Opinione scritta da Molly Bloom

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    16 Settembre, 2022
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Una saga berlinese

“Gli Effinger” è una saga familiare che copre le vicissitudini di tre generazioni di commercianti e banchieri ebrei nella cornice europea ma soprattutto in quella berlinese e da molti è stata accostata a “I Buddenbrook” di Thomas Mann, paragone azzardato a mio avviso. Certo, per certi versi ci si può avvicinare in quanto l’autrice stessa ha dichiarato di aver voluto riprodurre la storia dei suoi personaggi seguendo il grande Mann. Gabriele Tergit, pseudonimo di Elise Hirschmann, mette dentro il suo libro tutti gli ingredienti necessari: i tempi che furono con i personaggi pieni di ambizioni e che a costo di duro lavoro e impegno mettono su un impero, diventano ricchi e frequentano l’alta borghesia, si sposano, le generazioni si susseguono e assieme a loro si percepisce anche una decadenza della borghesia e l’avvicinamento a un tempo storico tumultuoso, a cavallo delle due guerre mondiali, che sconvolge qualsiasi certezza e rade al suolo qualsiasi ricchezza. Ciò che manca a mio parere è l’armonia del racconto, sia l’armonia descrittiva dei salotti, degli usi e dei costumi ma anche quella dei dialoghi. Spesso ho notato la difficoltà dell’autrice a rendere naturale e godibile la descrizione di un dialogo di più voci, come nel contesto di un ballo, ad esempio. Ci sono delle botte e risposte delle più disparate, infatti spesso mi perdevo perché si passa da un argomento a un altro senza uno stacco. Altra cosa che ho gradito meno è stata la quasi impossibilità ad entrare in empatia con i personaggi in quanto c’è poca introspezione. Conosciamo i personaggi attraverso ciò che dicono e ciò che fanno, mai attraverso ciò che pensano se non in rare eccezioni, tenendomi un po’ in disparte.

Sicuramente è un libro molto ambizioso e dal respiro classico e chi ama la lettura delle saghe familiari sono certa che troverà gradevole anche questa lettura. L’autrice inserisce diverse tematiche come il femminismo spesso presente e affianca al cambiamento storico e sociale determinato dal passare degli anni, il cambiamento e la trasformazione delle correnti artistiche, della letteratura o del teatro, nonché del progresso industriale. Ci sono dei frammenti davvero molto arguti e interessanti che denota l’intelligenza e la grande cultura dell’autrice e a parte le note meno positive che ho espresso sopra è stata davvero una ottima scoperta letteraria.
Concludo con un breve frammento, che mi è piaciuto particolarmente:

“Lo sai, Ludwing, quanto ti voglio bene, ma come può esserci una moralità che si fonda sull’ipocrisia? Come si può avere fiducia in qualcosa che è pura illusione? Il progresso che porta a una felicità sempre maggiore, la comprensione da parte dell’uomo di quale sia l’essenza della natura hanno preso il posto della religione. La nostra religione si chiama scienza della natura. Ciò che voi chiamate immortalità, noi la chiamiamo indistruttibilità della materia. E mi sembra più virile e dignitoso credere a cose dimostrabili piuttosto che perdersi in speculazioni. Dove ci hanno condotto la speculazione? Ai roghi delle streghe e alle persecuzioni degli ebrei e ai giudizi di Dio e alla tortura. Lo sapete, non c’è niente che io odi più di una falsa profondità di ciò che suona blu e romantico e solletica lettori e uditori.”


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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    12 Aprile, 2022
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Il ciclo della vita


Tutta la natura intorno a noi è vita, noi siamo vita e tutto è circolare, si nasce, si vive e si muore, la natura nel suo complesso è un caos ordinato che si rigenera continuamente. Sono questi i temi fondamentali di questo breve e intenso romanzo della scrittrice islandese Audur Ava Ólafsdóttir, "La vita degli animali". Un libro molto al femminile oserei dire, per la predominante presenza di personaggi femminili, simbolo della vita in quanto madri e che cerca di portare a riflettere sulla nascita dell'uomo sia da un punto di vista materno ma anche da un punto di vista esterno, come ostetrica. Infatti il personaggio principale nonché voce dell'intero romanzo è Dyja, che fa l'ostetrica e vive questa professione come una missione vera e propria alla quale dedica la sua vita. La narrazione è molto intima, quasi fosse un diario ed è anche piena di vari racconti della quotidianità sia nella sala parto o nel soggiorno di casa, alternando momenti di riflessione a mera narrazione. Si pone molto accento sui contrappesi vita - morte viste come le facce della stessa medaglia e parlando anche della natura, in quanto paragonata all'essere umano, è inevitabile l'accenno ai cambiamenti climatici in atto, quasi essa stessa si avvicini a una sorta di fine.

Una lettura molto piacevole seppur impegnativa, nella quale però a mio avviso mi è mancato un po' di coinvolgimento emotivo e ho trovato slegati alcuni dialoghi, ma bilanciati da passaggi più profondi.

--""Dyja cara, diversamente dagli esseri umani - diceva - le piante si voltano nella direzione della luce." Era uno dei suoi paragoni, uomo e pianta, l'altro era uomo e animale."--

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    01 Febbraio, 2022
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Secondo volume della quadrilogia "Giuseppe e i suo

Secondo volume della quadrilogia "Giuseppe e i suoi fratelli" di Thomas Mann.

Thomas Mann, imponente scrittore tedesco della letteratura classica mondiale, ha dichiarato nella prefazione di questa opera che se da giovane con "I Buddenbrook" ha tentato di descrivere una nazione e da adulto con "La montagna incantata" un continente, non poteva esimersi di raccontare nella vecchiaia sul mondo intero e questo suo proposito lo attua attraverso la quadrilogia "Giuseppe e i suoi fratelli", la sua opera più lunga e anche la più amata. Quasi duemila pagine per raccontare nei minimi particolari una breve storia del Vecchio Testamento, ovvero quella di Giuseppe, figlio amato di Giacobbe e di come egli fu venduto dai fratelli e di come si sono riuniti anni dopo in Egitto. Impresa titanica. In questo secondo volume, che è anche il più breve, si narra del giovane Giuseppe, della sua furbizia e narcisismo, di come attira i rancori dei fratelli nella sua convinzione di superiorità e di diritto di essere amato e venerato da tutti e infine di come egli fu venduto agli ismaeliti. Non è uno spoiler perché è appunto risaputa la trama, lo spunto dell'opera sin dal suo titolo. Potrebbe sembrare un argomento pesante e noioso ma non lo è affatto perché la bravura di Mann sta nel creare un mondo antico, da favola, in cui tutto è curato nel minimo dettaglio, verosimile, pieno di peripezie, di inganni, bugie, egoismi e superbia. Come anche nel primo volume, anche qui c'è tantissima ironia sia nei confronti di Giacobbe che di Giuseppe il che spesso suscita l'umorismo, la prosa davvero arguta. Non mancano gli affondi riflessivi e introspettivi. Un lungo percorso, ma fretta non c'è, prossimo anno proseguirò con la lettura del terzo volume. Nel frattempo non posso non consigliare questa importante e credo poco conosciuta creazione letteraria, un'esperienza che a mio avviso non può mancare nella carriera di un lettore forte. Almeno il primo volume.

"Poiché tutto avviene altrimenti da quello che si pensa, i pensieri degli uomini, quando percorrono ansiosamente il futuro, assomigliano un po' agli esorcismi e sono un ostacolo all'attuarsi del destino. Ma questo, per difendersi, paralizza la nostra immaginazione, così che essa tutto configura fuorché la fatalità che incombe, e quest'ultima, non scongiurata dai nostri pensieri, conserva in tal modo tutta la sua originaria natura e la sua annichilente potenza."

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    06 Dicembre, 2021
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Bellissima lettura

Come dev'essere il romanzo avvincente? Quello che ti conquista e che non ti fa dormire la notte perché sei ancora incagliata nelle sue pagine? Franzen probabilmente ha scoperto la ricetta perfetta in questo ultimo suo libro, "Crossroads". Tendenzialmente i libri che sono nella mia confort zone, passata una certa ora, difficilmente riesco a leggerli: mi addormento subito perché gli argomenti e la prosa sono troppo ingombranti per la mia spossatezza fisica e mentale della giornata. Ebbene con questo libro no! Dopo un inizio un po' difficoltoso e perplesso, in quanto il narratore presenta tutti i personaggi senza ben specificare i loro rapporti, il tutto prende il volo e si procede a passo spedito diritto alle ultime battute, il lettore viene completamente risucchiato dalla realtà di New Prospect! Personaggi disturbati, folli, egoisti, pieni di sensi di colpa, di sogni infranti, di ossessioni. Insicurezze, tradimenti, ritrovamenti, praticamente sarà difficile affezionarsi a qualche personaggio in quanto tutti negativi (tranne forse Becky che è la mia preferita) ma ci si affeziona alla storia. Prima l'ho chiamato "romanzo avvincente": sono dell'opinione che questo sia un grande libro di intrattenimento prima ancora di qualsiasi altra cosa, intrattiene perché si parla principalmente delle dinamiche familiari e dei conflitti tra genitori e figli, tra fratelli o tra coniugi, contesti ben noti a noi e nei quali viviamo e ci incuriosiscono! Inoltre è scritto bene, una prosa naturalissima che scorre fluida ed è carica della tensione dei personaggi con dei dialoghi molto ben intrecciati, astuti, ironici, dove non c'è una parola in più o in meno, non c'è nulla di superfluo in questo testo. Non ci sono frammenti di pura introspezione, o frasi sulla vita o sull'essere umano che tanto ci piace sottolineare o annottare, non si giudicano le situazioni o i personaggi, il lettore può ricavare la tara morale della vicenda in completa libertà, l'autore lo aiuta poco in questo senso ma ciò che metterà tutti d'accordo è la forza narrante.

L'altro libro di Franzen che ho letto è stato "Le Correzioni", che mi era piaciuto abbastanza, ma non tanto quanto "Crossroads" in cui trovo una penna migliorata, ben stabile, coerente e che segue la sua traiettoria senza la minima deviazione e sicuramente desidero leggere il secondo volume di questa trilogia, quando verrà pubblicato!

Con la premessa che ho amato il libro e che trovo il lavoro di Franzen davvero ragguardevole nel panorama letterario odierno, dirò quello che non mi ha convinta - giusto per controbilanciare un po' l'entusiastica opinione! A mio parere il tema della religione è stata elaborata con il ricorso a parecchi luoghi comuni e laddové prendeva una piega diversa - vedi in Perry - il discorso su "io sono Dio" mi ha fatto un tantino Dostoevskij e quello sulla "bontà verso tutti" un tantino Tolstoj, quindi nel complesso non ho trovato uno punto di vista nuovo e originale e nemmeno una necessità intima dell'autore nel esprimere la sua idea al riguardo. Secondo: si è impegnato davvero con la storia sulla dipendenza da droghe ma dopo che si è letto "Infinit Jest" di Wallace ciò che aggiunge lui pare solo una brutta copia. Inoltre ho avvertito sottili piccoli rimandi ad altre opere - per esempio a "I formidabili Frank" per quanto riguarda il rapporto tra la zia Shirley e Becky. Davvero un ottimo autore, tiene con il fiato sospeso senza essere banale ma non considero il libro un capolavoro in senso compiuto in quanto mi manca ancora in Franzen quel spessore di profondità che va al di là delle situazioni e delle azioni e che catapulta il lettore non più a New Prospect o nella vita dei personaggi ma nei meandri più reconditi dell'anima e della mente dell'autore che sono anche quelli dell'uomo in generale.

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    01 Dicembre, 2021
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Bellezza interiore contro bruttezza esteriore

Leggere un romanzo di Victor Hugo è un po' ritornare bambini in veste di adulti. Le sue storie sono favole per i grandi che meravigliano il lettore, lo coinvolgono, lo fanno uscire completamente dalla sua realtà per entrare in una dimensione fantastica. Questo è il quarto romanzo che leggo di Victor Hugo, dopo "I Miserabili", "I lavoratori del mare" e "Notre-Dame de Paris" e il quarto che mi ha confermato le caratteristiche di questo autore sia in termini di prosa che di storie: è a tutti gli effetti un creatore di favole per adulti: i suoi personaggi sono stravaganti e dotati di una straordinaria forza fisica e interiore, una forza fuori dal comune che li fa affrontare imprese impensabili per un uomo normale, alcune volte a questa forza è associata anche una deformità fisica, come nel caso di Gwynplain, personaggio principale di "L'uomo che ride" e che, per chi non lo sapesse, è stata fonte di ispirazione alla creazione di Joker per quanto riguarda l'aspetto esteriore ma anche per la lotta tra il dramma vissuto interiormente e l'allegria sfoggiata all'esterno, soprattutto se ci ripenso all'ultimo film "Joker" che gioca molto sul lato introspettivo del personaggio e la sua risata è dettata da una malattia e non dall'allegria. Ovviamente è solo uno spunto, in quanto rimangono due personaggi diversi e opposti.

L'aspetto sociale è un tema cardine nelle opere di Hugo e anche qui è presente e si denuncia il peso dell'aristocrazia che schiaccia letteralmente la gente ordinaria, povera, ma che senza di essa loro non sarebbero i dèi dell'Olimpo che sono. C'è una forte incriminazione di questa classe sociale parassita ma nello stesso tempo si subisce anche un forte fascino e attrazione e molte descrizioni mi ha ricordato anche Proust, soprattutto nel terzo volume, "Dalla parte dei Guermantes", anche lui non riesce a resistere nel non venerarla pur tuttavia criticandola e facendola a pezzi man mano nell'opera. 

Rispetto alle altre opere che ho letto questa è quella che mi è piaciuta meno perché si dilunga un po' tanto su determinati aspetti che ho trovato noiosi e un po' obsoleti per i nostri tempi, come per esempio tutto il meccanismo della gerarchia reale inglese e dell'aristocrazia, con una sfilza di nomi e riassunti storici del tredicesimo al diciottesimo secolo che personalmente non ho gradito. Altra cosa che mi è piaciuta meno è stato lo stile della prosa. Hugo spesso usa un tono didascalico verso il suo lettore e va bene, ma qui l'ho notato un po' calcato soprattutto con l'utilizzo di brevi domande e risposte e una enumerazione copiosa di metafore per evidenziare una stessa idea.

Altra cosa che accomuna i libri che ho letto di Hugo, tranne che "I Miserabili", è hanno la stessa fine - ma un po' di fantasia in più, no?! Comunque, nel complesso un bellissimo libro che vale assolutamente la pena di leggere e che non mancherà ad emozionare il lettore e magari a insegnargli qualche cosa.

"Le delusioni si tendono come l'arco, con una forza sinistra, e gettano l'uomo, quasi fosse una freccia, verso la verità."

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    18 Novembre, 2021
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Non mi è piaciuto

Per completare una sfida di lettura a tema proposta dalla mia biblioteca comunale, per la voce "libro su un viaggio" ho scelto di leggere "Guanciale d'erba". Non amo le sfide letterarie ma ho ceduto per variare un po' i generi che leggo e uscire dai miei ormai ben piantati binari. E ho fatto male. Devo smetterla di fare questi esperimenti e seguire sempre i miei gusti letterari senza sforzarmi di uscire dalla confort zone, in fin dei conti non c'è nulla di male nel non riuscire ad essere dei lettori poliedrici. Sapevo già di non riuscire ad apprezzare la letteratura giapponese, ho fatto dei tentativi in passato e trovavo frustrante il non riuscire a comprendere ciò che altri lettori riuscivano con gran piacere.

Il libro parte in picchiata, le prime dieci pagine sono state quasi folgoranti. Questo artista che intraprende un viaggio nella natura incontaminata cercando di tenersi lontano dagli uomini e dai sentimenti umani e di elevarsi al di sopra di essi e cercare le bellezza mi ha subito affascinata! Mi sembrava una sorta di "Chiamatemi Ismale..." e il bellissimo capitolo primo di "Moby Dick". Una prosa soave, poetica ma anche profonda con molte riflessioni. Avevo già d'avanti a me l'aspettativa: una sorta di diario di viaggio in cui le meraviglie della natura giapponese si unirà alla meditazione e al pensiero. Poi qualcosa ha iniziato a scricchiolare. Dopo la sua prima sosta alla casa del tè viene a sapere da una gentile anziana della storia di una ragazza bellissima ma pazza ed ecco che il nostro artista ne rimane incuriosito (alla faccia degli propositi). Poi ci saranno una serie di incontri con altre persone nei giorni a seguire e conoscerà anche la bellissima donna, Nami. Cercherà sempre di dipingere un quadro ma non riuscirà mai, se non nel finale quando scorgerà finalmente sul viso della bella Nami un sentimento di compassione, che la renderà umana e allora, ha finalmente davanti agli occhi il quadro. In una interpretazione di "Gita al faro" di Virginia Woolf, tutti i personaggi vengono ammagliati dalla signora Ramsay, e quando lei è presente tutto si blocca e l'arte non si compie, ciò che blocca è la sua bellezza perfetta della quale tutti sono innamorati, quasi demoniaca, persino la pittrice Lilly non riesce mai a finire il quadro se non quando la signora Ramsay non ci sarà più, scena che chiude anche il libro. Stessa cosa anche per il nostro pittore, avrà subito davanti agli occhi il quadro quando la bellezza perfetta, quasi disumana della donna diventa umana e l'arte potrà superarla, allora finalmente essa si compie.

Mi è piaciuto dunque l'inizio e la fine in questo libro mentre tutto quello che succede nel mezzo mi ha terribilmente annoiata e ho trovato il contenuto disarmonico che passa da argomenti pesanti a futili dialoghi e sterili descrizioni poetiche della natura che, quando non sono collegate ad una emozione oppure ad un tratto umano, a me non dicono nulla ma le trovo patetiche come un "cane che abbaia alla luna". Inoltre ho avvertito anche una pesante presunzione dell'autore che afferma che determinati uomini vengono sulla terra senza alcuna missione come se fossero dei parassiti (non sue testuali parole ma l'idea è quella), a me ha dato fastidio perché credo che si debba avere rispetto per la vita, soprattutto da parte di un artista. Altra cosa che mi sento di affermare è che trovo sia un libro che è invecchiato male, il discorso finale sui treni che trasforma le persone in merci non sì può sentire tanto è obsoleto. In una parola: per me, bocciato.

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    11 Novembre, 2021
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EXEUNT OMNES

Un uomo in ospedale, alle prese con una spietata malattia, che lui chiama metaforicamente "riccio". Antidolorifici che lui chiama "topolini di cioccolato", quelli che riceveva da piccolo per stare buono. Un diario di quindici giorni su questa degenza ospedaliera, in parte autobiografica al punto che l'uomo si chiama Antonio Antunes, diario stilisticamente fuori dall'ordinario dato che non troviamo le annotazioni quotidiane del narratore ma le sue sensazioni frammentate, come se il lettore fosse nella mente dell'uomo. Pochi momenti di lucidità e tanti momenti in cui la sua mente divaga a ripercorrere la sua vita e quella dei suoi familiari sin dall'infanzia, ricordi fugaci interrotti dalla voce del dottore o dall'infermiere, oppure dal rumore delle ruote del carrello delle vivande che attraversa il corridoio ospedaliero, una vita intera che passa davanti agli occhi del malato che sembra estraniarsi completamente a questo mondo.

"- Da un certo punto in avanti il cervello divaga
ed è proprio così, divaga, non soffrono,perdono interesse, non si preoccupano, si estraniano, confondono l'ospedale con una casa, progettano di andarsene come se fosse facile andarsene, nessuno se ne va, nemmeno noi sani, mettiamo radici credendo di spostarci e se ci spostiamo tutto si sposta insieme a noi, mia moglie o il debito in banca che non sono riuscito a saldare (...)"

Antonio Lobo Antunes oso affermare, per chi non lo conoscesse, che è il più importante scrittore portoghese vivente. Può piacere o non piacere in quanto la sua prosa ha un forte carattere e uno stile determinato, non facilmente fruibile, con ampio utilizzo di flusso di coscienza e narrazione a più piani, però il suo valore e il suo contributo alla letteratura è innegabile. Nelle sue tematiche ricorre spesso l'argomento del colonialismo portoghese in Angola, a tal riguardo consiglio vivamente "In culo al mondo" e "Lo splendore del Portogallo", in questo libro invece, nuovo di stampa in Italia ma uscito già nel 2007 il tema focale è la malattia, il dolore e la morte, viste come fine della vita di un uomo perché "EXEUNT OMNES", ovvero "tutti se ne vanno", siamo una sorta di fiume che scorre verso la foce dove si trasformerà e farà parte del mare, così anche la nostra vita scorre come in fiume verso un mare che speriamo esista:

"e allora compresi che il Mondego una malinconia costosa che lottava per esprimersi, chiamano quella cosa fiume e ci lasciamo portare lì sopra nella speranza che diretto al mare quando nessun mare, pini, voglia di conoscere donna Lurdes e domandarle per educazione
-Di cosa morirà?
con la figlia a rispondere in sua voce
-Un problema all'aorta
i denti di donna Lurdes tutti all'aria, inutili, il naso un dente che fiutava mordendo l'aria a casaccio, morda l'aria donna Lurdes, morda se stessa, si divori mentre sua figlia le tiene il braccio lasciando lì la manica, se vuole l'aiuto a divorarsi come faccio con me stesso, ho già inghiottito la cartilagine che si muove sotto la pelle quando mi hanno dato la medicina (...)"

"-Non si agiti che arriviamo, signorino
e il dolore nella stanza vuota affinché il medico lo distribuisse tra i pazienti, non si abbandonava l'ospedale con il dolore, non c'è dolore per tutti, nel dimettere i pazienti perquisivano le tasche:
-Il dolore dov'è?
annunciando
-Quello che ha speso in dolore è sul conto
forse anche il futuro di rondini pagato e la paura di morire carissima, perfino la pioggia doveva loro (...)"

Siccome la natura vuole un certo equilibrio, verso il finale del libro, ci sarà anche un nascita: "tre chili e duecento che avvolgevano nel lino e lui a scorrere sopra i fiumi diretto alla foce"

Lo stile caratteristico della prosa fa sì che ci siano delle lacune, parole mancanti, dialoghi spezzati, che il lettore legge lo stesso tra le righe di questo flusso continuo, sconnesso, pieno di poesia e che prende una sorta di vita propria al punto che la lettura sembra essere una esperienza sensoriale. Anche se l'argomento è triste, l'estraneità della voce narrante verso la sua situazione mitiga il senso di angoscia. Libro che consiglio assolutamente, magari in un momento in cui si è predisposti a queste letture malinconiche, consiglio inoltre di lasciarsi andare e seguire il flusso senza pretendere di capire tutto perché un delirio non può essere compreso e non ha un filo logico.

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Libri dello stesso autore oppure chi ama il flusso di coscienza e il lasciarsi andare dalla prosa. Non indicato a chi predilige trame concrete o ama uno stile lineare e trasparente.
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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    25 Ottobre, 2021
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Storie di uomini

Mano a mano che leggo Steinbeck noto delle sue peculiarità letterarie e la prima che mi salta subito all'occhio è la sua leggerezza nel raccontare drammi. Anche qui si ha di fronte una situazione disperata, seppur meno tragica delle altre in quanto i personaggi sono dei fannulloni e se sono dei senzatetto lo sono per scelta. Senzatetto si ma senza cuore no! Come in "Uomini e topi" è presente un forte senso dell'amicizia e della bontà e Steinbeck riesce a fare dei suoi personaggi negativi dei gran signori che condividono non solo il vino ma tutto quello che hanno e sono pronti a darsi una mano con animo sincero! C'è molta purezza e ingenuità di sentimenti in queste losche situazioni perlopiù comiche ma che nel finale riserva il magone al lettore, c'è anche la lezione che l'unione fa la forza, come si è visto anche in "Furore" dove la famiglia unita è fondamentale per andare avanti e avere speranza. Steinbeck canta i sentimenti e le emozioni umane come pochi altri sanno fare, una opera minore ma non ha nulla da invidiare alle più famose.

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    02 Settembre, 2021
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Siamo figli di Giuda

"Bosco, bosco ad alto fusto, a colpi d'ascia."... ecco la frase chiave del romanzo, che prende il titolo. 

