Opinione scritta da vivian84

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vivian84 Opinione inserita da vivian84    19 Mag, 2020
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L'OSCURO VOLTO DI ROMA

Un serial killer in fin di vita, un misterioso ordine religioso e l’inquietante figura di un assassino “trasformista” che si muove nella penombra: vi ho appena illustrato gli ottimi ingredienti per il mix esplosivo di questo thriller che, già dalle prime righe, promette una buona dose di suspense a rischio cardiopalma nero su bianco.

Dopo la serie dedicata a Mila Vasquez ecco un nuovo ciclo firmato Donato Carrisi, nel quale si intrecciano le vite di due personaggi che mai avrebbero potuto incappare l'uno nell'altra se non a causa di complesse ed inusuali circostanze; l’autore introduce la figura di Sandra Vega, un'abile foto rilevatrice della polizia scientifica di Milano ed inconsolabile giovane vedova determinata a scoprire la verità sulla prematura dipartita del marito David, un fotoreporter freelance apparentemente morto suicida cinque mesi prima.

Subito dopo conosciamo Marcus, un uomo affetto da una profonda amnesia che gli impedisce di ricordare come avvenne l'incidente nel quale perse la vita il suo grande amico e mentore Devok e dove egli stesso fu gravemente ferito; la notte è tormentato da incubi spaventosi attraverso i quali rivive lo shock subito per poi destarsi bruscamente ed estrarne frammenti di ricordi come innumerevoli schegge di vetro dolorose e brucianti sotto la pelle. Anche Marcus è alla ricerca della sua verità e si affida a Clemente, il suo nuovo maestro spirituale che ha il compito di profferirgli la luce della speranza di un nuovo inizio e, nel contempo, lo istruisce con compiti precisi per guidarlo attraverso il buio profondo che si cela negli abissi dell'animo umano.

La storia resta perennemente in bilico sul sottile confine del sacro e del profano mentre una Roma piuttosto oscura e rea di segreti inconfessabili si staglia sullo sfondo storico-reale, tra flashback e continui riferimenti a luoghi e personaggi non riconducibili al filo conduttore del presente; immergersi nella scrittura di Carrisi è come avventurarsi in una macchia di fitta vegetazione dove è probabile smarrirsi, tuttavia la narrazione fluida consente al lettore di ritrovare facilmente quel filo conduttore che, fino all’ultimo colpo di scena, lo condurrà al capitolo finale.

Tralasciando alcune parentesi da romanzetto rosa poco pertinenti al contesto ed unica nota stonata, la trama è originale e ben strutturata e lo consiglio perché, oltre ad amare questo talentuoso scrittore italiano, è una libro che coniuga fantasia ed accurate ricerche.

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vivian84 Opinione inserita da vivian84    06 Marzo, 2020
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URCA, LA SIBERIA

Nicolai “Kolima” vive a Bender, nel quartiere Fiume Basso, capitale della Transinistria, una regione dell’ex URSS autoproclamatasi indipendente nel 1990; secondo la tradizione siberiana il codice d’onore è regolato da un’educazione criminale - l’educazione siberiana – finalizzata a formare i “criminali onesti”: un vero e proprio paradosso pensare ad una giustizia fondata sul delinquere pur tuttavia regolata da leggi basate sulla solidarietà, l’amicizia e altri valori profondamente radicati all’interno della comunità; l’intero organo di polizia è ritenuto un qualche cosa di immondo e dal quale mantenere dovute e obbligate distanze.

I figli dei criminali adulti frequentano la “scuola della strada” che li istruisce soprattutto alla violenza come prima risposta all’infrangersi di una o più regole della tradizione. I criminali anziani e ormai “a riposo” da ogni attività (pur mantenendo la situazione sotto controllo) inizializzano i giovanissimi all’uso delle armi, donando loro i così detti “ferri” secondo un rituale ben preciso, incentivandoli pertanto a farne buon uso qualora si presentasse l’occasione, come potrebbe essere uno scontro fra bande rivali per contendersi il territorio e per imporre il rispetto della propria disciplina anche a costo della propria vita.
Inoltre i ragazzi sono abituati fin dalla nascita alla venerazione delle icone ed alla cultura del tatuaggio, in quanto è la propria pelle che racconta la storia e il destino dell’individuo stesso attraverso gli antichi simboli raffiguranti le svariate caste che compongono questo tipo di società così distante, sia geograficamente che umanamente. Non esiste perdono né tolleranza per coloro che tradiscono la fiducia della comunità, chiunque si macchi di un simil peccato viene punito senza pietà alcuna.

