conosceva bene il rischio e l’emozione del gioco d’azzardo. E questa conoscenza e perizia emerge, sin dalle prime pagine, grazie alla descrizione che muove dagli occhi curiosi del precettore mai stato in un ambiente simile, che si aggira tra le sale, i rumori e lo scintillio di un mondo fatto apposta per ammaliare e abbindolare. Uno sguardo che muta insieme al protagonista man mano che questi conosce il brivido della vincita e della perdita.
Le pagine finali del romanzo sono emblematiche per capire cosa si muove nella mente di un uomo, attanagliato e afflitto dall'ossessione del gioco, un’ossessione che va oltre la vincita o la perdita, che si nutre del tintinnio nelle monete, dell’atmosfera e della fama delle proprie gesta e del proprio coraggio nel rischiare tutto, nel mettere in ballo sul tavolo la propria vita e il proprio futuro. E così ogni pezzo d’oro è l’occasione per tentare la sorte e anche se si è consapevoli della propria malattia, di essere finiti in un baratro oscuro e si avverta la necessità di risollevarsi, di tornare persone per bene e con la testa sulla spalle, quell'unico pezzo d’oro è una buona scusa per rimandare il cambiamento a domani. “Domani, domani tutto finirà!”.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
130
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.3
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
3.0
AriMonda Opinione inserita da AriMonda    24 Gennaio, 2020
Top 500 Opinionisti  -  

L’inaccessibile uomo che sogna

Difficile da inquadrare questo romanzo breve partorito dalla mente di Perec. Lo scrittore decide di narrare la “storia” utilizzando la seconda persona singolare, un martellante ricorrere di “ti guardi/ ti vedi/ ti alzi/ ti prepari” che disorienta e confonde: talvolta sembra che il narratore racconti di se stesso ma guardandosi da fuori e allo stesso tempo che parli di qualcuno che ormai è scomparso, svanito nel nulla, e quel qualcuno a volte mi è sembrato corrispondesse alla mia persona.
Credo che Perec abbia dato vita a qualcosa di duttile e flessibile, che si presta ad una immedesimazione nel protagonista tale da far perdere di vista i confini della realtà.

La mattina dell’esame uno studente universitario di venticinque anni decide di non alzarsi dal letto, di non presentarsi in aula, di non riempire i fogli con le proprie conoscenze, di non chiedere chiarimenti ai compagni; mentre immagina il suo doppio compiere tutte queste azioni, prive di senso e di volontà. Così ha inizio la “non vita” del protagonista, all'insegna dell’indifferenza e dell’atarassia.
"Hai venticinque anni e ventinove denti, tre camicie e otto calzini, qualche libro che non leggi più e qualche disco che non ascolti più. Sei seduto e vuoi soltanto aspettare, aspettare solamente finché non ci sia più niente da aspettare."
Egli guarda la propria vita scorrere, mentre aspetta; si educa alla neutralità, decide di non provare più nulla, di uscire fuori dagli schemi e di non farsi etichettare. Una scelta controcorrente in una società che mira all'azione, all'imprenditorialità e alla progettualità e che su questi fondamentali principi regola e scandisce i ritmi di tutti; di fronte ad un sistema che ha un posto preciso e determinato per ognuno di noi, lo studente dice “no”. Se ne chiama fuori, non vuole prendere parte alla frenesia della vita, alle dinamiche del “fare tutto, farlo bene e farlo subito”.

Così si lascia trasportare dalla corrente senza dare peso a nulla. Legge “Le Monde” ma non legge, mangia al ristorante senza accorgersi di cosa ingerisce, va al cinema e non sa che cosa guarda, dorme o sta sveglio, cammina o sta steso nel letto, esce di casa o non esce di casa. Non sembra importare più nulla, nulla ha più senso di essere vissuto, capito, fatto proprio.

Un testo inquietante per certi versi, pericoloso per altri, un tentativo di estraniarsi dalla vita e lasciare che il “non senso” prenda il sopravvento. Ma l’indifferenza non è l’arma giusta per combattere la sensazione di vuoto e di smarrimento che scaturisce dal quotidiano vivere e lo studente venticinquenne che si era illuso di essere neutro e inaccessibile si scoprirà di nuovo vivo e costretto a fare i conti con la realtà.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
  • no
Trovi utile questa opinione? 
100
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
AriMonda Opinione inserita da AriMonda    21 Gennaio, 2020
Top 500 Opinionisti  -  

La guerra è dappertutto, in campagna come in città

“La ciociara” di Alberto Moravia racconta l’esperienza di due donne, madre e figlia, costrette a scappare da Roma durante la Seconda Guerra Mondiale per scampare ai bombardamenti e alla carestia che imperversava nella città. Ma, allargando il campo dell’obiettivo, ci si rende conto di trovarsi di fronte a qualcosa di molto più grande: al senso stesso della violenza e della forza distruttiva di un’esperienza profanatoria come quella della guerra.

