Opinione scritta da archeomari
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Il nostro piccolo Marcel
“ (…) quando la Recherche mi capitò per le mani avevo già alle spalle diverse letture entusiasmanti. Avevo passato al setaccio - come avviene nell’età delle grandi scoperte artistiche - i russi, i vittoriani, i realisti francesi. (…) L’esperienza che mi stava regalando la Recherche era di tutt’altra natura. Come se la sua lenta, fatale, velenosa assimilazione titillasse un senso che non sapevo neppure di avere”.
“Proust senza tempo”: un titolo che afferma negando, un vero ossimoro. Lo scrittore che ha dedicato al Tempo e alla memoria del tempo tutte le sue energie per costruirgli una cattedrale, è in realtà, come Piperno ci dimostra in questo libro, un autore che travalica i limiti di quel tempo, diventando eterno modello dei grandi scrittori.
L’opera non si presenta come un saggio accademico, anche se la seconda metà, annunciata da una “Avvertenza”, raccoglie saggi scritti in occasioni diverse che Piperno definisce “esercizi di ammirazione”: è così che vorrebbe che noi, comuni lettori o studiosi patentati, li considerassimo.
Una struttura così pensata, lungi dal creare disarmonie, ha lo scopo di raccontare “la storia di una lunga fedeltà”, una dichiarazione d’amore, un amore che, superata la primitiva fase di pura esaltazione e di giovanili entusiasmi, è diventato più consapevole e maturo, ma non per questo meno intenso.
“Diciamo che con il trascorrere degli anni è cambiata la natura dello stupore che mi provoca”.
È la storia di chi comincia a leggere Proust a diciassette anni, grazie al dono di un compagno di studi, e finisce poi per insegnarlo all’Università.
Alessandro Piperno, scrittore affermato, vincitore con il suo romanzo di esordio “Con le peggiori intenzioni” del Premio Campiello nel 2005, è infatti professore di letteratura francese all’Università Torvergata e cura la collana I Meridiani Mondadori.
L’opera non poteva non cominciare con una breve riflessione sull’importanza che riveste il Tempo nelle nostre vite e nella letteratura e introdurci così l’autore che forse più di tutti ha fatto di esso il nucleo centrale della sua opera.
“(…)a cinquant’anni suonati, la maggior parte dei quali trascorsi a leggere romanzi, e a scriverne, una cosa ti pare di averla imparata: il Tempo per la narrativa è come l’ossigeno per l’essere vivente, questione di vita o di morte”.
“Proust senza tempo” è un libro piacevolissimo, ogni lettore del grande autore francese dovrebbe leggerlo, senza timore di imbattersi in complicate esegesi accademiche oppure in opinioni divisive come è capitato ad un libro di Piperno pubblicato nel 2000 per i tipi di Franco Angeli, “Proust l’antiebreo” (da cui ha preso le mosse il Brugnolo, ma non solo). E’ una sorta di debito che l’autore sente di avere da oltre trent’anni nei confronti di Proust “un debito inestinguibile”.
Piperno reintegra Proust nella sua totalità a dispetto di chi, come ad esempio Nabokov e Barthes, sosteneva di tenere ben separata l’opera dal mito del suo autore:
“Perchè rinunciare all’incantesimo che il mito di Proust continua ad esercitare? (…) chiamatemi ingenuo, accusatemi pure di melensaggine, ma scordatevi che alla mia età mi privi del piacere romantico di sovrapporre il destino di Proust a quello del suo alter ego. Sordo come sono a qualsiasi confessione religiosa, ho bisogno di credere che la vita si specchi benignamente nell’arte”.
Ma come si fa a contraddire uno studioso così sincero e appassionato? Come si fa a non commuoversi talvolta di fronte a certe confessioni di chi veramente ha vissuto e creduto - fede assolutamente ben riposta - nell’autore che ha raccolto e condensato il senso dell’intera tradizione letteraria francese da Hugo a Balzac ?