All’interno di questo mondo chiuso, la cui tradizione assume una sacralità antica con le sue leggi che affondano nella notte dei tempi, qualcosa smuove la coscienza di Kolima, che inizia a maturare l’idea che possano esistere diverse alternative al modo di vivere che gli è stato impartito.

Per quanto questo romanzo abbia riscontrato all’epoca un successo planetario, ammetto di averlo terminato con sforzo: le descrizioni degli avvenimenti sono fin troppo esaustive ed appesantiscono la lettura, che oscilla fra il lento quasi soporifero per poi alzare il volume così al massimo da provocar fastidio. Probabilmente - anzi sicuramente - non è il genere di lettura che più mi si addice, tuttavia non mi sono risparmiata; nonostante questo non ho appagato le mie aspettative.

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vivian84 Opinione inserita da vivian84    03 Marzo, 2020
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AMAR PERDONA.

Nonostante l’indiscusso successo, non ho ancora spiacevolmente compreso se i libri di Elena Ferrante siano semplici capolavori o banali racconti di vita vissuta attraverso una Napoli in degrado – soprattutto umano – tuttavia devo ammettere che la sua scrittura, così raffinata e pungente, mi seduce ogni volta trasportandomi ammaliata fino all’ultima riga.

“L’amore Molesto” è l’opera prima di questa autrice, conosciuta ed osannata dai più grazie al successo de “L’amica geniale”; un intenso romanzo psicologico che ricostruisce una vicenda familiare accaduta nel passato, dalla quale emerge la storia di una madre e di una figlia in un crescendo di privazioni, ossessioni ed immagini oniriche dal sapore vagamente felliniano.

Come il cadavere della madre Amalia riaffiora da quel lembo di mare nei pressi della località Spaccavento, la figlia Delia si immerge riluttante ed attratta nelle oscure viscere di quella stessa Napoli segregata nei ricordi d’infanzia confusi dagli strati polverosi del tempo, come antichi fossili sotterrati in un punto imprecisato e messi al riparo da mani invadenti e curiose.
Le stesse mani che usano violenza e che profanano l’intimità e la grazia femminile per il solo fatto di esistere (salvo poi dipingerla su tela), per essere colpevole di troppa piacevole bellezza in abiti traboccanti di perfida e succinta malizia; Delia rivive l’amarcord di quegli anni nello spoglio appartamento dove la madre conduceva la sua modesta esistenza, fra vestiti riaggiustati e mutande rattoppate, le quali destavano le continue e morbose attenzioni di quell’uomo che, nonostante l’avanzare dell’età, è per Amalia una croce da portarsi appresso, pesante e scomoda come la verità.

L’amara verità che viene a galla in un ammuffito scantinato di un negozio di dolciumi ormai in disuso da tempo, dove Delia può finalmente ricongiungere le fila del suo passato come un tempo sapeva fare Amalia creando abiti meravigliosi con la sua macchina da cucire.

Contrariamente a quanto l’incipit del romanzo possa auspicare, Delia non vuole indagare sulla morte della madre tuttavia, proprio a causa di questa sciagura, avverte finalmente la necessità di far luce su troppi punti oscuri, bui come quel seminterrato.

Senza particolare imbarazzo e senza giri di parole, Elena Ferrante narra una storia che, seppur con qualche incrinatura, conquista e coinvolge pian piano senza dar l’impressione di volerlo fare. Come le donne di cui racconta.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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vivian84 Opinione inserita da vivian84    19 Febbraio, 2020
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LA VUOI UNA SCATOLINA?

Da sempre amo il Maestro King, fin da ragazzina, nel corso degli anni ho letto gran parte delle sue opere – da Misery a La bambina che amava Tom Gordon – tuttavia, durante i miei pomeriggi trascorsi ad avventurarmi fra una libreria e l’altra del centro, mi stupisco sempre nel trovare su uno scaffale un suo libro che tuttora non conosco.
Ed è il caso di questo piccolo romanzo, scritto a quattro mani con Richard Chizmar, che ho letto nel giro di mezza giornata; ambientato nell’amatissimo ed immancabile Maine, nella cittadina di Castle Rock, una ragazzina pingue e dal nome curioso, Gwendy, si imbatte in un misterioso ed oscuro individuo che le dona, improvvisamente e senza alcun motivo (se non quello di essere, a detta sua, “la persona giusta”) una bellissima scatola di mogano decorata con bottoni colorati.

