Opinione scritta da David B

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David B Opinione inserita da David B    29 Luglio, 2021
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Viaggio nel buio

Pensateci un attimo: la critica alla convenzioni e all'opulenza della società tedesca viene lanciata e portata avanti da un clown. Curioso, no?

Non ho nulla contro i clown, sia chiaro. Ma inutile nascondere che nell'immaginario collettivo essi vengono associati al ridicolo, alla scarsa credibilità e al divertimento, insomma nulla a che fare con riflessioni politiche e sociali che dovrebbero appunto trattare sulla direzione che il mondo sta prendendo.
Con questa premessa non voglio dire che l'intento di Heinrich Boll sia ridicolizzare coloro che attaccano la nuova modernità, scegliendo quale protagonista un pagliaccio di professione.
Credo piuttosto che tale scelta rafforzi le accuse che vengono scritte in questo romanzo: le storture presenti in quella realtà arrivano a colpire pure un personaggio comune come Hans Schnier, il nostro triste protagonista.

Il dibattito che ho appena lanciato, quale dei due poli vogliamo abbracciare, è aperto, ma non mi appassiona più di tanto: non credo si tratti di un inno all'eterogenesi dei fini. Questo libro è infatti universalmente riconosciuto come un grande j'accuse all'opulenza e al nichilismo che sembrano radicarsi nella Germania di quel tempo. E, conoscendo anche la storia dello scrittore, viene facile pensare che sia effettivamente così.

Rimane il fatto che l'oggetto del racconto e il soggetto di tale racconto siano in sottile contraddizione. Ed è questo il file rouge che lega le parole, le pagine e i capitoli di questo libro.

In fondo l'unico modo per vivere in quella società è estraniarsi, creare una sorta di bolla così da avere quella "sicurezza ideologica" in cui i valori (veri o presunti) vengono preservati. Da qui la paradossale scelta di essere un clown.
Boll fa dire poi ad Hans che "gli attimi bisognerebbe lasciarli così come sono vissuti, mai tentare di ripeterli, di riviverli", salvo poi venire a scoprire che tutto il racconto è un susseguirsi di ricordi, di aspettative, di pensieri, di attimi che il protagonista vorrebbe rivivere e che permettono alla sua mente di rimanere incastrata nel passato così da non avere possibilità di guardare al futuro. Perchè da quella parte vedrebbe solo il buio.

Boll ci consegna dunque un uomo distrutto, vinto e sfinito dall'esistenza. La perdita di Maria, l'unica donna che lui abbia mai amato, è solo uno dei tanti passaggi che Hans rievoca, ma è il più doloroso. Perchè è consapevole che, a saperla libera, la sua presenza avrebbe dato senso e speranza in una società perbenista e ipocrita. Ma così non è. E allora il flusso di ricordi ed opinioni non può che essere intriso di disperazione, rabbia e accorata rassegnazione. Prova disgusto e invidia per tutti coloro che sanno adattarsi a una realtà che non chiede null'altro che una maschera e un'etichetta (come quella del cattolicesimo, dice lui) per poter essere accettati.

Lui rifiuta tutto questo, bandisce ogni azione ulteriore -e così nel racconto nulla accade- e decide di mettersela lui, quella maschera. Letteralmente -per lavoro- alla luce del sole. Mi sembra di sentirlo, mentre si veste, pronto ad esibirsi: "Facciamolo, tanto è tutta una pagliacciata". Ma non può funzionare. Lui è fuori posto, in ogni senso. E infatti si fa male, si rinchiude in albergo e si dedica alle chiamate con i propri "amici" e congiunti, ai ricordi accumulati nel corso del tempo, ai continui rimproveri verso quella che avverte come una degenerazione dell'intera umanità.

Ma sono anche tutti tentativi di eludere il confronto con se stesso, evitando di trovarsi a tu per tu con la propria coscienza.
Il buio non è solo il suo futuro, ma è anche la nostra esperienza da spettatori concentrati nel tentativo di seguire i salti temporali e l'asimmetricità del suo racconto: la piacevolezza viene meno, complice l'assenza di ogni tipo di colpo di scena e diversità dall'ordinario racconto.

Rimane uno scritto tutt'altro che banale, la cui potenza stilistica è al servizio di un viaggio introspettivo e stratificato di un personaggio estremamente complesso.

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Penso che l'apprezzamento o il rigetto verso questo libro dipenda molto dall'età e dal momento in cui questo libro viene letto. Non è un libro "alla mano", che lo si prende, lo si sfoglia, si incomincia a leggere la prima frase ... e poi tutto viene da sè.
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David B Opinione inserita da David B    23 Gennaio, 2021
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Realtà aliena

I racconti di Jean Paul Sartre si avvicinano molto di più a trattati filosofici che a semplici romanzi. Sartre, pensatore francese che ha fatto del surrealismo ed esistenzialismo i soggetti delle sue disquisizioni, fa vivere i suoi personaggi in un continuo stato di sofferenza e pena in cui ci si interroga continuamente sulla propria natura e sulla (non) esistenza dei vari oggetti che capitano nella propria mano o sotto i propri occhi. “L’esistenza - fa dire Sartre a un suo personaggio nell’ultimo racconto- è un illusione; dal momento che so di non esistere, non ho che a tapparmi le orecchie, a non pensare più a nulla e mi annienterò. […] Ma l’illusione era tenace”.

Questa è la cornice in cui i personaggi si susseguono tra una storia e l’altra, ritrovandosi sempre spaesati, fuori contesto, incapaci di decifrare intorno a loro quella realtà che sembra addirittura farsi beffe di loro al punto che l’assurdità paventata fin dall’inizio della crisi esistenziale, insita nell’animo di ciascuno, si è trasformata repentinamente in uno sconvolgimento emotivo che spesso e volentieri è sfociato nella pazzia. La diretta conseguenza è l’impossibilità di trovare una via di fuga. Si vedono solo muri invece che strade, morte invece che vita.
Questa struggente analisi interiore non prevede quasi mai dialoghi: il silenzio e la voluta reiterazione di gesti ritmici a cui assistiamo nel primo racconto - il cui titolo è quello del libro - è ciò che riempie e scandisce il tempo in quella cella, buia e fredda, in cui Pablo capisce che il confine tra vita e morte è molto più labile rispetto al muro che si frappone tra lui e la realtà.

Si vive e si pensa in modo estremo. Facciamo conoscenza con un mondo in cui la moderazione e la sobrietà sono banditi: c’è follia (intesa come sconfitta del pensiero razionale sull’irrazionale), surrealismo (inteso come ricerca dei meandri più profondi della mente e dell’uomo) e crisi esistenziale (intesa come incapacità di definirsi e di collocarsi nella società). Che la loro manifestazione sia nei pensieri o nei gesti - a questo punto - poco importa.

Dai silenzi della prima storia si passa a silenziosi urlati e soffocate grida che eruttano in una lacerante lotta interiore. La camera non è solo il titolo del secondo racconto di Jean Paul Sartre, ma rappresenta anche quel luogo in cui paura, amore e assurdo trovano casa perché, in fondo, amare qualcuno appare a coloro che sono estranei a quella relazione come un sentimento logico, ma talora incomprensibile. Quante volte non ci spieghiamo come una nostra amica possa ancora voler amare il proprio fidanzato dopo che questi l’ha tradita più e più volte?
E allora non ci possiamo meravigliare di fronte a una donna che si ritrova nell’incapacità di abbandonare il proprio fidanzato con cui non riesce nemmeno a dialogare e, allo stesso tempo, vorrebbe alienare a sè il proprio padre - perché scettico e riottoso proprio sul fidanzamento della figlia -, ma sa di non poterlo fare perché, in fondo, riconosce che “ha ragione”. La ragazza si trova sola nei propri sentimenti e circondata da muri fisici (la camera) e metaforici (l’incapacità di entrare in sintonia). Emblematica la sua lapidaria constatazione: “c’è un muro tra te e me. Io ti vedo, ti parlo, ma tu sei dall’altra parte”
In fondo non può che essere così, dal momento che l’autore inculca nei suoi personaggi la convinzione che la realtà in cui viviamo sia un’illusione e pertanto priva di ogni felicità. La razionalità dell’uomo si scontra con l’irrazionalità dell’esistenza. Lo scontro produce follia che rischia anche di tradursi in perversioni e dipendenze sessuali o tendenze all’omicidio. Questo succede a chi si interroga sull’esistenza dell’uomo. Sartre utilizza cinque storie il cui comune denominatore è l’ideologia pessimistica, e per certi versi macabra, della sua visione sulla condizione umana.