E devo dire inoltre che anche riguardo al presunto antisemitismo di Proust su cui Piperno torna più volte, sia nella prima parte del libro che in uno dei saggi, trovo assolutamente degne di rilevanza le argomentazioni dello scrittore romano e questo non soltanto per la sua autorevolezza e la sua competenza in merito a Proust, ma anche per la sensibilità che egli mostra per questa questione che gli sta veramente a cuore, vivendo lui stesso sulla propria pelle questa situazione anomala di chi vive “coi piedi in più staffe”: Piperno ha origini ebraiche.
A distanza di più di vent’anni dal libro controverso “Proust l’antiebreo”, egli ammette di avere adesso una posizione più morbida, ma tuttavia si dichiara convinto di un particolare “imbarazzo”, una sorta di inadeguatezza, inettitudine in chi è mezzosangue.
“E’ tipico degli ibridi, dei bastardi, percepire e portare sulle spalle il peso di questa contesa ancora irrisolta”.
Avrei tantissimi passi ancora da citare, il mio testo è pieno zeppo di sottolineature colorate, post it imbrattati e adesivi segnapagine che fanno del libro un curioso oggetto con la frangia, ma non si può.
Una parola sui saggi: sono scritti pregiati, che oltre ad essere veramente interessanti, sono -qualità rara nei testi accademici - scorrevolissimi e accessibili, adatti anche al lettore non specializzato.
In essi Proust viene affiancato ad altri mostri sacri come lui: Montaigne, Nabokov, Virginia Woolf, Philip Roth, Dante, Balzac . Piperno coglie con arguzia nel binomio vita-arte i tratti in comune che Proust ha con questi autori e le loro opere, indipendentemente dal periodo storico in cui sono vissuti.
Perché l’opera di Proust è senza tempo.
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Un terribile brogliaccio?
Questo è il mio primo libro di Piperno e mi ci sono avvicinata semplicemente per la mia passione per Proust. Avrei potuto farne a meno e cominciare dai suoi saggi critici…? A leggere le stroncature che si trovano in giro nelle varie communities di lettori, in cui fortunatamente mi sono imbattuta solo a lettura terminata, si direbbe che ho sbagliato.
In realtà, no. A me è piaciuto e lo sbandiero senza reticenze.
Tuttavia mi chiedo: ma com’è possibile che in Italia osanniamo sempre autori stranieri, considerandoli gli iniziatori di tutti i generi possibili, modelli da non imitare altrimenti diventiamo le “brutte copie” di Roth, Nabokov eccetera e poi, quando troviamo uno scrittore nostrano, uno scrittore italiano vero, lo stronchiamo senza pietà.
Qual è la causa?
Una caratteristica congenita della nostra italianità o…semplicemente l’invidia? Perché Piperno ne ha ben donde per essere invidiato: scrive benissimo, è direttore dei Meridiani Mondadori, accademico ha scritto saggi su Proust e questo libro ha vinto il Campiello Opera Prima.
Scrive meravigliosamente, soprattutto questo.
Nemo propheta in patria.
Per fortuna lo scrittore non si è fermato a “Con le peggiori intenzioni”, il suo romanzo d’esordio, un esordio leggermente maturo, a trentadue anni. Lo stesso autore in una intervista televisiva sostiene che questo libro iniziale sia “un terribile brogliaccio”, esagerato, pieno di imperfezioni. Ci saranno queste imperfezioni: sicuramente quelli che amano Roth, i grandi nomi dei postmodernisti americani e altri autori che non ho ancora letto (Philip Roth grande assente nella mia libreria, ma recupererò) li avranno trovati tutti (ma senza spiegarlo nelle loro recensioni)perché …l’archetipo è insuperabile.
Ma ne siamo sicuri?
Oppure quando uno mostra e sa mostrare la propria virtù linguistica e letteraria dà fastidio?