“Da un grande potere derivano grandi responsabilità”: come tante gemme preziose dal fascino segreto ed inarrivabile, ascoltando le parole dell’uomo, la ragazza intuisce subito quanto sia di gran lunga meglio che questi bottoni non vengano mai premuti, per nessuna ragione al mondo, anzi, ritiene strettamente necessario nascondere l’oggetto in un luogo sicuro, al riparo da occhi indiscreti e soprattutto dalla preoccupante curiosità dei genitori.

Gwendy non condivide con nessuno il suo piccolo segreto, nemmeno con la sua migliore amica Olive; la scatola, per quanto leggera e maneggevole, grava sul suo animo come un macigno, al punto tale che avverte l’impellente necessità di controllarla spessissime volte per rassicurarsi che nessuno l’abbia assolutamente scovata. Tanto la sua esistenza subisce una svolta inspiegabilmente positiva quanto Gwendy irrimediabilmente si allontana dalla spensierata adolescente che fu prima di cedere il controllo a quell’oggetto infernale: ossessione e timore la fanno da padroni, trovandosi sempre più in preda alle morbose attenzioni rivolte alla scatola dei bottoni che pare esser dotata di un proprio sapere ancestrale.

“E se lei avesse un bottone, e schiacciandolo potesse ammazzare qualcuno o farlo scomparire, oppure far saltare in aria un posto che ha in mente? Quale persona e quale posto sceglierebbe?” Bella domanda, Maestro King. L’inquietante Sig. Farris, non a caso, affida la scatola magica al cuore puro di una ragazzina, incontaminato dall’odio e dai brutti sentimenti, e con quel candore angelico si presta a custodirla segretamente, ignara delle conseguenze e delle cattive azioni che per mezzo di essa potrebbe compiere.

Cosa non mi ha convinta di questo libro? Innanzitutto, per i miei gusti, la marcata assenza di horror, quell’horror “alla King” che ti fa subito pensare al ghigno malefico di It oppure alle spettrali auree colorate che circondano le persone, così viste dal Sig. Roberts in Insomnia. Ho avuto un sussulto quando, durante l’incontro fra Farris e Gwendy, l’accurata descrizione di come avvenga l’approccio fra i due mi abbia ricordato una barchetta di carta ed un palloncino rosso, tuttavia ho visto smorzare pian piano il mio entusiasmo proseguendo via via nella lettura. Giungendo alla fine, con un poco di amaro in bocca, l’impressione è stata quella di aver scorto solamente la punta dell’iceberg e non tutto ciò che affonda in profondità, una creatura allo stato embrionale che avrebbe potuto essere la nuova Carrie in un magnifico crescendo di tensione purtroppo inesplosa e che implode ogni aspettativa.

Nel complesso una lettura gradevole, per ingannare il tempo in una piovosa domenica pomeriggio.

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vivian84 Opinione inserita da vivian84    17 Febbraio, 2020
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L'ESISTENZA CHE OPPRIME

“Se stai per metterti a leggere, evita. Tra un paio di pagine vorrai essere da un’altra parte. Perciò lascia perdere. Vattene, sparisci, finché sei ancora in tempo.”

Con questo monito, Victor Mancini entra in scena per sconvolgere il lettore attraverso il suo racconto crudo e tremendamente sincero, descrivendo la parabola di uomo segnato dai tormenti ed in perenne bilico emotivo; cinico ed apparentemente incapace di provare sentimenti tuttavia alla perenne ricerca di quell’amore incondizionato privatogli dalla madre, una donna affetta da gravi disturbi mentali ed assai incline alla delinquenza, che egli identifica come la causa ogni male presente nella sua vita incolpandola per tutti i suoi fallimenti: da brillante studente in medicina a lavoratore precario in una riserva, da ragazzino impacciato ed insicuro a uomo sesso-dipendente, misogino e parecchio egoista. Con la madre continuamente in carcere, Victor è stato costretto a passare da una famiglia adottiva all’altra, senza riuscire a sviluppare quell’autostima e sicurezza di sé necessari per affrontare l’età adulta, giungendo pertanto a quasi trent’anni senza il benchè minimo progetto di vita e campando alla giornata.

In questa sua assurda esistenza tuttavia uno scopo esiste: ogni sera finge di soffocare nei ristoranti di lusso della città per farsi salvare dal primo animo nobile presente in sala. Il perfido intento di Victor è quello di far nascere nel cuore del suo salvatore un sentimento di forte pietà misto a gratitudine, che induca il malcapitato nel sentirsi in obbligo ad inviargli periodicamente dei soldi. Questo denaro, accompagnato da un biglietto o una lettera e tante parole amorevoli, gli è strettamente necessario per pagare la costosissima retta della casa di cura dove è ricoverata la madre ormai prossima alla morte.