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La nausea e Nietzsche
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David B Opinione inserita da David B    07 Ottobre, 2020
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Paura di esistere

Sulla scia filosofica dell'esistenzialismo e nichilismo prende forma un romanzo controverso che ha fatto del mistero la sua cifra distintiva.

Mistero. Un sostantivo quest'ultimo che Sartre non utilizza mai, eppure rappresenta la cerniera tra le varie ideologie e correnti di pensiero che l'autore francese ha scomodato in questo libro da cui è nato il "caso Sartre" alimentato anche, se non sopratutto, dalle tematiche de 'Il Muro’, altra opera dello scrittore.

L'universo de "La Nausea" sono l'angoscia e gli interrogativi sull'esistenza che Roquentin, l'infelice protagonista, si pone in modo ossessivo senza però cercarne la risposta. La scoperta, l'accettazione e l'immediata rassegnazione che seguono lasciano il lettore perplesso perchè tutto appare assurdo. Ma è esattamente ciò che Sartre professa: si prenda coscienza di se stessi. Una volta che questo è stato realizzato, va accettato. Fine.

Nient'altro. Non serve lambiccarsi il cervello per ricercarne la risposta, non serve viaggiare in lungo e in largo per imbattersi in un indizio rivelatore, non serve interrogarsi ulteriormente.
Che rimanga tutto nel mistero!
Ed è in questo circolo vizioso, monotono e perseverante di continua scoperta di sè stessi e dell'esistenza, ma -al contempo- di continuo rifiuto nel trovare un senso a tutto questo, che nasce la Nausea.

"E' dunque questa la Nausea: quest'accecante evidenza? Quanto ne ho scritto! Ed ora lo so: io esisto -il mondo esiste- ed io so che il mondo esiste. Ecco tutto. Ma mi è indifferente. [...] Stavo per lanciare quel sassolino, l'ho guardato, ed è allora che è incominciato; ho sentito che esisteva. E dopo ci sono state altre nausee; di quando in quando gli oggetti si mettono ad esistervi dentro la mano"

Nietzsche approverebbe: il personaggio creato da Sarte segue anche i suoi dettami. Un uomo che sceglie di non maturare, sceglie di non credere, ma semplicemente s'accorge di esistere. E in questa consapevolezza si dischiude la sua più grande paura che però è anche il suo più grande desiderio: essere libero. Non sa come comportarsi in un mondo che gli appare misterioso come la vita stessa la cui ragione è ridotta a una sola donna, il cui rapporto è anch'esso ambiguo e poco chiaro.

Amore? Amicizia? Semplice empatia? Non ci è dato saperlo.
E d'altro canto sarebbe stato strano il contrario.

Con uno spregiudicato uso della punteggiatura, i punti e virgola che si susseguono come briciole di pane o i due punti che ritrovi a distanza di poche parole, Jean Paul-Sartre ci conduce in un tortuoso e faticoso viaggio attraverso la psiche umana che non è altro che la sua visione della realtà. Filosoficamente parlando.

L'ontologia dell'uomo fintanto dell'esistenza stessa sono materie troppo complesse per potersi esaurire in un libro anche se l'autore si chiama Jean-Paul Sartre, un pensatore che ha arricchito la storia francese e culturale dell'occidente con un pensiero acuto anche se spesso pessimista e indifferente nei confronti della vita -come i suoi personaggi- al punto da rifiutare il Premio Nobel assegnatogli.

L'esaltazione del pessimismo rende questo libro tutto fuorchè esaltante. L'obbiettivo non è rendere il racconto fruibile o piacevole. No, l'obiettivo è suscitare in noi quelle risposte e quell'indagine che Roquentin solletica, salvo poi dichiararsi "indifferenti" in nome di quel nichilismo e anarchismo che tanto affascinava Jean-Paul Sartre.

Per noi dunque -in un modo o nell'altro- è impossibile rimanere indifferenti.

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Lo straniero di Albert Camus oltre che gli altri libri di Sartre.
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David B Opinione inserita da David B    21 Luglio, 2020
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Ivo Andric e la monotonia della storia

I libri vanno sempre conclusi. È con questa legge morale, imposta alla mia coscienza, che mi avvicino alla lettura di un libro, risultato di creatività e ingegno letterario dello scrittore. Meritano pertanto tutto il mio rispetto.

Ma qui, pur stimando la storia e la sensibilità di Ivo Andric, ho ceduto. Ho ceduto perché eccessivamente monotono e disarmonico.
Il ‘Ponte sulla Drina’ si presenta fin da subito come un racconto volto a ripercorrere la storia della Bosnia e tutte le storie che accadono in quel fazzoletto di terra collegato da questa imponente opera di ingegno che ha permesso di unire culture, saperi, lingue, conoscenze e religioni. Non senza problemi. Non senza tensioni. Non senza diffidenza e paura. E lo scrittore cerca di rappresentare e tradurre la complessità della storia in questo romanzo.

La disamina storica che ne consegue è accurata e il tentativo di intervallarla con racconti narrativi a mo’ di vero e proprio romanzo storico è apprezzabile, ma non riuscita. Si è cercato di comporre un mosaico omogeneo di racconti paralleli che mettessero in luce l’eccezionalità della cittadina di Visegrad, crocevia di etnie e popoli, e che potessero essere facilmente integrati con il racconto più prettamente storico.
Tuttavia il ritmo rimane eccessivamente lento e monotono come i secoli che lentamente scorrono impassibili per la vista di quel maestoso ponte, voluto dall’impero ottomano, che domina l’intera vallata e oltre.

La cifra stilistica scelta dallo scrittore, probabilmente influenzato dalla seconda guerra mondiale appena conclusasi, non può che andare a discapito della piacevolezza e fruizione del racconto.
Il puzzle di storie sapientemente pensato mal si concilia nella trama -se così può essere definita- del libro, ma ogni singolo pezzo rimane un po’ a sé, slegato da quello precedente.

Sono consapevole di andare contro corrente, ma la colpa è mia: Ivo Andric non è adatto a tutti e io non sono adatto a lui. Le mie aspettative verso questo premio Nobel erano alte e probabilmente se fossi stato uno storico interessato a quelle terre e a quei luoghi, le righe scritte precedenti a questa sarebbero state un tripudio di giubilo e felicità.
Il racconto si rivolge a una nicchia di lettori e io non sono tra questi.

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David B Opinione inserita da David B    08 Gennaio, 2020
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L’uomo al bivio

Routine. Solitudine. Sofferenza. Attesa. Speranza. Gioia. Con l’amore come sfondo.
Potrei già concludere qui la disamina che ripercorre dall’inizio alla fine il libro di Albert Camus.
Reduce dalla lettura de “Lo straniero”, questo libro mi ha impressionato. È stato un pugno nello stomaco e una campanella nella mente.
Quest’ultimo aspetto è semplicemente un fatto personale, nulla di particolare. Nel senso che l’accurata e abile descrizione della città di Orano, teatro e in un certo senso anche vittima del racconto, mi ha ricordato la descrizione di Coketown in “Hard Times” (Tempi Difficili) di Dickens. Una città grigia, materialista e priva di emozioni dove il solo sussulto sembra essere la monotona e lenta routine. Poi il flagello. E tutto è cambiato.

“La peste aveva tolto la disposizione all’amore e all’amicizia” ecco, in una frase il famoso ‘pugno nello stomaco’. Le scene descritte di una umanità in lotta, in preda a un male misterioso, all’inizio e sempre più definito con il passare del tempo, colpiscono e rapiscono il lettore.
Camus ci racconta con una drammaticità sempre crescente i cambiamenti nella città, nel volto delle persone e nei comportamenti stessi. E tutto diventa metafora. La malattia che si è abbattuta sui cittadini, costretti all’isolamento e all’impossibilità di ricongiungersi con i propri cari onde evitare il propagarsi del morbo, pone in ognuno domande esistenziali, autentiche, profonde che prima erano come superflue. Inutili. Ma la realtà obbliga all’interrogazione con se stessi e all’esame di coscienza. E se ne esce, per forza di cose, cambiati.

Accade così anche nella nostra vita: ogni ostacolo o, per rimanere in tema, tragedia che incontriamo ci investe di mille difficoltà e domande.
Come superarlo? Come posso essere ancora felice? Cosa significa questo, oggi?
La mente si fa confusa e annebbiata. Perché quando le cose vanno male, attorno a te sembra esserci solo sofferenza (tua e/o di altri), tristezza e solitudine. Ed è quello che avverte Rieux, il medico che coraggiosamente si erge a colonna portante per tutti: curando e dirigendo una città ormai in ginocchio. Ma alla fine è sempre l’amore (l’amore come sfondo, appunto), l’attaccamento alla vita, a vincere. A farci uscire da quello stato così depotenziante in cui siamo finiti per poter tornare di nuovo a porci degli obbiettivi e a vivere. E non sopravvivere.
La peste va combattuta. Rieux e i suoi aiutanti fino all’ultimo non si sono arresi. Hanno compreso che essere felici oggi significa “essere colui che rimane”. Superare l’ostacolo significa amare: “un uomo deve battersi per le vittime, certo. Se però poi smette di amare tutto, a che serve che si batta?”