Con la lettura di questo romanzo ho concluso la Trilogia sull'arte di Bernhard, assieme a "Il Soccombente" e "Antichi Maestri". Il tema focale del romanzo è l'arte drammaturgica, il teatro, il suo pubblico, gli attori e gli scrittori, insomma tutto ciò che ruota attorno. Il libro stesso, ha un forte sapore teatrale, il lettore avrà l'impressione di trovarsi in una platea, in oscurità, seduto comodamente mentre osserva una scena illuminata nella quale sono presenti i personaggi- attori che si esibiscono in una commedia dal sapore dissacrante. Attraverso gli occhi impietosi del narratore assistiamo a una "cena artistica" nella quale nessuno si salva, tutti sono disgustosi e vili, falsi, vittime e carnefici contemporaneamente, narratore incluso che non si risparmia ma si aggiunge al muro assieme agli altri. Bernhard ha un marchio tutto suo e si riconosce dalla prime battute anche dai lettori che lo frequentano poco. Anche qui è presente, naturalmente. Quando si inizia un suo libro è difficile staccarsi dalle pagine, seppur di non facile lettura, riesce tuttavia ad avere un effetto ipnotico sul lettore che gli impedisce di abbandonare tale lettura. Anche la grande comicità e la pungente ironia che lo contraddistingue arriva a soccorrere un lettore in difficoltà:

"Una lucciperca all'una meno un quarto di notte per colpa di un attore del Burg nella cui barba si erano andati a impigliare dei pezzetti di quella stessa zuppa di patate che lui stava mangiando a cucchiaiate con la massima velocità, neanche fosse sul punto di morire di fame. Ekdal, disse lui, prendendo un cucchiaio di zuppa, Ekdal è stato il ruolo che ho desiderato per decine di anni, e poi, prendendone un altro cucchiaio e, insomma, ingoiando un cucchiaio di zuppa ogni due parole, Ekdal, disse, e giù un cucchiaio di zuppa, da sempre, e di nuovo un cucchiaio di zuppa, il mio ruolo preferito, e seguito col cucchiaio a mangiare la zuppa, e ancora, dopo due cucchiai di zuppa, di anni, seguitò, e l'espressione ruolo che ho desiderato la disse proprio come se stesse parlando di una leccornia, penso. Disse più volte Ekdal è il mio ruolo preferito, e io mi domandai subito se avrebbe continuato a parlare di Ekdal come del proprio ruolo preferito anche se non avesse ottenuto alcun successo con il suo Ekdal."

Con la sua prosa prende a colpi d'ascia tutti i presenti, ma anche in generale le istituzioni che girano attorno al teatro e anche il suo pubblico, una grandinata di odio e di feroci critiche su di essi ma, una volta sfogata questa specie di rabbia, così come dopo una tempesta si intravede un arcobaleno, nello stesso modo il narratore ammette di amare quelle stesse persone, di amare Vienna, il popolo austriaco, di essere migliori rispetto a moltissimi altri, di amarli perché sono "suoi". Alla fine della cena si congeda con un bacio di Giuda, un bacio falso, dettato dalla circostanza, ma che sotto sotto, forse, è vero.

"Per metterci in salvo da una situazione disperata, penso, diventiamo falsi e bugiardi proprio come quelli che accusiamo continuamente di essere falsi e bugiardi e che per questo motivo trasciniamo nel fango e copriamo di disprezzo, la verità è questa; in niente di niente noi siamo meglio delle persone che continuiamo a ritenere insopportabili, disgustose, ripugnanti insomma, persone con cui sosteniamo di voler avere a che fare il meno possibile, mentre a dir la verità abbiamo continuamente a che fare con loro e siamo identici a loro."

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    01 Settembre, 2021
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Storia di parole non dette

Farò già subito un'associazione bizzarra a questo romanzo: "Lavversario" di Carrère, o quello che avrebbe forse dovuto esserlo. "La mano" di Simenon ha come protagonista un uomo realizzato, con una brillante istruzione alle spalle, è socio di uno studio legale, marito fedele e premuroso e un buon padre, una casa nella provincia e una vita "normale", adagiata in un perbenismo e in una armonia tipicamente americana, annaffiata da bicchieri di whiskey e scotch. E così, dopo ben diciassette anni di quiete, basta una porta aperta su una scena a scatenare una tempesta, sia fisica in quanto il libro si apre con una tempesta di neve ma anche e soprattutto interiore nella quale per la prima volta il protagonista rivaluta se stesso, il suo trascorso e mette sulla bilancia i suoi desideri veri e l'attuale vita che si è costruito su dei modelli predefiniti. Durante queste intense pagine, si scoprirà un altro Donald, cinico, anaffettivo, egoista e vigliacco, invidioso e dulcis in fundo con istinti omicidi. La differenza sostanziale con Carrère è che "La mano" è scritto rigorosamente in prima persona e il viaggio è soprattutto interiore, si entra nel vortice dei pensieri del protagonista che man mano diventano sempre più oscuri e sempre più ossessi, si percepisce il suo squilibrio psicologico e l'epilogo è segnato già dall'inizio. Certo, "L'avversario" è la ricostruzione di una storia vera, ma quante storie vere non ce ne sono, nel mondo, come quella di Donald? Più di quello che pensiamo... Lo stile della scrittura è molto accurato e la narrazione è molto più profonda di quello che può apparire, c'è un intenso gioco di elementi contrari che si attraggono e si respingono, a partire dal silenzio condiscende della moglie di Donald, Isabel - che gli parla con i sguardi, sguardi che lo ossessionano e che il lettore non potrà mai sapere se effettivamente corrispondono ai messaggi che Donald capta oppure se sono solo sue malsane impressioni - e i pensieri irrequieti, svegliati dal letargo dopo tutto questo tempo che assillano in modo assordante Donald. Anche i personaggi sono antitetici: Donald e Ray, Isabel e Mona. Si cerca anche di motivare in qualche modo questo insano atteggiamento di Donald con una rigidità affettiva da parte dei genitori quando era piccolo, modello che probabilmente lui ha ricercato da grande in Isabel ma personalmente non credo in queste cose e non so se ha seminato questi dettagli come possibile motivazione del suo comportamento oppure come cliché ironico. Ad ogni modo "La mano" è davvero un testo intenso, scritto molto bene, con delle suggestive ambientazione e rappresenta, a mio avviso, un modello per ciò che "L'avversario" di Carrère avrebbe dovuto essere, ossia uno scavo nella mente del protagonista, la realtà vista attraverso i suoi occhi.
PS: ho trovato l'ultima battuta del libro, volutamente assurda, che spiazza e lascia il dubbio su chi sia il vero matto della situazione.

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    30 Agosto, 2021
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Critica alla donna borghese

Primo incontro con l'autrice ed è stato un fortunato incontro! La conoscevo per fama, come compagna di Sartre e donna indipendente, femminista nei suoi scritti. Il libro l'ho pescato nella libreria di un albergo nelle appena passate vacanze estive e magari l'ambiente rilassante in cui mi trovavo e la tranquillità di spirito mi hanno permesso di apprezzare meglio il testo. 

Si tratta di una raccolta di racconti, tre per l'esattezza, scritti in prima persona da un personaggio femminile tormentato e in tre stili diversi. Il primo, che prende il nome della raccolta è scritto sotto forma di diario, visto come una modalità per sfogare la rabbia e auto-analizzarsi. La protagonista, in apparenza una mamma e una moglie impeccabile, viene lasciata dal marito. Dovrà fare i conti con i propri errori, con l'adagiarsi nel ruolo di moglie senza mai coltivare del tempo per se stessa o per l'amore coniugale, dandolo per scontato. La protagonista, in piena crisi esistenziale, attraverso  le sue quotidiane annotazioni, si dimostra essere una moglie abbastanza egoista, con poca attenzione verso il marito, capricciosa, una mamma super protettiva e che in questo momento tormenta le sue figlie ormai grandi con i propri problemi coniugali, una moglie che ha assunto pienamente questo ruolo senza lasciare altro spazio alla propria vita in quanto donna e abbandonando qualsiasi idea di sviluppo professionale. Il risultato è trovarsi per l'appunto spiazzata, morta in un mondo di vivi, e la rinascita sembra ancora lontana ma si intravvede. Ci sono delle mirabili pagine poetiche sulla solitudine e sul dolore.

Il secondo racconto, scritto in modo classico, ha come protagonista sempre una moglie e una mamma, che viene delusa da suo figlio e a catena anche da suo marito. L'ho meno apprezzato non perché non sia scritto altrettanto bene ma perché la protagonista è insopportabile a mio avviso. Una donna viziata e despotica che pretende che il suo figlio trentenne, ormai sposato, continui a vivere secondo le idee della madre e con la prima occasione in cui lui vuole intraprendere un percorso diverso seppur rispettabile, la madre non lo vuole più vedere, condannandolo con asprezza. Odioso questo racconto!

Infine, l'ultimo, un breve e intenso flusso di coscienza di una donna sola, arrabbiata col mondo, e che sente addosso tutta la pesantezza della sua situazione, una ottima conclusione della raccolta colmando con un intenso carico emotivo. Se nel primo racconto la prosa è forbita e l'introspezione ha la priorità, qui il linguaggio diventa a tratti volgare perché tutto il discorso è istintivo, scritto di getto, una rabbia scaricata senza sconti contro il mondo intero.

In tutti i tre i casi si intravvede un luccichio in fondo al tunnel, ma la strada per arrivarci è ancora lunga. Ho trovato questo libro molto critico nei confronti della donna borghese attaccata al suo status di moglie e di madre, dimenticando quello di donna e dimenticando di coltivare la propria individualità. Di conseguenza, quando crolla il proprio castello perché magari il matrimonio va a rotoli o i figli seguono la propria strada, non rimangono che macerie e non si ha altro rifugio. Libro assolutamente consigliato, non vedo l'ora di leggere altro della scrittrice.

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    22 Luglio, 2021
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Il tunnel della solitudine

Trovo che questo autore sia troppo sconosciuto e poco letto, e a torto! Scrittore argentino, vissuto per un intero secolo, ha scritto soltanto tre romanzi di narrativa di cui "Il tunnel" è il primo e che esce nel 1948. Intenzionata a leggere "Sopra eroi e tombe", secondo romanzo cronologico ma anche il suo più famoso, ho deciso comunque di partire per ordine complice anche la brevità di questo testo. Non potevo fare scelta migliore.

La trama la si sa già dalla prima frase e si sa anche di cosa parla il libro: Juan Pablo Castel, pittore di fama argentino, uccide Maria Iribarne, sua amante, e si tratta ovviamente di un delitto passionale - lui geloso e paranoico lei donna presumibilmente frivola e incline al tradimento. Scritto in prima persona sotto forma di confessione, il romanzo narra le vicende che hanno portato a tale delitto dal punto di vista del protagonista. E fin qui, un lettore potrebbe dire: storia vista e rivista. E allora perché vale la pena di leggerlo? Innanzitutto perché è un romanzo psicologico e alla portata di tutto il pubblico. Lo stile diretto, schietto, freddo, senza frasi arzigogolate ma nello stesso tempo molto articolato e coerente facilita al lettore la comprensione dei vari messaggi che il libro può fornire, e del quale il delitto passionale è a mio parere solo l'aspetto di intrattenimento della trama.
Già dalle prime battute si ha l'impressione che Castel sia una sorta di Raskolnikov:

"Un individuo è nocivo? Ebbene, lo si liquida ed ecco fatto. Questo è ciò che chiamo una buona azione. Provate ad immaginare quanto sia peggio, per la società, che un tale individuo continui a distillare il proprio veleno (...) uno a volte si crede un superuomo, finché non avverte di essere anche lui meschino, sporco e perfido."

e man mano che la narrazione prossegue, Raskolnikov si trasforma nel protagonista solitario e sognatore di "Le notti bianche" che incontra finalmente per le strade di Buenos Aires l'amore della sua vita ovvero l'unica persona che potrebbe salvarlo dalla sua "isola deserta" e tutto ad un tratto il mondo acquista bellezza. Ma ecco che lei, Maria, oltre che ad essere sposata ad Allende, uomo cieco di dato e di fatto dato che lo inganna, vede forse anche altri uomini e presto il comportamento ossessivo e paranoico di Castel la fa indietreggiare e sottrarsi a lui. Ma anziché ringraziare, per quei brevi attimi sfuggevoli di felicità che Maria gli ha donato, al parti del protagonista dostoevskijano, Castel si trasforma nuovamente in un altro personaggio russo, questa volta di Tosltoj, e in preda alla gelosia accecante e nonostante le incertezze e le infinite ipotesi, uccide l'amata come il protagonista di "Sonata a Kreutzer". Evidentemente a Sabato la letteratura russa piaceva. Ma non solo la russa, anche l'europea. Il primo omaggio chiaro è quella che fa a Kafka. In un sogno, Castel al pari di Gregor, viene trasformato da un mago in un uccello di fronte ai suoi amici e questi non si accorgono di nulla ma continuano a chiacchierare come nulla fosse. Prova allora a parlare e richiamare la loro attenzione sull'accaduto ma anziché parole esce fuori un gracchiare di uccello che gli altri sembrano non udire o non trovare strano. E allora si sente senza alcuna speranza, condannato a portare nella tomba il suo secreto, la sua maledizione. Lo stile di scrittura invece mi ha ricordato molto Camus e Sartre, disilluso, trasparente e sincero fino a fare male, le sue parole simili a bisturi che fanno a pezzi il velo del perbenismo per far vedere la vera natura interiore dell'uomo: artisticamente e diabolicamente malvagia.

Ovviamente quello che Castel prova per Maria non è amore per lei come donna o come persona, nessun amore ossessivo, passionale e delittuoso è amore in questo senso. Castel è un artista, un pittore, e ogni artista attraverso le sue opere mira a essere amato dal suo pubblico, non da tutti ovvio ma da una parte si. Amato nel senso di essere capito di non sentirsi il solo ad avere certe idee, pensieri, e sfortunatamente per lei, Maria è l'unica a capire un suo quadro, l'unica a notare un dettaglio insignificante ma di grande rilevanza, allora tutto questo bisogno dell'artista di riconoscenza, di amore da parte di un pubblico viene concentrato unicamente su di lei in una scala di proporzioni decisamente insostenibili. Infatti l'epilogo è quel che è. Castel che uccide l'unica persona che lo ha capito, che ha apprezzato la sua opera e che in un certo senso metaforico è anche un atto di suicidio. Infatti ad un certo punto nel romanzo, Castel partecipa a una conversazione mondana in cui si disquisisce sul romanzo giallo e nella quale un suo presunto rivale, Hunter, propone l'idea di una parodia del romanzo giallo al pari di "Don Chisciotte" sui romanzi cavallereschi, dove l'assassino dopo aver sterminato l'intera sua famiglia finisce per suicidarsi.

C'è molto in queste centocinquanta pagine, tanto altro che un lettore qua e là scoprirà, molte metafore, simboli, c'è molta introspezione dell'animo umano, cupo, meschino e pieno di ossessioni. Uscito nel 1948, poco dopo la fine della seconda guerra, Sabato rende omaggio anche a quel tragico evento storico, come un fiore che depone sulle fosse comuni degli ebrei e sulla loro memoria. Lo fa molto sottilmente, che passa quasi inosservato come il dettaglio del quadro: in due occasioni fa riferimento a una storia: un ebreo in un campo di concentramento che a una sua lamentazione di avere fame, viene obbligato a mangiare un topo vivo. Per sottolineare e accusare ancor di più l'orrore, Sabato aggiunge "se ci sarà l'occasione, aggiungerò qualcosa sulla storia del topo". Un pugno.

Libro imperdibile e non vedo l'ora di proseguire con "Sopra eroi e tombe".

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    19 Luglio, 2021
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Come si deve comportare un ragazzo?

Questa è stata la mia prima lettura dell'opera di Robert Walser, scrittore svizzero di gran fama e non a torto. Classe 1878, visse i suoi ultimi ventitré anni, fino al 1956, recluso contro la propria volontà in un istituto psichiatrico per una presunta schizofrenia, diagnosi mai più verificata in seguito. 

"Jakob von Gunten" appare nel 1909 in Germania, terza opera di Walser. Scritto in prima persona, è un romanzo di formazione, in cui Jakob va all'Istituto Benjamenta, scuola di domestici, per imparare l'ubbidienza e la pazienza, doti fondamentali per un domestico che si rispetti. Già dalle prime pagine il lettore viene catapultato in questo ambiente strano per certi versi, in cui non si insegnano nozioni ma comportamenti pacati, ascolto, ubbidienza, rinuncia a ogni aspirazione personale se non quella di diventare una nullità e di servire egregiamente una Signoria in futuro. Quello che aumenta ancor di più la stranezza è il fatto che Jakob proviene da una famiglia borghese, colta e ricca, che si avvale essa stessa di domestici. Perché allora Jakob va su questo sentiero umile, sottomesso e con zero prospettive di arricchimento? 

La prosa ha molto dello stile colloquiale motivo per cui l'ho trovato molto scorrevole e si sofferma a sottolineare varie tematiche attinenti a "come si deve comportare un ragazzo", che vanno ben oltre all'ubbidienza e la pazienza. Si ha l'impressione di leggere in un certo senso un testamento contenente consigli di vita. Invita il lettore a non essere un chiacchierone, a non essere un arrampicatore sociale, a non essere accecato dal denaro, a non parlare mai dei propri progetti grandiosi che devono sempre compiersi sotto il velo del silenzio, si invita ad amare e si esprime la necessità di essere amati, senza l'amore la vita avvilisce, proprio come la vita della Sig.na Benjamenta ("Io muoio, Jakob, perché non ho trovato l'amore. Questo cuore, che nessun uomo degno ha ambito di possedere, di ferire, se ne sta morendo."). La cosa che mi ha sorpresa in tutte queste perle di saggezza, chiamiamole così, è stato il fatto che l'autore non critica mai, non giudica, semmai compatisce e si ha sempre questo filo rispettoso per tutto e per tutti lungo tutto il romanzo, e questo perché "io amo gli uomini. Amo e apprezzo le loro mattanate e impennate più di qualsiasi prodigio della natura."

Tornando al perché Jakob, ricco rampollo borghese, sceglie questa scuola di mitezza, modestia e sottomissione, prescindendo dal dettaglio autobiografico, io ne ho trovato due risposte. La prima sta nelle sue stesse parole nell'interno del romanzo, ossia nel fatto che per vivere intensamente una cosa, apprezzarla, bisogna sentirne la mancanza, reprimerla:

"Il divieto di piangere, ad esempio, fa più grande il pianto. Ed essere privati dell'amore non significa altro che amare. Se non mi è permesso d'amare, amo dieci volte di più. Ogni cosa proibita vive in misura centuplicata; perciò vive di vita tanto più intensa quello che dovrebbe essere morto. Questo vale per il piccolo come per il grande. E questo sia detto così alla buona, nei termini più quotidiani: ma proprio nel quotidiano stanno le vere verità."

La seconda interpretazione, invece, la trovo nel tentativo di Walser di far vivere ancora un'epoca che ormai è in declino, quello della borghesia che sta splendendo ormai con raggi sempre più deboli e tiepidi, di salvarla in qualche modo mettendosi esso stesso a sua disposizione e servirla- infatti Jakob sarà l'ultimo allievo dell'istituto:

"il modo di fare della del gran signore o della gran dama non è più tollerato. Non ci sono più signori che possano fare quel che vogliono, e da molto tempo non ci sono più grandi signore. Mi devo forse rattristare per questo? Non ci penso neppure. Sono responsabile io dello spirito del tempo? Lo prendo com'è, il mio tempo, riservandomi solo di fare in silenzio le mie osservazioni."

A questo proposito mi viene in mente l'analoga nostalgia di Sandor Marai, che ne è stato un custode dell'alta borghesia e ne ha conservato la memoria in tutti i suoi libri. 

La prosa nel suo complesso, nonostante la vena colloquiale si dimostra essere molto poetica, c'è la descrizione della Sig.na Benjamenta che lascia senza parole, ma anche molto profonda e che fa meditare, una prosa a tratti nostalgica ma benigna, amica della vita e degli sentimenti positivi. 

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    21 Giugno, 2021
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Meraviglioso

"Notre-Dame de Paris" mancava ancora dalla mia lista di classici intramontabili, era ora che io lo leggessi. Quanta bellezza in questo capolavoro e quanta tristezza! La fatalità del destino, impresso a lettere nel muro della cattedrale ma anche anticipato dalle prime pagine, segna l'intera storia e non da modo alla Provvidenza di salvare i suoi attori, ahimé. Come in tutte le storie di Hugo, da padrona fa un grande amore, cieco e viscerale, per il quale si è disposti di dare la propria vita e intorno ad esso viene presentata e all'occorrenza criticata la società dell'epoca e le sue istituzioni. In questo caso si è nel quindicesimo secolo e sotto il mirino dell'autore ricade l'imbruttimento delle cattedrali e delle opere d'arte in generale, la tendenza di essere modificate a piacimento di chi guida in quel momento, togliendo o aggiungendo e trasformando i monumenti in opere confusionarie e brutte, private pian piano della loro personalità iniziale. Tant'è che a seguito della pubblicazione di questo libro, fu deciso il restauro e il ripristino alla forma iniziale la cattedrale Notre-Dame. Ma non solo l'architettura mal custodita, anche la giustizia cieca e sorda, ingiusta e stupida, la giustizia che manda a forca degli innocenti per il divertimento popolare, grossolano e stupido. Mitica la scena in cui il giudice sordo (perché disinteressato) interroga il sordo Quasimodo che nulla lo tutela davanti alla ipocrisia e alla stupidità del sistema giudiziario, macero per gli innocenti.

Incantevoli le descrizioni di Notre-Dame, Quasimodo e Frollo, che sembrano far parte di una trinità legati saldamente tra loro, Frollo innamorato dell'essenza intellettuale, del mistero spirituale della cattedrale e Quasimodo innamorato della sua bellezza fisica, abitandola come un spirito abita il corpo. Immortale anche la figura del poeta Gringore, che apre il sipario della storia con la bellissima parodia di Hugo sui poeti e sulla loro presunzione, in fondo personaggio sì vile ma tutto sommato bonario.

L'amore invece, il tema portante, è presente in tutte le sue forme ma tutte passionali: l'amore distruttore, tossico, egoista e ossesso di Frollo, l'amore puro e incondizionato e salvatore di Quasimodo e infine l'amore supremo: quello di una madre per la propria creatura e qui Hugo è capace di strappare le lacrime anche ai cuori più duri e freddi!

Un classico che non ha età e che incanta con ogni frase e che stupisce per la giovane età del suo autore: Hugo aveva appena 29 anni! 

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    14 Giugno, 2021
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Storia di una amicizia e una morte

"Dopo molti anni di forzata astinenza in fatto di amicizie, ad un tratto avevo di nuovo un amico, un amico vero che comprendeva le più folli acrobazie della mia mente davvero assai complicata e dunque niente affatto semplice, un amico che non aveva alcun timore di seguire passo passo le acrobazie più folli della mia mente, ciò che nessun'altra persona del mio ambiente è mai riuscita a fare perché a tutte queste persone è sempre mancata la voglia di farlo."

"Il nipote di Wittgenstein" non è soltanto un omaggio all'amicizia che ha legato Thomas Bernhard a Paul Wittgenstein, nipote del famoso filosofo, ma anche la storia di una morte, quella per l'appunto di Paul. Carico di fatti autobiografici, il libro è ambientato tra il Padiglione Hermann e il Padiglione Ludwing, ale di una casa di cura dove Bernhard si trova tra "i candidati alla morte" del primo padiglione che tratta i tisici mentre Paul si trova nell'altro padiglione e che tratta i malati di mente, i pazzi. Tra i due c'è un forte legame intellettuale, una chimica dei pensieri che li avvicina nel tempo e che rappresenta uno stimolo per entrambi ma questa amicizia non è al riparo delle debolezze umane. Ormai in punto di morte, Paul non ha ricevuto conforto dall'amico Bernhard perché "noi evitiamo gli uomini segnati dalla morte", un'infamia contro la quale Bernhard non può vincere. La vista della persona malata gravemente che ha i giorni contati è disturbante per le altre persone perché porta negatività e fa pensare alla propria precarietà. Questo è un tema molto ampio nella letteratura, basti pensare a Tolstoj e "La morte di Ivan Il'ic" oppure alla reazione di Levin in "Anna Karenina" davanti alla malattia terminale del fratello Nikolaj. Secondo Bernhard, "Non c'è ipocrisia più diffusa di quella del sano nei confronti del malato. I sani, in fondo, non vogliono avere più niente a che fare con i malati e non sono affatto contenti che i malati, sto parlando dei veri malati, e cioè dei malati gravi, esigano tutt'a un tratto di ritornare in buona salute, o almeno di normalizzarsi o almeno migliorare le loro condizioni di salute. Il sano, se è una persona sincera, ammetterà che non vuole avere più niente a che fare con il malato, non vuole che nessuno gli rammenti la malattia e, attraverso la malattia, logicamente e forzatamente la morte." Bernhard non consola l'amico e non rispetta nemmeno il suo desiderio ultimo, ossia di tenere un discorso al suo funerale, al quale tra l'altro non parteciperà. Tuttavia, renderà omaggio all'amico in quest'opera, prendendosi la responsabilità della propria villania con estrema sincerità. Ciò che apprezzo moltissimo in lui è che così come non fa sconti a nessuno non li fa nemmeno verso se stesso. Si accusa degli stessi difetti e riconosce le sue debolezze, a volte con l'autoironia altre volte con secca sincerità priva di attenuanti come succede in questo libro.