Palahniuk dedica una buona parte del romanzo, attraverso dialoghi composti da brevi frasi, parole taglienti e toni ironici, a Victor ed al suo disperato e continuo tentativo di conciliare l’odio puro per quella madre pazza ed egoista con il primordiale bisogno di quell’amore che ella gli ha negato. Eternamente combattuto fra il delirante desiderio che muoia e la speranza che, continuando a pagarle le cure, lei viva abbastanza per dirgli finalmente ciò che vuol sentirsi dire, quella verità assoluta che sembra essere custodita in un diario segreto scritto in una lingua straniera.

Un malessere profondo che esplode nella voragine di sesso ed inganno nei confronti del prossimo, quello stesso imbroglio escogitato dalla madre per coinvolgerlo e renderlo complice dei suoi discutibili atti vandalici a ribellione del “sistema”; un copione che anche lui, ogni sera, ripropone all’ora di cena per raccogliere affetto e qualche spicciolo da perfetti sconosciuti.
Egocentrismo e complesso di inferiorità sono alla base di questo romanzo, attualissimo e dalla potenza istruttiva: le metafore utilizzate sono chiare ed arrivano diritte all’inconscio del lettore, così come le numerose immagini forti e scabrose che “sporcano” e disturbano la quiete interiore.

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vivian84 Opinione inserita da vivian84    02 Dicembre, 2019
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L'APPARENZA INGANNA

Il maresciallo Pietro Fenoglio - di origini piemontesi e trapiantato a Bari - è in procinto di arrestare Lorenzo Cardinale, un criminale specializzato in rapine, quando viene informato che un uomo, tal Sabino Fraddosio, è stato ucciso pochi instanti prima nel proprio appartamento. Da subito il caso appare di facilissima risoluzione, grazie all’eccessiva curiosità (tendente alla paranoia) di un’anziana condomina la quale ha visto praticamente tutto: il presunto assassino, la targa della macchina su cui si è allontanato in gran fretta dal luogo del delitto, un involucro sospetto gettato nel cassonetto dei rifiuti… Tutto palesemente troppo chiaro per Fenoglio, che inizia ad interrogarsi sul se e come i fatti si siano effettivamente svolti, inseguendo quella verità difficile da cogliere.

Gianrico Carofiglio ha esordito con le vicende dell’avvocato Guido Guerrieri; in questo giallo, che vira più sul genere poliziesco, introduce la figura del maresciallo Fenoglio, sullo sfondo di una Bari di fine anni '80. Questa volta il grosso dell’azione non si svolge nelle aule di tribunale (dove il lettore potrà comunque incontrare per un breve istante il giovane e brillante Guerrieri, in una sorta di piccolo cammeo cinematografico) bensì nella mente di Fenoglio, che analizza ogni più piccolo particolare elaborando una “storia” plausibile, proprio come farebbe uno scrittore alle prese con la stesura di un libro.
Il maresciallo è un bel personaggio: detesta la violenza e la gratuità di certi atteggiamenti spacconi di alcuni colleghi, non si accontenta dell’apparenza delle cose ma cerca l'introspezione e la logica, è riflessivo, malinconico, caparbio ed empatico, gli piace passeggiare, ama la musica classica e le buone letture. I riferimenti potrebbero sprecarsi - da Lucarelli a Camilleri – ma questo romanzo breve, che forse ha una trama un po’ troppo semplice e prevedibile, è tuttavia curato nella forma e possiede quella freschezza tale per cui si manda giù come una bibita dissetante nella calura estiva.



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vivian84 Opinione inserita da vivian84    26 Novembre, 2019
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IL CARNEFICE, LA VITTIMA E IL BOIA