È l’amore che ho detto all’inizio, posto lì come sfondo, immobile, mai prono e pronto a subentrare. La peste lo aveva quasi sopraffatto, ma lui è rimasto dietro le quinte, celato, in attesa di imporsi con forza distruttiva contro il male del suo tempo. È la convinzione degli uomini a chiamarlo. Paneloux, il prete, che con le sue omelie scuote la cittadinanza ormai oppressa: Dio ci chiede un estremo atto di amore per i nostri peccati. Rambert che va avanti, nutrito dall’affetto verso la donna che ama, salvo poi capire che “ci sarebbe da vergognarsi a essere felici da soli”. E quindi comprende che non può abbandonare la città dove i suoi amici stanno lottando per un futuro che forse non ci sarà mai: relegare loro e la città al proprio destino, significa ‘abbandonare’. Non potrà mai essere felice.
Scegliere l’amore non significa, dunque, scegliere subito e per forza la donna che si ama, ma significa scegliere l’azione giusta da fare in quel momento per amore di altri. Anche per la sua stessa donna. Vivere un amore felice con lei è ben diverso che viverlo con un peso nel cuore tale da lacerarti l’anima e rovinarti la coscienza. Perché si può sempre scappare e lasciare tutto al suo destino consapevole però che sarà tragico. Oppure, conscio che amore senza felicità non vale la pena di essere vissuto, fai un atto di passione per una vita migliore per te stesso, per la donna che ami e per gli altri. Insomma, deciditi di essere “quello che rimane”.

Ecco che in una città oppressa, in ginocchio, dilaniata da quella peste un po’ preannunciata e un po’ improvvisa, è la forza e la convinzione di pochi uomini mossi dal loro grande -e per ognuno- differente amore che li spinge a dover scegliere, a doversi interrogare, a dover comprendere che coniugare questo con la felicità non è scontato. Va meritato e conquistato.
Scappare per amore quando puoi lottare per una causa e ti arrendi, non è felicità. Questo ci dice Camus.
Rimanere per opporsi alle avversità così da costruire quella vita, beata e desiderata, è ammirevole e audace. Ma difficile. Tuttavia una scelta va fatta. E alla fine quella scelta, per la crudele fatalità, è proprio tra amore e felicità. I binari sono gli stessi, ma qualcosa (e qui è la peste) può farli deragliare. Sta a ciascuno scegliere se saltare da quel treno scampando al pericolo ma con l’infelicita nel cuore, oppure provare a lottare per tornare a casa senza lasciare indietro quelli che puoi salvare.

Camus insegna questo: la potenza dell’essere uomo, della sua convinzione e della sua infinita bontà. La religione non è dirimente per l’autore. Ciò che conta è la capacità di ognuno di farsi promotore di un cambiamento e di una resistenza. Per amore di patria e di popolo.

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David B Opinione inserita da David B    02 Novembre, 2019
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Diagnosi di una domanda

‘E se Camus avesse voluto lasciarci indifferenti alla conclusione di questo racconto?’
La domanda mi è venuta spontanea mentre mi interrogavo sulle ragioni per cui non ho trovato entusiasmante nè sorprendente la lettura de “Lo Straniero” di un maestro del filone esistenziale come Camus al punto di guadagnarsi il Nobel per la letteratura nel 1957. Un interrogativo buttato lì un po’ come battuta ha preso forza in breve tempo fino a rendersi il passe-partout per la comprensione di questo libro. Almeno per quanto mi riguarda.

In fondo per Mersault, e forse per lo stesso Camus, siamo tutti estranei. Per questo mondo. Ne deriva da questo sillogismo che nessuno è autoctono. Ma tutti sono stranieri o prigionieri, a seconda dei punti di vista. E il confine tra le due parole però è labile, evanescente e non solo perché entrambi arrecano con sé un’accezione etimologica negativa della loro parola (la desinenza infatti è la medesima), ma perché nella sua vita il nostro enigmatico protagonista sperimenta entrambe le situazioni per arrivare a dire che poco cambia se alla fine “tutti sanno che la vita non vale la pena di essere vissuta”.
Non importa se in carcere o fuori, alla fine straniero rimani. E allora dal momento che quella situazione di alienazione è impossibile da superare, è più importante riflettere non sulla vita, ma su se stessi. È più importante avere convinzioni che oggetti. È più importante essere “sicuro di tutto, sicuro della mia vita e della morte che mi aspetta” che sperare di morire in un luogo piuttosto che in un altro. E non importa se l’ingiustizia é stata decisiva nel deviare il corso normale della tua esistenza. Perchè “un giorno anche gli altri sarebbero stati condannati”. Insomma l’apatia morale ed esistenziale, nel vero senso della parola, di Mersault è proprio ciò che lo salva dalla disperazione, dalla abnegazione, dalla tristezza.
È proprio quell’essersi ritrovato senza bussola ed essersi convinto che sarebbe stato inutile costruirne una, in un mondo a cui si sente estraneo, che gli permette di poter affrontare ogni avversità con indifferenza, la quale -in quel dato momento in cui ognuno di noi avrebbe stracciato vesti, strappato capelli, usurato le corde vocali per urlare la propria estraneità ai fatti- diventa il moto interiore che lo fa apparire forte dinanzi a uno scorrere degli eventi sempre più catastrofico e drammatico. In fondo, come fa a rivendicare la propria estraneità a degli eventi successi nella sua vita quando, per lui, è la vita stessa ad essere estranea? È assurdo. E allora diventa assurda anche la nostra posizione -a me personalmente non è capitato ma ad altri, più comprensibilmente, sì- dove pretendiamo che il signor Mersault si faccia valere.

Non so come giudicare questo libro, eppure credo di aver intercettato il messaggio che vuole lasciarci. E ho provato a raccontarvelo. Ma è un messaggio davvero così originale e dirompente? E la storia è davvero così intrigante? Me lo chiedo. E ve lo chiedo. Torno alla prima domanda perché io sono rimasto indifferente alla lettura di questo libro sospeso in un limbo tra approvazione o rifiuto perché ‘qualcosa di già visto, già conosciuto’.
Se non altro ha avuto il merito di pormi ancora una volta un interrogativo che considero dirimente per darmi poi una risposta, rafforzandola, che considero decisiva: ha senso allora vivere la propria esistenza (che sia unica o sia terrena è a vostra discrezione) con questo distacco interiore così forte da poter sopportare ogni avversità, ma allo stesso tempo da non poter provare le emozioni più belle (e anche più brutte) con cui potresti venire a conoscenza? Perché in fondo potrebbe capitare anche a noi di trovarci in un buco nero in cui la via d’uscita non sembra esserci. E, sono certo, che se mi capiterà invidierò la certezza nichilista di cui Mersault si nutre per farvi fronte.

Eppure, e qui vengo alla mia risposta, sono convinto che non è giusto privarci dell’allegria sfrenata, della soddisfazione contagiosa, dell’amore multiforme. Non è neanche giusto privarci della sofferenza, del dolore e della fatica perché è grazie a queste emozioni e sentimenti che nasce il nostro miglioramento come uomo e come donna. Nasce il progresso come individui. E allora se, dopo tutto questo, ti ritrovi al buio e non puoi accendere la luce saranno quei ricordi, quelle piccole vittorie sul dolore, quei grandi riscatti sulla sofferenza e disperazione a illuminare la tua mente e il tuo luogo. E non certo l’apatia per la vita. Perché sennò è un ‘vincere’ senza gusto, è un ‘vincere’ senza guadagno.

E allora sì che è assurdo.

