Opinione scritta da Davide Meloni

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Davide Meloni Opinione inserita da Davide Meloni    17 Gennaio, 2021
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Quel luogo in cui la vita fiorisce

Leggendo l’ultimo libro di Alessandro D’Avenia ci si rende conto già dalle prime pagine che non si tratta solo di un romanzo. “L’appello” – questo il titolo dell’opera, uno dei libri più venduti in Italia nel 2020 – è innanzitutto la riflessione di un insegnante sulla scuola e su come essa abbia in gran parte smarrito la capacità di introdurre i giovani alla ricerca del senso delle cose, del mondo, della propria esistenza e sia diventata un luogo in cui gli studenti vengono trattati come animali da circo, addestrati a ripetere quello che dicono gli adulti.
La storia è quella di Omero Romeo, insegnante di scienze, diventato cieco da alcuni anni, che dopo un lungo periodo di buio interiore più ancora che esteriore, decide di riprovarci, di tornare in cattedra e ricominciare a vivere, di mettercela tutta per «trasformare quel buio in luce, come fanno gli scienziati e gli artisti».
Gli viene così affidata una quinta superiore, ragazzi problematici, con un’esistenza in subbuglio, tutti sul punto di perdersi definitivamente. Dopo un iniziale imbarazzo e un po’ di diffidenza, è con loro che Omero inaugurerà uno stile originale di fare scuola, che ruota attorno al rito dell’appello. Quello che normalmente è il momento più formale e burocratico della giornata, in cui i nomi degli studenti vengono pronunciati a voce alta per verificarne la presenza – perlomeno fisica – in classe, diventa invece il fulcro della lezione: dopo la spiegazione del professore ogni studente è chiamato in causa per dire come un particolare aspetto della realtà oggetto della lezione reagisca con la propria vita e con i drammi, i dubbi, le speranza di cui è fatta. L’esperimento pian piano comincia a suscitare entusiasmo in alcuni, diffidenza e aperta ostilità in altri, a partire dal preside e da tanti colleghi di Omero che non tollerano che un certo assetto ormai sclerotizzato venga in qualche modo messo in discussione.
Il libro è una denuncia, neanche tanto velata, a una scuola che, nonostante la buona volontà di molti insegnanti, si è ridotta ad essere l’ombra di quello che dovrebbe essere: un luogo dove anche le cose più belle vengono inghiottite da un apparato burocratico capace di trasformare tutto in noia sconfinata: «Tutti devono lottare per fare in modo che la scuola così com’è crolli, e ne nasca una nuova. Un luogo in cui le vite fioriscono invece di spegnersi».
Per ripartire occorre uno sguardo nuovo sull’unicità di ciascun nome, di ciascuna storia, una passione per la felicità di ogni ragazzo e ragazza, un instancabile tentativo di generare uomini e donne veramente liberi.

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Davide Meloni Opinione inserita da Davide Meloni    04 Gennaio, 2021
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"Forte come la morte è l'amore"

«Forte come la morte è l’amore, tenace come il regno dei morti è la passione». La celebre affermazione del Cantico dei Cantici potrebbe riassumere il senso del romanzo Cambiare l’acqua ai fiori, ultima fatica di Valérie Perrin, grazie alla quale la scrittrice francese si è aggiudicata il prestigioso Prix Maison de la Presse nel 2018. Nell’ultimo anno il libro è diventato un vero e proprio caso editoriale.
Il romanzo è davvero molto bello, e il suo successo (centinaia di migliaia di copie vendute in Italia) è perlopiù dovuto al passaparola di lettori e librai, visto che comunque si parla di una scrittrice poco nota.
La protagonista è la misteriosa Violette Toussaint, quasi cinquant’anni, professione guardiana di cimitero in una cittadina della Borgogna. Dalla sua “postazione privilegiata” Violette ha la possibilità di vivere una quotidiana familiarità con la morte, soprattutto a partire dall’osservazione delle persone che fanno visita ai loro cari defunti. Lei stessa è segnata da un lutto che sembra insuperabile. Valérie Perrin racconta la sua burrascosa vicenda, attraverso continui rimandi tra passato e presente, delineando gradualmente i tratti di un personaggio da cui si fa fatica a staccarsi una volta terminata la lettura.
Attorno alla protagonista ruotano altre figure e altre storie, come quella del marito Philippe Toussaint, che la abbandona da un giorno all’altro facendo perdere le tracce di sé, dell’anziano Sasha, anche lui guardiano di cimitero, capace con la sua amicizia di restituire a Violette la voglia di vivere, degli amanti Irène e Gabriel la cui storia finisce per coinvolgere anche Violette, di padre Cédric, il parroco che con la sua fede sofferta ma incrollabile diventa per Violette una figura quasi paterna.
Tutti i personaggi devono fare in qualche modo i conti la morte, che quindi diventa il grande tema del libro, insieme a quello della rinascita. La questione viene trattata con profondità e delicatezza, mettendo soprattutto in evidenza come l’amore tra le persone faccia sì che esse diventino parte le une delle altre, dando vita a un legame così profondo da essere più potente della morte.
Nell’ultima pagina del romanzo appaiono le parole della Prima Lettera di San Giovanni: «Noi sappiamo di essere passati dalla morte alla vita poiché amiamo i nostri fratelli. Chi non ama rimane nella morte». L’essere umano è fatto per la relazione e si compie solamente uscendo da se stesso per andare verso un altro. Cambiare l’acqua ai fiori sembra suggerire che solo qui c’è il vero superamento della morte.