Avrei voluto intitolare questa recensione con un sonoro “Carlotto non delude mai” tuttavia sono consapevole che sarebbe stato un esordio decisamente ovvio, l’esatto opposto di questo libro, che di scontato non ha proprio nulla.
E’ vero, Massimo Carlotto soddisfa tutte le aspettative che si ripongono in un noir ben confezionato e degno di conquistarsi quel posticino privilegiato nella libreria in salotto, accanto ai tuoi preferiti in assoluto – uno di questi è proprio “Arrivederci amore, ciao” – con la sua scrittura incalzante e incisiva, con tutto il cinismo e l’ipocrisia possibile mescolati al pantone di sentimenti contrastanti.
“L’oscura immensità della morte” è un titolo forte e che invita alla riflessione, ponendo il lettore dinnanzi a domande di natura etica e spirituale: come può un essere umano uccidere un altro essere umano? Con quale coraggio un uomo può privare un altro uomo dei suoi affetti più cari, con spietata lucidità? Che misura ha il dolore?
Il dolore di Silvano è immenso ed oscuro, come la morte che con eccessiva brutalità l’ha privato dell’amata moglie e dell’unico figlio. Il cuore è un pozzo nero e profondo, totalmente prosciugato da ogni più piccola goccia di sentimento; il dolore si è radicato in ogni millimetro del suo corpo contaminando anche l’anima sino a renderla più buia della tenebra. Egli vive in una notte eterna senza luna né stelle, dove la follia non ha confini e la ragione non ha più spazio sufficiente per quell’esiguo barlume volto ad illuminare la sua coscienza.
Esiste la redenzione di un assassino? Nella Bibbia Dio comanda a gran voce che nessuno tocchi Caino altrimenti verrà punito “7 volte tanto”; Dio condanna espressamente l'agire di Caino che è da omicida, ma salvaguarda la sua natura umana che è un valore imprescindibile. Nessun uomo può distruggere il valore dell'essere umano e l’uomo stesso non può annientare la dignità della propria umanità.
Raffaello, l’assassino condannato all’ergastolo, è un uomo malato di cancro che dopo aver scontato 15 anni di carcere chiede la sospensione della pena ed il perdono di Silvano perché senza di esso non potrà godere della grazia concessa a fronte di questo caso particolare. Raffaello, il reietto dalla società perché colpevole di un fatto gravissimo – l’uccisione di un bimbo di 8 anni e della sua mamma -, sarà l’unico a riscoprire la luce scavando attraverso gli abissi del proprio e dell’altrui inferno.
Il libro non pretende di insegnare il mistero del perdono né di proteggerci dalla furia devastante della vendetta, semplicemente volge l’attenzione verso un sentimento comune pur tuttavia sottovalutato: la rabbia. La rabbia che si tramuta in odio, l’odio che acceca privando l’essere umano di ogni briciola di raziocinio e di buon senso.
Infine, è doveroso spendere un’ultima frase su come lo Stato sia descritto come incapace di supportare le vittime di crimini violenti tanto quanto capace di abbandonare i detenuti al proprio evidente destino, che sia dietro le sbarre di un carcere affollato o in un’angusta camera al centro clinico del penitenziario.

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Scienze umane
 
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vivian84 Opinione inserita da vivian84    25 Novembre, 2019
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RICOMINCIO DA ME

In questo racconto autobiografico l’autore descrive il suo percorso dopo aver abbandonato la dirigenza de La Repubblica; dalla riscoperta delle proprie origini all’incontro con vecchi e nuovi amici, senza tralasciare il ricordo del padre, il Commissario Calabresi, e la dura risalita della madre, rimasta vedova con 3 figli, dopo il grave fatto avvenuto nel 1972.
“La mattina dopo” è un libro che va assaporato lentamente, a piccoli bocconi, come le deliziose cipolle ripiene della nonna o come il vino proveniente dalle colline del Roero che la stessa nonna definisce “il Bricco delle Ciliegie”; dopo lo smarrimento iniziale di un uomo abituato a vivere nella frenesia della professione, districandosi fra giornate dense di appuntamenti e appunti disseminati ovunque (nei cassetti, fra l’agenda, nella tasca della giacca), ecco giungere questo nuovo tempo lento, il tempo delle riflessioni e degli abbandoni, il tempo di far visita ad un amico lontano e di condurre ricerche presso l’Archivio Storico della Città di Torino, dove riscoprirà finalmente le origini dei propri cari, del nonno Carlo che rifiutò la tessera del fascismo e che perse il posto di lavoro, pur tuttavia non perdendosi d’animo dando nuova vita ad una propria azienda che negli anni divenne un pilastro nell’economia del Nord Italia.
C’è una frase che mi ha colpito ed è pronunciata dall’amico giornalista di Calabresi, Yavuz Baydar, rifugiato politico in Europa dopo il golpe in Turchia avvenuto nel 2016: “la strada che prendi la mattina dopo che si rompe il tuo mondo spesso decide cosa sarà della tua vita”.
Talvolta non c’è spazio per il dolore e lo smarrimento, c’è necessità di agire con raziocino e fermezza, altre volte ci si abbandona alla corrente degli eventi ed a quel senso di vuoto che poco a poco riempie ogni piega dell’animo. L’incipit è proprio la mattina dopo, quel punto di arrivo che si trasforma in un punto di partenza.
Mi soffermo un minuto in più per dedicare ancora una riflessione su questo libro: leggetelo senza pregiudizi né particolari aspettative, l’autore non compie voli pindarici né memorabili esercizi di stile, tanto meno snocciola lezioni di vita come tondi acini d’uva dorati e succosi; è un semplice racconto che mi è parso umile e sincero, pur tuttavia non del tutto indispensabile, se mi è concesso dirlo.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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vivian84 Opinione inserita da vivian84    21 Novembre, 2019
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LA CERTEZZA DEL DUBBIO