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La metamorfosi, di Kafka.
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David B Opinione inserita da David B    05 Ottobre, 2019
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L’uomo e il nano, opposti ma uguali

Lagerkvist è uno scrittore sconosciuto quanto completo. Il mio precedente libro del medesimo autore fu “Barabba”. Ed è curioso osservare la diversità di stile, di approcci, di metodo usati per i due racconti. Il testo che rivive, in modo totalmente inusuale, la testimonianza cristiana ai tempi di Gesù presenta un impianto teatrale con i capitoli che si fanno stazioni e i dialoghi (parte prevalente del racconto) parti di copione in una immaginaria rappresentazione teatrale. Va da sè che il lettore, leggendo, ha come la sensazione di guardare e osservare lo sviluppo della storia. Un impianto, quest’ultimo, che viene completamente stravolto nel “Il nano”. Se dovessi immaginare di trovarmi di fronte a questi due racconti senza conoscere il nome dell’autore, difficilmente potrei arrivare a pensare che sia lo stesso per entrambi.
La lettura allegorica, il messaggio convogliato in queste pagine è, in fondo, uguale a quello dell’altro racconto. Ma non lo stile. Che si rivela privo di dialoghi diretti, privo di capitoli (che in “Barabba” erano scelti con sapiente diligenza al fine di ricalcare una scena teatrale), ampio uso di aggettivazioni e descrizioni. Ma sopratutto Lagerkvist fa ricorso a una sorta di ‘flash-back” in cui il protagonista, il nano, racconta con pochi filtri ciò che è appena accaduto: illustra le sue sensazioni, (non) emozioni, esperienze della sua vita a corte accanto al principe su cui nutre prima stima poi disprezzo e poi ancora orgoglio.
Un racconto che inizialmente ti attrae e ti incuriosisce per l’insolita costruzione stilistica e narrativa portata avanti dall’autore. Ma ecco che, una volta assuefatto e abituato da questa novità, il nostro premio Nobel per la letteratura (1951) ripropone lo stesso brodo presentato semplicemente in un altro piatto.

Mi spiego meglio. Il messaggio che si vuole far passare è lo stesso di “Barabba”: l’ateismo religioso, il forte scetticismo che legittima lo scrittore, quindi Barabba, quindi il nano a bollare la religione come ‘inutile’. Il racconto, scritto negli orrendi e bui anni della Seconda Guerra Mondiale, riflette ciò che l’uomo ha visto di cosa è capace l’uomo: invidia all’ennesima potenza, odio, malvagità, sadismo. Il nano è tutto questo. Il nano che segue come un ombra il principe, rappresenta la parte peggiore dell’uomo che si riflette a tutti i livelli dal più basso, ma sopratutto, al più alto (quello di aristocratico) dove, essendo il potere concentrato su te stesso, hai la sensazione di avere capacità su tutto, anche sulle persone. In questo brodo di cattive intenzioni, di malvagità, di tradimenti, di guerre nn poteva mancare la forte misoginia del nano (“le donne preferiscono sempre gli uomini inutili e insignificanti, perché sono più simili a loro” una frase emblematica, tra le altre) che poi si traduce in azioni deplorevoli per noi, indifferenti per lui. Lui odia il genere umano (cui solo il principe sembra sottrarsi) nella stessa misura in cui noi detestiamo i sentimenti di invidia, impotenza, dipendenza, malvagità che albergano in noi e danno l’illusione del piacere - che si rivelerà effimero. Questo rappresenta il vero tratto coerente del protagonista. Un atteggiamento che si scopre immediatamente fin dalla prima pagina. E le successive sono solo altri ‘esempi’, altri ‘momenti’ che fungono come da riprova di ciò che abbiamo già carpito nei primi passaggi: il brodo è sempre quello. Quindi non esiste, o meglio non si avverte, per quanto mi riguarda, il tentativo di ammaliare il lettore nel racconto e di renderlo partecipe e attivo nella storia. Bisogna armarsi di pazienza e volontà per poter concludere, per inerzia forse, la lettura di questo libro.

Occorre ricordare dunque la frase che viene sempre associata, per i pochi che lo conoscono, a questo testo: “nessuno è grande di fronte al proprio nano”. Tutti noi diventiamo piccoli quando diamo spazio agli istinti e alla parte peggiori di noi stessi sdoganando le più inebrianti illusioni di piacere. Un ritratto dell’uomo in cui la religione viene esclusa perché dove c’è stata ha portato solo desolazione, isolamento e morte

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David B Opinione inserita da David B    06 Agosto, 2019
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Barabba, l’uomo di fronte al Mistero

“Amatevi l’un l’altro”. È questo il messaggio che Pär Lagerkvist mette in bocca a chi ha conosciuto la predicazione di Gesù. È questo il messaggio che continua a ricorrere nel libro e che viene ricondotto alla religione cristiana. E probabilmente è questo l’unico messaggio o visione che l’autore - ateo e non agnostico - coltiva della suddetta religione.

Barabba è un libro che racconta da uno sguardo inedito, insolito e curioso quella che è stata la testimonianza cristiana ai tempi di Gesù. È lo sguardo di Barabba, l’uomo che è scampato dalla crocifissione, per volere della folla, al posto di Colui che i fedeli chiamano “il figlio di Dio”

Sono 142 pagine di insolita meraviglia, tentata comprensione e, per finire, totale scetticismo verso questa religione. 142 pagine in cui si avverte chiaramente come P.Lagerkvist non abbia fede verso il messaggio di Dio. Eppure non si abbandona a facili luoghi comuni, a insensati stereotipi o a speculazioni fantasiose. Ma, al contrario, il nostro autore si interroga e ci interroga. Con dialoghi brevi e incisivi pone in difficoltà chi ha fede e pone -allo stesso tempo- curiosità su chi non la ha.

Il suo ragionamento lo avete tra le mani, il suo romanzo. La vicenda che racconta di Barabba, “l’uomo liberato”, accompagna e segue passo dopo passo, capitolo dopo capitolo, azione dopo azione la sua vicenda interiore. Perchè, ne sono certo, anche l’autore è stato tentato da quel messaggio divino che ha avuto il fiato sufficiente per travalicare ogni tempo, ogni confine, ogni popolo, ogni superstizione e giungere con imperante credibilità ai giorni nostri. Pertanto Lagerkvist non può permettersi di liquidarlo come se fosse una cosa di poco conto. Perché non lo è. È la storia a dircelo. Si può scegliere da che parte stare, ma non si può ignorare. P.Lagerkvist alla fine sceglierà, esattamente come Barabba, di non credere.

Ma si è concesso il cosidetto ‘beneficio del dubbio’, così come se lo è tenuto il suo personaggio. Lui che all’inizio rimuginava, tentava di capire quella frase così densa di significato (amatevi l’un l’altro) ma che non riusciva ad afferrare a pieno, cercava la via per la comprensione. Ma non trovava risposta. E quindi -va da sé- che l’alter ego dello scrittore si chiude in se stesso, si lascia barrare quel Segno (Christòs Jesus) sulla sua tavoletta servile che, speranzoso, aveva voluto incidere. Si è arreso all’incomprensione della Domanda proprio quando era chiamato a scegliere nel momento di maggior avversità. Perché, in fondo, cos’è la Fede se non rimane ben salda quando veniamo messi a dura prova? Lui ha ceduto, non è riuscito a cogliere il senso della ragione dei suoi nuovi sentimenti e di quella vaga presenza divina che scorgeva nelle cose e negli avvenimenti.
L’uomo che prima si interrogava è diventato l’uomo rassegnato. Il piano dell’esistenza è cozzato contro quello dell’essenza della sua anima. E, alla fine, è l’ignoranza a prevalere sulla conoscenza o sul desiderio di conoscenza.

Le tematiche sono alte: si parla, si tratta e si racconta del più grande interrogativo di fondo dell’uomo, quell’interrogativo che precede e segue il fatto religioso a cui si è chiamati a una ferma posizione. Di fronte a tali contenuti ci aspetteremmo uno stile contorto, difficile, quasi teologico. Eppure, sarà per la vicenda romanzata, sarà per lo scetticismo dell’autore, lo stile è nudo, spoglio, privo di aggettivazioni ed enfasi. Uno stile semplice, alla portata di tutti e un po’ teatrale con i capitoli che seguono l’ambientazione e il contesto esattamente come le scene/stazioni di un testo di teatro.
I fatti si diradano con semplicità, i dubbi si rafforzano con velocità e lo scontro tra sacro e profano si avvia a toccare l’apice con forza drammatica.
Anima e corpo.
Barabba (Par Lagerkvist) ha scelto il profano, seguendo ciò che diceva la sua razionalità e non ciò che sentiva nel suo animo. E, se si accoglie questa ipotesi, allora le ultime parole del nostro sventurato amico alla fine del libro acquisiscono una cifra significativa: “affido a Te l’anima mia”

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David B Opinione inserita da David B    28 Luglio, 2019
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A faccia a faccia con la propria identità

Se mi dovessero chiedere di collocare in una categoria definita e conosciuta “Il lupo della steppa” di Hesse mi troverei davvero in difficoltà. Sarei sospeso tra romanzo di formazione e romanzo esistenziale. Al che uno potrebbe confonderli o sovrapporli, invece la lettura che viene fatta per la prima tipologia è diversa da quella che viene fatta per la seconda. E ancora di più il fine, lo scopo.
Il motivo di tale premessa, se ve lo state chiedendo, è presto detto: noi possiamo leggere tale capolavoro, in entrambi i modi. Spetta all’inclinazione del lettore nonché alla sua sensibilità deciderlo.