Otre alla celebrazione dell'amicizia tra i due, lo scrittore dedica un po' di spazio anche ai sentimenti di apprezzamento e riconoscenza verso "la persona della mia vita", momenti rari nella sua opera spesso grottesca e spietata. Da buon orso brontolone, non mancano gli attacchi all'Austria e alla stampa austriaca. Un libro breve e che è caratterizzato pienamente dal suo stile inconfondibile, dalla sua prosa torrenziale e sarcastica, è sempre un piacere leggerlo.

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    10 Giugno, 2021
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Piacevole sorpresa

Letto nell'arco di due giorni, questa è stata una lettura molto gradevole. Onestamente mi ha sorpreso, ero pronta a bocciarlo dato che la maggioranza dei lettori affini a me lo hanno fatto. Eppure a me piaciuto un sacco e via dicendo, insomma una ventata di aria fresca e onestamente non lo trovo invecchiato nel senso che se da un lato la società cambia negli anni, le persone purtroppo o per fortuna, non lo fanno. Certo, risulterà un libro meno sensazionale per un lettore che si aspetta del sensazionale nel 2021 (come uccidere la sorella Phoebe anziché guardarla felice girando nella giostra o si vorrebbe leggere di come Holden prepara le sue polverosi strisce bianche anziché fare a cazzotti col camerata per Jane) ma per chi ci va a fondo ed è aperto a vedere oltre, le emozioni, la depressione, l'enorme solitudine ma anche gioia e voglia di vivere, la curiosità dell'avventura e l'infinità dei sogni ad occhi aperti: ci sono tutte quante le esperienze che ogni adolescente vive tutt'ora nella società di oggi come in quella di ieri. La scena in cui Holden si è messo a ballare il tip tap in bagno "perché gli andava" a me ha emozionato moltissimo, così come mi ha emozionato il fatto che Holden ha provato dieci volte a chiamare Jane eppure non ha trovato il coraggio. Personalmente ho amato Holden e mi ha fatto tenerezza e non vedo molta differenza tra la sua gentile fragilità e la fragilità del sedicenne di oggi con i jeans abbassati sulle anche, le scarpe slacciate, le parolacce in bocca e buffo atteggiamento da grande. Lettura molto bella, fresca e devo dire che mi ha riportato un po' indietro nel tempo.

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    07 Giugno, 2021
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Cosa chiedere di più da questo libro?

Non mi capaciterò mai del fatto che a Philip Roth non gli sia mai stato assegnato il premio Nobel. Mi consola il fatto che la sua opera è superiore a tutti i premi di questo mondo e li calpesterà continuando a sopravvivere nel tempo anche senza di loro. Secondo Thomas Bernhard i premi artistici e tutto quello che ci gira intorno sono un atto di "prostituzione artistica", quindi lasciamo i premi agli scrittori più deboli, probabilmente ne hanno più bisogno.

Tornando a noi "Pastorale americana" è un libro di rara bellezza e profondità, scritto in modo ineccepibile. Dal sapore della prosa classica ma nello stesso tempo arricchita di stili moderni come il flusso di coscienza, questo libro è un viaggio nella storia e nelle vite sia dei personaggi ma anche la propria in quanto ha valenza di generalità sulla condizione umana che non è mai mutata nel tempo. Nello specifico ho trovato toccante il discorso sull'impossibilità di conoscerci a vicenda, ancor più difficile di capirci e proteggerci l'un l'altro  quando spesso si fa fatica a conoscere e a proteggere se stessi. Pagine davvero intense scritte quasi con dolore e con l'urgenza di comunicare qualcosa di importante al lettore. Riserva invece uno sguardo nostalgico e disilluso sull'America, patria da lui molto amata e idealizzata ma che si dimostra una culla piena di violenza, depravazione e comportamenti estremisti per le nuove generazioni. Non solo la società ne subisce cambiamenti ma anche l'economia che a seguito della globalizzazione le industrie devono adeguarsi ai nuovi costi e spostare in altri paesi la produzione. Tuttavia, nel suo sogno americano lo Svedese trionfa, riesce ad avere la vita perfetta che ha sognato sin da piccolo, attraverso un secondo matrimonio e tre figli esemplari ma avrà sempre uno scheletro nell'armadio e un peso sulla propria anima.

Ho trovato la figura dello Svedese a tratti adombrata di alcuni comportamenti equivoci che tutt'ora non ho compreso come per esempio il bacio sulla bocca a Marry. Bellissime invece le pagine finali in cui si mescola il profondo flusso di coscienza dello Svedese, ormai distrutto e sul fondo del baratro, con le chiacchiere futili e false della moglie Dawn, la combinazione di ciò che lo Svedese crede che sta succedendo (l'arrivo della figlia a casa e la confessione dei crimini) e ciò che realmente succede (il padre Lou infilzato con la forchetta nella guancia da parte di una ospite ubriaca): il tutto concluso con la isterica risata di Marcia che fa da sipario su questa commedia umana. Un libro da leggere, rileggere e rileggere. Grandissimo scrittore che ho imparato ad apprezzare e ad affezionarmici.

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    03 Giugno, 2021
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Un canto infinito

Finalmente sono riuscita a finire questa impegnativa lettura di "Il canto del boia", premio Pulitzer nel 1980. Fa parte del genere "true crime" e narra le vicende di Gary Gilmore un criminale che fu condannato a morte per fucilazione. Bisogna dirlo subito: è stata una lunga esperienza a tratti tediosa perché il libro si presenta piuttosto corposo sia come numero di pagine (1068) ma anche e soprattutto come contenuto, un libro farcito all'inverosimile di migliaia di dettagli e personaggi che possono facilmente stancare il lettore e fargli perdere di vista il filo portante della vicenda nonché l'interesse complessivo. Ho avuto costantemente l'impressione che l'autore puntasse più sulla quantità che sulla qualità con un indubbio sforzo da parte sua ma speso male. Dettagli del tutto superflui con dialoghi a tratti imbarazzanti e poco curati a livello stilistico dove la parola "disse" padroneggia (infatti sarei curiosa in una edizione elettronica fare una ricerca e capire quante volte viene utilizzata!) ma anche passaggi di racconti davvero fugaci: già i dettagli sono futili e non funzionali alla storia, se poi gli descrivi pure male e di sfuggita, la noia sale alle stelle. Tuttavia, ci sono alcuni passaggi abbastanza introspettivi e scritti anche molto bene e che ho apprezzato -come per esempio le lettere che Gary invia a Nicole dal carcere- ma rimangono episodi sporadici e lo stile è prevalentemente freddo e come dicevo, poco curato. Anche alcuni personaggi sono a tratti poco verosimili, o meglio, il loro comportamento risulta esserlo come per esempio Brenda stessa, la cugina di Gary, mentre molti altri sono dei personaggi disturbati come molte problematiche come Nicole o April.

La parte più densa del romanzo si concentra decisamente sul sistema legale sulla pena di morte, che contrariamente agli altri detenuti Gary cerca di abbreviare i tempi burocratici e ad affrontarla stoicamente, anche consolato da un pensiero di incarnazione futura (a tal proposito mi ha ricordato "Il vagabondo delle stelle" di London, letto di recente), il tutto sotto le luci mediatiche della televisione. 

Sicuramente Gary Gilmore susciterà la compassione del lettore e a fine lettura un po' lo si perdona per i suoi crimini, tuttavia rimane schiacciato dai troppi, infiniti dettagli che finiscono per confondere e allontanare il lettore, a meno che non si è amanti del genere e non vi disturbino le trame ricche. 

Concludo con un assaggio della prosa, che a me è piaciuto particolarmente:

"Ti ho detto che ultimamente non ho dormito - sono calati i fantasmi e si sono posati su di me con una forza che non credevo che avessero. Io li allontano con uno schiaffo ma loro tornano indietro di soppiatto e s'arrampicano sino al mio orecchio e da quei demoni che sono mi raccontano barzellette sporche, vogliono fiaccare la mia volontà, bere la mia forza, distruggere la mia speranza lasciarmi abbandonato privo di speranza smarrito vuoto solo sporchi demoni bastardi dal lurido corpo peloso che sussurrano cose orribili nella notte sghignazzando e ridendo con ripugnante gaiezza nel vedere che mi rivolto insonne in una prigionia orribilmente dura e tramano per avventarsi su di me con una folle stridula rabbia quando mi allontano con i loro piedi lunghi e repellenti e gli artigli gialli e i denti che gocciolano fetida saliva e uno spesso muco giallo verde.(...)"

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    04 Mag, 2021
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Oskarino il birichino

"Il tamburo di latta" è una marcia a suon di tamburo, sopra le rovine della seconda guerra mondiale e sopra le imperfezioni umane. Leggere questo libro per me è stato come attraversare un ponte sopra a degli abissi spaventosi avendo come guida turistica il protagonista Oskar, che con fare innocente e allegro ti mostra i punti più spaventevoli della storia e della natura umana. C'è un forte contrasto tra il contenuto pesante che lascia poco all'immaginazione e il modo leggero, innocente, come viene raccontato. Oskar è un bambino treenne, che decide di non crescere più fisicamente, di fermarsi a quell'età - ecco perché il tono innocente e giocoso della narrazione - tuttavia gli anni passano e lui diventa un adolescente treenne e un giovane treene, un bambino-adulto subdolo, malizioso, cattivo e senza pietà che causerà volontariamente non pochi danni alle persone attorno a lui. Altamente blasfemo, pieno di simboli e di contrasti e dove il tono innocente, casto e indifeso si alterna a quello di una spietata lucidità e spiccata intelligenza, "Il tamburo di latta" può essere un libro disturbante ma nello stesso tempo si deve onorare la sua genialità e lo stile giocoso a suon di tamburo facilita senza dubbio la sua lettura. 

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    21 Aprile, 2021
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Guardare nel passato

Quando guardiamo il cielo stellato, guardiamo al passato. Quello che noi vediamo non sono le stelle attuali, non le vediamo in tempo reale come si suol dire ma vediamo la loro luce che è arrivata al nostro occhio dopo anni e anni, in base a quanto lontane esse siano. Persino il sole che guardiamo, non lo vediamo in tempo reale ma vediamo il sole di otto minuti fa. Nel "Vagabondo delle stelle", Darrel Standing fa la stessa cosa. Chiuso nel braccio della morte e in attesa di essere impiccato, soffocato nella camicia di forza, strumento di tortura che l'autore denuncia ferocemente, Darrel trova il modo di evadere e vagabondare tra le stelle, ossia nel passato, nelle sue vite precedenti. Le tematiche cardine sono due e si intrecciano per tutto il percorso della narrazione: da un lato c'è l'aspetto sociale di denuncia del sistema rigido carcerario e della pena di morte, istituzione quasi criminale dove le guardie sono per lo più persone ignoranti e crudeli che dispongono a proprio piacimento dei detenuti. A tal proposito London accusa anche i cittadini che attraverso le loro tasse nutrono e pagano questo sistema dandogli modo di esistere, facendosi essi stessi complici. Dall'altro lato invece, collegato a queste sue vite passate, c'è l'idea della reincarnazione e dell'immortalità dello spirito e che, in alcuni casi, può addirittura conservarne memoria come nel caso di Darrel Standing. Così si avvia una narrazione a spirale che unisce i due argomenti.

Di Jack London avevo letto solo "Martin Eden" che mi è piaciuto molto di più. Qui invece mi è mancato qualcosa. Sicuramente ho trovato più interessante la parte di denuncia sociale che è anche quella più introspettiva, mentre se all'inizio mi piaceva l'idea dei racconti di queste sue vite passate, alcuni dei quali davvero interessanti, dall'altra parte alla lunga sono diventati monotoni ed era come leggere quasi una raccolta di brevi racconti. Non ho trovato nemmeno un finale soddisfacente in quanto si sa già dall'inizio la fine che toccherà al protagonista e anche la morale è già ampiamente discussa nel contenuto. Fa un po' senso sapere che a breve distanza dalla pubblicazione di questo romanzo, Jack London è venuto a mancare, quasi destinato alla morte al pari del suo protagonista che scrive le sue ultime memorie, e lui, il suo ultimo romanzo.

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    01 Aprile, 2021
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Mi aspettavo di più

Ecco che finalmente sono riuscita a leggere il famoso romanzo di Virginia Woolf, "Gita al faro". Talmente famoso che molti tendono a iniziare proprio da esso e sono contenta di non averlo fatto e questo perché, a mio gusto personale, non rientra tra i migliori che ho letto. Mi ha lasciata una sensazione di incompletezza con un messaggio che non sono riuscita a captare nel suo insieme. Tra le tre parti che compone l'opera ho amato la parte centrale in cui fa da personaggio la natura, che si impossessa del tempo e della materia, natura viva e piuttosto ostile ma immensamente bella. Questa parte l'ho trovata molto poetica e anche godibile come lettura. Ciò che ho apprezzato meno in essa è come l'autrice ha gestito l'inserimento dei fatti avvenuti nel tempo come per esempio la morte della signora Ramsay o di Prue, che vengono intercalati tra una descrizione e altra tra parentesi quadre. Ora non so se è una scelta editoriale della mia edizione o il volere della Woolf ma personalmente l'ho trovato poco armonico. Magistrale il flusso di coscienza della prima parte ricco di dettagli che l'autrice riesce a portare avanti, tuttavia un flusso di coscienza abbastanza "elementare" a mio avviso- infatti si seguono tranquillamente i pensieri intercalati dei vari personaggi. Molto bella anche la terza parte, con un finale che sa di un cambio di prospettiva e molto simbolico per come l'ho interpretato, sembra quasi che l'intera storia sia il quadro finalmente finito di Lilly Briscoe ma anche l'atto creativo dell'opera in sè. 

I temi trattati sono molti, quello che più mi ha colpita e che l'ho trovato molto incisivo e ben descritto è quello della nostra vita interiore, c'è un bellissimo passaggio in cui si parla della signora Ramsay, figura misteriosa per questa sua duplice vita interiore ed esteriore, in cui si dice che siamo immersi in pozzo oscuro, profondo ma ogni tanto saliamo in superficie e questo rappresenta ciò che gli altri sanno di noi. Anche il romanzo stesso gioca non tanto sui fatti veri e proprio, essendo esente quasi di trama e nemmeno su dialoghi ma su profondi monologhi interiori. Ha anche una sottile vena macabra, crudele, con James che in più occasioni ha pensieri omicidi sul padre, pensieri piuttosto violenti. Lascia un senso di tristezza e nostalgia.

Riassumendo, mi è piaciuto molto ma non moltissimo, me lo aspettavo più armonioso e a tal proposito non posso non nominare "Le Onde", scritto qualche anno dopo dove regna l'armonia perfetta, poesia vibrante e un flusso di coscienza davvero magistrale. 

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    27 Marzo, 2021
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Tanti amori quanti cuori

"Anna Karenina" è stato il libro di svolta nella mia vita da lettrice. Come in una stazione di cambio, imbattendomi nella scrittura di Tolstoj ho intrapreso la lettura dei classici e in generale la lettura della buona letteratura. Mi facevano paura, li consideravo noiosi, preferivo Dan Brown a qualsiasi autore classico (con rispetto parlando di Brown che mi ha intrattenuta con piacere nei suoi libri) e che cosa mi perdevo. Infatti poi ho subito recuperato una buona parte di loro, e ora, dopo sei anni, all'improvviso ho sentito una gran nostalgia di questo mio primo amore. Ho ritrovato, con la rilettura, un'opera ancor più monumentale da come me la ricordavo e ora posso affermare che è uno dei libri più belli che ho mai letto e il mio preferito in assoluto di Tolstoj.
Un classico è un libro che non smette mai di dire quel che ha da dire e questa regola calza alla perfezione ad "Anna Karenina" e sono certa che, se ora lo ricomincerei a leggere per la terza volta, a fine lettura, avrò scoperto una nuova meraviglia e il libro mi avrà trasmesso una nuova freschezza. Infatti, nel futuro non escludo di farlo. Cosa ho scoperto ora? Innanzitutto ho scoperto di amare Anna, di comprenderla, di provare empatia verso di lei, e di odiare Levin, che prima avevo amato. Levin il bigotto, il moralista, il geloso e il misogino, mille volte meglio Vronskij, ed infatti è il più ambito tra le donne e Levin in fin dei conti, una seconda scelta per quanto gli si voglia dar profondità di sentimento a Kitty. Ho amato la struttura complessa del libro alla quale ho potuto prestare attenzione, tutti i presagi che accompagnano i capitoli portando all'epilogo finale, le magnifiche descrizioni sia rurale che cittadine, la complessità dei personaggi, che subiscono mutamenti, tranne Stiva che rimane il solito perditempo fedifrago ma con una sua onesta e dignità - in effetti non mi è dispiaciuto come personaggio, un buon amico che mantiene viva la festa. E Anna! Il personaggio principale -si fa per dire - che prima avevo odiato, ora ho amato follemente e se è stata abbandonata da tutti, incompresa, in me, lettore, ha trovato appoggio, compassione, perdono e tenerezza. Tolstoj ha tratteggiato questa figura in un modo così vivido e superbo che per me è decisamente, assieme a Edmond Dantes, il personaggio più affascinante della letteratura che ho letto fino ad ora. La contraddistingue eleganza, femminilità, amore materno, intelligenza, civetteria, passionalità e dedizione totale all'amante: alzo le mani davanti a lei e all'autore così bravo nel far ciò. Il suo monologo interiore nella scena che precede la sua fine, intriso di cinismo, disillusione, follia, disperazione e desiderio cieco di vendetta è stato per me il punto culmine dell'intera lettura e l'ho trovato molto moderno, quasi un flusso di coscienza perché i pensieri erano spezzati da altri come l'osservazione di una insegna o di un passante o di altro ancora.
Ho notato anche le sue varie idee comuni con altri libri come per esempio "Suonata a Kreutzer" e "La Confessione" - soprattutto per la parte finale dedicata a Levin e alla sua domanda sull'esistenza. Devo dire che la presenza di Levin l'ho trovata abbastanza ingombrante nel libro questa volta, seppur funzionale alla storia e al messaggio di Tolstoj, infatti Tolstoj è Levin e non Anna, che alla fine condanna, perché per quanto moderno rimane pur sempre un moralista di prim'ordine. Un libro cult per me che non smetterò mai di consigliare e che è impossibile non piacere.
"Ed ella aprì lo sportello. La tempesta e il vento le si precipitarono incontro e litigarono con lei per lo sportello. Il vento pareva che aspettasse soltanto lei: cominciò a fischiare gioiosamente e voleva prenderla e portarla via, ma ella con una mano si aggrappò a una fredda colonnina e, trattenendo il fazzoletto, scese sulla banchina e passò dietro la vettura. Il vento era forte sulla scaletta ma sulla banchina dietro alle vetture c'era calma. Con delizia, a pieni polmoni, ella spirava la nevosa aria gelata e, stando ritta accanto alla vettura esaminava la banchina e la stazione illuminata."

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    18 Marzo, 2021
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Ten, nine, eight, seven...

"Si, amico mio, rifornito di carburante, vivo, pronto a essere lanciato... alto quindici metri, vibrante... e poi quel ruggito fantastico, virile, capace quasi di far scoppiare i timpani. Duro, crudele, pronto a penetrare i veli verginali del cielo blu. Oh, davvero fallico, non trova?"

Quando da lettore supponi di aver già letto il libro più stravagante possibile, ecco che ti imbatti in un altro che sposta più in là il limite di ciò che la letteratura può creare ma anche il limite di ciò che potresti mai immaginare. Per la mia esperienza, "L'Arcobaleno della Gravità" è stato uno di essi. Ci ho impiegato quattro mesi, sono partita in quarta, una salita piena di energie, ma a un certo punto i motori si sono spenti e ho attraversato una fase in stallo, rallentata e in declino, per poi riprendere velocità e scendere in picchiata, fino ad arrivare al bersaglio, alla fine. Un po' come la parabola che il Razzo compie dal lancio alla caduta. E' un libro folle, assurdo, paranoico-ossessivo, erotico in una maniera esagerata, fumettistico e caricaturale, comico, a ritmo di musica, metamorfico, enciclopedico, tragico...e potrei continuare all'infinito con gli aggettivi. 

Sua Maesta il Razzo! Il Rivelatore! E' lui il protagonista assoluto di questa opera, assieme a Tyron Slothrop, condizionato da esso attraverso un esperimento pavloviano: ad ogni erezione di Slothrop corrisponde un nuovo lancio del Razzo V2 che ha come bersaglio proprio la zona in cui l'atto sessuale avviene. Lui però ne è all'oscuro, non sa di essere studiato dalle varie istituzioni belliche ma presto lo sospetterà e la sua fuga alla ricerca della verità lo porterà ad attraversare parecchie peripezie dalle più assurde. L'assurdità è amplificata non solo dalle bizzarre situazioni (come per esempio la "battaglia" a torte in faccia tra Slothrop che vola su una mongolfiera e Marvy che gli da la caccia su un piccolo aereo) ma anche dalla paranoia di un complotto di cui Slothrop cade preda. Intorno, una moltitudine di personaggi e miriadi di storie, ma il tutto ben intrecciato e gestito da Pynchon. Il Razzo simboleggia la Guerra, infatti il libro è ambientato nell'ultimo periodo dell seconda guerra mondiale e offre il suo punto di vista: la Guerra e una situazione in cui il Mondo si trova in continuazione, non cessa mai, a volte ha dei picchi (le guerre vere e proprie come le conosciamo noi) ma spesso è latente e uccide solo le persone "giuste". La politica è un pretesto di facciata, un teatrino, le guerre sono determinate dagli interessi delle macroeconomie, dalla tecnologia, e rappresentano un forte momento di sviluppo per loro a discapito dell'uomo che è solo il loro carburante, "carne da cannone" per citare Tolstoj:

"la verità è che la Guerra mantiene le cose in vita. Le cose. Tra cui le Ford. La storia dei tedeschi e dei giapponesi è stata solo una versione - piuttosto surreale- della Guerra vera. La Guerra vera esiste sempre. Il numero delle morti diminuisce di tanto in tanto, ma la Guerra continua a uccidere un sacco di persone. Solo che adesso le uccide in modo più sottile, spesso troppo complicato."

Questa complessa macchina della guerra, basata sulla divisione e mai sull'unione, è gestita da "Loro", un Sistema circolare vorace che si nutre di risorse in continuazione e in modo sempre più veloce, sempre più affamato e ghiotto di armi come di cibo e che continuerà a prendere, a prendere, e a sfruttare tutto finché non ci sarà più niente, prende senza dare nulla in cambio, nemmeno la protezione e verrà un giorno in cui non ci sarà più nulla da prendere...a meno che, non crediamo che Loro possano morire, che questo Sistema verrà demolito:

"Credere che ognuno di Loro morirà davvero, personalmente, vuol dire altresì credere che il Loro sistema morirà- che esiste ancora nella Storia una dialettica, una possibilità di rinnovamento. Affermare la mortalità della loro natura vuol dire affermare il Ritorno."