Premetto che non è stato semplice da parte mia scrivere questa recensione, dopo aver letto l’ultima pagina il mio primo pensiero è stato quello di trovare le parole adatte senza cadere nel banale, cercando di esprimere la mia opinione e di coglierne il giusto significato. Per quanto mi riguarda questo non è un libro semplice da descrivere e non mi riferisco al volume – sono 111 pagine – bensì al contenuto, il quale può dar luogo alle più svariate interpretazioni oppure lasciare il lettore con l’amaro in bocca ed un grosso punto di domanda.
Partiamo dal protagonista della vicenda: un uomo realizzato sul lavoro e negli affetti, premuroso in famiglia e cinico negli affari, un uomo qualunque con una vita ordinaria, metodico e attento; un uomo che non ha nome. Nessuno ha un nome, perlopiù ha un soprannome oppure un aggettivo a definizione del personaggio: il baffetto, il miope, l’uomo in divisa, il funzionario.
Anche i luoghi sono astratti, oserei dire al limite dell’onirico: potremmo essere ovunque ed in nessun posto allo stesso tempo.
Accade che una sera il nostro uomo è in auto con un paio di colleghi di ritorno da una lunga giornata di lavoro dove ha concluso affari più che soddisfacenti; una sosta in autogrill è d’obbligo per bere un caffè e fumare una sigaretta sgranchendosi le gambe. Distrattamente parcheggiano nel posto dedicato ai disabili, tuttavia lo spiazzo è semivuoto e pertanto non lo reputano un problema. Il caffè del nostro uomo è stato appena poggiato sul bancone quando, tra camionisti assonati e sotto lo sguardo indifferente delle ragazze del bar, nel locale irrompe il baffetto domandando di chi fosse l’auto in sosta nel parcheggio riservato; si sussegue un breve scambio di battute al termine del quale il curioso personaggio chiede i documenti d’identità ai tre malcapitati. Ed ecco che il nostro uomo, così preciso e così affidabile, si rende conto che il suo documento è irrimediabilmente scaduto da mesi e questa leggerezza, questa piccola dimenticanza, lo risucchia in una spirale di situazioni assurde al limite del grottesco.
E qui nasce la mia difficoltà nel darvi il mio parere su questo libro; la narrazione è in costante bilico su “frame” che abbandonano il lettore al costante dubbio “sogno o son desto?”, il nastro si riavvolge e poi riparte allo stesso punto, quella giornata e quella serata si ripetono in un loop confuso tramutandosi nella trama stessa, un cerchio infinito che pare non voglia chiudersi mai. Il protagonista perde la lucidità e il controllo sulla sua esistenza e tutto ruota attorno a quel “semplice controllo” scaturito da una sciocca distrazione quale può essere non rinnovare tempestivamente il proprio documento d’identità.
Quel che non so dirvi, non del tutto onestamente, è il mio parere su quanto questo libro possa essere geniale quanto il contrario, forse non sono stata brava a cogliere ogni più sottile sfumatura seminata volutamente qua e là fra le pagine o più semplicemente non ce ne sono, magari in futuro capiterà che qualcuno di voi lo legga e ne scriva il suo personale ed appropriato punto di vista, per il momento l’unica certezza è che mi aspettavo qualcosa di più, quel colpo di scena mai arrivato o quella svolta inaspettata a dare il giusto sapore ad una storia altrimenti un poco insipida, che sa tanto di insalata mista senza condimento.