In questo libro emerge una delle tante abilità che ha reso grande Hesse, premio Nobel del 1946. Riuscire a fondere due stili diversi nello stesso libro e lasciare il potere al lettore di decidere quale privilegiare è un qualcosa di così inusuale che non ho trovato in nessun altro autore. Così come è inusuale e quasi sorprendentemente spaventoso osservare come in alcuni passaggi l’autore abbia fatto riferimento a un’altra guerra mondiale che prevede essere distruttiva e cruenta come non mai. E, se si pensa che dodici anni dopo l’uscita di questo libro scoppiò davvero il secondo conflitto bellico (nel 1939, quando le truppe hitleriane invasero la Polonia) con tutte le conseguenze che noi tristemente conosciamo, allora quelle parole, quei passaggi, quelle descrizioni di sofferenza mista a disperazione hanno davvero un sapore di amara predizione.

Conoscendo la vita dell’autore non riesco a fare a meno di pensare che questo racconto sia stato lo specchio della sua condizione interiore in quel periodo e, allo stesso tempo, possa essere la condizione interiore dell’uomo. Se è così, capite bene quanto possa essere stato difficile il compito di Hesse. E, non a caso, il libro è davvero impegnativo. Richiede una discreta attenzione da parte del lettore perché alla fine comprendere il percorso esistenziale di Harry Haller significa comprendere una parte di se stessi.
Quante volte infatti ci ritroviamo di fronte a condizioni, luoghi, pensieri tramutati in realtà che mai avremmo pensato di poter ascrivere alla nostra vita?

Quando ci fu l’assalto nel gennaio del 2015 alla redazione del settimanale satirico francese (Charlie Hebdo), il giorno dopo non solo Parigi, non solo Roma, ma tutta Europa era commossa, distrutta, lacerata per una tragedia che quasi nessuno pensava possibile e la frase che testimoniava questa condizione era “Sono Charlie” (Je suis Charlie). Ebbene, alla luce di questa lettura, posso dire che “siamo tutti Harry Haller”.
Con le dovute proporzioni ovviamente, perché le sue problematiche, il suo dissidio è spinto fino a uno stadio estremo, quello della rassegnazione, disperazione e sopraffazione. Solo quando era a un passo dal baratro è arrivata una mano tesa in suo aiuto. Ma tutti noi, esattamente come Harry, abbiamo provato almeno una volta la sensazione di esserci trovarti in un posto a noi non congeniale. Il dramma era che per Harry era la vita stessa a non essere congeniale. Odiava lo spirito borghese, ma lui stesso era un borghese. Odiava il suo modo di essere, ma anche dentro il suo modo di essere c’era un anima pura, candida. Più il racconto si diradava, più Hesse ci faceva comprendere che per il nostro sventurato amico non sembrava esserci via d’uscita. Vane speranze, vuoti silenzi, illogicità delle proprie azioni... nulla sembra essere positivo, nulla sembrava essere salvabile. Ma, in realtà, c’era solo quella parte di lui così buona e genuina che, se stimolata, aveva il fiato sufficiente e la forza necessaria per riscattare l’intero “io” del protagonista. Lui era un pacifista e forse temeva una guerra proprio perché sapeva, interiormente (nel senso letterale del termine), quanto fossero difficili e traumatiche le conseguenze. In lui infuriava un conflitto identitario, tra la parte più asociale e selvatica (il lupo) e quella più umana e socievole (l’uomo appunto), così devastante che non poteva porre fine da solo. Non perché non ne era in grado, ma perché non ne aveva piena coscienza. Solo quando si è imbattuto -in circostanze davvero poco chiare che, sinceramente, stonano un po’ con l’intera trama esistenziale- nel pamphlet “Dissertazioni sul Lupo della Steppa” comprende le contraddizioni che abitano il suo essere, le quali però gli sembrano insormontabili ...

È un libro che va letto e assaporato con concentrazione perché tutti noi ci ritroviamo in quel personaggio, in quel tale Haller il cui senso psicologico e interiore è letteralmente dipinto dalle parole scaturite dalla penna di Hermann Hesse. Dimenticatevi Siddhartha, cancellate completamente la storia sublime e mistica di Narciso e Boccadoro, “il Lupo della Steppa” non ha una trama precisa. È un racconto esistenziale di un uomo problematico. Un racconto in cui tutti noi possiamo imparare qualcosa.

“L’uomo è un tentativo, una transizione, un ponte stretto e pericoloso fra la natura e lo spirito.” Questo è l’assunto eppure man mano che si procede con la lettura, man mano che si fa la conoscenza con la enigmatica Hermine (la donna che ha sconvolto l’esistenza del nostro protagonista) anche questa certezza sembra sgretolarsi perché, contemporaneamente, inizia a solidificarsi nella mente di Haller la convinzione che l’uomo è molto di più. L’uomo non è solo un ponte stretto fra natura e spirito, ma è anche una transizione di più personalità, di più spiriti, di più nature.

Ecco che allora, come quando si torna bambini (e qui entra in gioco la possibile lettura alternativa, ovvero quella del ‘romanzo di formazione’) e si è “obbligati” ad ascoltare unicamente i propri genitori, affinchè si possano prendere le giuste misure della propria vita, si possa comprendere il mondo cui si appartiene e si possa accettare ciò che prima non era accettabile; come la prima volta in cui si entra in un mare che visto da fuori appariva estraneo e pauroso, ma con l’aiuto di mamma e papà si inizia a famigliarizzare e a renderselo amico, così allo stesso modo, l’immersione nel mondo borghese (il mare) con tutto ciò che comporta da parte di Heller (il bambino), coadiuvato da Hermine (la mamma) ricalca lo stesso procedimento per arrivare allo stesso scopo. Accettare la realtà. E alla fine, anche forzatamente se necessario (leggere per capire), si è chiamati a camminare con le proprie sole gambe nel grande luogo che è la vita, forti degli strumenti ottenuti e della consapevolezza delle innumerevoli sfumature che l’uomo può mettere in campo per abbracciare qualunque cosa gli si pari di fronte, sia essa fisica, sia essa metaforica.

Un libro che fa a pugni con l’impianto canonico del romanzo per andare a braccetto con l’idea di Sartre, il modello esistenziale (e formativo). Solo una cosa mi sento di “rimproverare”: lo stile. Può apparire strano che, dopo aver tessuto le lodi di “Narciso e Boccadoro” da ogni punto di vista, io veda in un premio Nobel come Hesse una complessità stilistica inutile e dannosa in un romanzo già complesso nei contenuti. Hesse è un genio, ma poteva aiutarci e venirci incontro. Non lo ha fatto. Questo può anche essere visto meritoriamente, ossia come un modo per spronare il lettore all’attenzione e all’ingegno. Tuttavia l’ho ritenuto e lo ritengo tuttora eccessivo. E alla fine si è toccato l’apice. Una parte finale, dominata dai forti contorni surreali, simbolici e metaforici, che ho trovato certamente funzionale alla vicenda, ma fuori stile rispetto a tutto il racconto pregresso.

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I libri del filosofo Nietzsche e i romanzi di Sartre
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David B Opinione inserita da David B    20 Mag, 2019
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Una sintesi degli opposti per la scoperta della vi

Romanzo di formazione, saggio, trattato filosofico... Non esiste un genere letterario che possa inquadrare il grande racconto di Hermann Hesse perché ‘Narciso e Boccadoro’ scardina volutamente ogni struttura: esula dal romanzo di formazione per farsi saggio e infine straborda dall’impianto saggistico per darsi -con ottimi risultati- alla filosofia. Per poi tornare ancora alla forma più canonica del romanzo. Insomma, è l’inclinazione del lettore a deciderlo. Questo forse, durante la lettura, va a discapito dell’intrattenimento del lettore

Ciò su cui si può concordare però è la grande abilità dell’autore, premio Nobel, nel raccontarci la vita di un uomo che ha fatto dell’amore il suo unico credo. Il suo essere libertario lo ha portato a scoprire il suo stile di vita, ha forgiato la sua identità. Boccadoro è la perfetta sintesi dei paradossi dell’uomo. Quante volte ci ritroviamo in situazioni che mai avremmo pensato di ritrovarci? Quante volte commettiamo gesti che normalmente non ci appartengono? E chi dunque l’avrebbe mai detto che Boccadoro, ‘svegliato’ dal sonno della ragione da Narciso (monaca ascetico e saggio nonché migliore amico del nostro protagonista), avrebbe deciso di abbandonare quella vita di amore per Dio e la preghiera, di dedizione verso la semplicità, castità e routine quotidiana per buttarsi in un mondo che lo porterà a scoprire e a vivere un’esistenza opposta a quella che suo padre aveva immaginato per lui - ignaro dell’animo e dei desideri più profondi di Boccadoro - ?
Un’esistenza in cui l’amore sarà solo verso il sesso e la vita. È come se Boccadoro avesse sovrapposto l’atto sessuale all’atto di vivere. E per voglia di continuare a sperimentare la sua libertà, ma anche solitudine che arriva perfino a uccidere altri uomini. Prima per difendere la sua vita e quel poco che ha, poi per difendere una delle sue donne. L’amore da una parte e la vita dall’altra. L’amore per la vita. L’amore della vita.