Cesira, la protagonista, è una donna semplice, pragmatica e concreta, tutta volta alla pulizia della casa, al negozio e alla cura della figlia Rosetta. Una donna trapiantata a Roma dalla Ciociaria, contenta di aver abbandonato i campi della sua infanzia, nonostante rimanga forte l’attaccamento a quei luoghi e alla sua origine contadina, pronta per cominciare una vita completamente diversa, da abitante di città, nella casa dell’odiato marito. Se la guerra in un primo momento sembra essere una manna dal cielo per la donna, la quale attraverso la “borsa nera” riesce a intascarsi parecchi soldi facendo leva sulla penuria di viveri, alla fine la costringe ad abbandonare la casa amata, simbolo di una vita desiderata e poi afferrata con mano, coltivata e protetta dalle sue cure, ed ora strappatale via da una guerra che non capiva e non voleva.

Madre e figlia, a malincuore, partono per la campagna, con l’illusione di raggiungere la casa dei nonni e poter aspettare la fine delle guerra mangiando e riposandosi, come se si trattasse di una semplice vacanza. Scopriranno sulla loro pelle che la guerra non fa sconti, non va in vacanza e non risparmia la campagna, per quanto essa possa comunicare tranquillità e ristoro.
Non arriveranno mai alla casa dei genitori di Cesira, il treno pieno di nazisti non giunge a destinazione e costringe le due donne, sole, con le valigie caricate sulla testa a cercare riparo altrove.

“La ciociara” è la storia di una parte dell’Italia, quella costretta a scappare e cercare rifugio sui monti, lontano dai centri abitati, a fare provviste senza sapere per quanto tempo se le sarebbero dovute far bastare. Di uomini e donne costretti dalla necessità a sospettarsi l’un l’altro, ad aiutarsi solo per tornaconto personale, ad aspettare con ansia ora la vittoria degli Alleati ora quella dei tedeschi, purché mettessero fine alla miseria, alla fame e alla lontananza dai propri cari e dalle proprie case.

È la storia di due donne, sole, che si fanno forza l’un l’altra per cercare di sopravvivere alla fine della guerra, qualcosa di innaturale che sotto i loro occhi stava storpiando la natura dell’uomo. Cesira, per proteggere la figlia, pura come un angelo e perfetta nella sua “ignoranza”, trova la forza di andare avanti e non buttarsi giù di fronte agli intoppi che incontrano lungo il cammino. Riesce a provvedere ad entrambe, grazie al denaro della “borsa nera”, a garantirsi un tetto sopra la testa e provviste per l’intero periodo in montagna. Ma è proprio quando tutto sembra essere finito e risolto per il meglio che le cose precipitano. Gli Alleati sbarcano e sbaragliano le truppe tedesche conquistando terreno e permettendo agli sfollati di scendere a valle.

Qui, Cesira avrà modo di constatare come la guerra non tiri fuori il peggio delle persone, ma permetta agli uomini di sfogare la loro vera natura, di fare uscire, senza regole e senza paura delle conseguenze, la bestialità che si annida in fondo all'essere umano, senza tralasciare nessuno. L’egoismo e il tornaconto personale anestetizzano l’uomo e lo rendono indifferente alle disgrazie altrui, capaci di spostare un cadavere dalla strada e proseguire come se nulla fosse successo; di stuprare, rubare, vivere sulle spalle degli altri senza che nessuno venga punito, senza sensi di colpa, senza sentire il bisogno di redimersi.

Cesira assiste ad eventi tragici e drammatici, come donna e come madre, vede la figlia cambiare sotto i suoi occhi e sente su di sé il peso dell’impotenza di fronte alla sofferenza e al dolore di un essere così perfetto rovinato per sempre.
La guerra ha cambiato il volto dell’Italia e gli animi degli italiani, e quella donna che in gioventù era in grado di trasportare “sul cercine, in bilico sulla testa, […] fino a mezzo quintale”, si ritrova a dover sopportare sulle proprie spalle qualcosa di molto più pesante: la consapevolezza che tutto è cambiato, la guerra aveva segnato la “tomba di indifferenza e di malvagità”, mentre il dolore provato, sulla carne e nell'anima, le aveva salvate e restituite alla vita, una vita non felice e forse piena di oscurità, ma “la sola che dovessimo vivere”.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
150
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
AriMonda Opinione inserita da AriMonda    20 Gennaio, 2020
Top 500 Opinionisti  -  

La crescita sospesa

"Dietro la porta" rappresenta uno dei tasselli di una sorta di trilogia ("Gli occhiali d'oro" e "Il giardino dei Finzi-Contini) che Bassani scrive in prima persona, senza mai esplicitare il nome del protagonista, ricordando luoghi ed avvenimenti di una fase della storia di Ferrara e della crescita, che portano inevitabilmente ad identificare l’autore con l’io narrante.