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vivian84 Opinione inserita da vivian84    18 Novembre, 2019
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MILLE NOTTI DI NOTE SULL'OCEANO

Ci troviamo a bordo del “Virginian”, una nave a vapore che a cavallo delle due guerre faceva la spola fra l’Europa e l’America, trasportando passeggeri di ogni etnia e ceto sociale; una volta saliti a bordo, sul ponte in prima classe, incontriamo il ricco industriale vestito di tutto punto mentre passeggia rilassato fumando un sigaro, oppure l’elegante signora appartenente a chissà quale nobile famiglia europea in vena di scoprire ogni mistero del Nuovo Continente. Scendendo in seconda classe vediamo uomini in cerca di fortuna o di avventura, gente qualunque o gente particolare, seduti a conversare o con lo sguardo perso all’orizzonte, ognuno di loro in trepidante attesa di sbarcare verso una nuova vita o di riabbracciare una persona cara, mente tutt’attorno l’Oceano culla e sbalza e tutto questo vortice di sguardi, voci e sospiri ci risucchierà e ci farà precipitare rovinosamente negli abissi neri di questa città galleggiante, la terza classe, il girone dantesco gremito dagli ultimi, gli emigranti, centinaia di poveracci che salpano a bordo con tanti figli e rattoppi quante speranze riposte in un futuro migliore che potrebbe davvero trovarsi al di là del mare.
E proprio alla fine di uno di questi lunghi viaggi, con il Virginian ancorato al porto di Boston, ecco comparire un neonato abbandonato sul pianoforte nella sala da ballo della prima classe, all’interno di scatola di cartone: il piccolo verrà chiamato Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento, così pomposamente ribattezzato dal marinaio che lo trovò, Danny Boodmann per l’appunto, il quale lo crebbe amorevolmente come fosse il vero padre. Una notte come tante altre, il ragazzino si sedette al pianoforte e iniziò a suonare una melodia così intesa che pareva esser guidato della mano invisibile di Dio: fu allora che nacque la sua leggenda, quella di Novecento, lo straordinario pianista che non scese mai da quella nave. E nessuno mai seppe il perché.
Quest’opera fu pensata e scritta dall’autore sotto forma di testo teatrale, dal quale successivamente ne derivò uno spettacolo; è un libro in bilico fra una messa in scena e un racconto da pronunciare ad alta voce, fatto sta che l’ho letto tutto d’un fiato, immaginando di salpare a bordo del Virginian negli anni ’30, con il mio vestito ricco di orpelli e un baule carico di sogni, cullata dalle onde e dalle note suonate da un pianista unico al mondo. Un uomo che con la sua magnifica dote seppe incantare migliaia di persone e che attraverso di esse visitò quel mondo che mai volle conoscere perché consapevole di non appartenervi; mai come in qualunque terra si sarebbe sentito più straniero di quanto lo fosse in realtà e questa condizione finì per condannarlo ad una solitudine di sentimenti inespressi e di emozioni negate che come rondini in volo potevano assaporare la libertà solamente per mezzo della sua musica.

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vivian84 Opinione inserita da vivian84    25 Ottobre, 2019
Top 500 Opinionisti  -  

LA TRIADE OSCURA

Alba, il Biondo e il Sax: a leggerli così farebbero pensare agli interpreti di una qualunque commedia ed invece sono i protagonisti di un’autentica tragedia proiettata sullo sfondo di una Roma buia e corrotta dal potere e da interessi socio-politici che nessuno può permettersi il lusso di intralciare.
Alba è una donna decisamente particolare: solitaria e bellissima, dal fascino ammaliante e pericoloso, sa muoversi felina attraverso i più cupi abissi della perdizione umana; tutto merito della “Triade Oscura”, un singolare disturbo della personalità del quale è vittima e di cui allo stesso tempo si nutre per sopravvivere.
Il Biondo è il poliziotto incorruttibile ma tormentato dall’amore che prova per Alba dai tempi della Scuola Superiore di Polizia, un gigante buono ed irruento quanto basta; Giannaldo detto Sax è la mente che tutto calcola e tutto predispone, funzionario dei Servizi e cultore del jazz.
I tre protagonisti si ritrovano dopo tempo a fare i conti con un pericoloso assassino che tutti credevano morto e che, come uno spirito maligno evocato da chissà quali forze oscure, torna a colpire con la stessa ferocia di un’animale selvaggio, ora come allora.
Ottimo romanzo sospeso fra luce e buio, scritto da un maestro del settore, scorre veloce e piacevole tra colpi di scena e simpatici aneddoti, che non distolgono l’attenzione e non sminuiscono il focus della trama; tre colleghi ormai amici ritrovati al cospetto di un caso che anni addietro li travolse trascinandoli con sé alla deriva, il passato che ritorna carico di tutta la sua forza distruttiva si scontra alla luce di un’alba nuova, dove i demoni del presente saranno per sempre sconfitti.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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vivian84 Opinione inserita da vivian84    11 Ottobre, 2019
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Odi et amo

Ci troviamo in Svezia, una terra battuta dal freddo per gran parte dell’anno, dove l’alternanza fra luce e buio scandisce il trascorrere dei mesi ed una natura prorompente e selvaggia lambisce i piccoli paesi e le città.