Non sono solita fare queste lunghe dichiarazioni, ma trovare stroncature così nette e, soprattutto così numerose su anobii, mi ha fatta infuriare, perché non riesco a capirne la causa. È vero che in amore come nelle letture sui gusti non si discute, ma non è onesto stroncare un autore in due righe.
Io ho amato la scrittura più della storia, che pure mi ha dilettato, mi ha fatto riflettere e anche sorridere, tante volte. Per una penna così si perdonano tante cose e non oso immaginare che libri meravigliosi abbia scritto in seguito.
“Con le peggiori intenzioni” è la storia della famiglia Sonnino, di origini ebraiche, (anche l’autore si definisce “mezzosangue”) appartenente all’alta borghesia romana, a partire dall’ esuberante, donnaiolo inguaribile ed uomo di successo Bepy e terminando con lo sfigato, timido, malinconico Daniel, nemesi e voce narrante, personaggio interno alla storia: entrambi conquistano indubbiamente le simpatie del lettore, nonostante le enormi differenze che intercorrono tra le loro storie e il loro temperamento.
Interessante lo sfondo della Roma bene, le feste coi lustrini che riempiono di scandali le riviste patinate, l’ebraismo contemporaneo e le allusioni all’Olocausto, piccola ombra che ogni tanto trapela dalle pagine
“Bepy e Ada si sentivano in credito. Ecco tutto. Solitamente la gente che ha rischiato la pelle sviluppa, in seguito al trauma, una circospezione travestita da incubo notturno o da diurno presentimento. Ecco, invece, i Sonnino attribuirsi una speciale immunità plenaria, sorretta da una parte dalla convinzione che chi ha avuto il fegato di traversare una così enorme sciagura sia attrezzato al superamento delle successive di sicura minore entità, dall’altra dalla consapevolezza del diritto al risarcimento, garantito da qualsiasi religione monoteistica e da ogni giurisprudenza liberale”.
Forse un po’ per questo “sentirsi a credito”, un po’ per la naturale propensione alla bella vita (e alle donne giovanissime e belle), lo scialo del denaro nella famiglia di Bepy non porta sensi di colpa.
Ho avuto qualche difficoltà all’inizio a destreggiarmi coi nomi dei componenti della famiglia del protagonista e i personaggi che ruotano intorno a lui: i nonni, i genitori, suo fratello, lo zio gay che torna a Gerusalemme e scopre di avere un cancro , Gaia, la ragazza di cui è innamorato, che lo considera solo un caro amico e nulla di più, il fratello ubriacone e depresso di lei, il suo migliore amico, Davide, Nanni Cittadini che fa della sua somiglianza con una statua nel giardino della sua villa il pretesto per vantare origini illustri….di tutti c’è la storia familiare e probabilmente qualche piccolo taglio sarebbe stato opportuno. Tuttavia ho letto il libro con immenso godimento, l’ironia, la bravura nel narrare e nel descrivere fanno di questo esordio una promessa della nostra letteratura, la speranza che il mercato editoriale possa fare un salto di qualità.
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Traumatica “liberazione”
“Che la clandestinità in cui ho vissuto quest’esperienza dell’aborto appartenga al passato non mi sembra un motivo valido per lasciarla sepolta. (…) Ciò che è accaduto resta coperto dallo stesso silenzio di prima. È proprio perché nessun divieto pesa più sull’aborto che, mettendo da parte la percezione collettiva e le formule necessariamente semplificate imposte dalle battaglie degli anni Settanta – «violenza sulle donne» eccetera –, io posso affrontare, in tutta la sua realtà, questo evento indimenticabile”.
Un libro breve, ma intenso come l’esperienza che la Ernaux ha vissuto quando, da promettente studentessa di letteratura francese, ha dovuto imbattersi nell’aborto clandestino. Ora che il diritto riconosciuto alle donne di interrompere la gravidanza e di decidere sul proprio corpo è diffuso quasi in tutto il mondo occidentale, la scrittrice alle soglie degli anni Duemila ha sentito l’urgenza di scrivere, di rendere pubblico, di esporre al mondo intero quello che ha vissuto sulla propria pelle, un “evento” che per ogni donna, desiderosa o meno di diventare madre, rimane un trauma, una ferita che marchia l’animo col fuoco, in maniera indelebile.