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Davide Meloni Opinione inserita da Davide Meloni    07 Settembre, 2020
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Anime salve

«Per i pazzi di tutti i tempi, ingoiati dai manicomi della storia». A loro e a tutti gli esclusi che abitano il nostro mondo, le nostre città, magari le nostre stesse famiglie il bravissimo Daniele Mencarelli dedica il romanzo “Tutto chiede salvezza”, vincitore del Premio Strega Giovani 2020.
La vicenda è quella di Daniele, ragazzo romano di vent’anni, incline a percepire la drammaticità della vita con un’intensità sconosciuta ai più: «Non so vivere in un altro modo, non riesco a fuggire a questa ferocia: se c’è una vetta la devo raggiungere, se c’è un abisso lo devo toccare». La sua febbre di vita lo porta a interiorizzare, oltre ogni ragionevole misura, i drammi e le gioie che costituiscono l’esistenza quotidiana non solo sua ma anche delle persone con cui, per un motivo o per un altro, entra in contatto.
Ciò lo conduce a porre alla vita un’implacabile domanda di salvezza, per tutti e per tutto: «Una parola per dire quello che voglio veramente, questa cosa che mi porto dalla nascita, prima della nascita, che mi segue come un’ombra. Salvezza. La mia malattia si chiama salvezza, ma come? A chi dirlo?». La domanda brucia sulla pelle di Daniele e sembra non trovare risposta in tutto il repertorio di soluzioni che la società mette a disposizione per andare avanti (scienza e religione comprese), né tantomeno nelle droghe con cui il protagonista tenta di anestetizzare il dolore che lo sovrasta.
In seguito a una forte e violenta esplosione di rabbia, Daniele subisce un Trattamento Sanitario Obbligatorio ed è costretto a trascorrere una settimana in un reparto psichiatrico, lontano dalla famiglia e dalle frequentazioni abituali. Una sorta di non-luogo per soggetti irrecuperabili, inutili e pericolosi agli occhi del mondo. Qui farà la conoscenza di diverse persone: medici più o meno cinici, personale ospedaliero che cerca, come può, di difendersi emotivamente dall’orrore che lo circonda, ma soprattutto alcuni ospiti del reparto: Mario, Gianluca, Giorgio, Alessandro e “Madonnina”, compagni di viaggio decisamente fuori dagli schemi, persone per le quali non c’è posto nel mondo dei vivi, ma che, insieme al loro carico di dolore, portano in sé la grazia, l’umanità, la pietà e persino la bellezza che tante volte non trovano spazio nei rapporti quotidiani tra le persone. Sono proprio loro che Daniele riconoscerà come «la cosa più simile all’amicizia che abbia mai incontrato, fratelli offerti dalla vita, trovati sulla stessa barca, in mezzo alla medesima tempesta, tra pazzia e qualche altra cosa che un giorno saprò nominare».
L’incontro con queste “anime salve”, per dirla con De André, cambierà pian piano lo sguardo di Daniele, facendogli capire che la vera follia è quella di chi non cerca con tutto se stesso il senso, la redenzione: «La vera pazzia è non cedere mai. Non inginocchiarsi mai».