Ingrid, Victoria e Birgitta sono tre donne differenti per estrazione sociale e stile di vita: la prima è un’ex brillante giornalista che ha barattato la carriera a favore della maternità, senza non pochi rimpianti; la seconda è una ragazza russa costretta a fuggire dal proprio Paese e approdata a Stoccolma vestendo i panni di “moglie per corrispondenza”; la terza è un’angelica maestra delle elementari prossima alla pensione.
Tuttavia, in questo variegato di quotidianità, le tre donne hanno un punto in comune: vivono con un uomo meschino e crudele al punto tale che ogni battito di vita ha assunto un peso insostenibile.

Ammetto di non aver maturato sufficiente empatia con le tre protagoniste ma pensandoci bene non ne ho avuto il tempo perché ho letto le 140 pagine in 4 ore circa.
La scrittura di Camilla Lackberg è pungente e precisa e arriva dritta allo stomaco, fredda come quella Stoccolma percepita solo in lontananza, un panorama visto di sfuggita da un finestrino appannato di una macchina in corsa. I fari sono tutti puntati verso le tre protagoniste che come cervi impazziti corrono verso la libertà.

Da leggere? Sicuramente.

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Fantascienza
 
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vivian84 Opinione inserita da vivian84    08 Ottobre, 2019
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Il mondo che mai noi vorremmo

Questo romanzo di Ray Bradbury, classico esempio di narrativa speculativa, è un monito per ognuno di noi: serve a ricordarci tutto ciò che di più prezioso abbiamo e che spesso diamo per scontato, tuttavia potrebbe andar perduto improvvisamente sotto il nostro sguardo incredulo qualora il mondo precipitasse in una profonda spirale di follia.
Fantasticare sul futuro è senza dubbio più interessante che concentrarsi sul qui ed ora e se vesti i panni dello scrittore percepisci quel bisogno innato, attraverso le parole, di avvertire ed immaginare, illuminando con pensieri e riflessioni quel sentiero ancora buio e sconosciuto che è il domani.
Ray Bradbury per certi aspetti è stato più che lungimirante - alla pari di un visionario - e leggere il suo romanzo, concepito e scritto nell’America di quasi 70 anni fa, colpisce diritto allo stomaco provocando un terremoto interiore che ti fa vacillare non poco.
Anche le sue parole fanno parte di quella cerchia eletta a conoscenza, parole che vanno custodite gelosamente nella mente di ognuno di noi e riportate alle generazioni future.


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Racconti
 
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vivian84 Opinione inserita da vivian84    07 Ottobre, 2019
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Il sacro fuoco è donna

Questo libro ruota attorno la figura di Morgana, alla quale viene associato un modello di donna assolutamente fuori dagli schemi, come queste 10 donne vissute in epoche diverse, alcune di esse tuttora in vita e ancora pronte a stupire grazie al loro carisma. 
Chi era Morgana? Semplicemente una strega cattiva oppure il mito che voleva essere l'antitesi di Eva, nata dalla costola di Abramo? Nel libro si cita la "Sindrome di Ginger Rogers" e questo fa intendere quanto, nonostante l'epoca futuristica che stiamo vivendo, se una donna decide di voler affermasi alla pari di uomo debba compiere voli pindarici e risvegliarsi con le ossa rotte malgrado tutta la fatica.
10 storie di 10 donne straordinarie proprio perchè tutt'altro che ordinarie: donne che hanno difeso la propria volontà, che hanno rigato dritto per la propria strada senza mai voltarsi indietro pur senza il timore di trasformarsi in misere statue di sale come accadde alla moglie di Lot. Donne che sono risorte dalle proprie ceneri, elette a mito oppure tacciate di eresia, donne caparbie ed anche malvagie, perchè la perfidia è femmina ogni tanto bisogna liberarsi di quell'immagine edulcorata che ci è stata cucita addosso dalla società e dalle donne stesse, o forse da quelle madri che non approverebbero la lettura di questo splendido libro.

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