Questo concetto viene rafforzato anche dal modo simbolico in cui Pynchon lo rappresenta, gli attribuisce una valenza biblica, ma non paradisiaca, ovviamente ma demoniaca: Il Sistema viene nominato come il Serpente che questa volta non porge più una semplice mela della conoscenza del bene e del male ma l'invenzione e l'accessibilità di nuove particelle fatali, un Serpente che vuole cacciare l'uomo anche da questo Eden che noi chiamiamo Terra e lo ammaglia con la sua furbizia. Anche il Razzo stesso viene presentato come "Il Rivelatore", un Anticristo:

"Il Razzo viene sotto le spoglie del Rivelatore. Ci mostra che nessuna società è in grado di proteggere, non lo è mai stata - le società sono assurdi come scudi di carta (...). Loro ci hanno mentito. Non possono impedirci di morire, per cui ci mentono a proposito della morte. Il Loro è un castello di menzogne, costruito in cooperazione.(...). Non possiamo più credere in Loro. Per lo meno, se siamo ancora sani di mente e se amiamo la verità."

Prima ho detto che è anche il libro più erotico che abbia mai letto: si tratta di un erotismo diverso dal solito, ci sono rapporti disgustosi, incesti, pedofili nei confronti dei quali Hummert Humbert è un novellino a cui inizia solo ora a crescere la barba (vedi la scena tra Slothrop e Bianca oppure l'incesto tra Ilse e Pokler), orgie che sembrano uscite dai più spaventosi quadri di giudizi universali (vedi l'orgia sulla nave Anubis). Qualcuno, leggendo alcuni passi potrebbe pensare: ma era proprio necessaria questa descrizione?! Si, lo era, perché coerente con il Sistema che per sopravvivere ha bisogno di dominio e sottomissione:

"Ebbene, perché instillano in noi un riflesso automatico, facendoci provare un senso di vergogna non appena si tocca l'argomento? Perché la Struttura consente tutti gli altri comportamenti sessuali tranne questo? Perché la sottomissione e il dominio sono le risorse di cui la Struttura ha bisogno per la propria sopravvivenza. Non si possono sprecare in un atto sessuale qualsiasi. La Struttura ha bisogno della nostra sottomissione per poter restare al potere. Ha bisogno delle nostre brame di dominio per cooptarci nel suo gioco di potere. In essa non vi è nessuna gioia , soltanto il potere puro e semplice."

I citati che ho riportato sopra hanno il tono fermo, serio e rappresentano uno sguardo tagliente, osservatore, ma la prosa è in continua metamorfosi dove si alternano le scene ilari e dalla fantasia più estrema, ad altre disgustose, paranoiche, o super tecniche, mi piacerebbe postare qualche frammento birichino di Pynchon ma preferisco trattenermi e lasciarvelo scoprire a voi se mai lo vorrete leggere, perché ha poche mezze misure e non vorrei urtare la sensibilità altrui. Mitica la scena del tuffo di Slothrop nella tazza del water a recuperare la sua armonica, che riuscirà per davvero a recuperare nel finale del libro, trovata al suo rientro dalla Zona, oppure la disquisizione musicale tra Rossini e Beethoven di Gustav e Saure- papyromante che leggeva il futuro nelle cartine e nel fumo delle canne, gli inseguimenti cinematografici di Marvy su Slothrop che , karma vuole, viene scambiato per lui trovandosi nel posto sbagliato nel momento sbagliato e nel costume sbagliato (da maiale appartenente a Slothrop) e che viene castrato erroneamente, Slothrop travestito da maiale che insegue la scrofa Greta e che quasi quasi ci fa pure un pensierino malizioso, la storia dei lemming e dei maiali di William Slothrop, antenato di Tyron, insomma tantissimi piccoli universi ma che non sono mai fini a se stessi perché nella parte finale il tutto si riprende chiudendo il cerchio. Il finale è meraviglioso, una metafora della vita umana e di tutto quello che è stato espresso nel libro:

"Questa ascesa sarà tradita e consegnata alla Forza di Gravità. Ma il motore del Razzo, il grido profondo della combustione che lacera l'anima, promette la fuga. La vittima, inchiodata alla caduta, si alza su una promessa, una profezia di Fuga..."

Un libro diverso da tutto quanto ho letto fin'ora, che sconforta ma fa anche vedere le stelle, buchi nel corpo di Dio in cui noi infilziamo i nostri desideri. Aspettatevi di tutto.

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    11 Marzo, 2021
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Troppa felicità fa male

"Vuole solo che lui stia bene. Lui e tutti gli estranei che incrocia per strada. Che gioisca della palese incoerenza del mondo. Questo e nient'altro vuole da tutti, in tutti i Paesi." 

Generosity è il nomignolo di Thassa, figlia della felicità, personaggio principale del libro, una sorta di principe Myskin contemporaneo ma in versione femminile. Lei ama la vita e gioisce di ogni cosa vivendo con pienezza il presente, non sa cosa significano i sentimenti o i pensieri negativi e la sua esuberanza è decisamente contagiosa. E se la bontà infinita di Myskin lo catalogava come un idiota, oggi, l'infinita felicità di Thassa la stigmatizza quasi come una povera malata inconsapevole che ha bisogno di cure e supporto per... essere meno felice.(?!!) Infatti il primo a preoccuparsene è il suo docente di scrittura creativa Russell Stone che apre anche il sipario del racconto. Thassa è algerina, e nella sua lingua il suo nome significa "cuore, gioia", mentre Stone, bhé, una pietra di nome e di fatto. L'interessamento di Stone è la prima tessera a cadere sulla successiva in questo gioco di domino che diventerà la vita di Generosity. Ma una sana dose di affari propri, no? Scherzi a parte, questo interessamento, sicuramente in buona fede, scatena dei meccanismi che risulteranno insostenibili sul lungo andare. L'attenzione principale sarà quella della scienza, sotto le sembianze dell'esperto in geni Thomas Kurton che desidera studiare Thassa e i suoi geni per poterli riprodurre e creare la felicità, a portata di tutti. Le cose precipitano quando il suo anonimato non è più garantito e la figlia della felicità viene data in pasto ai leoni.

Powers sposa anche in questo libro l'idea della parte scientifica all'avanguardia (e anche oltre) che si propone di cambiare la natura umana, migliorandola- o almeno con questa intenzione- ma sarà mai possibile? La natura umana, cosi come la natura in generale, nasce perfetta e laddove l'uomo interviene, il suo equilibrio viene meno.

"Migliorate pure, dice. Il miglioramento non significherà nulla, sulle lunghe distanze. Il rimodellamento della natura umana sarà approssimativo e pieno di difetti come i rimodellatori. Non ci sentiremo mai migliorati. Saremo sempre banditi da qualche altro Eden. Il commercio dell'infelicità rimarrà una industria fiorente."

Nel sottofondo avanza parallelamente anche il tema del cambiamento climatico, altra natura che l'uomo ha effettivamente intaccato e che gli effetti sono inequivocabili, cosa succederà con quella umana quando i bambini che devono ancora nascere verranno creati sul catalogo, con i geni più desiderabili? Powers dice che nel tempo, la letteratura si è sempre avverata in qualche modo, succederà così anche con le idee sviluppate qui? Speriamo di no, ve lo immaginate un mondo pieno di persone beate e che vivono a lungo, molto a lungo?! Che sovraffollamento! Ce lo fa immaginare molto simpaticamente Saramago in "Le intermittenze della morte".

Altra tematica alla quale l'autore strizza l'occhio è quella del mercato dello show televisivo e di come la verità viene riscritta dal copione per essere quella che i moderatori voglio far credere, un po' come nel 1984 di Orwell. Non manca nemmeno quella della letteratura e della scrittura.

A mia opinione questo libro di Powers è molto più accessibile a tutte le categorie di lettori, a differenza di "Orfeo" che ho trovato più di nicchia e con una componente scientifica e tematica abbastanza ingombrate che vede come lettore ideale un appassionato alla musica e alla genetica, mentre in "Generosity", seppur la genetica sia sempre presente, lo è in maniera più blanda e ben intrecciata con una trama vivace e che tiene sempre sveglia l'attenzione e la curiosità del lettore. Anche la prosa è molto curata, sia come linguaggio che ho trovato elegante, metaforico e simbolico al punto giusto, sia come riferimenti letterari -infatti vengono nominati Pynchon, Dostoevskji, Henry James, Melville e altro ancora. Ma la cosa che più mi è piaciuto è stato lo stile perché c'è il narratore onnisciente facilmente identificabile in Powers, che interagisce sia con i suoi personaggi che con il lettore, dando un tocco di giocosità e originalità, mi ha ricordato per certi versi Nabokov, ma solo per certi versi, intendiamoci.

Ci sono anche un paio di cose che non ho apprezzato molto, come per esempio lo sviluppo finale dei personaggi Russell e Candance, soprattutto quello di Russell in quanto personaggio ampiamente descritto all'inizio ma che nell'epilogo viene un po' liquidato in fretta a mio parere e su Candance avrei preferito qualche luce in più in quanto l'ho trovata un po' ambigua. Allo stesso modo ho trovato di cattivo gusto e poco originale la fine che appioppa allo scienziato Thomas Kurton - che poteva benissimo chiamare Steve Jobs a questo punto. Per contro mi è piaciuto come ha gestito la parte finale su Miss Generosity e come ha calato lo sipario. Sicuramente una interessante e gradevole lettura che offre qualche spunto di riflessione.

"Dalla mia postazione, l'intera razza umana ha combinato qualche stupidaggine da giovane, un'acrobazia che ha rovinato qualcuno. Il segreto della sopravvivenza sta nel dimenticare. Se l'evoluzione favorisse la coscienza, ogni cosa dotata di spina dorsale si sarebbe impiccata a una trave del soffitto milioni di ani fa, e gli invertebrati avrebbero ripreso il comando."

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    01 Marzo, 2021
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Il lato mostruoso dell'uomo

Chi ha l'abitudine di leggere libri "mostruosi" nel periodo di Halloween, penso che questo sia il più delizioso, comico, fantasioso e fantastico, che ben si addice a "Dolcetto, scherzetto". E' formato da una lunga serie di racconti che descrivono una persona dalle caratteristiche bizzarre e hanno come titolo il nome di quella determinata persona. Chiamo i personaggi "persone" e non mostri perché la loro vita, abitudini e contesto è quello degli umani, e pare che queste caratteristiche bizzarre sono ben accette dalla comunità e ciò che li rende strani o particolari sono più le loro caratteristiche caratteriali, interiori e non quelle esteriori. A tal proposito abbiamo Occas Navi, uomo negativo, che la sua presenza annulla quella di un'altra persona, persino il nome è al rovescio, il cuore a destra e l'appendice a sinistra e quando lui appare in pubblico, sparisce sempre una persona assieme a lui, diventando nulli- un po' come la somma di due numeri uguali ma di segno opposto, per ovviare al problema gli si dovrebbe trovare una persona negativa come lui e lasciarli assieme. C'è Eperone Sturp, invalido che prende una pensione dallo Stato, ridotto a un tronco senza gambe ne mani, che si veste di sacchetti ma che è anarchico e condanna tutto l'ordine sociale attorno a lui benché nessuno gli abbia fatto nulla, anzi, quel stesso sistema che lui vorrebbe bruciare, gli passa i sussidi per una vita dignitosa. C'è Graziella Link, talmente grassa che è diventata una palla perfetta di pelle, che nemmeno nuda desta stupore: può mai un'arancia diventare volgare? Infatti si esibisce in canti e spogliarelli. C'è Angolo Spes, un nano che vive tra le collone dei piedi delle sedie e dei tavoli di casa sua ma che è una persona benestante e spesso gli altri deve ricorrere ai suoi aiuti in prestiti di denaro, abbassandosi letteralmente a lui, pancia a terra, per guardarlo in faccia e chiedergli il favore. C'è Saverio Carnio, che trasuda orina senza posa trascinandosi sempre nella propria pozzanghera nella quale si riflette beato, talmente cattivo però che ha fatto morire di crepacuore tutta la sua famiglia, ma nonostante questo è sempre ricercato negli ambiente circostante, perché un po' di cattiveria fa sempre bene. Poi la fila è lunga: chi si è trasformato in nulla, chi in un vulcano, chi in un foglio di carta piatto e via dicendo, chi è una posacenere che inventa ricette su come ammazzare i suoi vicini di casa bruciato dalla cattiveria, non ci sono limiti all'immaginazione dell'autore.

Leggendo però questo libricino, oltre che a rimanere affascinati o divertiti di queste creature, si rimane colpiti anche dalla capacità di sondare l'animo umano perché tutti i racconti o quasi, si concludono con una riflessione sulla natura umana soprattutto sui suoi difetti, su ciò che in pratica la rende mostruosa, o comunque il racconto racchiude tra le righe una satira e non è mai sterile dal punto di vista del messaggio che vuole trasmettere. I racconti sono molto brevi e per questo motivo voglio riportarvi uno, giusto per farvi avere un'idea più specifica sullo stile e perché no, a invogliarvi alla lettura. Come dice Bolano, sicuramente è un libro che mette di buonumore e non si può non consigliare a tutti:

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Busso Targo

Busso Targo è un giovanotto biondo, dal viso piuttosto asimmetrico, i cappelli a spazzola, per quanto la moda li voglia lunghi fino al mento almeno; in ogni dito, sul polpastrello, ha un occhio, anzi un occhietto, senza ciglia. Con questo occhietti vede benissimo, ma non è che gli siano tanto utili, perché a introdurre il dito in qualche posto nascosto, per curiosità, ci si imbatte quasi sempre nel fatto incontrastabile che il posto , appunto perché nascosto, è buio. Questo conferma se non alto fino a che punto siano ben piazzati gli occhi tradizionali: fossero in qualche altra parte del corpo, si dimostrerebbero pressoché inutili. Ma non vuol dire che gli occhi di Busso Targo siano del tutto inutili: in casi eccezionali possono riuscire comodi. Supponiamo per esempio che Busso voglia leggere una lettera senza aprire del tutto la busta, o che voglia guardarsi un buco nella parte interna di un dente, o riparare un televisore senza dovere smantellare tutto. Ma questi sono, come detto, casi eccezionali. Da ragazzo Busso Targo ha provato a utilizzare i suoi occhietti addizionali a scopi di libidine, ma in questo campo è presto detto che, dove sono già arrivati i polpastrelli gli occhi non sono di molto aiuto, per non parlare del sopraccitato buio che di solito circonda le parti interessate o interessanti. L'unico impiego veramente utile di un occhio sul dito è quello permesso dai buchi nel legno delle cabine degli stabilimenti marini, è anche qui è il caso di osservare che i costumi contemporanei hanno quasi del tutto vanificati simili sotterfugi. Mani così veggenti potrebbero essere adottate con profitto in una banca, nella ricerca di biglietti contraffatti, oppure nella manutenzione di un computer; ma Busso Targo ha un banco di vendita di verdura fresca, al mercato; un lavoro che svolge normalmente a occhi quasi tutti chiusi.

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    01 Marzo, 2021
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Il respiro è vita

"Il Respiro" è il terzo volume dell'Autobiografia di Thomas Bernhard, un libricino di appena cento pagine però intenso e tagliente come suo solito. Il respiro è la vita, e in questo volume l'autore descrive la sua battaglia per guadagnarsi ogni respiro, gravemente compromesso da un raffreddore trascurato, ai tempi di guerra. E' anche l'occasione per lui di osservare l'ambiente sanitario e il personale che lo gestisce, i medici, che non gli ha mai ispirato fiducia, ma nello stesso tempo considera questa esperienza anche una sorta di benedizione per un artista perché solo il contatto con questi ambienti carichi di sofferenza è in grado di aprire gli occhi sul mondo, sulla profondità della vita, sebbene nessuno si augura di arrivarci. Si sviluppa in lui anche il senso critico e l'inclinazione alla osservazione di ciò che lo circonda per poi metabolizzarlo e trarre le sue conclusioni, nonché l'amore per la letteratura. Legge per la prima volta Dostoevskij e "Fame" di Knut Hamsun e i libri diventano i suoi migliori amici e la letteratura un ponte gettato sugli abissi della disperazione, che lo salverà. Se ne parlerà anche del lutto di suo nonno, da lui definito la persona che più ha amato nella sua vita e se da un lato questo lutto lo strazia, dall'altra parte gli conferisce anche la libertà di prendere in mano la sua vita e deciderne, quasi come se la protezione e l'amore del nonno lo tenesse in un guscio, lontano dal mondo vero e proprio e dalla propria libertà di decisione, della propria indipendenza.

Il libro è molto scorrevole e lo stile narrativo dell'Autobiografia rimane molto più blando rispetto a quello utilizzato nei romanzi dove abbondano le ripetizioni ossessive dei concetti. Il ciclo contiene in tutto cinque volumi: "L'origine", "La cantina", "Il respiro", "Freddo" e "Un bambino" e il mio consiglio è di leggerli in quest'ordine che è anche l'ordine in cui furono pubblicati. Personalmente posseggo il cofanetto Adelphi "L'Autobiografia" che raccoglie tutti i volumi in uno solo, una deliziosa edizione che contiene anche alcune foto del'autore e della sua famiglia, nonché foto di suoi appunti, e che mi sento di consigliare a tutti i suoi appassionati.

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L'Autobiografia di Thomas Bernhard
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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    01 Marzo, 2021
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Un Nabokov che non mi ha convinta

Vladimir Nabokov è lo scrittore più imprevedibile che mi sia mai capitato di leggere, motivo per il quale lo leggo sempre con piacere. "Cose trasparenti" è un breve romanzo che ha come protagonista Hugh Person. L'incipit è quanto mai acchiappante: "Ecco la persona che cercavo. Salve, persona! Non mi sente.", aggiungi che la persona in questione si chiama Person, si capisce già che l'autore farà l'acrobata tra le righe, giocando con le parole a suo piacimento e con i doppi sensi. Le cose trasparenti sono le cose intrise di ricordi, e di una loro storia. Dopo lo sguardo in superficie, in ogni cosa ha una sua storia, in questo senso è magistrale la descrizione della matita che Hugh trova in un cassetto di un albergo, il pensiero scorre a ritroso nel tempo nella storia di quella matita fino ad arrivare all'albero di pino che fu abbattuto per la sua costruzione. Fin dall'incipit l'autore fa notare come l'uomo ha la tendenza di guardare molto al passato, poco al futuro e ancor meno al presente che sarebbe poi la condizione ideale, il punto d'equilibrio dell'altalena.

"Una sottile impiallacciatura di realtà immediata ricopre la realtà, naturale o artificiale, e chiunque voglia restare nel presente, col presente, sul presente, è pregato di non rompere la tensione superficiale. Altrimenti l'inesperto taumaturgo si ritroverà non più a camminare sull'acqua ma a inabissarsi, diritto in piedi, fra gli sguardi stupefatti dei pesci."

Verremo a conoscenza della storia di Hugh Person, che anche lui tornerà indietro nel suo passato, spinto dal rivisitare luoghi per lui significativi.

Tuttavia, seppur il romanzo è brillante, profondo ma anche con sprazzi di ilarità, è il libro che mi è piaciuto meno nel panorama di Nabokov e so anche perché. La prima parte l'ho letta con entusiasmo ma poi, nella seconda, ho avuto la sensazione che lo scrittore mette un po' in ombra il suo personaggio e la sua storia e da la priorità ai suoi giochi linguistici e narrativi, mettendosi quasi in mostra sotto quest'aspetto. Probabilmente è solo una mia impressione ma ho trovato la seconda parte quasi un esercizio stilistico di un ego strabordante che mi ha annoiata e mi ha trasmesso ben poco.

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    12 Febbraio, 2021
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Che noia...

So che attirerò le ire dei miei QAmici, ma tant'è: il libro non mi è piaciuto. Era da molto tempo tempo che desideravo leggerlo e probabilmente intorno a lui ho creato un'aura troppo carica di aspettative, un po' come Gatsby nei cinque anni prima di rivedere Daisy. E ora, a lettura ultimata, sento già che se ne sta andando per la sua strada senza lasciarmi nulla. Non metto in discussione che sia un bel libro, importante, etc etc, ma a me non è arrivato. L'ho trovato noioso, piatto, con un Gatsby inverosimile (a proposito, mi ha ricordato Martin Eden per la sua storia di ragazzo povero che vuole arricchirsi per poter sposare ed essere degno di Daisy, la cui voce sa di soldi) ma soprattutto raccontato male da un punto di vista funzionale. Ora non so se è un problema della traduzione, forse in parte, ma questo racconto attraverso Nick l'ho trovato un po' poco armonico e non di rado mi è capitato di non comprendere bene la situazione ma di trovarla un po' ambigua, ma non un ambiguo voluto ma un ambiguo lacunoso. Sicuramente ha delle bellissime descrizioni molto soavi, alcune frasi molto introspettive, soprattutto quella finale che è la ciliegina sulla torta, molti simboli che anticipano il finale, ma nel complesso, per me è un grande no e mi dispiace di non essere riuscita ad apprezzarlo. E' anche il primo libro che leggo dell'autore, vedrò se dargli un'altra possibilità o meno. Per il momento, il suo allievo Yates mi piace molto di più (al netto del gap storico e ambientale). Fitzgerald mi ha ricordato il nostrano D'Annunzio che a me non piace, per l'appunto.

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    07 Febbraio, 2021
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Un inno alla musica

Questo libro può avere tre scenari di lettori: chi ama o semplicemente gradisce la musica classica andrà in visibilio, chi è curioso verso la musica classica ma ha un approccio incostante sarà probabilmente avvicinato ancor di più verso di essa e la lettura di "Orfeo" sarà molto gradevole e infine chi la trova noiosa e incomprensibile troverà questo libro illeggibile e lo abbandonerà dopo non molte pagine. Ecco, questa premessa mi sembra d'obbligo davanti a un romanzo così di nicchia.
Il protagonista è Peter Els, compositore e grande amante della musica e la narrazione si sviluppa su due piani che si intrecciano, quello del suo passato che ripercorre la sua vita dall'infanzia a tarda età e quello presente, in cui l'ormai settantenne Peter Els finisce in non pochi guai per colpa di un esperimento batteriologico ed è costretto a sfuggire alla polizia. La trama in sé l'ho trovata davvero scarna se rapportata a quanto spazio occupa la musica in questo libro. Vengono descritte le emozioni che la musica suscita, come la musica prende forma cioè il processo di composizione, alcuni frammenti addirittura sono abbastanza tecnici che per chi non ha studi musicali rimangono un po' oscuri, i riferimenti ai grandi compositori classici ma anche moderni sono numerosissimi e contiene anche delle vere storie dei loro pezzi e dei compositori stessi come per esempio "Kindertotenlieder" di Mahler, e che dire delle pagine dedicate al "Quartetto per la fine del tempo" di Messian?! Pagine bellissime e interessantissime in cui riporta alla luce come questo quartetto fu composto nel campo di concentramento di Gorlitz e suonato per la prima volta nelle baracche piene di detenuti e guardie del campo, maestoso esempio di come la musica unisce.
"Le note aleggiano e crescono. Rendono le parole inutili quanto un ventriloquo alla radio. Luce e buio schizzano su Peter a ogni cambio di accordo, fremendo senza intermediari. Le note ruzzolano in avanti; ricadono battuta dopo battuta sulle successive, assecondando una logica interna, cupa e bellissima. Un altro accordo lattescente, inquieto, torce le viscere al bambino. Vari sentieri promettenti conducono a note sconosciute. Ma fra le tante diramazioni possibili, la melodia si fa strana. Un salto a sorpresa fa venire la pelle d'oca a Peter. Gli avambracci sono un fiorire d'increspature. Un abbozzo di desiderio gli inturgidisce la minuscola mascolinità. Il gruppo di angeli ubriachi passa a una canzone più difficile. i nuovi accordi sono come il bosco sulla collina vicino alla casa della nonna di Peter, dove il padre una volta l'ha portato a giocare con la slitta. Passo dopo passo i cantanti incespicano verso un fitto di armonie aggrovigliate. Qualcosa allunga il piede e fa lo sgambetto alla musica. Le dita della madre si perdono. Battono su vari tasti, tutti sbagliati. I cantanti agitano il bicchiere di gin e capitombolano ridendo dentro un fosso. Poi, dal suo nascondiglio, il bambino in pigiama intona a squarciagola le note dell'accordo perduto."
Il primo amore di Peter fu "La Jupiter" di Mozart, a essa ne seguì molti altri e tutti descritti in questo libro che personalmente trovo riduttivo chiamare romanzo perché trascende da esso. Ho avuto l'occasione di scoprire tante curiosità nonché molti pezzi che mi sono segnata e più di tutti il Quartetto di Messian, che è di una bellezza e tristezza impressionante ed ascoltarlo mentre leggevo la sua storia e anche la sua spiegazione in questo libro è stata davvero una esperienza artistica. Questo è un libro da leggere ascoltando anche i numerosi pezzi ai quali fa riferimento, per mia esperienza il valore cresce esponenzialmente, a meno che conoscete già quei brani musicali.
La prosa è molto armoniosa, elegante, a volte asciutta come nel caso della descrizione della gita al lago in cui il padre di Peter ha un fatale infarto, altre volte più dettagliata - e questo succede quando si descrive la musica perché la narrazione sembra prendere il volo e lasciarsi andare alle sensazioni.