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Davide Meloni Opinione inserita da Davide Meloni    20 Luglio, 2020
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L'arte di benedire la propria vita

Si può imparare a benedire la propria vita, così come è? Si può, cioè, “dirne bene”, nonostante tutti i fallimenti e gli errori? È questo il tema del romanzo “Benedizione” dello scrittore americano Kent Haruf, scomparso alcuni anni fa.
Libro di grande bellezza e delicatezza, ambientato, come tutti i romanzi di Haruf, in una cittadina immaginaria chiamata Holt, mette in scena diverse storie che si intrecciano le une con le altre, ma che ruotano in qualche modo attorno alla vicenda umana di Dad Lewis, anziano titolare del negozio di ferramenta del paese e ormai prossimo alla fine della sua vita a causa di un tumore che lo sta consumando.
Proprio a partire dalla scoperta della malattia inizierà in Dad una sorta di resa dei conti, in cui si troverà suo malgrado a confrontarsi con i fantasmi della sua vita, con il male commesso, soprattutto con il rapporto con un figlio mai veramente accettato e con il quale le relazioni si sono chiuse ormai da anni, ma anche con le inevitabili domande di chi desidera che ciò che di buono è riuscito a costruire possa continuare a vivere dopo di lui. Nel raccontare l’ultimo tratto di vita di quest’uomo, l’autore non suggerisce facili soluzioni, né costruisce un quadro narrativo in cui alla fine i conti tornano e tutti i pezzi vanno al loro posto. Riesce tuttavia, pagina dopo pagina, ad aprire tanti spiragli attraverso cui la luce può entrare, mostrando che la vita ha un volto buono, nonostante tutto.
Attorno alla vicenda di Dad si muovono altri personaggi, tutti davvero commoventi, a cominciare dal reverendo Lyle, pastore della chiesa locale, uomo che prende il Vangelo talmente sul serio da procurarsi parecchi guai con i più devoti cittadini di Holt.
Haruf mostra con questo romanzo di essere un ottimo scrittore, capace di scavare a fondo nel mistero della vita attraverso il racconto di vicende assolutamente ordinarie. Come tanti bravi autori contemporanei, riesce, attraverso il racconto di storie particolari, a parlare dello smarrimento dell’epoca che stiamo vivendo, ma anche della struggente ricerca di significato che percorre questo nostro mondo ormai orfano delle “grandi narrazioni” e delle visioni del mondo, religiose e laiche, che per secoli hanno in qualche modo garantito un orizzonte di senso alla storia e alle storie. Non a caso i romanzi di Haruf, (come quelli di altri grandi scrittori contemporanei, si pensi a Marilynne Robinson) si svolgono in una piccola cittadina, ben lontana dal clamore delle grandi metropoli, dai centri di potere, dal rumore che riempie le nostre giornate. Quasi a dire che per cercare il senso bisogna imparare a sostare, a rallentare, a guardare veramente in faccia il prossimo che abbiamo accanto tutti i giorni. Ed è forse questo ciò che rimane nell’animo leggendo gli splendidi romanzi di Haruf: l’idea che la verità della vita si gioca nei rapporti umani. È proprio lì che può avvenire l’incontro con l’assoluto, con Dio.

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Davide Meloni Opinione inserita da Davide Meloni    07 Aprile, 2020
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Cercando un nuovo inizio

Si leggerà di più dopo il Coronavirus? Di certo in questi giorni la resistenza alla paura passa anche attraverso i libri. Non solo perché leggere un romanzo è come fare un viaggio (e in questi tempi di reclusione ne abbiamo bisogno), ma anche perché immergerci nelle narrazioni, per quanto si tratti di opere di fantasia, ci aiuta a scorgere un senso nelle situazioni reali che viviamo. Soprattutto se si tratta di storie che lasciano intravedere la possibilità di una salvezza, pur attraversando l’inferno che tante volte gli esseri umano riescono a realizzare qui sulla terra.
A questo riguardo La vita gioca con me, ultimo libro di David Grossman, autore israeliano tradotto in tutto il mondo, può essere un buon compagno di strada in queste settimane.
La vicenda si svolge in parte in un Kibbutz nello Stato di Israele e in parte nell’ex Iugoslavia. Quattro i protagonisti. Anzitutto Ghili, che è anche la narratrice della storia. Donna che ha già superato i trent’anni, fragilissima e allo stesso tempo ironica e attaccata alla vita, decide di girare un documentario sulla vita avventurosa della nonna novantenne Vera, attorno alle cui vicende si svolge l’intero romanzo. Vera, donna di una forza e un carisma fuori dal comune, in giovinezza pur di non tradire l’amatissimo marito aveva accettato di essere internata in un campo di rieducazione nell’isola di Goli Otok al tempo del dittatore Tito. Il che aveva comportato l’abbandono della figlia Nina, la madre di Ghili. Nina, che viene allevata da alcuni zii che non le vogliono bene, non supererà mai questo trauma che di fatto segnerà la sua vita, rendendola una donna perennemente sull’orlo dell’autodistruzione. Si tratta del personaggio più imprevedibile e commovente del romanzo. Anche Nina, diventata adulta, abbandonerà la figlia Ghili, che verrà cresciuta dal padre, Rafael, noto regista cinematografico. Quest’ultimo possiede, a suo dire, un dono unico al mondo: saper amare Nina, oltre ogni ragionevolezza, nonostante in lei ci sia ben poco di amabile.
In un’epoca in cui acclamati scrittori hanno descritto nei loro romanzi la falsità e l’opportunismo che si annida nei rapporti sociali che viviamo (si pensi al grande Philip Roth, ebreo come Grossman), compresi i rapporti familiari, ci sono altrettanto grandi scrittori contemporanei (una su tutti, Marylinne Robinson) capaci di raccontarci storie di caduta e di redenzione, una redenzione che passa necessariamente attraverso relazioni umane rinnovate perché toccate dalla grazia. David Grossman fa parte di questa categoria di scrittori, e fa certamente bene leggerlo in tempi in cui tutti noi siamo alla ricerca di un nuovo inizio.