La storia di "Dietro la porta" vuole rappresentare un brevissimo lasso di tempo nella vita di un adolescente sedicenne, ebreo, in una Ferrara non ancora toccata dalle leggi razziali, ma già sotto il fascismo: è ambientata infatti tra il 1929 e il 1930. La vicenda è raccontata dall'ormai adulto narratore, che chiarisce sin dall'incipit come un evento traumatico accaduto in quel delicato periodo della crescita abbia aperto una ferita mai guarita, impedendogli quindi di poterla metabolizzare e divenire veramente “grande”.

È la storia di un adolescente e come tale si apre disegnando una serie di confusionarie emozioni circa tutto quello che lo circonda. Primo bersaglio dell’ondata di insofferenza adolescenziale è proprio la scuola, che diviene da luogo caro in cui primeggiare una vera e propria prigione, in cui si sente estraneo ed escluso, un reietto. Alle turbe adolescenziali, tipiche dell’età, si deve aggiungere un senso di inferiorità e di diversità che ha tratti culturali ed identitari, ovvero l’ebraismo. L’essere ebreo è una costante nella produzione bassaniana, in modo particolare nella trilogia di cui questo romanzo breve fa parte. Bassani riversa sul suo protagonista adolescente un senso di inadeguatezza al contesto che lo circonda, di non appartenenza, legato anche alla questione ebraica nella città di Ferrara, ma mascherandola sotto le vesti di un atteggiamento di sfida e di contestazione, di inferiorità e di solitudine tipico dell’età di passaggio per divenire adulti.

In questo clima di isolamento e di esilio dal mondo che lo circonda, incompreso dalla classe, dai professori e dai genitori, avviene un incontro decisivo per la vita del protagonista, ancora bambino sotto certi punti di vista: l’arrivo di Luciano Pulga, un ragazzino di Bologna, trasferitosi a Ferrara per esigenze di lavoro del padre. Il protagonista sedicenne, vissuto fino a quel momento sotto una campana di vetro, viene iniziato alla vita da Luciano, con maniere adulatorie e servili, pericolose e allo stesso tempo attrattive. Il bolognese gli apre gli occhi sulla realtà circostante, mette in dubbio la bontà dei genitori, è irrispettoso, tracotante, ma soprattutto lo inizia al discorso sul sesso. Saranno tutte queste scoperte, che sommate all'ultima, quella decisiva e finale, quella che avviene appunto dietro la porta, che causeranno nel protagonista uno squarcio, una ferita dolorosa ed inguaribile: desteranno la curiosità di indagare su tutto quello che aveva ritenuto una certezza, scoprendosi solo ed impreparato ad affrontare una vita di dolori e di delusioni.
La crescita del protagonista di fatto non avverrà, non nello spazio dell'intreccio di questo romanzo per lo meno: il protagonista aprirà gli occhi sulla velleità del mondo degli adulti, su aspetti della propria persona, della propria famiglia e della propria condizione economica, ma non avrà gli strumenti per affrontare il carico pesante che la scoperta comporta. Deciderà così di fingere che nulla sia accaduto, comportarsi come sempre, restare il bambino dell'inizio del romanzo; ma ormai il fatto è compiuto, la realtà gli si è rivelata e lo sforzo di dissimulare indifferenza non fa che peggiorare ed acutizzare il dolore esistenziale provato.

"Dietro la porta" è un romanzo breve che si legge in poche ore, è scritto con una grande delicatezza e profondità, lasciando emergere sentimenti ed emozioni, che accomunano l'adolescenza di tanti, a prescindere dall'età che si ha. La narrazione viene gestita da un io narrante, che nonostante chiarisca di essere ormai un adulto, dimostra di non essere riuscito a superare fatti traumatici avvenuti nella sua prima adolescenza, attraverso una scrittura che non indugia su certi aspetti, ma si velocizza, come se si vergognasse di raccontarli e di riportarli a galla, come se scriverne comportasse rivivere ancora il dolore del passato.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Ernesto, Agostino, L'isola di Arturo, La confessione, Gli occhiali d'oro, Il giardino dei Finzi-Contini
Trovi utile questa opinione? 
130
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
AriMonda Opinione inserita da AriMonda    15 Gennaio, 2020
Top 500 Opinionisti  -  