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    11 Gennaio, 2021
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Libro torrenziale

"Tu vieni al mondo e tenti e non sai perché solo continui a tentare e vieni al mondo insieme a un mucchio di altre persone, tutta aggrovigliata a loro, come loro tentando, dovendo muovere braccia e gambe con cordicelle, solo che le stesse cordicelle sono legate a tutte le altre braccia e gambe e gli altri tentano tutti quanti e neanche loro sanno perché, tranne che le cordicelle si impicciano tutte e vicenda come sarebbe a dire cinque o sei persone tutte intente a cercar di fare una stuoia sullo stesso telaio solo che ciascuna vuol tessere la stuoia secondo il proprio disegno; e non può avere importanza, lo sapete, senno Coloro i quali impiantarono il telaio avrebbero predisposto le cose un po' meglio, eppure deve avere importanza purché tu seguiti a tentare o a dover continuare a tentare e poi tutt'a un tratto è finita e tutto quel che ti rimane è un blocco di pietra con qualche scalfittura sopra purché ci sia stato qualcuno a ricordarsi di far scalfire e collocare il marmo, o che ne abbia avuto il tempo, e ci piove sopra e il sole ci splende e dopo un po' non si ricordano neppure il nome e quello che le scalfitture tentavano di dire, e non ha importanza."

Ecco, questo è Faulkner. Molti di voi lo conosce già ma sono pochi coloro che si avventurano nella sua scrittura, perché la prosa di Faulkner è una selva inospitale, che respinge, nella quale ci si smarrisce e a volte si perde l'orientamento, ma è anche mostruosamente bella. Una scrittura viva, che pulsa ed è irrorata da sangue proprio e che spaventa. Spaventa perché la narrazione è spezzata, i discorsi interrotti da altri discorsi, da pensieri, da salti temporali, voci narranti che cambiano e non hanno nemmeno la gentilezza di presentarsi, il lettore fa un grande lavoro di deduzione all'inizio, finché poi mano a mano che si prosegue e le lacune si colmano, le supposizioni si trasformano in certezze e le immagini sparse in storia narrata. Nulla regala Faulkner al suo lettore. 

"Assalonne, Assalonne!" parla di Thomas Sutpen e delle persone con le quali  questo personaggio dostoevskijano (mi ha ricordato molto Stavrogin di "I Demoni") condivide il telaio della vita. Giovane ambizioso ma povero, senza un passato ma con un fucile scambiato per la propria innocenza, arriva nella piccola cittadina Jefferson del Mississipi. Si costruirà una grande casa, terrà sotto lui personale domestico di colore e infine si sposerà con l'unico scopo di dare un erede al suo impero e un nome rispettabile alla sua stirpe. Il titolo richiama il racconto biblico di Assalonne, fratricida a seguito di un incesto non vendicato dal padre. Questo fatto avverrà anche nel romanzo di Faulkner, anche se un incesto vero e proprio non sarà consumato. Ma questo è solo il nocciolo della trama, la polpa invece è molto ricca di vari temi come la schiavitù e il razzismo innanzitutto, sia quello dei bianchi nei confronti dei neri ma anche quello dei bianchi ricchi nei confronti dei bianchi poveri, viene fatto anche un bellissimo quadro del contesto storico dell'epoca e della guerra de secessione americana alla quale i personaggi prendono parte - ci sono delle pagine memorabili sulla guerra, sul suo fascino- orrore e sulle sue disastrose conseguenze sia fisiche, materiali ma anche psicologiche. Si parla anche di amore, un amore universale, quello di Miss Rosa, ma soprattutto il libro è pregno dell'ambizione umana, quella del demonio Thomas Sutpen che, da quando fu cacciato da un "negro scimmiesco" dalla porta di un ricco bianco e indirizzato alla porta di servizio senza nemmeno che questo "schiavo" ascoltasse la sua richiesta, decise che avrebbe costruito per sé una casa ancor più grande e che avrà alle sue dipendenze un'armata di schiavitù. Ma basteranno la forte ambizione, il duro lavoro instancabile, l'intelligenza e l'assenza di scrupoli a consentire a Thomas Sutpen di realizzare il suo grande disegno?

"Forse nulla accade una volta per poi finire. Forse l'accadere non è mai per una volta ma forse come increspature sull'acqua dopo che il ciottolo è affondato, le increspature che avanzano, allargandosi, l'anello  unito da uno stretto cordone ombelicale acquatico all'anello seguente che il primo anello alimenta, ha alimentato, alimentò, e contenga pure questo secondo anello una diversa temperatura d'acqua, una diversa molecolarità dell'aver visto, sentito, ricordato, rifletta pure in un tono diverso l'infinito cielo immutabile, non importa: l'eco acquatica in in quel ciottolo la cui caduta non vide nemmeno si muove pure attraverso la sua superficie conservando l'intervallo originario tra anello e anello, al vecchio ritmo inestirpabile(...)." 

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    08 Gennaio, 2021
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Il sapere non è mai abbastanza

Devo confessarlo subito: il libro non c'è l'ho fatta a leggerlo tutto, l'ho abbandonato a circa 70% della lettura. Ed è piuttosto ironico considerata la trama, quindi questa non vuol essere una opinione completa sul libro perché mi manca l'ultima parte, ma il racconto della mia esperienza e il perché dell'abbandono.

"Bouvard e Péquchet" è un romanzo che inizia in quarta. Due parigini- entrambi un po' buffi, un po' sfigati, di modesta istruzione, entrambi che si annottano il proprio nome nel risvolto del berretto per non confonderlo con quello di qualcun'altro ed entrambi copisti di mestiere, entrambi di mezz'età ed entrambi con tratti caratteriali complementari- si conoscono casualmente in un pomeriggio afoso d'estate:

"Uno era fiducioso, sventato, generoso. L'altro era discreto, meditabondo, economo."

L'alchimia scatta subito e subito diventano amici per la pelle, scoprono moltissime cose in comune, a partire dal nome inciso sul berretto, ed entrambi traggono giovamento dalla compagnia dell'altro nonché un considerevole aumento dell'autostima e della curiosità:

"Tutta questa loro curiosità sviluppò loro l'intelligenza. In fondo a un orizzonte ogni giorno più lontano, intravvedevano confuse meraviglie. (...) Con l'aumento delle idee, crebbe anche la sofferenza. Un tempo erano stati felici. Ma quando era cresciuta la considerazione di sé stessi, il lavoro era diventato un'umiliazione; si esaltavano reciprocamente, si suggestionavano. Pécuchet assunse il contegno brusco di Bouvard, e Bouvard prese qualcosa dell'ombrosità di Pécuchet."

La prosa scorre e la simpatia verso i personaggi è immediata. L'arrivo di una eredità cambia tutto e i due decidono di trasferirsi in campagna, con il desiderio di fare i contadini e vivere una vita sana all'aria aperta e a coltivare il terreno e dedicarsi alle esigenze dell'intelletto. Non dovete temere lo spoiler, il tutto succede in poche pagine all'inizio. A questo punto iniziano i casini: coltivare con successo la terra, per un parigino burocrate, non si rileva cosa facile. E allora i due si mettono a studiare tutti i testi che riescono a recuperare sull'agricoltura e poi cercano di applicare la teoria alla pratica ma i risultati non arrivano. Allora abbandonano l'agricoltura e provano con la pomicoltura, sempre seguendo i relativi manuali. Ma anche questo non li ripaga con risultati, stendo un velo pietoso sull'allevamento degli animali (poverini, altro che cavie da laboratorio!!!). Ormai Bouvard e Pécuchet sono scatenati. Ripiegano sulla creazione di conserve con vari esperimenti ma anche qui, disastro:

"Riempirono quattordici vasi di vetro con pomodori e piselli; spalmarono i tappi di calce viva e formaggio, ai lati applicarono delle strisce di tela, poi li immersero nell'acqua bollente. Evaporava; ne versarono di fredda; la differenza di temperatura fece scoppiare i vasi. Se ne salvarono solo tre."

"Pécuchet ne concluse che: "Forse non conosciamo la chimica"" .... e allora vai con lo studio della chimica, manuali su manuali sopportati da improbabili esperimenti che finiscono in un fatale incendio. Ma anche la scienza della chimica si rivelava impossibile da apprendere nel suo insieme.

Si ripiega su geologia ma "La geologia è troppo lacunosa! Conosciamo appena qualche località europea. Tutto il resto, compresi i fondali degli Oceani, lo ignoreremo per sempre!"..."Sei mesi dopo erano diventati archeologi". Seguì la passione per le ceramiche, che li portò alla storia ma anche essa si dimostrò lacunosa e "non ci sarà mai una storia oggettiva". Però "i fatti esteriori non sono tutto. Si deve completare con la psicologia". Si iniziano a leggere i romanzi storici, continuano con il teatro e la letteratura il che li spinge verso la grammatica ma anche questa riesce a rivelare incongruenze e contorni indefiniti sotto la loro lente. Non mancheranno esilaranti episodi in cui si dedicheranno alla medicina, allo spiritismo, alla filosofia ma arrivano sempre alla conclusione che tutto ciò che studiano a fondo si rivela, infine, una chimera e un'illusione.

Ecco, al pari di loro, anche io ho perso il mio interesse per continuare la lettura per quanto essa sia stata anche spassosa perché come si può ben notare le situazioni assurde e comiche sono dietro l'angolo, ma questo continuo ritmo alla lunga mi ha demotivata a concludere, e ripiego dunque su altro. Mi avranno contagiata Bouvard e Pécuchet?! Forse. La cosa "buffa" è che il romanzo stesso, è incompiuto, per via della scomparsa del grande autore.

Questa è anche una lettura enciclopedia e non oso immaginare quanto studio ha costato allo stesso Flaubert la sua stesura perché l'autore non si limita a descrivere gli esperimenti falliti dei suoi personaggi ma cita anche i vari testi che loro consultano e gli scienziati ai quali si appellano riportando anche gli argomenti specifici di quei testi e in un'epoca in cui Google non c'era dev'essere stata davvero una impresa titanica per l'autore stesso. Del resto, lui è sempre i suoi personaggi. Se è stato Emma Bovary, sicuramente è stato anche Bouvard e Pécuchet.

Un libro davvero lodevole e non facile seppur stimola spesso la risata e che ha diversi piani di lettura con sottili ma affilate denunce ironiche. Lo consiglio senza dubbio ma siete avvisati, il percorso non sarà dei più facili perché alla lunga tende ad essere logorroico perché ripropone lo stesso schema, diventa monocorde da un certo punto di vista. Ho comunque l'intenzione di finire l'ultima parte ma faccio passare prima un po' di tempo. Sicuramente, due tipi come loro, che iniziano sempre senza mai finire, sono due stereotipi che mai scompariranno e quindi rimane un libro abbastanza attuale. Inoltre rimangono nel cuore anche per il stretto rapporto di amicizia e solidarietà reciproca che li lega, meravigliosamente descritta da Flaubert.

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    16 Dicembre, 2020
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Si accettano miracoli

Raffinato romanzo di un uomo semplice, questo è "Giobbe" di Joseph Roth. Reduce da un periodo di lettura impegnativo, con libri che mi hanno gettato il guanto sin dalle prime pagine, ne sentivo davvero il bisogno di rientrare nella confort zone e accoccolarmi nelle pagine di un libro capace di abbracciarmi con calore e dove il piacere della lettura fosse puro e non disturbato da passaggi noiosi o difficili. Già dalle prime pagine il tempo sembra rallentare e il lettore viene immerso nella realtà di Mendel Singer, personaggio principale, in un'atmosfera quasi ovattata e magica, piena di usi e costumi ebraici, fede, speranza, passato e presente di una tradizione millenaria. La mano che ci accompagna in questo viaggio immaginario è soave, colta, con uno stile molto musicale e poetico attraverso ripetizioni simmetriche di piccoli dettagli quasi come se fossero la rima in una strofa di poesia. Il percorso è senza sosta, l'attenzione e la curiosità non slittano mai ma vanno sempre pizzicate dalla trama movimentata seppur semplice in sé stessa. Mi ha molto ricordato la lettura di "Furore" di Steinbeck, uscito tra l'altro dieci anni dopo, credo che hanno molte tematiche e messaggi comuni. Mi ha anche ricordato le opere di Philip Roth, ma questa volta non per similitudini ma per opposti, ho avuto come l'impressione che Joseph Roth canta e rende omaggio a ciò che Philip Roth invece ironizza, critica tra le righe e fatica ad accettare e fare propria, cioé la millenaria cultura e tradizione ebraica. Anche in "Giobbe" c'è un passaggio di forte attacco, di ribellione di Mendel Singer di fronte a Dio ma è dettato dalla stessa fede che ne canta le lodi e non di una sua assenza. Joseph Roth appartiene al passato, Philip Roth al presente e considerato il gap generazionale tra i due, penso sia giusto così.
Dentro questo romanzo si trova tutto: povertà, sfortuna, sofferenza, malattia ma anche colpi di fortuna, ricchezza, salute, benedizioni, felicità e perché no, miracoli, per chi ci crede. E dato che siamo sotto le feste, mi permetto di consigliare vivamente questo libro non solo come lettura ma anche come regalo di Natale da fare ad amici o parenti, sia per la sua eleganza nell'insieme ma anche per i messaggi di speranza e pace che trasmette, non per ultimo sottolineo anche una certa atmosfera prevalentemente invernale, un po' dickensiana, che da un tocco di magia in più. 

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    23 Novembre, 2020
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Romanzo mondo

In punta di piedi ho iniziato a leggere questo romanzo e altrettanto ne sono uscita. Attenta a non farmi male in qualche scheggia e scappare di corsa chiudendo il libro ma anche attenta a non rompere gli incantesimi e i frammenti di immensa bellezza che si incontrano lungo il cammino. Prima opera di Thomas Pynchon, uscita nel 1963, fortemente radicata al genere postmoderno, questo romanzo è un cubo di Rubik in mano al lettore. A prima impressione, può sembrare un insieme di racconti, gravidi di personaggi e che coprono un lasso temporale molto ampio, un secolo e mezzo, sconnessi tra loro e ambientati in territori sparsi per il mondo, addirittura viene creato una terra immaginaria, magica, Vheissu e nonostante si spera che l'autore metterà un po' di ordine nel marasma man mano nella narrazione, ciò non accadrà, anzi! Nel libro l'autore crea il cubo di Rubik ma non lo risolverà sempre lui, il compito spetterà al lettore a lettura conclusa. Thomas Pynchon, prima ancora di avere una mente letteraria, ha una mente matematica, e questo spicca molto nella struttura del libro che è in pratica una non-struttura, un romanzo scritto secondo un principio di "non-ordine", ma che non è dispersivo e non ci sono vicoli ciechi ma tutto è progettato a tavolino nella sua mente geniale. Pynchon è una perla rara nella letteratura, ossia un artista che scrive quando ha bisogno di dire qualcosa e perché ha bisogno di dire quella cosa. Non gli interessano la fama (infatti nessuno lo conosce, non da interviste, si rifiuta di ritirare premi), non gli interessa di farsi capire o giustificarsi con critici o lettori (è dell'opinione che se vuoi sapere una cosa su un suo libro, prendilo e leggilo bene), scrive unicamente per servire la letteratura, contribuendo al suo sviluppo. Infatti "V.", assieme a "Comma 22" di Heller pubblicato poco prima, segnò l'inizio del postmodernismo americano e influenzò la maggior parte dei scrittori attuali. Per leggere "V." servono: una buona e rapida memoria, carta e penna per le annotazioni dei personaggi e/o vari schemi, libero acceso a un motore di ricerca e ovviamente voglia di conoscere un grande scrittore.

Benny Profane e Herbert Stencil sono i protagonisti di questo romanzo, personaggi molto diversi tra loro ed entrambi alla ricerca di qualcosa. Nel caso di Stencil non ci sono dubbi: cerca V., una donna misteriosa che nel romanzo prenderà diverse sembianze e identità, motivo per cui viene anche chiamata con la sola iniziale e ciò che la identifica come V. sono i dettagli: un pettine, una dentiera di metalli preziosi, un occhio di vetro. Altra cosa che fa intuire la sua presenza al lettore è l'alone di mistero, di sacro e profano che la circonda e che aleggia sempre nell'aria quando c'è lei nei paraggi, così come aleggia una certa tensione erotica connessa in risposta "alle violenti emozioni che si sviluppano sempre nei momenti di tensione internazionale". E infatti i momenti di tensione internazionale non mancheranno, molti dei quali sconosciuti alla massa. Si parla delle due guerra mondiali ma anche di altri eventi turbolenti e genocidi meno noti. Da questo punto di vista la lettura di un libro di Pynchon arricchisce molto la cultura generale dei lettori, inserendo veri frammenti di storia realmente esistiti ma poco noti nella sua trama intricata. Così come James Joyce nel suo capolavoro "Ulisse", cambiava lo stile di scrittura in ogni "capitolo" adattandolo alla sostanza, all'episodio narrato, stessa cosa fa qui anche Pynchon: tutti i capitoli che seguono Stencil e in cui V. compare e nei quali si descrivono pezzi di storia, sono sublimi, con punte altissimo lirismo moderno e considerazioni che lasciano sbigottiti, e si vorrebbe leggerli e rileggerli e rileggerli! I capitoli invece che seguono le vicende di Benny Profane sono "inanimati" proprio come il mondo che Benny si sente intorno, si limita a una mera descrizione del presente, con un linguaggio molto scorrevole. Anche qui però ci sono delle "punte di diamante" nella narrazione, soprattutto nei dialoghi (vedi i dialoghi di Benny con Rachel o con i manichini). La ricerca di Benny Profane non ha una meta invece, è uno "yo-yo" che si lascia vivere dalla vita e dagli eventi, che sopravvive in un mondo sempre più inanimato che contagia persino le anime ("Perché Fina doveva comportarsi come se lui fosse un essere umano?"). Benny ha la percezione che la Grande Depressione ha portato via anche l'umanità e, ora nel 1956, c'è tutto ma è tutto vuoto, tutto e tutti come gusci di conchiglie.

La ricerca di entrambi i personaggi rappresenta uno stato di essere vivi, che nel caso di Profane è palese, ma anche Stencil in realtà si augura di non trovare mai V., perché ciò significherebbe la fine, più V. gli sfugge e più lui si sente in vita nel dargli la caccia. C'è un periodo presente, ambientato nel 1955-1956 a New York e vede protagonista Benny che si intreccia con un periodo passato dal diciannovesimo secolo in poi e che vede come protagonisti tutto ciò che riguarda V.. Personalmente ho apprezzato decisamente quest'ultimo periodo e che occupa gran parte della seconda metà del romanzo. Le pagine di storia sono degne del miglior Tolstoj in "Guerra e pace", e secondo Pynchon la storia è un serpente, e non ciclica come Tolstoj sostiene. Ci sono molte scene nabokoviane (si presume che abbia seguito le lezioni di scrittura di Nabokov, ritroviamo dei veri e propri omaggi a "Lolita"), c'è dentro Hugo, Faulkner e forse qualcosa anche di Melville. Ma c'è anche molta comicità e bizzarria in questo volume mastodontico, aneddoti e passi ironici in cui l'autore attacca la Chiesa, i preti, la chirurgia estetica, la politica.

V. è decisamente una esperienza di lettura, personalmente mi ci sono approcciata pensando che fosse più abbordabile in quanto opera prima ma con il senno di poi, forse sono meglio gli ultimi romanzi di Pynchon, come primo approccio, che sono molto più lineari, infatti nella sua bibliografia si assiste ad un cambio di rotta e l'assunzione di un filo più lineare della trama nelle ultime opere. Questo non per sminuire "V.", anzi, mi ha colta di sorpresa perché lo immaginavo più facile, ma comprendo anche che un lettore che non ha dimestichezza con certi stili, potrebbe facilmente arrendersi oppure peggio ancora considerare "V." un ammasso di storie che non si incrociano e chiedersi "ma che cosa sto leggendo?!". 

"I tedeschi, ovviamente, incarnavano il male assoluto e gli Alleati il bene assoluto. I bambini non erano i soli a pensarla così. Tuttavia, se la loro concezione di quella lotta potesse essere descritta con un grafico, non verrebbe rappresentata da due vettori della stessa grandezza, simmetricamente opposti - dove le punte delle due frecce formano una incognita X -, ma piuttosto da un punto adimensionale, il bene, circondato da un numero imprecisato di frecce convergenti, disposte a raggiera, i vettori del male, che puntano verso di esso. Ovvero il bene tenuto a scacco. La Vergine assalita. La madre alata protettiva. La donna passiva. Malta assediata... Questo diagramma sarebbe stato come una ruota: una ruota della Fortuna. Per quanto potesse girare, la disposizione fondamentale restava costante. L'effetto stroboscopico poteva far pensare che il numero dei raggi stesse cambiando, che il senso in cui girava stesse cambiando. Il mozzo però teneva sempre i raggi al loro posto ed era sempre il punto di convergenza dei raggi a definire il mozzo. La vecchia concezione della storia come evento ciclico riguardava solo il bordo della ruota, al quale erano legati tanto i principi quanto gli schiavi. Insegnava che la ruota era sistemata in verticale, che si saliva e si scendeva. Però la ruota dei bambini era perfettamente in piano, il suo bordo era solo quello dell'orizzonte sul mare; noi maltesi siamo una razza cos' sensuale, così "visiva"."

"Cercavo di guardare il bianco dei suoi occhi, così come si guardano i margini di una pagina, cercando di evitare con lo sguardo quel che c'era scritto nel nero dell'iride."

I capitoli che più mi sono piaciuti sono due. Uno è "Le confessioni di Fausto Maijstral", nel quale si descrive l'assalto a Malta durante la seconda guerra mondiale e nel quale si incontra V.. L'altro capitolo invece che ho adorato è "La storia di Mondaugen" nel quale viene narrato tra presente e passato il genocidio degli herero. Ho gradito invece meno tutte le avventure di Benny Profane e della Banda dei Morbosi, sempre a ubriacarsi e a prendersi a cazzotti e dove ogni uscita al bar finiva con l'arrivo della polizia. L'episodio su padre Fairing che evangelizzava i topi nelle fogne, pronosticati da lui come unica forma di vita che sopravviverà nel futuro, mi ha ricordato il romanzo "La ratta" di Gunter Grass, pubblicato nel 1986, che abbia preso lo spunto in "V."? Per me, è molto probabile.

"C'erano stati tradimenti e ipocrisie: perché i preti non avrebbero potuto fare lo stesso? Un tempo il cielo era il  nostro amico più fidato: l'elemento naturale del sole, il suo plasma. Un sole che il governo adesso sta cercando di sfruttare a fini turistici: ma in passato, ai tempi di Fausto I, il sole era l'occhio vigile di Dio e il cielo la Sua guancia pura. Però, fin dal 3 settembre 1939, erano cominciate ad apparire delle pustole, delle macchie, e i primi segni della peste: i Messerchmitt. Il volto di Dio si era ammalato e il Suo occhio aveva cominciato a vagare, a chiudersi (ad ammiccare, diceva invece quell'ateo furioso di Dnubietna). Ma la devozione della gente e la forza incrollabile della Chiesa sono tali che il tradimento non veniva attribuito a Dio, ma piuttosto al cielo; a una bricconeria da parte della pelle, capace di ospitare germi simili e di rivoltarsi quindi contro il suo divino padrone."