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Davide Meloni Opinione inserita da Davide Meloni    13 Gennaio, 2020
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Una preghiera per tutte le navi in mare

Si parla di Il Colibrì, ultima fatica di Sandro Veronesi, come del miglior romanzo del 2019. E in effetti è uno di quei libri che ti incollano alle sue pagine e che verrebbe voglia di riprendere da capo appena letta l’ultima riga.
Il protagonista della storia è Marco Carrera, oculista fiorentino trasferitosi a Roma. Veronesi riesce nell’impresa di dar vita a un personaggio indimenticabile, un eroe dei nostri tempi, raccontandone le drammatiche vicende dalla giovinezza alla vecchiaia con un’ironia e una tenerezza che fanno fin da subito affezionare a questa figura. È lui, Marco Carrera, il colibrì, perché conduce la sua esistenza comportandosi come questo animale che è capace di battere le ali con estrema rapidità con il solo scopo di restare fermo in aria. È ciò che riesce a fare anche Marco Carrera: star fermo, saldo, immobile. In un mondo che fa del cambiamento continuo un valore da perseguire a tutti i costi, Marco ha il dono di non spostarsi, mentre la vita attorno a lui è una tempesta: il suo matrimonio fallito per via di una moglie che si rivela lontana anni luce da quello che appariva all’inizio del loro rapporto, una storia d’amore impossibile durata cinquant’anni con Luisa, donna conosciuta da ragazzo mentre era in vacanza, una famiglia di origine con problemi giganteschi, più o meno nascosti, la strana e preziosa amicizia con lo psicanalista della ex-moglie, il rapporto struggente con la figlia Adele e con la nipote Miraijin, nome giapponese che significa “uomo del futuro” e che diventa il simbolo dell’umanità nuova che verrà. Personaggi imperfetti, che riescono a fare tanto del male gli uni agli altri, ma anche capaci di un’umanità che tutte le ferite della vita non riescono a cancellare.
Le vicende del romanzo abbracciano un periodo che va dagli anni Sessanta al 2030, ma vengono raccontate secondo una cronologia tutt’altro che lineare, con un continuo andare avanti e indietro nel tempo, regalando una sequenza di avvenimenti, conversazioni, lettere, riflessioni disposti in modo caotico. Un po’ come le tessere di un puzzle che vengono tirate fuori casualmente dalla scatola, ma che pian piano vanno a incastrarsi tra loro per dar forma ad un’immagine sensata. Anche in questo libro il senso di una vita emerge, piano piano, ma non perché ad un certo punto tutto diventa chiaro. Al contrario, ciò che viene fuori è il grande mistero della storia di un uomo, sempre sul punto di perdersi, eppure capace di abbracciarla e amarla la sua vita, nonostante tutto.
Il Colibrì è un romanzo postmoderno, perché il protagonista è smarrito nell’esistenza, senza nessun dio da seguire o ideale da difendere, ma non è un romanzo nichilista, perché il tema di una possibile redenzione è sempre sullo sfondo, nonostante il controverso finale. Su tutto sembra dominare un destino che, a dispetto di quanto succede ai personaggi del libro, non si riesce a definire crudele. Non è un libro cristiano, come non lo è il suo autore, ma, proprio come il suo autore (che alcuni anni fa ha scritto un suo personale commento al Vangelo di Marco) sembra rivelare la grande nostalgia di un Dio che sappia abbandonare il cielo e venire ad abitare tra le nostre misere esistenze. Non è un libro su Dio, ma nelle ultime pagine si invita a pregare «per tutte le navi in mare» e – sarà un caso? – le parole che chiudono il romanzo sono proprio “buon Dio”.

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