Mi chiamo Jacomo, sono il figlio di ser Battista i

Melania Mazzucco racconta, con questo romanzo, la vita di Jacomo Tintoretto, pittore veneziano del Cinquecento, ripercorrendo a ritroso la strada, fatta di alti e bassi, di un’esistenza votata all’arte e all’amore, di uomo ambizioso e controcorrente. Una scrittura incalzante ma anche riflessiva, che trova la sua forma ideale nel monologo intimo e raccolto che il narratore protagonista, Tintoretto, rivolge a Dio, ma in fondo soprattutto a se stesso. Un dialogo che funge da specchio per l’anima, per fare i conti con un’esistenza costellata di errori, di sbagli, di vizi. Una vita spesa a cercare consenso e approvazione, nel tentativo di essere apprezzato in quegli ambienti che più di tutti lo respingevano, risoluto e testardo, con una sola meta davanti agli occhi, Tintoretto viene dipinto dall’autrice in tutto il suo estro, nelle sue contraddittorietà e nella sua fame di gloria.
La storia del figlio del Tintore è magistralmente costruita tramite dei flashback, una sorta di bilancio finale prima di ritrovarsi davanti al Giudice, temuto, venerato, servito e soprattutto omaggiato. Tra le calle di Venezia, il giovane pittore in erba comincia i suoi primi passi, tra stenti e arte becera, convinto di essere destinato, predestinato, a qualcosa di più grande. È un percorso di fatica, di difficolta e talvolta di miseria, costretto a farsi largo nel mondo a gomitate per farsi notare, per prevalere. È il racconto dei dipinti che hanno reso, e tutt’ora rendono, grande la città lagunare, che hanno consacrato il pittore ad occupare un posto nella storia e a non cadere nell’oblio; è il racconto di una passione e di un talento che non hanno trovato riposo, che si sono espressi anche quando volevano tarpargli le ali.
Ma è anche la storia di un uomo, di un padre, di un marito, che ripensa al passato e ai sacrifici fatti, agli errori e ai passi falsi, ma che è capace di redimersi. L’amore dell’artista per i figli è il collante di questo romanzo, ciò che tiene uniti i pezzi del puzzle che Melania Mazzucco costruisce in un gioco di rimandi e di suspense continua. La vecchiaia consegna all’uomo un dono importante, quello della consapevolezza, ma anche un grande peso, quello del tempo passato e mai più recuperabile. L’anziano pittore ripensa al suo rapporto con i figli maschi, ribelli e sfuggenti, ma bellissimi e pieni di vita e alle figlie femmine destinate a farsi monache, allontanate dalla casa paterna contro la loro volontà come per ripagare per gli errori del padre. Ma la figura che più di tutti catalizza l’attenzione del pittore, il centro in cui confluiscono tutti i ricordi, è Marietta, la prima figlia, l’illegittima, la prediletta, la Tintoretta.
Negli ultimi giorni della sua vita Tintoretto ripercorre la sua esistenza, le luci e le ombre di una vita votata all’arte e in parte alla famiglia, ma il tono della confessione che egli fa a Dio ha in sé stralci di amarezza, di pentimento e soprattutto di rimpianto. Con uno stile perfettamente barocco, Melania Mazzucco fa di Tintoretto un uomo reale, tangibile, uno come molti, che si rende conto di aver ottenuto tanto nella sua vita ma di aver perso altrettanto. È un invito a non dare per scontati i rapporti umani e familiari, a non rimandare e a non dimenticarsi di amare e di dimostrarlo, ma anche a non smettere di inseguire la propria strada.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
100
Segnala questa recensione ad un moderatore
14 risultati - visualizzati 1 - 14

Le recensioni delle più recenti novità editoriali

Identità sconosciuta
Valutazione Utenti
 
3.3 (1)
Incastrati
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)
Chimere
Valutazione Utenti
 
3.5 (1)
Tatà
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Quando ormai era tardi
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Intermezzo
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Il carnevale di Nizza e altri racconti
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
La fame del Cigno
Valutazione Utenti
 
4.8 (1)
L'innocenza dell'iguana
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Long Island
Valutazione Utenti
 
3.0 (1)
Volver. Ritorno per il commissario Ricciardi
Valutazione Utenti
 
4.1 (2)
Assassinio a Central Park
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)
Identità sconosciuta
Valutazione Utenti
 
3.3 (1)
Incastrati
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)
Chimere
Valutazione Utenti
 
3.5 (1)
Tatà
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Quando ormai era tardi
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Intermezzo
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Il carnevale di Nizza e altri racconti
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
La fame del Cigno
Valutazione Utenti
 
4.8 (1)
L'innocenza dell'iguana
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Long Island
Valutazione Utenti
 
3.0 (1)
Volver. Ritorno per il commissario Ricciardi
Valutazione Utenti
 
4.1 (2)
Assassinio a Central Park
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)

Altri contenuti interessanti su QLibri

Il successore
Le verità spezzate
Il carnevale di Nizza e altri racconti
Delitto in cielo
Long Island
L'anniversario
La fame del Cigno
L'innocenza dell'iguana
Di bestia in bestia
Kairos
Chimere
Quando ormai era tardi
Il principe crudele
La compagnia degli enigmisti
Il mio assassino
L'età sperimentale