Il cambiamento del suo modo di vivere, ‘battezzato ‘ da suo padre, fratello e amico acquisito Narciso - vero maestro di vita, capace di saper indicare la strada al suo allievo - è un passaggio estremo. In tutto e per tutto. Estremo alla vita che avrebbe dovuto condurre al convento. Estremo nell’amore verso la vita e verso le donne. Estremo nelle esperienze difficoltose con le quali ha dovuto convivere (la peste). Estremo nel mondo in cui si ritrova. Appare quest’ultimo, a suo modo, idealizzato dove la disponibilità non viene mai a mancare: riesce sempre a trovare una donna per appagare i suoi desideri e a trovare una famiglia per appagare i suoi bisogni più elementari.
È un inno alla vita? Sì. È un inno all’amore? Sì. Ma è anche un inno agli istinti primitivi dell’uomo. Ed è solo con il tempo, quando si imbatte nel suo secondo maestro di vita, Nicola -dopo l’abate Narciso- che capisce come l’esistenza non può essere solo quello. Capisce che anche lui ha delle abilità. Ancora inespresse, ma innate. Ancora nascoste, ma pronte ad uscire alla luce. Boccadoro cerca questa possibilità, Nicola gliela offre, Boccadoro la raccoglie. E scopre così il dono della bellezza e dell’arte che possono scaturire anche dalle sue sole mani.

Di tutto questo Hermann Hesse racconta, come a testimoniarci la complessità dell’uomo. L’uomo che si ritrova nella propria vita da un estremo all’altro. Ci insegna che tutti noi abbiamo una strada e che talvolta sono altri a dovercela indicare -come Narciso l’ha indicata in un certo senso a Boccadoro-. E spesso si rivela la più tortuosa, la più sorprendente, la più animalesca. Ma alla fine è quella capace di definirti come uomo e come persona.

Spesso in più punti del libro, e questa è una caratteristica che solo in Hesse ho trovato così prepotente, è lo stesso autore a intervenire svelandoci contraddizioni, parallelismi e anomalie che si palesano durante il peregrinare di Boccadoro. Sembra quasi che sia lui stesso a recensire ‘al volo’ il suo stesso racconto. Come quando scrive “nello specchio scuro della fontana vide la propria immagine e pensò che quel Boccadoro che lo guardava dall’acqua non era più da un pezzo il Boccadoro del convento o quello di Lidia e neppure il Boccadoro delle foreste. Pensò che ogni uomo corre senza posa e si trasforma infine si dissolve, mentre la sua immagine creata dell’artista rimane sempre immutabilmente la stessa”. Questa considerazione solitamente viene relegata a noi lettori, chiamati a comprendere il significato allegorico del racconto: la caducità della vita umana e l’eternità dell’arte e di ciò che l’umano è capace di produrre. Comprendere questo significa lasciare un segno nella vita. E Boccadoro lo comprende. E da Nicola, l’artista, lascia il suo primo segno, creando l’immagine dell’artista. Un ritratto che è disegnato, quindi tangibile, da essere toccato con mano e che si palesa alla vista degli occhi, ma anche spirituale, che risiede nell’animo, e che si mostra alla vista del cuore. Disegnando Boccadoro arriva anche a disegnare la sua identità.

H. Hesse, dopo averci raccontato la crescita emotiva del protagonista, arriva a spiegarcela. Sono le ultime pagine. Sono la filosofia di vita di Hermann Hesse per bocca dell’abate Narciso. Un saggio pieno di saggezza (il gioco di parole è voluto) che tutti noi dovremmo farne tesoro. Il dialogo finale tra i due è tutto da leggere. C’è commozione, insegnamento, riconoscenza, tristezza. È un intenso colloquio che a tratti ricalca i colloqui filosofici di Platone. Dove il maestro guida l’allievo verso la consapevolezza con domande specifiche ed esistenziali. Tra le molte preziose pillole che Hesse (ossia Narciso) ci lascia, ne ripropongo qui una. Non è la più importante magari, ma riprende in parte ciò che ho detto poco sopra: “Molto prima che la figura artistica diventi visibile e acquisti realtà, essa esiste come immagine nell’anima dell’artista! Questa immagine dunque, questa immagine originaria è esattamente ciò che gli antichi filosofi chiamano idea”... “Ebbene, riconoscendo l’esistenza delle idee e delle immagini originarie tu entri nel mondo spirituale, nel nostro mondo di filosofia e di teologia, e ammetti che fra la confusione e il dolore di quel campo di battaglia che è la vita, in questa danza macabra senza fine e senza senso dell’esistenza corporea, esiste lo spirito creatore. [...]”

Grazie Hermann Hesse per la tua saggezza e il tuo insegnamento. Questo racconto, per essere compreso e gustato, richiede la collaborazione e l’applicazione del lettore. Allora sì che “Narciso e Boccadoro”, con un po’ di pazienza e di buona volontà nel seguire attentamente gli sviluppi del romanzo, possono diventare anche per noi dei piccoli maestri

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David B Opinione inserita da David B    03 Marzo, 2019
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La generazione perduta e il conflitto interiore

Non è mai facile leggere tra le asciutte, spoglie e pragmatiche righe di Hemingway per capire ciò che frulla nella mente di questo premio Nobel per la letteratura (1954). Si rischia sempre di cadere in grossi equivoci perché anche in Fiesta, come in ‘Addio alle armi’ ad esempio, non si ha la certezza della natura autobiografica del racconto. Eppure Ernest è davvero figlio della cosiddetta Generazione Perduta, una definizione che lui stesso ha contribuito a coniare riprendendo la frase di Gertrude Stein con lo scopo di racchiudere tutti quei giovani che avevano prestato servizio nella guerra trascorrendo dentro quella drammatica cornice i loro anni migliori. E infatti, com’è noto, lo scrittore partecipò attivamente alla Prima Guerra Mondiale arruolandosi come volontario nella Croce Rossa e operando sul fronte italiano. Ma non è l’unico indizio. Hemingway era solito recarsi proprio a Pamplona con la moglie e un gruppo di amici per assistere alle corride durante i festeggiamenti di San Fermin. Ed è esattamente questa l’ambientazione della sua storia. Insomma l’idea di voler associare questo romanzo a una sorta di autobiografia è sempre più forte. Ma se togliessimo questi filtri per analizzarlo in una forma più distaccata, la sostanza non cambia. La montatura è sempre quella, indipendentemente dalle lenti utilizzate. Ernest, con la sua forma breve e incisiva come è solito fare, ci introduce in una sorta di documentario descrivendo e narrando le emozioni, le inclinazioni e i costumi che attraversano gli animi e i cuori di quelle persone. Attraverso quei cinque personaggi che animano il racconto (Jake -in prima persona- , Bill, Mike, Robert e la bella quanto sfuggente Brett Ashley) lo scrittore ci racconta cosa sia la Generazione Perduta -o se preferite Lost Generation, dato che di questi tempi le citazioni in inglese hanno un’appeal sempre più efficace- che costituisce il soggetto e l’oggetto del libro.