Un evento indimenticabile.
L’evento per eccellenza che segna la vita di una donna.
L’evento della vita e della morte insieme, qualcosa di terribile, eppure tutto umano, tutto femminile.
“…un’esperienza totale”.
Con la sua penna cristallina, sofisticata, ma che sa aprire dei varchi col bisturi nell’animo del lettore, profondamente sincera, a volte anche cruda, la scrittrice, sempre attenta alle tematiche femminili, tiene incollati alle pagine fino alla fine del libro.
È una storia che fa riflettere, che rappresenta l’esperienza di tante ragazze e tante donne che, di fronte ai timori dei medici ed alla legge, hanno trovato la salvezza (troppo spesso anche la morte) recandosi da “fabbricanti di angeli”, o da “cucchiai d’oro”: appellativi per indicare questi medici e queste levatrici “non ufficiali” che clandestinamente, talvolta senza la minima precauzione igienica, “liberavano” la ragazza o la donna dalla gravidanza indesiderata.
La lettura è interessante per la testimonianza dei valori e delle ipocrisie della Francia, ma non solo, dei primi anni Sessanta: la condizione di essere incinta era un marchio che mostrava la patente di disponibilità sessuale agli occhi dei ragazzi. La Ernaux ovviamente aveva nascosto il suo segreto ai genitori e alla maggior parte dei suoi conoscenti, rivolgendosi a persone dalle quali avrebbe potuto sperare un aiuto.
È assente ogni forma di tenerezza, la protagonista non ha un attimo di esitazione, farebbe qualsiasi cosa pur di liberarsi di quello che potrebbe diventare un “fardello” insopportabile, non una parola di pentimento quando getta nella tazza del wc quel feto, quel bambolotto, praticamente già formato, opera della natura del suo corpo.
Al di là di ogni moralismo, di ogni principio etico, “L’evento” viene elaborato positivamente dalla scrittrice negli anni, perché le ha permesso di diventare una donna più consapevole della maternità
“Per anni, la notte tra il 20 e il 21 gennaio è stata un anniversario. Oggi so che avevo bisogno di quella prova e di quel sacrificio per desiderare di avere figli. Per accettare la violenza della riproduzione nel mio corpo e diventare a mia volta luogo di passaggio delle generazioni”.
Cinque stelle
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La strada senza ritorno
“La strada è coperta di sabbia bianca, e i primi della fila – a mani alzate – distinguono sulla rena smossa le tracce recenti di altri piedi scalzi: piccoli – piedi di donna, ancora più piccoli – piedi di bambino, e orme profonde di anziani. Quelle tracce incerte sono tutto ciò che resta delle migliaia di persone che hanno percorso lo stesso tratto di strada, come stanno facendo queste altre quattromila e come, dopo di loro, di lì a un paio d’ore, faranno le altre migliaia che aspettano il proprio turno sul binario nel bosco. Oggi come ieri e come dieci giorni prima, oggi come domani e tra quindici giorni, oggi come per tutti i tredici mesi in cui esistette l’inferno di Treblinka. I tedeschi la chiamavano “la strada senza ritorno”.
Un’altra testimonianza dell’Olocausto che ho letto quest’anno, lasciata da una penna eccelsa, Vasilij Grossman, e che si associa a “Stalingrado”, per l’esaltazione e la celebrazione della storica battaglia in cui l’Armata Rossa sconfisse una volta per tutte l’esercito tedesco.
Sono libri che vanno letti e riletti anche se urtano la nostra sensibilità, perché parlano dell’essere umano quando di umano non ha più nulla e sto parlando sia delle vittime che dei carnefici. Una terribile ferita nella nostra storia occidentale che non bisogna coprire e ignorare, ma tenere sempre viva e presente.