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    18 Novembre, 2020
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Pace nel mondo

Fresco di stampa, ecco che troviamo nelle librerie "Donne dell'anima mia" di Isabel Allende, edito da Feltrinelli, in una bella edizione e con una copertina deliziosamente rosa con delle spennellate arancioni, forse a emulare le fiamme della bruciante filosofia femminista dell'autrice? "Non esagero quando dico che sono femminista dai tempi dell'asilo" - questo è l'incipit bruciapelo e che mette subito in chiaro l'argomento cardine di questa "chiacchierata informale" come l'autrice stessa definisce il libro. Uno scritto autobiografico quello di Allende, che indaga sull'origine del suo pensiero femminista e osserva come esso si è plasmato nel tempo fino ad arrivare a oggi, e che ha necessitato anche di un certo coraggio esponendosi attraverso confessioni facilmente criticabili, ma del resto nessuno è perfetto, il rischio però è quello di cadere in contraddizioni con ciò che si afferma e perdere la credibilità. E in effetti le contraddizioni non mancano in questo libro, così come non mancano i cliché e la soggettività di certe idee e quindi la loro non condivisione, il che dimostra come il femminismo sia interpretabile in vari modi e di come i suoi confini siano labili. 

Ho trovato in questo libro un super-io molto spiccato, a tratti disturbante perché ingombrante, autocompiaciuto e se da un lato riconosce i suoi privilegi dall'altro mostra una falsa modestia ("Se sono riuscita a trovare un fidanzato io, c'è speranza per tutte le donne anziane che desiderano un compagno."). Ho trovato un'autrice che nel periodo della quarantena Covid si mette comoda al suo pulpito e scrive un bel discorso alle sue "fedeli lettrici" su come sarebbe bello, giusto e civile il mondo guidato parimenti da donne e uomini, concludendolo con l'invito alla costruzione di un mondo "gentile, in cui regnino la pace, l'empatia, l'onestà, la verità e la compassione", "un pianeta incontaminato, protetto da qualsiasi forma di aggressione", che non è una fantasticheria ma un progetto e "insieme possiamo realizzarlo". A unicorni o altri animali fantastici non fa riferimento.

Personalmente apprezzo moltissimo l'impegno sociale che Allende intraprende attraverso la sua fondazione per dare assistenza e protezione a donne e bambini, è l'esempio concreto di chi applica la sua teoria e cerca di coinvolgere e sensibilizzare gli altri nei confronti dei più deboli e trovo sia la cosa più umana e difficile che si possa fare: fare del bene. Anche per Tolstoj, fare del bene e aiutare chi è in difficoltà, i mujic in particolare, è diventata la sua ragion di vita, ha sostituito la fede in Dio, e c'è bisogno di persone di questo tipo, che hanno i mezzi economici e la voce alta per coinvolgere la massa. Ben venga. Non mi ha convinto invece il libro sia a livello letterario che ideologico, lo trovo già invecchiato. Probabilmente perché i riferimenti che fa sono ambientati in Cile, in Asia, in Africa. In Europa, grazie a Dio alcune realtà sono superate già da qualche anno, seppur la donna continua ad essere debole in qualsiasi parte del mondo ma a mio avviso bisogna anche restare con i piedi per terra e non trasformare il femminismo in una lotta contro il maschilismo a prescindere. Chi ci dice che un mondo al femminile sia migliore di quello patriarcale che tanto la scrittrice detesta? Chi ci dice che la cattiveria sia lieve e meno frequente tra le donne rispetto a quella insita nel maschio? Fino alla prova contraria, la solidarietà tra donne è minore rispetto a quella tra maschi e la si può ben notare negli ambienti lavorativi. 

"Negli Stati Uniti, in questo secondo millennio, si mette ancora in discussione non solo il diritto all'aborto, ma anche gli anticoncezionali femminili. Ovviamente nessuno mette in discussione il diritto dell'uomo alla vasectomia o all'uso dei preservativi"...paragone un po' forzato, la vasectomia non è così facilmente ottenibile ma ancora vincolata e secondo, il preservativo è utile ad entrambi e protegge da malattie sessualmente trasmissibili prima ancora che di una eventuale gravidanza. 

"Provo a immaginare l'amante che le mie lettrici eterosessuali desidererebbero, ma questo compendio di virtù maschili non è nelle mie corde. L'uomo ideale dovrebbe essere bello, forte, ricco o potente, per niente stupido, deluso dell'amore ma pronto a lasciarsi sedurre dalla protagonista, insomma, è inutile che prosegua..."...qualcosa non mi quadra, da femminista che promuove la donna come un essere pensante profondo e con pari diritti dell'uomo mi cade in questo pregiudizio sull'amante ideale della donna?! o su quello che una lettrice donna vorrebbe dal protagonista maschio di un libro? Un'altra cosa che ho notato è che lei si rivolge al suo pubblico più volte con l'appellativo di "fedeli lettrici", altra cosa che non ho compreso, perché non "lettori"? Sarà che il genere neutro ha troppe sembianze maschili?

"sono grata a quell'infanzia infelice perché mi ha fornito materiale per i miei romanzi. Non so come se la cavino gli scrittori che hanno avuto un'infanzia serena in un ambiente normale."... altra affermazione molto discutibile a mio avviso. Peccato che non possiamo chiederlo a Proust, a Nabokov, a Tolstoj, come hanno fatto scrivere dei monumenti della letteratura.

E se all'età di due anni, secondo la leggenda era capace di riconoscere Renoir e Monet, non ci sorprende che alla veneranda età di settantotto anni scatta quasi come una gazzella, scrive cinque ore al giorno, e fa l'amore - in effetti pare che sia molto orgogliosa della sua natura passionale e della libido che fortunatamente c'è ancora, in calo ma c'è. Tutto molto bello, è un libro in cui si dichiara felice della sua vita, dei suoi sogni raggiunti e felice di viversi il presente tra scrittura e amore. E noi siamo felici per lei.

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    13 Novembre, 2020
Top 100 Opinionisti  -  

Eccoti, fratello, un'anima vivente...

"In quanta stupidità dobbiamo calarci per giungere alla nostra meta, quali sconfinati errori bisogna saper commettere! Se qualcuno te lo dicesse prima, quanti errori dovrai fare, tu diresti no, mi spiace, è impossibile, trovatevi qualcun altro;  io sono troppo furbo per fare tutti quei errori. E loro ti direbbero, noi abbiamo fede, non preoccuparti, e tu diresti no, niente da fare, avete bisogno di uno molto più schmuck, molto più cretino, ma loro ripeterebbero che hanno fede in te, che tu ti trasformerai in un cretino colossale, mettendoci un impegno che neanche ti immagini, che farai sbagli di una grandezza che neanche te li sogni... perché è l'unico modo di giungere alla meta."

Più leggo Philip Roth e più divento consapevole della sua grandezza, del perché è così amato tra i lettori. "Il teatro di Sabbath" è per il momento il romanzo che più mi ha scossa e che trovo di una immensa profondità. E' sempre difficile per me parlare di certi libri che ti danno talmente tanto da lasciarti in una specie di stasi. Ovviamente questa reazione è molto soggettiva, c'è chi si approccia a mente lucida e fredda a un libro e c'è chi invece viene coinvolto anche involontariamente a livello empatico. A me Philip Roth mi ha manipolata e mi ha attratto nella sua orbita al pari della studentessa che viene ipnotizzata dal dito medio di Sabbath (chi ha letto il libro capirà cosa intendo). E' un libro osceno, sporco, immorale, grottesco, con i riflettori puntati perennemente sulla natura più animalesca e incivile dell'uomo e se per un attimo di distrazione entrano in scena i sani principi, la bontà o la fiducia, essi sono subito incendiati e ridotti in cenere o al massimo curati col Prozac per una sopravvivenza catatonica. Ma dentro tutto questo squallore pulsa violentemente la vita. 

"Sì, sì, sì, provava una incontrollabile tenerezza nei confronti della propria merdosissima vita. E una ridicola brama di averne ancora. Ancora sconfitte! Ancora delusioni! Ancora inganni! Ancora solitudine! Ancora artrite! Ancora missionari. Se Dio vuole, ancora (...). Ancora impegolamenti in qualsiasi cosa. Per la pura sensazione di sentirsi tumultuosamente vivi, non c'è niente di meglio che il lato canagliesco dell'esistenza. Non sarò mai stato un idolo delle platee, ma dite di me quel che volete, la mia è stata una vita veramente umana!"

Lettori e lettrici, mettetevi comodi quando il sipario si alzerà con la prima pagina del libro e per citare l'autore, non giudicate troppo aspramente il vecchio burattinaio Sabbath, burattinato dalla vita, dategli fiducia perché è un personaggio memorabile, e se vi disgusterà a tratti (perché succederà), saprà portarvi anche dentro insospettabili paradisi. 
E' un libro con diversi piani di lettura e in cui i temi trattati sono davvero molti ma da buon burattinaio Philip Roth porta a termine in maniera egregia il suo spettacolo, la sua "Fiera del sesso" che è strettamente collegata alla vita e alla morte. Un racconto che parte dal presente e va a scavare man mano nel passato fino alla infanzia di Sabbath, pregno quindi di interazioni, di incastri tra passato e presente, tra causa ed effetto, tra vivere e morire, tra aspettative e realtà. Questo aspetto da quindi una forte impronta introspettiva al romanzo, pieno di considerazioni sulla natura umana sia attraverso monologhi interiori, che dialoghi o interventi diretti dall'autore. Lo stile narrativo è molto ricco e camaleontico e rispecchia la grandissima cultura dello scrittore, infatti i riferimenti letterari e quelli culturali in senso più ampio sono moltissimi e ben inseriti, un mosaico che abbaglia. C'è molta comicità, sarcasmo, teatralità ma anche momenti di una spoglia sincerità, nostalgia, dolore, tanto dolore represso che esplode nel finale e a fine lettura si rimane un po' come Sabbath, perplessi, scampati all'improvviso a questo furore di lettura.

"Re nel regno dei disillusi, imperatore delle aspettative infrante, uomo-dio perennemente umiliato dal metterci una croce sopra, Sabbath doveva ancora imparare che non c'è niente, ma proprio niente, che vada come uno vorrebbe, e la propria stessa ottusità rappresentava in qualche modo un trauma."

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    28 Ottobre, 2020
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Senza infame e senza lode

"Desideri deviati" rappresenta il secondo romanzo della trilogia "Amore e ragione", inaugurata lo scorso anno con "Cuori fanatici". Ambientato nella Milano "da bere" degli anni ottanta e in cui la moda approda nella ormai ricca città. La trama segue Nico Quell, promettente ma anche raccomandata figura nel campo dell'editoria milanese di quei tempi. Un ragazzo pieno di contraddizioni, che insegue il successo, desidera crearsi una propria identità, ma nello stesso tempo perso in un mondo di incredibili e numerose opportunità, soprattutto sentimentali. La critica lo associa a un "uomo senza qualità", un Ulrich in attesa della occasione giusta, ma a mio avviso non bisogna scomodare il caro Musil per così poco. E non bisogna scomodare nemmeno Proust, che in una frase ha detto tutto ciò che probabilmente l'autore ha voluto dire attraverso questo libro, è cioè che "I nostri desideri interferiscono via via fra di loro, e, nella confusione dell'esistenza, è raro che una felicità giunga a posarsi esattamente sul desiderio che l'aveva invocata.“

Citando l'autore, in un opera ci devono essere molte sciocchezze "attorno quel poco di buono che si combina in essa" perché "se così non fosse l'arte sarebbe ermetica, un bersaglio che la freccia non colpisce mai", solo che quel poco di buono che personalmente ho trovato in questo libro è davvero limitato e poco valorizzato. Per un parere onesto devo assumere la parte del "ragazzo ignorante come una capra" e permettermi di dire che a mio avviso questa opera è un "ammasso di ferraglia". Dopo un inizio promettente con il prologo in cui viene presentata una Milano tutt'ora attuale e che ho molto apprezzato, che ho riconosciuto dato che ci vivo, la mia esperienza di lettura è stata monotona, noiosa e la fine della lettura è stata quasi una liberazione. Ho trovato molto disarmonico e contraddittorio questo libro, che non manca anche di alcuni cliché e scene che sembrano buttate lì per caso come per esempio il capitolo nel quale Irene, la sorella di Quell, si alza alle sette del mattino e va a passeggiare nel parco offrendosi agli sconosciuti che incontra, facendone ritorno in casa alle nove dopo circa tre-quattro rapporti non protetti, descritti in modo spiccio, come per offrire la dose di sesso necessaria in un libro. E tutto questo perché?! perché adesso avrebbe avuto cosa raccontare al fratello nel loro prossimo incontro. E come se non bastasse il capitolo di intitola "Un muto stupore le prese l'anima" (???!). Un titolo altisonante che io non capisco. Probabilmente si riallaccerà alla scena nel terzo volume della trilogia, magari tirando in ballo anche il discorso sull'AIDS che in quei anni esplodeva, altrimenti non mi spiego. 
Restando nel campo della trama, l'ho trovata dispersiva. E' anche vero che vengono narrate poche giornate della vita dei personaggi quindi magari scarsa da un punto di vista dei fatti o dei colpi di scena e va benissimo, la cosa che invece non ho gradito è stata la sua poca armonia in quanto i capitoli con le varie scene presentate spesso sembrano racconti indipendenti, foto istantanee- per esempio la scena in cui Nico va in piscina, o a sentire il concerto di musica classica, o quando va a visitare Marta Sesamo. I personaggi invece sono descritti abbastanza bene, seppur pieni di contraddizioni, il mio preferito è Coboldo, il nome non è casuale, significa folletto poco socievole- sembra una specie di Pnin nabokoviano, mi ha fatto molta tenerezza soprattutto nel finale, un rospo baciato dalla pantera nera, Sheila modella di colore che mi ha tanto ricordato la venere nera, Naomi Campell. Insomma la bella e la bestia che forse l'autore unirà in futuro. L'ambientazione invece l'ho trovata abbastanza minimale e con pochi riferimenti descrittivi di quei anni, mi sarei aspettata un tuffo più profondo sotto quest'aspetto.

Ora prendo dalla mia faretra un'altra freccia e provo a tirare nel bersaglio "stile". Personalmente l'ho trovato arzigogolato e disordinato. Io sono la prima ad amare le narrazioni non convenzionali, amo il postmodernismo e l'originalità stilistica, ma il disordine casuale no. I dialoghi vengono presentati sotto tre forme: come una pièce teatrale (vedi il discorso tra Enobaudo e Coboldo), con l'utilizzo di trattini e infine con quello delle virgolette alte. Non ho capito perché, io l'ho visto solo come un disordine che mi ha disturbato da un punto di vista estetico. I dialoghi certe volte mi sembravano sconnessi e artificiosi giusto per tirare in ballo determinati argomenti e mancano di spontaneità. La prosa l'ho trovata forbita, ma arzigogolata. Nonostante sia un libro in lingua, l'ho trovato poco armonioso, poco musicale, ostico da seguire, stancante, criptico, a tratti come se si sforzasse di ostentare cultura. Non ho compreso nemmeno certe sue metafore e nemmeno i suoi lungi elenchi che dicono tutto e dicono niente.

Oltre ai desideri in continuo mutamento, un tema centrale è anche quello dell'editoria e l'autore non fa sconti né all'editoria, che sembra un mondo impenetrabile pieno di raccomandazioni e con scelte dettate più dall'arbitro che dal rigore, lancia freccette verso la scarsa qualità dei libri che attualmente vengono pubblicati, ma anche sulla scarsa e insufficiente preparazione culturale dei critici letterari. Ho quasi l'impressione che ogni autore crede che il suo libro sia imperdibile e quelli dei suoi contemporanei, superficiali. Ci sono molte altre idee che non condivido, come quella sull'inutilità del lavoro intellettuale che in questo libro mi è sembrato più con il fine/ ambizione di cambiare il mondo, anziché come espressione di se stessi, come necessità personale di esprimersi per poter vivere- mi viene in mente Pessoa, per lui scrivere era vivere, respirare, e non cambiare il mondo. Che poi, questo cambiamento avviene ugualmente come conseguenza all'autenticità e profondità di quello che viene espresso. 

Nell'insieme è un'opera che mi è mancata di spontaneità e quindi di armonia, che non mi ha colpita su nulla, seppur non nego che mi sono piaciuti alcuni passi ma non sono bastati. Ho percepito lo sforzo intellettuale che ovviamente rispetto ma l'ho trovato troppo artificioso e di conseguenza poco stimolante.

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    12 Ottobre, 2020
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Colite dell'anima

Antonio Lobo Antunes è uno scrittore portoghese poco letto e poco conosciuto, seppur tra i massimi scrittori contemporanei viventi. Del resto è sempre stato così, difficilmente un artista riesce a conquistare la fama in vita e Antunes ne è ben conscio: "Vedo già volarmi addosso il cinismo dei critici con la loro rabbia d'impotenti, le recensioni minuscole, anonime, asciutte, senza foto, nelle edizioni serali. Quando comincerò a putrefarmi mi considereranno un autore essenziale, mi chiederanno interviste, diserteranno su di me, mi selezioneranno per i noiosi cimiteri delle loro analogie." Il suo stile non è abbordabile con facilità, essendo esso molto simile a quello di William Faulkner e Louis-Ferdinand Céline, ma se da un lato spaventa dall'alto la sua lettura risulta essere molto stimolante per un lettore curioso che apprezza costruzioni narrative fuori dagli schemi. "Spiegazione degli uccelli" è il suo quarto romanzo, uscito nel 1981, e rispetto alle sue creazioni successive rappresenta un romanzo molto più lineare dal punto di vita dello stile. 

Rui S., docente trentatreenne, dopo aver visitato la madre in fin di vita presso una clinica, decide di fare una gita fuori porta di qualche giorno in una città turistica di mare non lontana da Lisbona assieme alla sua seconda moglie con l'intento di confessagli che la vuole lasciare perché non la ama più. L'azione di svolge in quattro giorni, corrispondenti ai quattro capitoli che compongono il romanzo da giovedì alla domenica, e la voce narrante è in mano ai personaggi: flussi di coscienza, ricordi e dialoghi che si intrecciano e si collegano a distanza eppure si riesce a tenere il passo senza grandi difficoltà. Rui, cresciuto nella borghesia ormai in declino, fatica da adulto a trovare il proprio posto nel mondo e nella società, fatica ad essere felice e tende a vivere in "un tempo immaginario, in un tempo morto, al di fuori dello spazio, in un passato irreale di teiere di alpaca e conversazioni di domestici" perché "Che io lo voglia o meno rimango legato a queste mantovane, a questi mobili, a questa gente che non capisce che qualcosa è cambiato irrimediabilmente, irreversibilmente, e che finiranno per annegare nello stagno dei loro tappetti di Arraidos, aggrappati ai fasti di cartone della superiorità che hanno perso.". Quasi un disadattato, che come conseguenza fatica anche a prendere delle decisioni e a esternarle: tant'è che non trova il coraggio di confessare alla moglie che non l'ama più, ma davvero non prova più sentimenti per lei oppure la stessa confusione regna anche in quel campo? Una storia intensa e spietata, assente di sentimentalismi, che prende l'avvio dall'infanzia attraverso i ricordi di un padre troppo assente che non ha mai trovato il tempo di spiegarli gli uccelli da bambino, sezionando loro la pancia e guardando all'interno e allora lo farà da solo, ormai grande, in una domenica nebbiosa e gravida di pioggia, il giorno in cui non ci saranno più altre spiegazioni da fare o da ascoltare.

Intriso di malinconia e di alcune immagini che rievocano il film "Uccelli" di Hitchcock, la narrazione è anche presentata come se fosse uno spettacolo circense in cui Rui è il protagonista che si esibisce sul palco la propria vita, spettacolo che viene sponsorizzato da improbabili aziende che vengono pubblicizzate tra una scena e altra, fatto che alleggerisce il tutto e regala dei sorrisi amari.Palestra Mano di Ferro, Calze e Collant per Signora Penelope - "si penelopizzi e provi la differenza nello sguardo tenero di suo marito", I Preservativi Donald- "scegliete Donald, il preservativo dei cattolici, gli Ovuli Vaginali Esplosivi Pimpumpam- "fanno dell'amore un'avventura diversa: trasformi la monotonia del suo rapporto sessuale in una data storica che nessuno dei suoi vicini di casa potrà dimenticare", mi ha ricordato i capitoli sponsorizzati del libro "Infinite Jest" di Wallce. C'è un altro libro e autore che "Spiegazione degli uccelli" mi ha ricordato - "La donna giusta" di Marai ma qui per motivi più seri: la borghesia in declino, la difficoltà di un rapporto tra due persone di provenienze sociali diverse, il fallimento di due matrimoni, l'odio della moglie povera nei confronti del marito borghese. Un libro tutto da scoprire e bello in ogni sua angolatura, questo è il terzo che leggo dell'autore e trovo sia decisamente anche quello più godibile per chi si vuole approcciare all'autore per la prima volta, anche se io sono dell'idea che se un autore è nelle nostre corde non esiste necessariamente una propedeuticità.

"Non abbiamo mai avuto tempo, vero?, gli uni per gli altri, e adesso è tardi, stupidamente tardi, rimaniamo così a guardarci assenti, estranei, pieni di mani superflue senza tasche dove ancorarsi, in cerca nella testa vuota delle parole tenere che non abbiamo saputo imparare, dei gesti d'amore di cui ci vergogniamo, dell'intimità che ci fa paura."

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Faulkner, Céline, Marai
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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    01 Ottobre, 2020
Top 100 Opinionisti  -  

Non si scende da treni in movimento

In una intervista di qualche tempo fa, alla domanda in cosa consistesse il suo attuale lavoro, Peter Cameron rispose che stava lavorando a un romanzo che ha come protagonisti una coppia eterosessuale, che si reca in un lontano paese nordico per adottare un bambino. E questa è in effetti la trama di "Cose che succedono di notte", riassunta un poche parole.

Sette capitoli contenenti sette giorni della vita di un uomo. Dico un uomo, perché al lettore non è dato conoscere il suo nome così come non si conosce il nome di sua moglie. Una settimana che sembra scorrere come una notte, in effetti rappresenta una settimana di buio, una notte interminabile, perché ci troviamo in un paese ai confini del mondo in cui per sei mesi è notte e per gli altri sei è giorno. Un buio perenne accompagna il lettore dalla prima riga fino all'ultima in una bellissima struttura narrativa in cui le atmosfere che l'autore crea sembrano gareggiare con i personaggi, sembrano voler attrarre l'attenzione del lettore su di esse, vanitose e ammaglianti. A lettura ultimata ciò che più mi è rimasto impresso sono loro, queste magnifiche "creature" rarefatte composte di buio, neve, freddo ma anche eleganza, fascino e mistero. Una struttura circolare, dall'incipit poetico e che nel finale l'autore riprende nello stesso punto, e anche un po' oltre, dove finalmente il sole compare, assieme a una nuova vita ma anche a una mancanza.

La tematica base è il desiderio di avere un figlio da parte di una coppia eterosessuale che farò di tutto pur di averlo. Però mano a mano che si procede nella lettura, gli eventi precipitano e prenderanno una piega diversa e la vera tematica, a mio avviso, diventa la paternità per un uomo omosessuale, che non potrà offrire una mamma al proprio figlio. Onestamente conoscevo poco della biografia di questo autore ma già dopo le prime pagine un dubbio mi si era istillato e sono andata a controllare in rete: in effetti l'autore è omosessuale, e sotto questa luce il tutto diventa più digeribile per un lettore e il libro lo si legge sotto una nuova luce. Dico digeribile perché ci sono alcune scene che potrebbero urtare, potrebbero essere incolpate di misogina, di superficialità o di una scarsa abilità nel descrivere un atto sessuale. Questo perché l'autore non ne parla direttamente di questo suo intimo desiderio, ma lo fa appunto al buio, nascondendosi, camuffandolo attraverso un desiderio di una coppia eterosessuale ma che inevitabilmente spicca fuori per quel che è. All'enorme desiderio di paternità si sovrappone però anche una terribile paura ma anche moltissima sensibilità. Oltre a questo tema se ne parla anche della solitudine, del radicamento delle persone alla propria terra per quanto essa possa essere ostile, si parla di figli, ma anche della malattia. 