Indecisione e voglia di libertà. Sono le parole chiave che mi sono subito venute in mente alla conclusione di questo libro. Sono le parole chiave che assocerei ai moti interiori di quei personaggi, e quindi forse allo stesso Hemingway, e quindi sicuramente alla Generazione Perduta. A rigor di logica, uno potrebbe pensare che la tristezza, lo sconforto e la frustrazione siano altri sentimenti emblematici di quel periodo storico. Tuttavia nel libro non ho mai avvertito quello stato d’animo. Dal momento che Jake, Mike, Bill, Robert e Brett non si rendono conto fino in fondo dei loro problemi che appaiono sì causati dal periodo storico in cui si collocano, ma connaturati alla loro stessa natura. Non sembrano avere la lucidità per comprendere la loro incapacità di decidere la propria vita, il proprio amato, il proprio futuro. Ma allo stesso tempo sono animati da una voglia sfrenata di libertà, di movimento. Vogliono viaggiare, vogliono sentirsi liberi, vogliono sperimentare. Se da una parte l’indecisione blocca mentalmente (e anche fisicamente) i personaggi impedendo loro di prendere una decisione, dall’altra la voglia del ‘nuovo’ obbliga loro a muoversi, a discernere, a definire un obbiettivo.
È un paradosso quello tra indecisione e libertà che non può che tradursi in uno scontro che, trasfigurato nella mente di quei personaggi porta alla confusione.
Brett che non sa decidere a chi donarsi, ma continua a cambiare uomo; Robert che vuole viaggiare, ma poi sul momento di decidere fa retromarcia, per poi compiere l’ennesima giravolta con un telegramma (“vengo giovedì”) che rettifica nuovamente la sua volontà; Mike che, non appena l’alcol gli fa effetto, insulta R.Cohn per la sua attrazione nei confronti di Brett che lo sgrida per la sua maleducazione, salvo poi biasimare e odiare anche lei Robert; è sempre Mike però quello che non sembra dispiacersi tanto quando viene a sapere dell’infatuazione di Romero per la sua amata.

Insomma lo scontro etimologico tra libertà e indecisione non è fine a se stesso, come ho appena dimostrato. E quello scontro, il cui effetto è una confusione sempre più palpabile, finisce per avere la sua forma più compiuta nell’alcool, nell’ubriachezza, nelle feste sfrenate, nella vita sregolata. E va da sè che la notte diventa sempre più alienante per i personaggi perché rappresenterebbe il momento della giornata in cui si trovano da soli, costretti a dover guardare i propri limiti e quindi a capire la loro identità che è dilaniata da quel conflitto. Motivo per cui il sonno è come bandito e la notte diventa il momento dei balli, dei drink, della fiesta. Per la generazione perduta non c’è differenza tra la notte e il giorno. C’è un po’ di animo romantico nei protagonisti, specie in Robert, per quell’ansia di libertà che fa muovere i nostri personaggi prima a Parigi per poi arrivare fino a Pamplona ad assistere alle corride.

È la ricerca della soddisfazione e della felicità, ma alla fine prevale sempre “la sensazione che tutto questo fosse qualcosa di ripetuto, qualcosa da cui ero già passato e da cui mi toccava passare di nuovo”. È questo il presentimento che sembra afferrare Jake all’inizio del racconto senza però comprenderlo appieno. È solo quando la festa (pardon, Fiesta) si conclude, quando Pamplona ritorna nel silenzio, quando il duro scontro tra indecisione e tensione verso la libertà si placa nell’animo, quando la musica cessa nelle strade e nei locali, quando gli uomini bevono le ultime gocce di vino nei loro bicchieri, che tutto torna a com’era incominciato. Con una differenza. Ora c’è la consapevolezza. Ed è questa presa di coscienza a rendere, stavolta sì, il finale amaro con Brett che, a mo’ di rimprovero verso se stessa, dice “ci saremmo potuti divertire tanto insieme” rivolta a Jake che replica, quasi sarcasticamente, “sì, non è carino pensarlo?”. Perché ora si può solo pensare, non più vivere. Prima si aveva vissuto, ma non si aveva pensato. È la generazione perduta.

Se mi chiedete come ho trovato la trama, vi risponderei che non ne esiste una, non come la intendiamo noi. Essa è esplicativa. In Fiesta non è il messaggio in funzione della trama, ma è lei stessa ad essere in funzione del messaggio.

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David B Opinione inserita da David B    17 Gennaio, 2019
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Guerra e amore, la contrapposizione dei soggetti

Guerra e amore , la contrapposizione dei soggetti


Precisiamo subito una cosa: lo stile, la profondità, le tematiche di Hemingway sono inattaccabili. E non possono essere poste sotto alcun giudizio, tantomeno del mio, comune lettore. I suoi libri celebrati addirittura dal Nobel del 1954 (se non vado errato) dovrebbero fugare ogni dubbio residuo in tal senso.

Tuttavia, a fronte di questa premessa doverosa quanto necessaria, devo ammettere -altrimenti scadrei nell’ipocrisia fine a se stessa- che questo libro mi ha lasciato piuttosto scettico.
Avete presente quelle persone che, chiamate a prendere una posizione, di fronte ad argomenti sensibili decidono di rimanere sul vago pur di non scontentare nessuna fazione? Ecco quando leggo “Addio alle Armi” ho la sensazione che il buon vecchio Ernest si sia comportato esattamente in questo modo. E non è certo meritorio. Abbiamo due grandi temi: la guerra e l’amore. Questioni e realtà profonde, contraddittorie che meritavano ampie discussioni e una certa dose di profondità nell’analizzarle. Hemingway poteva essere l’uomo giusto. Ma ha deluso le aspettative.

Le ha deluse per il semplice fatto che non si è sbilanciato, come ho già fatto presagire sopra. Non si comprende se il suo libro voglia essere una condanna alla guerra o un’accorato ed emozionante attaccamento all’amore. Se tanto mi dà tanto sono arrivato alla conclusione che abbia voluto trattarle entrambi.
Beh, diventa difficile allora spartire in modo funzionale e in così poco spazio tematiche così alte e pretendere allo stesso tempo che il lettore ne rimanga soddisfatto. Perché così non è avvenuto. Non solo per me, ma per molti altri, come si può constare anche leggendo altri commenti pervenuti in questa pagina
Ci sono pochi dubbi sul fatto che Hemingway abbia alla fine voluto giocare sul doppio binario della guerra e dell’amore - che però non ha certo pagato in termini di soddisfazione -. Il titolo è esemplificativo: “Firewall to arms“ può significare Addio alle armi o Addio alle braccia. A seconda delle lenti indossate per la lettura del racconto.

Secondo questo schema possiamo dividere il racconto in due parti:
Nella prima predomina il tema bellico su quello amoroso. Lo stile è asciutto,distaccato privo di enfasi. L’aggettivazione e il superlativo sono come banditi nel descrivere il tema della guerra che pure avrebbe, per sua natura, ben merito di essere raccontato con una certa drammaticità stilitistica. Le Grandi Guerre sono state l’apice della follia umana e la morte di migliaia e migliaia di uomini per mano di altri migliaia e migliaia di uomini. Ecco che l’odio per il conflitto militare non lo si percepisce tanto nella narrazione dello scrittore quanto nel dialogo dei suoi personaggi. Poi se seguiamo l’ipotesi secondo la quale il protagonista, il tenente americano Henry incaricato nell’esercito della Croce Rossa, identifica lo stesso Ernest Hemingway, allora le seguenti parole sono proprio le sue: “La mia opinione è che bisogna venirne fuori da questa guerra e non possiamo smettere noi soli. Se no viene qualche cosa di peggio della guerra”
“È impossibile, peggio della guerra non c’è niente” è la replica di un altro personaggio del racconto, che insiste, “Tenente, già che con lei si può parlare senta: non c’e niente di peggio che la guerra. [...]. Quando la gente vede fino a che punto è cattiva, non riesce più a fermarla perché è diventata scema”. “Tutti la odiano la guerra”
Il dialogo che si legge in quelle poche pagine fa capire bene quale fosse il sentimento prevaricatore tra i commilitoni di Henry.

Nella seconda parte prevale il grande racconto amoroso che finirà come finirà (leggere per capire) caratterizzato però da dialoghi sdolcinati, banali e ripetitivi. Ne avevamo avuto già qualche assaggio durante la convalescenza del nostro eroe.
Per il resto faccio fatica a trovare ulteriori elementi degni di nota.

Nel complesso un libro piacevole che però non ci restituisce nulla di più di quanto già sappiamo sulla Grande Guerra. Acquisisce una sua cifra significativa se si accetta (mai confermata, però) l’interpretazione che vede questo libro come una sorta di autobiografica di Ernest Hemignway. Altrimenti, ci sono altri scritti del nostro premio Nobel che meritavano di essere letti, più di questo, perché autentici capolavori.

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David B Opinione inserita da David B    27 Dicembre, 2018
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Il rapporto umano, l’ultimo bene

“Quelli come noi non hanno una famiglia. Mettono insieme un gruzzoletto e poi lo sperperano. Non hanno nessuno al mondo a cui importi un fico secco di loro...”
Questo è il dialogo (drammatico, da un certo punto di vista) che si ripete più di una volta durante il racconto di “Uomini e Topi” tra i due protagonisti: l’ingenuo, goffo e maldestro Lennie e, dall’altra parte, il fedele, saggio e responsabile George.
Mi sono approcciato a questo libro subito dopo aver ultimato “Furore”, grandissimo romanzo. Entrambi li trovo molto diversi, ma anche molto uguali. Uno relativamente breve e l’altro relativamente lungo, uno così enigmatico e sedentario (il luogo rimane sempre quello del ranch), l’altro così lineare e dinamico. Ma entrambi mettono in evidenza la grande crisi sociale che attanaglia da sempre il ceto più povero degli Stati Uniti d’America. Una conseguenza di una crisi economica durissima.