Lo scrittore riporta testimonianze dirette ed indirette e ogni volta è un pugno nello stomaco, nonostante io abbia letto molte storie riguardanti questi terribili eventi, però colpiscono le riflessioni di Grossman sulla sofferenza degli uomini e delle donne che da un giorno all’altro si sono visti caricati su un treno come bestie e portati a Treblinka, in Polonia: all’inferno sotto ogni aspetto.
“È stupefacente come quelle bestie riutilizzassero ogni cosa – cuoio, carta, stoffa, tutto ciò che era servito agli esseri umani serviva, tornava utile anche alle bestie. Solo la cosa più preziosa al mondo – la vita – veniva calpestata. Intelletti generosi e robusti, anime pure, occhi innocenti di bambino, cari volti di anziani, belle teste altere di ragazza che la natura aveva faticato secoli e secoli a creare, scivolarono come un fiume silenzioso e infinito nell’abisso del nulla. Bastano pochi secondi per distruggere ciò che il mondo e la natura hanno creato nella gestazione lunga ed estenuante della vita”.
Il disprezzo e anche una certa ironica ammirazione verso i tedeschi che, come si fa coi maiali, non buttavano via nulla delle loro vittime (esseri umani!!!), finanche i capelli che venivano usati per cordami e parrucche per i più ricchi. Se l’Armata Rossa non fosse arrivata in tempo, Hitler l’avrebbe fatta franca e nessuno avrebbe potuto conoscere gli orrori dei campi di sterminio.
A noi lettori il dovere di ricordare
“tenerlo a mente ogni giorno, e con grande rigore, chiunque abbia cari l’onore, la libertà, la vita di ogni popolo e dell’umanità intera”.
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La storia non decolla
Conoscendo l’autrice da “L’albergo delle donne tristi” mi aspettavo maggiore profondità nella storia, maggiore originalità nei personaggi e invece sono rimasta delusa.
Ho avuto la sensazione di una spiacevolissima superficialità, nella trama e anche soprattutto nel finale che mi è sembrato scontato. Ho sperato fino alla fine in qualcosa di migliore, in qualche passaggio sublime che giustificasse la lettura, ma non è arrivato. Dirò di più: se l’autrice volesse passare per femminista, a conti fatti non lo è. Basti pensare a questo Miguel Flores, dinanzi al quale capitolano tutte le donne importanti che ruotano attorno alla protagonista, Donna Amelia. L’unica che non lo porta a letto, scusate la brutalità.
Lo sfondo storico nel quale la storia si è ambienta è interessante: siamo in Cile, sotto la dittatura di Pinochet e Miguel Flores è un esule politico che trova asilo presso la ricca vedova latifondista donna Amelia, proprietaria della Novena, che lo accoglie sotto la sua ala protettrice.
Il luogo in cui lei abita è un locus amenus, natura, albe, tramonti, fiori magnifici, frutta rigogliosa da gustare e una ricchissima biblioteca.
Il paradiso. E lei è la regina incontrastata, servita, riverita, con una storia alle spalle interessante, intelligente, dai pensieri profondi che il lettore sottolineerà a profusione.
Interessanti le riflessioni sulla tortura come aggressione che toglie anima ed umanità, meravigliosi i passaggi sulla lettura e sull’infanzia come paradiso perduto.
Ma finiscono qui le note positive.
Miguel, molto più giovane di lei, tradirà la sua fiducia nascondendo nelle terre della Novena delle armi e, quando verrà scoperto, lui riuscirà a scappare, ma la sua povera benefattrice subirà le torture dagli scagnozzi del regime per colpa sua.
Dopo tanti anni di lontananza, Miguel, divenuto scrittore famoso di libri per bambini, vissuto completamente senza sensi di colpa in Inghilterra, preso dalla nostalgia e dalla gratitudine cercherà di tornare in Cile, ma… lascio a voi scoprire il resto.