Un libro che complessivamente mi è piaciuto, soprattutto per le atmosfere e per la forma narrativa, scritto con una prosa scorrevole e nello stesso tempo ricercata, in cui non mancano gli affondi introspettivi. Mi ci sono affezionata meno ai personaggi con i quali si fatica a entrare in empatia perché bizzarri, egoisti, strani, quasi irreali. Concludo con questo delizioso frammento:

"Qualche istante dopo la donna disse: Resto sbigottita davanti a una tale profondità di sentimento. Sentimento d'amore, immagino. O forse non sarà amore, ma commuoversi fino alle lacrime... Quando si smette di provarli, ci si dimentica che i sentimenti esistono, che le altre persone effettivamente li provano. L'amore, per esempio. Forse sarà una cosa dovuta alla vecchiaia o forse i sentimenti, come i muscoli, si atrofizzano. Penso proprio di sì, almeno nel mio caso. Ecco perché continuo a esibirmi, anche se è difficile che venga a sentirmi qualcuno. Per guadagnarmi da vivere suono il pianoforte e canto laggiù nella hall, cinque sere alla settimana e la domenica pomeriggio. E' l'unico modo in cui di questi tempi riesco a provare qualcosa, per quanto non siano sentimenti veri ma il facsimile del facsimile del facsimile. E poi arriva lei, proprio qui accanto a me, con i suoi sentimenti veri. Mi vergogno. E lo ritengo un onore."

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    28 Settembre, 2020
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Una parata di infelicità

"Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo". Questo incipit di Anna Karenina sembra il leitmotiv di Easter Parade, che ha pressappoco un incipit simile e altrettanto incisivo: "Né l'una né l'altra delle sorelle Grimes avrebbe avuto una vita felice, e a ripensarci si aveva l'impressione che i guai fossero cominciati con il divorzio dei loro genitori". Questo è un libro in cui Yates prende il matrimonio per i cappelli, lo tira giù dal suo piedistallo, e lo calpesta rabbiosamente coi piedi, imbrattandolo e rendendolo ridicolo, quasi come se fosse un avversario o un sacco di boxe sul quale sfogarsi. E se il matrimonio è un mito che viene sfatato nemmeno essere indipendenti, spiriti liberi, non è la soluzione. Come la giri e la rivolti si arriva all'unica soluzione del rebus della vita: solitudine.

Due sorelle, Sarah che sceglie il matrimonio e ci crede in lui fino in fondo costi quel che costi, costi persino la vita stessa e la propria felicità! Emily, che dopo un matrimonio frustrante e durato pochissimo sceglie l'indipendenza oppure è l'indipendenza che sceglie lei, comunque sia finisce per essere uno spirito libero, ma la libertà è pericolosa e l'uomo, il più delle volte non sa che farsene, è una cosa superiore alle sue capacità di gestione. Il matrimonio fallito dei loro genitori sembra quasi una stigmata di infelicità e di irrequietezza che le accompagneranno per tutta la vita, Yates ce la descrive quasi nella sua interezza coprendo un arco temporale di cinquant'anni, e chiude il cerchio in maniera beffarda - come se fosse l'ultimo colpo, quello KO al suo avversario - con l'inizio promettente del matrimonio della terza generazione, quello del figlio di Sarah, e la frase finale del libro: "Ti va di venire dentro a conoscere la famiglia?" risulta essere ironica, la parola "famiglia" perde tutte le confortanti caratteristiche che dovrebbe avere e diventa solo un ingannevole e vuoto vocabolo.

Questo è il secondo libro che leggo di Yates, dopo "Revolutionary Road" che personalmente ho trovato molto più bello. Non che questo non lo sia, ma il fatto che ricopre un arco temporale così vasto in 270 pagine, fa sì che si penetra solo nella superficie dei personaggi e della storia, anche se vengono comunque tutti ben descritti perché a Yates bastano pochi elementi a rendere vivido un personaggio, conquista più terreno nel finale che è ovviamente drammatico. Per il momento il mio Yates del cuore resta "Revolutionary Road", che trovo sia anche meglio scritto in termini di prosa. La lettura di "Easter Parade" completa alcuni concetti aperti in "Revolutionary Road" come ad esempio il viaggio in Europa come svolta personale. La nostra Emily avrà modo di girare in lungo e in largo l'Europa eppure la sua pace non riesce a trovare perché non è il luogo fisico dove ci si trova a far felice una persona ma ciò che essa sente dentro il cuore. Emily intraprende il viaggio con una persona che non ama quindi il viaggio è un fallimento per entrambi, stessa cosa che sarebbe accaduta ad April e Frank se fossero andati a Parigi. Il prossimo Yates che desidero leggere è "Undici solitudini", pare che assieme a questi due titoli rappresenti il trio più significativo e profondo della prosa di Yates.

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    25 Settembre, 2020
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Inquietarsi con classe

Questo è il secondo romanzo della Shirley Jackson che leggo, dopo "Abbiamo sempre vissuto nel castello" e mi è piaciuto molto, per essere una lettrice che non legge il genere horror/thriller. Non è stato neanche un caso se ho scelto lei per avvicinarmici al genere perché sapevo già che il suo punto forte non sono i fantasmi esterni che mi annoiano, ma quelli interiori. Carica anche di elementi biografici, la sua prosa è soave, a tratti poetica, e molto attenta ai dettagli. Il senso di inquietudine che lei crea si insinua piano piano, ambiguo, misterioso e senza mai uscire dalla sfera della normalità, non porta mai l'azione ad un punto di non ritorno che garantisce al lettore l'effettiva esistenza di un effetto paranormale o fantastico, non appena sfiora questo limite si tira subito indietro con una osservazione da parte dei personaggi che lascia intuire che fossero loro stessi dietro agli strani avvenimenti. Uno scavo psicologico quindi che rovista tra le paure interiori dei vari personaggi, tutti strani a modo loro e con disavventure alle spalle, la suggestione e il sogno gioca un ruolo importante e il paranormale avviene appunto proprio lì. Il titolo stesso, "L'incubo di Hill House" fa pensare ad un sogno e l'autrice inizia il libro già con la premessa che tutti hanno bisogno di sognare e tutti sogniamo, persino le cavallette perché "nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta normalità". In entrambi romanzi che ho letto, seppur ambigui ad una prima impressione, l'autrice lascia sempre tracce qua e là, prove per un lettore attento, che collegate riescono ad alzare nel finale il sipario di nebbia e risolvere il mistero. Trovo sia una grande dote d'intelligenza questo gioco con il lettore, attraverso una meravigliosa prosa scorrevole ma raffinata nella sua semplicità. Ha un grande dono anche a dare personalità alle cose, Hill House è un personaggio a tutti gli effetti, maestosamente descritta sia fisicamente che "interiormente", prende sembianze fisiche e psichiche umane. Leggerò altro di lei, una bella scoperta. 

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Romanzi autobiografici
 
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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    24 Settembre, 2020
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Sulla letteratura e sulla storia

"Scrivere per il cassetto della scrivania è una forma di paralisi. Come l'attore che non può "recitare" da solo nella sua stanza perché senza pubblico "non recita", fa giusto smorfie da pazzo, così lo scrittore non può scrivere unicamente per la posterità: ci vuole l'eco immediata, possibilmente del giorno stesso.(...) Scrivere per nessuno è una fatica come quella del muto che nello sforzo di voler parlare diventa viola."

Questo libro dal carattere autobiografico descrive il dopo guerra in Europa e soprattutto a Budapest, luogo dal quale alla fine Sandor Marai sarà costretto ad andarsene in esilio per poter continuare la sua vocazione, doveva partire per poter scrivere ma anche perché ormai, nella sua amata terra ungherese invasa da selvaggi russi non si riusciva più nemmeno a tacere, bisognava scrivere e non qualsiasi cosa ma solo verità che all'occupazione sovietica faceva comodo, il silenzio per uno scrittore non era ben visto e nemmeno tollerato. A tal proposito l'opera di Orwell "1984" è più che significativa per fare un paragone.
Scritto nel 1969 questo libro di memorie è ricco soprattutto del tema della letteratura. E' vero, ci sono le descrizioni delle macerie che la seconda guerra ha lasciato dietro di sé così come le macerie della classe borghese autentica, della quale Marai ne è sempre testimone nei suoi scritti, ma ciò che sembra preoccuparlo maggiormente è il destino della letteratura di qualità, quella che non offre svago e dalla quale il lettore coscienzioso chiede innanzitutto risposte. Questo tipo di letteratura la si sente in declino, sia in Ungheria ma anche in Europa: girando per Parigi non si respira più l'aria colta, curiosa e stimolante nei caffé letterari, chi saranno gli eredi di Proust? Chi porterà avanti l'arte del Libro? Le premesse sono scoraggianti: si inizia a scrivere tanto e a leggere tanto e così la letteratura sta diventando un bene comune, di massa, ma che qualitativamente parlando è mediocre.

"E sullo sfondo, in proporzioni mitiche, si allungava l'ombra di Proust, gorgogliava quella specie di inferno potente, spaventoso e meraviglioso i cui fumi sulfurei avevano ricoperto anche gli orrori sociali del secolo - l'opera di Proust: la conclusione e il compimento di tutto quello che la Grande Generazione, la letteratura francese aveva creato in questo secolo. Ma pareva che il Libro non fosse più quel "luogo credibile" che fino a poco tempo prima aveva avuto forza e parole decisive. E in ciò vi era qualcosa di pauroso.(...) il Libro era mutato nella sua essenza. I libri si moltiplicavano in maniera abnorme (come gli uomini che li leggevano e gli scrittori che li scrivevano) e il libro di massa per l'uomo di massa era diventato un mezzo sussidiario, come le vitamine, la radio, l'automobile. Tutti possedevano libri e sempre meno erano coloro che dai libri si aspettavano una risposta: aspettavano informazioni, o divertimento, o sorpresa, scandalo o vicende sensazionali, ma in pochi aspettavano la Risposta."

Una civiltà in transito, che attraverso il passaggio all'immagine, alla fotografia, si estende come concetto anche alla letteratura: non bisogna più capire un libro, ma "guardare e basta, a bocca aperta, senza sforzo intellettuale". Un altro autore che si è reso conto di questo cambio di marcia è Thomas Bernhard, anche lui nei suoi scritti critica aspramente il mondo letterario odierno e nel libro "Estinzione" massacra letteralmente l'arte della fotografia che a sua avviso non farà altro che rimbecillire sempre di più la popolazione, sue testuali parole.

Marai si domanda anche cosa porterà nel tempo in Europa l'arrivo del soldato russo triviale, tendenzialmente incolto e istruito nell'ideologia comunista che è persino peggiore di quello nazionalista in quanto non si limita all'annientamento fisico ma anche a quello della propria coscienza. I russi che occupano Budapest sono soggetto di intensa osservazione da parte dell'autore, un'osservazione spoglia di pregiudizio e carica della voglia di capirli, tuttavia, sembrano essere persone bizzarre, quasi dei "scappati di casa" che guardano con curiosità il mondo occidentale e alcuni di essi sembrano davvero dei personaggi dostoevskiani: ad una esagerata gentilezza si unisce una impressionante mascalzonaggine.

Un libro davvero meraviglioso e scritto con uno stile limpido, colto e che mantiene vivo il ritmo di lettura fino alle ultime pagine, chiudendo con la suggestiva esclamazione di Cristoforo Colombo "Terra, terra...!" quando scoprì l'America, esclamazione che l'autore fa propria nel desiderio di approdare a una Terra libera nella quale può dare liberamente voce alla sua arte letteraria.

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    23 Settembre, 2020
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Orbitor

Un libro che ha molto influenzato e scosso Mircea Cartarescu da bambino è stato "Il Conte di Montecristo" di Alexandre Dumas. Faceva ancora fatica a leggere eppure si stava già lanciando a gamba tesa nel meraviglioso mondo della letteratura. Edmond Dantes, personaggio ordinario, viene rinchiuso nella crisalide del Castello d'If, laddove acquista la conoscenza ma anche il potere attraverso la ricchezza, e torna nel mondo completamente cambiato, metafora della metamorfosi completa del bruco in farfalla. La metamorfosi rappresenta il fil rouge anche in "Abbacinante. Ala sinistra", primo volume del trittico "Abbacinante", imponente cattedrale letteraria. Se Dumas ha veicolato il messaggio attraverso un romanzo popolare, per tutti e con le caratteristiche dell'epoca, Cartarescu lo veicola attraverso un raffinato romanzo contemporaneo, quasi illeggibile a detta dell'autore stesso, uscito nel 1996. 

Sono pochissimi i libri di questa fattura, richiedono genio, ispirazione, il lavoro e le competenze di un buon scrittore non bastano per la loro creazione. Sono libri che si scrivono quasi da sé, come dice Pessoa in "il libro dell'inquietudine" - non è lo scrittore a scrivere la frase ma è la frase a scrivere lo scrittore. Questo lampo di genio, questo scrittore torturato dalla propria ispirazione, chino sulla sua scrivania che scrive come se fosse in trance io l'ho trovato in questo magnifico libro. Inizia con una narrazione in prima persona, quella di Mircea, uomo adulto, che ricorda con nostalgia i tempi della sua infanzia in un paese delle meraviglie. Ma poi anche la voce narrante subisce metamorfosi e improvvisamente prende voce un altro personaggio, per poi ritornare nuovamente a Mircea. "Descrivere le cose che furono non significa descrivere il passato ma la nebbia che da esso ci separa", una nebbia in cui realtà, sogno e visione si intrecciano e si confondono ma insieme creano una parte inscindibile che rappresenta la vita umana. Quindi va a narrare non solo la sua infanzia in quanto realtà ma anche i suoi sogni e le sue visioni.

L'ambientazione del presente è nettamente dostoevskiana con tinte  proustiane: Mircea, scrittore adulto, abita in un monolocale dotato di un piccolo letto, un tavolo, una sedia e una finestra su Bucarest (sembra un Rakolnikov nella sua Pietroburgo), quasi isolato dal mondo, rintanato nel suo alloggio come un "ragno nella sua tana", monopolizzando la sua attenzione sulla stesura di questo romanzo-mondo nel quale cerca di mettere in "disordine" i suoi pensieri, è quasi una costrizione, è messo con la spalle al muro dal ricordo perché "nessuna maschera o guanto chirurgico può proteggere dall'infezione che il ricordo emana", e da qui la sfumatura proustiana. Ma se in Proust il ricordo è dolce, per Cartarescu è amaro, è doloroso, è pregno di necrofilia: nel ricordare rovistiamo come un medico legale negli organi liquefatti dei nostri "io" passati e quindi morti nel tempo, ma il ricordo arriva, incontrollabile, e tu devi accettarlo e servirlo. Attraverso il ricordo, però, al pari di Proust, anche Cartarescu vuole andare laddove nessuno ci è andato, vuole abbattere la barriera spazio-temporale che ci inchioda al presente, e se Proust era riuscito ad assaporare l'eternità rivivendo intensamente momenti passati attraverso il ricordo, Cartarescu alza la posta in gioco e desidera abbattere la barriera spazio-tempo-cervello-sesso, ossia rivivere l'attimo prima della sua stessa creazione, dentro l'utero materno. A questo proposito devo confessare che la parte finale ha dell'incredibile per un lettore, è un mix di immaginazione fantastica, terminologia medica e carica erotica, si crea una tensione che esplode nella penetrazione dell'ovulo da parte dello spermatozoo e il narratore riconosce le proprie sembianze nella piccola cellula scissa in due: due gemelli, lui, Mircea, e il fratello Victor, che morì in tenera età. Il tutto è descritto con ampio utilizzo di metafore e visioni fantastiche. Un altro libro in cui ho assistito alla descrizione di come la vita nasce è "La montagna incantata" di Thomas Mann, lì c'è un capitolo in cui Hans Castorp, che stava studiando biologia e anatomia nel suo soggiorno al sanatorio, ha questo sogno-visione in cui la vita nasce! E' un passo densissimo, difficile, unico ma meraviglioso e lo stesso riesce a creare Cartarescu nell'abbacinante finale, che si chiude con la propria nascita cellulare, che prende forma e spirito -questo settimo chackra, la "sfera di diamante che gli bruciava sopra la testa", come lo Spirito Santo che Gesù soffia sulle teste degli apostoli. 

Il mondo che Cartarescu crea è molto difficile da descrivere, è pieno di piccole storie sparse qua e là tra un ricordo personale e altro ma tutto viene poi ripreso e i cerchi si chiudono proprio perché la vita di un essere comprende non solo i ricordi di fatti accaduti ma i sogni ricorrenti, le cose che sogniamo ad occhi aperti, le storie delle altre persone che conosciamo, i libri letti e i quadri ammirati, insomma, tutto ha importanza e si unisce a 360°. Come Musil dice in 'L'uomo senza qualità" che l'utopia è solo una delle tante possibilità, qui Cartarescu dice che l'irreale è solo una possibilità di ciò che potrebbe accadere e quindi una possibilità del reale. Nonostante ciò, nonostante il miscuglio realtà- sogno- immaginazione, l'autore riesce a descrivere un caos ordinato, un labirinto nel quale non abbandona mai il lettore ma lo prende per mano, guidandolo verso la magnifica via d'uscita. "Tutto cospira nel convincerti che non esiste via d'uscita ed effettivamente essa non esiste finché non la cerchi. E in un certo modo la ricerca stessa è la via d'uscita, come se lo spazio percorso con la speranza e la fede si solidificasse dietro di te, prendendo man mano le sembianze di un tunnel attraverso il quale puoi uscire, un tunnel tuo personale, aperto solo per te, come un poro che si apre improvvisamente nella pelle di petalo di Dio".

In questo primo libro della trilogia, Cartarescu sente la sua rivelazione artistica, come Proust senti la sua, sobbalzato nella carrozza sugli Champs-Élysées mentre si recava ad una festa mondana. Nel caso di Cartarescu invece si presenta in sogno, attraverso un inumano urlo abbacinante, giallo, di fuoco, che ricorre spesso nei suoi sogni fino ad assumere proporzioni gigantesche, ma come si fa a comprenderla? ad assimilare questo lampo geniale, bruciante, abbacinante?

"In questo mondo opaco, denso, letale come un cuscino che qualcuno ti preme sul volto per soffocarti mentre ti schiaccia il petto con le ginocchia per impedirti senza alcuna pietà di muoverti, la rivelazione è possibile.(...) Ma quanto puoi afferrare da essa se, scivolando lungo il tunnel, ad una velocità terribile, ti senti gli occhi carbonizzati e le orecchie raggrinzite dal fuoco, la lingua liquefatta e bollente, la pelle come la scorza degli alberi, la mucosa nasale evaporata dal calore?"

Eppure, ci prova a ricomporre la sua rivelazione, con carboni ardenti e cenere perché solo Lui, Lo Scrittore, è capace di "leggere la povera storia della vita umana" e la legge una sola volta, mentre la sta scrivendo. 
Per quanto povero è l'ambiente dostoevskiano nel quale l'opera prende forma, il mondo che lui descrive è parimenti ricco, colorato, pieno di luci abbaglianti e ombre tenebrose. Descrive una fantastica Bucarest, che prende vita sotto i suoi occhi, descrive la meraviglia del luoghi di campagna con i loro contadini, gli usi e i costumi, la cucina, i profumi, descrive l'apocalittica guerra tra angeli e demoni che sembra un Giudizio Universale di Giotto, descrive frammenti di guerra e piccoli accenni politici, storie bizzarre e fantastiche e molto altro, eppure tutto è ben incastrato. C'è molto misticismo, farfalle di tutti colori e tutte le dimensioni ma anche ragni, con pance rosse e rotonde che tessono la loro rete con la propria saliva.

Un grande pregio è anche il fatto che, seppur parte di una trilogia, a me la lettura di questo primo volume ha dato il senso di completezza anche nella sua singolarità, un vantaggio per quei lettori che magari non sono pronti ad affrontare una trilogia di corposa dimensione. Se questo primo volume piacerà al lettore, via libra agli altri due, se per qualche ragione dovesse invece trovare difficile o semplicemente non in linea con i propri gusti il lettore si può fermare, avendo comunque letto un libro con un capo e una coda e un messaggio coerente ben trasmesso. Personalmente andrò avanti con il secondo volume "Abbacinante. Il Corpo". E' un'esperienza di lettura unica e indimenticabile.

Piccola nota: le citazioni presenti in questa mia opinione sono tradotte da me e non estratte dalla edizione italiana Voland in quanto l'ho letto in lingua originale.

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Proust, Marquez, Lezama-Lima, Kafka, Pynchon
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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    17 Settembre, 2020
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Metterò la morte nel loro cibo e li guarderò morir

Una ragazzina che sogna un cavallo alato che la porterà sulla Luna, dove la sorella pianterà il suo orticello e dove avranno la loro casetta al riparo di tutti i mali. Una ragazzina che viene fischiata e bullizzata dagli abitanti del paese e che per sopportare la tortura di andare a fare le commissioni si deve inventare dei giochi immaginari. Fragile, indifesa, timida, che muove velocemente i piedini per essere presto di ritorno a casa. Ogni tanto canticchia e per la maggior parte del tempo si immagina un mondo fantastico in cui essere felice. Che tenera immagine, vero? La stessa ragazzina però è appassionata di Riccardo cuor di leone e di un fungo velenoso. Sogna ad occhi aperti che le persone che incontra cadano morte stecchite a terra e che lei calpesti i loro cadaveri e non lesina maldicenze di ogni genere a qualsiasi essere estraneo:

"Si bruceranno la lingua, pensai, come se mangiassero fuoco. Ogni volta che quelle parole gli usciranno di bocca sentiranno le fiamme in gola, e nella pancia un tormento più rovente di mille incendi."

Una ragazzina che inizialmente sembra essere la vittima di tutti, persino di sua sorella che viene descritta con tinte ambigue, tant'è che il lettore proverà subito pena per lei e si schiererà dalla sua parte. Ma l'empatia è breve, seppur il personaggio non risulti del tutto antipatico in quanto presenta un ovvio quadro clinico patologico essendo affetta da disturbi ossessivi compulsivi, è chiaramente una ragazza bisognosa di aiuto ma è anche la fonte di parecchi mali. Il male è insito però nella maggior parte dei personaggi anche se, alcuni cercano di redimere. 

Due ragazze, un gatto e un castello andato in rovina, sembra quasi una favola e a modo suo lo è perché il finale è decisamente "e vissero felici e contenti", tant'è che le parole finali sono "siamo cosi' felici", ma se fosse una sana e oggettiva felicità sarebbe per l'appunto una favola e non un racconto inquietante che in realtà è. Lo stile dell'autrice è pulitissimo e curato nei minimi particolari, dai dialoghi alle descrizioni che sono sempre ben calibrate con luci e ombre e nonostante descrive una realtà verosimile e quindi senza fare appello a zombie, fantasmi o pareti insanguinate, riesce a far serpeggiare un filo di terrore durante tutta la narrazione. Si ha terrore non del paranormale ma della gente, della persona a te cara, di una timida ragazzina indifesa. Non esiste alcun male che sia superiore alla realtà e Shirley Jackson descrive proprio questo orrore terreno. Ho molto apprezzato anche l'atmosfera gotica che l'autrice crea e anche il fatto che i fatti vengono chiariti lasciando poco spazio al dubbio nel lettore, confonde e gioca con le idee ma verso la fine i nodi vengono al pettine. E' stata la prima volta che ho letto qualcosa di Shirley Jackson e sicuramente leggerò altro. Trovo la sua scrittura molto raffinata, appagante e stimolante.

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    14 Settembre, 2020
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Vorrei ma non posso

Dopo tante opinioni positive lette su questo lavoro di Emmanuel Carrère, finalmente mi decido di provare anche io la prosa di questo autore francese contemporaneo. Fortunatamente è stato un incontro breve e probabilmente l'unico.
Una cosa che mi infastidisce in uno scrittore è la sua presunzione dichiarata, il suo narcisismo e quando esso è anche immotivato e i nobili intenti vengono meno, allora il fastidio si trasforma in una pessima opinione. E' questo che mi è capitato con Carrère. Da lettore ti senti un po' anche preso in giro. Dopo una bella introduzione in cui l'autore, dichiara senza mezzi termini che il suo intento non è quello di analizzare i fatti che hanno portato alla tragedia familiare in cui Jean-Claude Romand stermina la sua famiglia, quello essendo il compito delle indagini e che usciranno inevitabilmente fuori, ma il suo vero intento, da scrittore, è quello di inseguire i pensieri dell'assassino durante questo periodo, di calarsi nella sua mente mentre errava in questa sua vita di menzogne e inseguilo nella sua solitudine, contando anche (e soprattutto) sull'aiuto di Romand stesso, il lettore si aspetta una determinata piega del discorso. Il risultato è piuttosto deludente: il libro è un mero riepilogo dei fatti, un assistere al suo processo in aula e dove lo spazio dedicato all'introspezione è totalmente assente, sostituito solo da domande sciocche, da bar, che non portano a nulla, nemmeno alla riflessione. A questo punto mi chiedo: perché questo libro? Che senso ha visto che l'autore manca l'ambizioso intento? Probabilmente ha giovato solo a Jean-Claude Romand e alle tasche di Carrère, tant'è che Catherine Erhel, giornalista, gli da a Emmanuel Carrère dell'"imbecille" (sue testuali parole) per scrivere una storia simile:
"Chissà com'è contento che tu scriva un libro su di lui. Non ha sognato altro per tutta la vita. In fondo ha fatto bene a uccidere la sua famiglia, finalmente tutti i suoi desideri si realizzano. La gente parla di lui, appare in televisione, uscirà la sua biografia, e per la pratica di canonizzazione è sulla buona strada. E' quel che si dice venirne fuori alla grande. Percorso netto. Tanto di cappello."