Prima ho usato un aggettivo un po’ inusuale per chi conosce Steinbeck, la cui penna si aggiudicò il premio Nobel del ‘62, ossia “enigmatico”. E lo ripeto con forza. È un libro enigmatico, misterioso, capace di suscitare continue domande, continui dubbi e collegamenti inusuali.
Il primo dialogo tra i due, prima che approdassero al ranch -vero teatro dell’intero racconto-, mi ha fatto ricordare “Aspettando Godot” (!!), opera teatrale di Beckett. Con il primo personaggio che non si ricorda nulla di ciò che si è detto, fatto e vissuto insieme al secondo che, tra l’infastidito e il divertito, continua a dare le stesse risposte alle stesse domande che tanto angosciano il suo amico.

Poi mano mano che il racconto procedeva l’ombra di Beckett si diradava sempre più fino a scomparire, fino a lasciare la mia ragione, stavolta, al buio. Buio completo. Non riuscivo ad afferrare il senso di tutto questo: perché George continua a rimanere fedele a Lennie, a dargli corda? Perché non lo lascia alla sua vita con beneficio per entrambi? Cos’ha di tanto speciale quell’omone così tenero quanto sciocco per il piccolo ma sveglio George? Domande su domande. La mia testa era nel caos: interrogativi pesanti senza nessuno spiraglio di risposta.
Mistero.
Enigma.
È un rapporto quello tra George e Lennie, su cui si basa l’intera vicenda, che inizialmente sfuggiva dalle mie capacità di comprensione. Ci sarà un motivo se il vecchio John, dopo una storia così ben lineare come quella di “Furore”, propone una storia apparentemente sconclusionata per rimarcare lo stesso j’accuse, mi sono chiesto.

Ed ecco che alla fine mi sono dato una risposta, piuttosto inusuale direi. C’è la volontà di far vedere come, nelle grandi crisi economiche che devastano e hanno devastato milioni di famiglie costrette ad emigrare nel loro stesso paese e ad errare per cercare una speranza di futuro, il rapporto umano sia l’ultimo bene, non commerciabile, a lasciare l’uomo. Il rapporto umano è necessario per la sua sopravvivenza. Anche se può apparire strumentale. Le continue illusioni sul futuro che Lennie e George amano ripetersi (a cui si aggiungerà anche Candy) permette loro di andare avanti, di vivere con speranza e impegno il presente.

E, infatti, quando anche questo castello di carte abilmente costruito con parole e autosuggestioni si rivelerà per quello che davvero è, ovvero utopia -perché nella società americana non c’è nessun appiglio né aiuto in tal senso, e neanche un senso civico motivato e forte (“io li conosco quelli come voi... tutto quello che intascate finisce in bordelli al sabato sera”), è l’accusa (e la verità) drammatica di Steinbeck-, ecco che l’amicizia di Lennie non ha più ragione d’essere. Se prima, pur con i suoi paradossi e le sue illogicità aveva ancora un senso, che era vitale, per George, ora è il contrario.

Ma sono gli Stati Uniti a perdere, non George, perché incapaci di alimentare quella volontà di riscatto e di speranze che i due vecchi amici stavano faticosamente tentando di costruire.

Questo è “uomini e topi”. Tutti sono uomini fino a quando si rendono conto di non essere in grado di raggiungere ciò che si erano prefissati e finiscono per rintanarsi e mettere le radici nell’unico posto che riescono a trovare, non importa quale esso sia.

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David B Opinione inserita da David B    22 Dicembre, 2018
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Quando il sacrificio non porta a nulla...

Economia, società, politica, e umanità. Questi sono gli ingredienti, le tematiche, i macrotemi a cui puoi ricondurre lo straordinario lavoro di Steinbeck, premio Nobel del 1962.
Fin dalla prima pagina di “Furore” si ha da subito la sensazione di non essere di fronte a un libro qualsiasi. È un drammatico dipinto della crisi sociale che coinvolse l’America a seguito della Grande Depressione del 1873 in cui il settore agricolo, quello più colpito perché ancora fondamentale, perse ogni punto di riferimento. La medesima cosa accadde drammaticamente alle persone che ne facevano parte. Tom Joad e la sua famiglia appartengono a questo ceto, duramente colpito. Soppiantati dai trattori, sfrattati dalla loro casa, si ritrovano depravati di ciò che loro hanno costruito con le loro stesse mani e costretti a fuggire in balìa degli eventi in una società, quella americana, ancora incapace di far fronte alla disuguaglianza e all’ingiustizia sociale che diventerà la cifra distintiva di quella realtà. E di questo libro. Perché “Furore” è uno squarcio di verità e realtà. Apre gli occhi, apre la mente, apre le coscienze.

Ed ecco che allora inizia un lungo e tragico viaggio in un climax di sofferenza che il lettore non può non avvertire. Si rimane attoniti e sopraffati dai vertici di emozioni suscitati dalle penna di Steinbeck. Oltre seicento pagine di pura avventura. Oltre 600 pagine di pura adrenalina. Dove si viene a conoscenza della rabbia, del furore (appunto...) di una parte di popolo. Si apprende infatti la fosca visione del ceto lavoratore e operaio verso le banche, la finanza, le grandi aziende il cui scopo, come si sa, è la massimizzazione del profitto. Il che significa incrementare la produttività e, in conclusione, la sostituzione dell’uomo con la macchina incuranti delle conseguenze sociali che ciò comporta; la competizione verso il lavoro che genera una grande domanda a fronte di un’offerta manuale e bisognosa di manodopera sempre più bassa. Questo determina un salario bassissimo per i lavoratori. È la corsa alla sopravvivenza. La famiglia Joad si ritroverà costretta a vivere ‘alla giornata’, a lottare per raccogliere l’uva, le pesche e infine il cotone per pochi centesimi all’ora. Necessari per quella poca carne, per quel tozzo di pane che permette loro di arrancare e andare avanti.

E quando si ci ritrova a lottare per sopravvivere ognuno si sente un peso per l’altro: la coesione famigliare verrà messa a dura prova e verrà alla fine salvaguardata, per quanto possibile, dalla donna. “Ma’”. Viene chiamata così nel racconto, la figura femminile più rappresentativa - per sua natura - che si porterà sulle spalle l’intera famiglia, incitando al sacrificio, alla sopportazione e alla fatica.

È con questa famiglia, con questo ritratto economico e sociale che Steinbeck lancia il suo grande j’accuse alla politica rea di non aver saputo governare il cambiamento e di aver abbandonato il ceto più povero a se stesso, ampliando le disuguaglianze. Pertanto è difficile immaginarsi un finale positivo per la famiglia Joad. Dopo 600 pagine si comprende la grande tensione sociale che si viveva in quel tempo, inevitabile quanto drammatica. Dopo 600 pagine si rimane attoniti nell’osservare l’incontrovertibile scorrere degli eventi che più si diradano nel racconto, più lasciano dietro di sè una frattura sempre più profonda nel tessuto sociale del paese e in quello intimo delle famiglie.

Ed ecco che allora si arriva all’umanità, l’unico ingrediente rimasto. Di valore. Merce rara e unica. Merce non commerciale appunto. E il gesto più alto di umanità non verrà fatto nei confronti della nostra sventurata ed emblematica famiglia che pure lo meritava dopo un viaggio di pura sofferenza, immensa frustrazione, vana dedizione, false speranze e sacrifico non ripagato. Eppure sarà la famiglia stessa a offrire, con il loro bene più grande che è rimasto in un tempo così difficile, il più grande gesto di umanità nei confronti di uno sconosciuto che sta per lasciare questo mondo dimenticato da tutti. Ma non dai Joad. Loro no. Poveri, sfiniti, malnutriti e maltrattati regalano umanità e dolcezza. Ed è nella potenza di quell’atto che nasce il sorriso, la condivisione e la speranza. Steinbeck ci insegna che l’uomo è di più, vale di più e può dare di più di ciò che sembra avere. Nonostante tutto. Ma è proprio per questo che nasce la rabbia anche - e sopratutto - in noi lettori, impotenti a ciò che stiamo leggendo e in balìa del racconto, che era la realtà di quel tempo, della famiglia Joad. Nasce il furore in noi e in loro.

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