Ho avuto la sensazione di girare come una falena impazzita attorno ad una lampadina, la lettura non mi ha dato soddisfazione e non mi ha lasciato quasi niente. Mi sento ingannata, perché le prime trenta pagine mi avevano incantata.
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Amore sincero ed orgoglio profondo
Grazia Deledda rimane ancora oggi la prima - e, purtroppo, l’unica - italiana vincitrice del Premio Nobel per la letteratura. Una voce a parte, non solo per la “sarditudine”, ma per la particolarità e l’originalità della sua scrittura e del suo stile, che la rendono refrattaria ad ogni tentativo di inserirla in una qualche corrente letteraria dell’epoca.
Nè verista, nè decadente, ma sarda… sarda e basta. Come scrisse all’editore Trèves di Torino quando era ancora una ventenne piena di ambizioni e sogni, a trent’anni avrebbe desiderato diventare la prima scrittrice di “letteratura interamente sarda”.
Una voce a parte, dunque: Grazia Deledda vinse il Nobel, con grande disappunto di tanti scrittori tra cui Pirandello (Nobel quasi dieci anni dopo), perché non aveva alle spalle studi regolari: la scrittrice aveva frequentato la scuola fino al quarto anno della primaria, aveva avuto un insegnante privato e poi aveva studiato interamente da autodidatta. Non era considerata, dai circoli intellettuali e letterari dell’epoca, una scrittrice colta, meritevole del più prestigioso riconoscimento alla carriera.
La letteratura è vocazione precoce per la scrittrice, un richiamo irresistibile lo testimonia la prolificità della sua produzione, di cui il romanzo “Marianna Sirca”, pubblicato nel 1915, è esempio di motivi e temi che ne sono alla base.
Marianna Sirca è personaggio femminile molto forte, orgoglioso, una vera dominatrice.
Trascorsa la fanciullezza e la giovinezza al servizio del ricco zio sacerdote a Nuoro dove i genitori l’avevano condotta in vista della succosa eredità e dove era trattata peggio che una serva, a trent’anni torna nella “tanca”, nell’ appezzamento di terra del padre, ricca, trentenne, completamente ignorante in questioni amorose.
Lì incontra Simone Sole, un giovane che era stato servo dei genitori di lei, ora divenuto brigante, allo scopo di vivere in libertà: è amore a prima vista. Lui le confesserà che da ragazzino la odiava sapendola più ricca di lui, sapendola destinata a un matrimonio favorevole, laddove le sue bellissime sorelle, perché poverissime, non avrebbero potuto sperare in nessun avvenire che non fosse la reclusione in casa interrotta da qualche messa.
È subito amore adesso, al primo incontro.
“Egli sarebbe tornato. Le aveva messo un anello intorno al polso, di cui non era facile liberarsi. E di nuovo lo rivedeva nell’atto di guardarla tutta con uno sguardo intenso come la carezza di una mano amorosa; e sollevando gli occhi, nel buio, arrossiva sul suo guanciale come se il viso di lui pure intraveduto nel sogno che non ha consistenza, si accostasse al suo e il battito delle loro tempia si confondesse in un battito solo. (…) E il pensiero che il demonio le fosse davvero penetrato nell’anima e nel corpo sotto forma di Simone, le diede un senso di angoscia e di vergogna”.
Mai dimenticare che lei è la padrona e lui è il servo. Lo stesso Simone è combattuto nonostante l’intensità dei sentimenti che prova per lei: lui, un brigante, si innamora? E di chi? Della donna che ha sempre detestato quando era un ragazzino!
Marianna Sirca è una storia di un amore profondo e sincero, ricambiato, ma anche di orgoglio: Marianna sfiderà le convenzioni, gli ostacoli sociali per realizzare quel loro impossibile sogno d’amore, ma non rinuncerà mai all’orgoglio.