Quindi non riuscendo a capire il perché e nemmeno l'utilità di questo libro né a livello letterale in quanto non ha uno stile particolare e la prosa è semplice, e nemmeno a livello psicologico del personaggio perché privo di introspezione, nel complesso per me è stata una esperienza deludente. Probabilmente nel suo narcisismo avrà voluto descrivere un Humbert Humbert o un Raskolnikov ma il suo Avversario è solo un lungo articolo di cronaca nera.

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    09 Settembre, 2020
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Si ma con molte riserve

Archiviato, ed in modo abbastanza deludente. Era un po’ che me lo trascinavo dietro e non vi nascondo che alcune parti finali li ho semplicemente sfogliate e non lette: tipo i sogni di Don G. e alcuni suoi ricordi, elenchi di droghe e le loro denominazioni chimiche e relative formule. So che tutti voi reputate questo libro un capolavoro, per molti versi lo è. Descrive la depressione e l’indipendenza in un modo eccezionale, puro, viste attraverso i proprio occhi; parla della dipendenza dell’intrattenimento di oggi, tema sempre più preoccupante; suicidio; ci sono pagine davvero belle sullo sport, in questo caso il tennis, che viene descritto spesso in modo molto poetico evidenziando quindi più lo sport-arte, non nascondendo però i duri sacrifici che ci sono dietro. Per non parlare dello stile particolare di Wallace, che arriva persino ad usare disegni geometrici, che inizialmente ti prende perché bello ed intelligente, spontaneo, innovativo per certi versi tipo “24/7/365” anziché “continuamente” e tante altri modi di dire scritti in maniera originale.
Però, per me c’è un grosso PERO’: se una persona mi dovesse chiedere se il libro mi è piaciuto, nel suo complesso, nella sua interezza, non ho dubbi: no! E assolutamente non lo rileggerei. Perché è bello sì, ci sono pagine e pagine incantevoli, pagine vere, crudelmente vere e tristi, con una narrazione che scorre velocemente come quelle immagini presenti sulle cartucce, che ti prende e ti trascina come un’onda potente PERO’, ci sono anche altrettanto tante pagine per me assurde, piene di dettagli insignificanti, di note a volte altrettanto inutili, pagine e pagine in cui gli stessi concetti vengono continuamente ripetuti, soprattutto per quanto riguarda la dipendenza, come un pensiero compulsivo scritto, magari era voluta come cosa per dare maggior enfasi all’idea descritta ma dopo un po’, io lettore mi stanco tremendamente a stare dietro a tutto ciò e non credo di essere disposto a sentire tutte queste paranoie solo per godermi quei frammenti davvero interessanti, farò a meno! Mi comprerò quella edizione Einaudi che contiene una sorta di “best-of” dell’intera opera dell’autore. E’ un libro che mi ha fisicamente stancato, e credo fortemente che sarebbero bastate metà di quelle 12xy pagine per trasmettere la stessa idea, magari in un modo più forte e concreto al lettore, senza allungarsi così tanto e “senza profitto”. Credo che il suo ultimo libro incompiuto, “Il re pallido” sarebbe stata un’opera colossale se fosse stata finita, in quantità magari avrebbe persino superata la Recherche, ma in quanto al contenuto, credo che sarebbe stata davvero ossessiva, oserei dire tossica per un lettore.
So che in tantissimi non sarete d’accordo con me, ci sta. Ma ci sta anche che io non sia d’accordo con voi. Con Wallace invece, continuerò ad avere un rapporto amore-odio, a rispettarlo per la sua intelligenza e grandezza che non nego, ma anche a rimproverarli tante altre cose. Sicuramente, tra alti e bassi, la nostra conoscenza proseguirà.

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    31 Agosto, 2020
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Tre racconti

Pubblicato per la prima volta nel 1971 e di recente pubblicazione in Italia grazie alla casa editrice Adelphi, questo libro incorpora tre racconti incentrati sul tema della solitudine estrema e dell'oppressione della natura e dell'ambiente circoscritto che impedisce lo sviluppo delle proprie capacità. Racconti pregni anche della disperazione di chi comprende il nonsenso della vita e più si cerca di sottrarvisi più la disperazione aumenta fino al completo annientamento.

"Midland a Stilfs", il primo racconto che da anche il titolo alla raccolta, presenta questo paesino di alta montagna e i suoi abitanti che vengono letteralmente sconvolti tutte le volte che un estraneo va lì in visita, ce ne sono pochi in verità che si avventurano dalle parti di Stilfs perché la natura non è delle più accoglienti, però la volta in cui ciò succede rappresenta un fatto straordinario per gli abitanti di Stilfs perché se da un lato sono abituati nel proprio isolamento e radicati alle loro routine dall'altro muoiono dalla voglia di una visita e di parlare con una persona che arriva "dal mondo" piena di idee nuove, fresche, diverse dalle loro. Questo racconto mi ha ricordato moltissimo "Le notti bianche" di Dostoevskij e in particolare la descrizione del sognatore che vive nella solitudine della propria stanza. Il secondo racconto, "Il mantello di Loden" ha un lieve profumo del capotto russo di Gogol, il terzo invece è quello che mi è piaciuto meno.

Personalmente amo molto Bernhard ma non sono un'amante dei racconti, tranne rare eccezioni, e in questa raccolta non mi ha colpita particolarmente. Ho riconosciuto i suoi temi cari, così come anche lo stile, tuttavia di Bernhard preferisco i romanzi perché trovo che in questi ha lo spazio sufficiente a dar sfoggio alle sue danze e coinvolgere il lettore. Già le sue trame sono scarne - infatti punta molto sui concetti spesso espressi attraverso ripetizioni e variazioni che trascinano - avendo inoltre uno spazio limitato e non essendo un autore capace di descrivere un'immagine istantanea, un'emozione, ma cerca sempre di abbracciare un'insieme, il risultato finale per me non è stato soddisfacente. Seppur letto con immenso piacere, non mi ha detto nulla in più rispetto alle opere già lette.

"Ma avanti, avanti. Sempre feriti e offesi, ovunque andassimo. Chiedo, nessuno risponde. Imparato lo strumento sbagliato, imparata la combinazione di passi sbagliata, imparata una coreografia completamente sbagliata."

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Bernhard oppure amante dei racconti
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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    25 Agosto, 2020
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Un mondo di sensazioni

"Vivere è morire, perché non abbiamo un giorno in più nella nostra vita senza avere, al contempo, un giorno in meno. Popoliamo i sogni, siamo ombre che errano attraverso foreste impossibili i cui alberi sono case, abitudini, idee, ideali e filosofie. E non trovare mai Dio, non sapere addirittura se Dio esiste! Passare da un mondo all'altro, da un'incarnazione all'altra sempre nell'illusione che lusinga, sempre nell'errore che conforta. Mai la verità, mai la quiete! Mai l'unione con Dio! Mai la pace vera, ma sempre un brandello di pace, sempre un desiderio di essa!"

Questa meraviglia di libro è come una pregiata bottiglia di rum invecchiato, lo si legge a sorsi, in quei momenti solenni, importanti per noi, e ci ubriaca con la sua poesia di altissimo livello artistico e filosofico, prosa densa, ambrata, che prima di trovarsi davanti ai nostri occhi è maturata dentro il poeta ma anche nel tempo e che possiamo apprezzare solo ed esclusivamente in determinate occasioni. Sono quelle volte in cui ci sentiamo fuori dal coro, malinconici, solitari e in cui tendiamo a sfogliare il passato facendo una chiacchierata intima con noi stessi, che la lettura di questo libro da il meglio di sé e parla letteralmente al lettore, in quanto diventa un dialogo - da un lato la poesia di Pessoa dall'altro la nostra esistenza che viene continuamente agganciata come all'amo dai suoi argomenti che risuonano dentro di noi con l'eco delle nostre esperienze. Parlo di poesia ma in realtà è un libro in prosa, suddiviso in frammenti più o meno brevi, come se fosse un diario di sensazioni e di osservazioni, del resto considerato il mio paragone iniziale, un libro del genere non poteva avere struttura diversa per poter essere fruibile al massimo. Certo, si può anche finire la bottiglia d'un fiato in una notte insonne ed angosciosa, ma probabilmente al mattino saremmo sbronzi e ricorderemo ben poco della nottata. Il rum non è veleno, allevia l'esistenza e migliora l'umore, non la uccide, ecco perché considero propizio questo libro in quei momenti no, perché nella sua malinconia e pessimismo si trova sempre coraggio e conforto, un balsamo che ammorbidisce le asperità dell'inquietudine, un inno alla bellezza e alla normalità della tristezza che fa parte di noi. Siamo esseri superiori ma nello stesso tempo molto limitati e frustrati perché una prodigiosa mente pensante e piena di ambizioni infinite mal si sposa con le limitazioni di un corpo materiale destinato a dissolversi nel tempo e che contrario dei nostri impalpabili pensieri esso non può tornare indietro, non può sostare ma corre verso una sconosciuta ma certa fine. Probabilmente la tragedia più grande dell'uomo. Pessoa ama la vita, nonostante tutta l'angoscia che prova, aborra il suicidio perché ama la vita ma la stessa esistenza gli grava e l'arma che ha a disposizione per alleggerirne il peso è scrivere: come tanti altri grande scrittori sente la necessità fisica di tirare fuori i pensieri e liberarli dalla prigione del corpo umano, renderli eterni e indipendenti.

"Con quale vigore della mia anima solitaria ho scritto le mie esiliate pagine, vivendo sillaba per sillaba la falsa magia di ciò che credevo di scrivere e non di ciò che effettivamente stavo scrivendo! Con quale incantesimo di un'ironica stregoneria ho creduto di essere il poeta della mia prosa, nell'aureo momento in cui essa nasceva in me, più veloce della penna, come una riparazione fallace agli insulti della vita! E alla fine, oggi, rileggendo, vedo i miei pupazzi che si rompono, vedo la paglia che esce dai loro strappi. Ed essi si svuotano senza essere esistiti..."

Oltre alle profonde descrizioni introspettive c'è anche una particolare cura e dedizione verso le descrizioni di Lisbona e del clima - nello specifico predomina la pioggia che fa da colonna sonora ai suoi pensieri, tutte descrizioni altamente poetiche e suggestive. Libro da maneggiare con cura.

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    23 Luglio, 2020
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Drammi silenziosi

(Contiene SPOILER)

Cosa si può chiedere di più da un libro come "Revolutionary Road"? Nulla, è semplicemente perfetto così. Avendo già visto anni fa il famoso film con Kate Winslet e Leonardo di Caprio - tra l'altro meravigliosa interpretazione - mi aveva lasciato l'erroneo pregiudizio di trovare il libro abbastanza confinato e schiacciato sotto la cupola della vita domestica soggiogata dal conformismo della società americana oltre che dai soliti problemi coniugali quali incomprensioni caratteriali e via dicendo. E invece no, perché mi sono ritrovata tra le mani una lettura di grande spessore e che va ad abbracciare molte più tematiche e lo fa attraverso numerosi frammenti descrittivi in cui fa dei veri e propri approfondimenti con una penna sapiente e chiara.

April e Frank, I Wheeler, sono i protagonisti di questo dramma ma anche le altre due coppie descritte, i Givings e i Chambell, che ruotano intorno hanno immancabilmente i loro problemi, e non ho trovato nessun personaggio positivo ma nemmeno negativo. Tutti hanno il proprio dramma interiore e che li schiaccia, ma tutti cercano il miglior modo per mascherarlo, per apparire perfetti e per convincere tutti, inclusi se stessi, che va tutto bene.

Principalmente il dramma è di tipo esistenziale, l'insoddisfazione per ciò che si fa e per chi si è diventati e a questo problema April e Frank, intendono reagire con il trasferimento definitivo in Europa, a Parigi. Una nuova vita all'insegna dell'avventura, circondati da un mondo acculturato in cui possono dar sfoggio a discorsi intelligenti, frequentare teatri e arte, una vita bohémien insomma. April e Frank sono decisamente intelligenti e con aspirazioni alte e con il desiderio di sfuggire al conformismo piatto e assente di stimoli. Mi ha sorpresa molto la facilità con la quale sono disposti ad andarsene via dall'America, come se non avessero alcun legame affettivo o culturale e vedessero L'Europa come un Paradiso e la loro casa ideale. In effetti, lo è, il vecchio buon continente, pregno di storia e cultura e tutti gli europei che sono dovuti scappare in America sono appunto scappati perché magari inseguiti da guerre, rivoluzioni, carestie etc. ma tutti hanno sofferto il distacco dal proprio paese e dalla propria cultura. Qui Yates credo che ha voluto criticare aspramente L'America, come se fosse una coppia distratta di genitori, immersa nei propri interessi, e che ha cresciuto il suo popolo viziandolo materialmente, dandoli tutte le caramelle che ha voluto e lasciandolo fino tardi davanti alla tv, disinteressandosi del suo intimo bisogno e dei suoi valori interiori. Proprio come i figli dei personaggi del libro: vengono allevati in un ambiente protetto, una bella casa accogliente, pasti regolari, ma lasciati a sé stessi, ignorati, addirittura disprezzati dai propri genitori (vedi Sharp Chambell, la signora Givings e i Wheeler stessi - tant'è che il libro finisce con un procurato aborto di April, che paga con la propria vita). Che amore o attaccamento potranno mai avere dei figli cresciuti cosi? Semmai delle gravi mancanze che cercheranno di colmare alla cieca, magari con un'avventura a Parigi?! Mancanze che i personaggi non riescono a capire come effettivamente colmare e in che modo, perché l'importante non è "il dove" realizzarsi ma "il come", e finché non si riesce a conoscere i propri intimi bisogni, quelli autentici non si saprà mai "il come" e ancor di più sarà indifferente "il dove". Bellissimo il frammento verso la fine del libro in cui April fa marcia indietro e analizza con lucida introspezione chi è e come ci è arrivata lì, va a identificare il nocciolo del problema, il suono impercettibile che ha scatenato la valanga ormai incontenibile e prende la risoluzione finale, provvedendo da sola al suo autentico bisogno perché "se si vuol fare qualcosa di assolutamente onesto, qualcosa di vero, alla fine si scopre sempre che è una cosa che va fatta da soli."

Un'altro tema che mi è rimasto impresso è quella del tempo, analizzato in più occasioni e sotto diversi punti di vista: sia da come viene suddiviso che dal suo scorrere e della sua relatività, infatti mi ha ricordato due bei classici: "La montagna incantata" e "La Recherche", tematica molto difficile e delicata e trattata all'altezza dei due classici citati:

""Dunque, vediamo un po'", dice l'uomo anziano, spostando la testa canuta per strizzare e battere le palpebre ai raggi del sole mentre tenta di ricostruire un ricordo confuso, "la mia prima moglie se ne è andata nella primavera del...", e per un attimo è sfiorato dal terrore. La primavera di che anno? Passato? Futuro? Cosa è mai la primavera se non un'insensata ricomposizione di cellule sulla crosta della terra rotante che fluttua nell'infinito circuito del suo sole?E cosa è mai il sole se non una tra un miliardo di insensibili stelle che vagano senza meta per l'eternità, nel nulla? L'infinito! Ma subito le valvole e gli interruttori misericordiosi del suo cervello riprendono il loro stanco lavoro, e: "La primavera del millenovecentosei ", riesce a dire. "Oppure no, un momento..." e il sangue torna a gelarglisi mentre le galassie orbitano. "Un momento! Millenovecento e... quattro". Ora ne è certo, e un flusso di benessere ristoratore l'induce a battersi senza volerlo una mano sulla coscia in un gesto di soddisfazione. Può darsi che abbia dimenticato la forma del sorriso della prima moglie e il suono della sua voce quando piangeva, ma imponendo una serie di numeri alla sua morte egli ha imposto coerenza alla propria vita in assoluto. Ora tutti gli altri anni possono inserirsi docilmente al loro posto, ciascuno recando un suo ordinato contributo all'insieme."

La prosa è sublime, curata nei minimi dettagli e ben bilanciata tra i frammenti descrittivi e i dialoghi intelligenti e molto affiatati, carichi di intensità emotiva. Fa vedere tutto: l'ambientazione, la natura, i gesti nascosti, le esitazioni, i pensieri più intimi, l'ipocrisia e infine i suoni, che Yates spegne meravigliosamente nel finale. Decisamente il libro più bello che ho letto quest'anno e che ha monopolizzato la mia attenzione durante la lettura.

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    20 Luglio, 2020
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La donna nelle sue imperfezioni

Questo libro mi è stato regalato da una signora, non appena ha saputo che amavo leggere e non smetterò mai di ringraziarla. Se non l'avesse fatto probabilmente non lo avrei mai acquistato di mia iniziativa, anche se avessi letto la recensione più invitante di questo mondo, uno perché non amo i racconti, due perché leggo principalmente autori maschi e terzo perché non vado matta dalla letteratura americana. A caval donato non si guarda in bocca e quindi iniziai la lettura incuriosita del "perché" di quella scelta e non un altro libro. Mi si è aperto un mondo, letteralmente. Già dalle prime righe Alice Munro ha in amo il suo lettore e non con l'esca di una trama a colpi di scena anzi i racconti non presentano nulla di particolare, ma hanno una intensa carica introspettiva e crea ambienti sublimi attraverso un puzzle, che man mano nella lettura del racconto si completa. Indica al lettore alcuni pezzi sparsi per poi completare il quadro man mano che si va avanti. 

Le protagoniste sono le donne e le situazioni descritte portano il lettore nel mondo femminile che, detta così potrebbe annoiare o pensare al femminismo o al vittimismo delle donne in una società discriminante. Nulla del genere! Il mondo femminile di Munro è di una delicatezza ed eleganza rare e nel quale le emozioni sono descritte in modo vivido, più che analizzate vengono fatte vedere nella loro nudità. Quando si sa ciò che si vuole trasmettere, servono poche parole ma giuste: è così la sua scrittura. Le sue donne sono contemporanee, che lottano per i propri sogni o si compiacciono, che si perdonano o perdonano troppo agli altri, che sbagliano, si sacrificano e che hanno desideri intimi. Capisco anche per quale motivo ha vinto il Nobel perché oltre alla sostanza è incantevole anche nella prosa e nella forma de racconto che si discosta un po' dal tradizionale, o quanto meno da quelli che mi è capitato di leggere. Più che racconti, i suoi sembrano mini- romanzi perché non si limita solo a fare un'istantanea ma crea un vero e proprio album di una vita. Attraverso i ricordi riesce ad abbracciare l'intera esistenza del personaggio e quasi sempre si arriva a una sorta di risoluzione nel finale. Il mio racconto preferito è "Ortiche" e quello che mi è piaciuto meno è "Mobili di famiglia" però è veramente difficile fare una scelta perché ognuno dei nove racconti ha il suo profumo inebriante.

E' scontato dire che sicuramente leggerò altro di lei e, ovviamente, a mia volta l'ho regalato a una mia amica. Leggere la Munro per me è stata una esperienza, una chiacchierata sincera da donna a donna, senza alcun tipo di ipocrisie o sdolcinatezze. Un grande talento che approfondirò.

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A tutti ma soprattutto alle donne.
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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    13 Luglio, 2020
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http://www.?

Roberto Bolano, affermò circa vent'anni fa che "la letteratura del XXI secolo apparterrà a Neuman e a pochi suoi fratelli di sangue". Ebbene non so se questa sua profezia si avverrà, ma posso senza dubbio affermare che in Neuman c'è molta sostanza e la lettura di "La vita alla finestra" ha superato le mie aspettative.
Autore argentino ma radicato in terra spagnola, pupillo di Roberto Bolano purtroppo solo per qualche anno dovuto alla prematura scomparsa del grande, descrive in questo libro il disagio dei nostri tempi. Net, soprannome derivante da "internet", descrive attraverso le sue mail - le lettere del duemila - la sua vita e quella della sua famiglia, a Marina una misteriosa ragazza con la quale si presume abbia avuto una storia ma che non risponde mai, tant'è che a un certo punto il lettore nutrirà qualche dubbio sulla sua reale esistenza nella vita di Net. Sembra più un personaggio costruito, un'amica immaginaria e, perché no, il lettore stesso, dato che a conti fatti le lettere le leggerà lui. ("Dove sei Marina? E' come se non fossi esistita. O eri già solo un personaggio dei ricordi, un miraggio che nomino per potergli parlare?" - "ora, mentre decido cosa raccontarti, mi accorgo che sai già tutto (...) perché sei dietro alle mie parole."). Un libro "epistolare" in cui le lettere vengono sostituite dalle mail, la carta bianca dalla finestra, l'inchiostro dalla tastiera e il motivo principale di queste confessioni è, il mal di vivere, la scrittura come rimedio ("Scrivere è un metodo per combattere gli incubi, ma non per vincere l'insonnia. Anzi: soprattutto di notte, chi scrive comprende di essere una sentinella. Che deve stare all'erta, come le sue parole e, al primo barlume di luce, correre a nominarla.") perché "forse sentiamo il bisogno di concepire sullo schermo la perfezione narrativa che manca alla nostra vita."
Una famiglia imperfetta, con screzi e problemi di comunicazione ("nella nostra famiglia, sempre tanto cinematografica, viviamo alternando l'horror classico e la commedia all'italiana. Il budget è piuttosto scarso. Il cast, francamente prevedibile." - "La famiglia sembra composta da tre satelliti che ruotano - ciascuno a diversa velocità e ampiezza d'orbita intorno a Paula, che emana luce ed evita collisioni.") e una instabile storia d'amore che molto mi ha ricordato quella di "Rayuela", sono gli aspetti che più sono destinati ad evolvere. Crea dei personaggi forti, caratterizzati solo da brevi frasi che si ripetono nel libro, con l'effetto di accentuandoli ancor di più, la madre per esempio è descritta "con lo sguardo perso in un bicchiere, fisso sulle polverine bianche che si sciolgono" o intenta ad annaffiare perennemente i gerani ormai ammuffiti dalla eccessiva umidità. Ho intravvisto anche un certo legame quasi incestuoso tra padre e figlia, magari sarà stata solo una mia illusione.
La prosa è molto poetica e densa, senza frasi prolisse ma prediligendo quelle stringate riesce tuttavia a trasmettere il grande disagio del narratore, i suoi momenti di smarrimento e incertezza, nonché a dimostrarsi un grande osservatore del mondo. Infatti sono rimasta piacevolmente sorpresa e nonostante sia un libro di centocinquanta pagine, la lettura rallenta e non è decisamente un libro di svago ma un libro tendenzialmente introspettivo. 

L'unica nota negativa, se vogliamo chiamarla così, è che la forma sembra un po' invecchiata. Se lo contestualizzo all'anno 2002, anno in cui uscì per la prima volta, allora è rivoluzionaria, ora a distanza di quasi venti anni lo è un po' meno, infatti la si sente un po' obsoleta. Il contenuto però ha il profumo dell'immortalità e ha superato di gran lunga le mie aspettative. Non aspettatevi dunque un romanzo dalla trama movimentata e dal finale chiuso, è piuttosto un'ampia finestra sulla vita, per riprendere il titolo, dell'ampio respiro poetico e che fa riflettere per il suo contenuto profondo.

"Ho immaginato di infilare un dito dietro l'orizzonte e di sollevarlo come un tappetto, per vedere cosa c'era dietro."

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