La protagonista è un personaggio forte che si erge su tutti gli altri maschi della vicenda, fa valere la sua volontà su quelle del genitore, del cugino Sebastiano e sui consigli della serva Fidelia.
È testarda e terribilmente orgogliosa. E l’orgoglio ha un prezzo altissimo da pagare.
L’altra protagonista della storia, come per tutti i racconti e i romanzi più maturi della scrittrice, è la natura aspra ed arsa della terra sarda.
Una natura umanizzata, descritta non senza picchi di lirismo autentico: gli alberi sembrano sussurrare, le ombre minacciare, angoli di roccia custodiscono segreti ancestrali.
“Dapprima fu il monte d’Oliena, bianco, fatto d’aria, poi i monti di Dorgali a destra e quelli di Nuoro a sinistra, azzurri e neri; e d’un tratto tutto l’orizzonte parve fiorire di nuvole d’oro. Era la luna che spuntava.
E subito al velo d’oro che si stese dai monti alla Serra parve sovrapporsi un altro velo, una rete di perle che tremava sopra tutte le cose e le rendeva più belle, più vive nel sogno. La foresta rideva nella notte, eppure le foglie che cadevano dagli elci parevano lagrime. Erano gli usignoli che cantavano”.
La Deledda ha traghettato la Sardegna, il suo mondo mitico in Europa e nel mondo, facendola diventare l’archetipo di ogni luogo dove si consumano i drammi dell’umanità.
È d’obbligo ricordare che la recente critica delle varianti ha riconosciuto l’indiscutibile apporto della scrittrice alla storia della nostra lingua e della nostra letteratura: confrontando i testi autografi e le correzioni delle edizioni a stampa, è impossibile non riconoscere l’importante lavoro di rielaborazione, di trasposizione del microcosmo sardofono nel codice letterario di riferimento che era la lingua e la letteratura della penisola. È immenso il lavoro della Deledda: nei suoi romanzi migliori - e Marianna Sirca lo è - è riuscita e fondere codici diversi: uno orale, ancestrale, sardofono a quello scritto, di tradizione toscana, che era la letteratura italiana post unitaria.
Un merito che non le viene quasi mai riconosciuto.
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Ma Dio dov’era
“Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata.
Mai dimenticherò quel fumo. (…)
Mai dimenticherò quelle fiamme che consumarono per sempre la mia Fede.
Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere”.
“La notte” è un libro che andrebbe letto sempre, non solo il giorno della Memoria, così come tantissimi libri e tantissime testimonianze che i reduci dei campi di concentramento ci hanno lasciato nonostante i traumi di una esperienza che ha travalicato i limiti dell’umanità.
In essi si legge la trasformazione dei prigionieri sopravvissuti in larve e i carnefici in macchine senza umanità, per non parlare dei poveri cadaveri straziati e abbandonati.
Leggere questi libri è una esperienza sempre difficile da vivere, perché si prova vergogna per la propria specie e si prova paura e orrore: è la verità su quanto male possano fare gli uomini ai propri simili in mezzo alla complicità o all’indifferenza.
La Shoah è un esempio universale sempre valido e, se pur non si è forse più ripetuta una strage di quella portata, sappiamo però che noi uomini siamo in grado di toccare un fondo impensabile e inimmaginabile e che la nostra mente e la nostra sensibilità sono fatti per accettare, con l’abitudine, a lungo andare, la violenza dell’uomo ai danni di un altro uomo.
Si dimenticano i legami più cari e più stretti per un tozzo di pane, si perde la vergogna, ogni valore morale di fronte alla paura di perdere la vita in un forno crematorio. Elie Wiesel, per fortuna, non dimenticò mai suo padre durante l’esperienza ad Auschwitz e a Buchenwald, nonostante la tentazione spesso provata di sentirlo come un fardello ormai inutile di cui liberarsi.
Perse dal primo momento la madre e la sorellina Zipporà che fu costretto a lasciare quando -prima delle famose “docce” - vennero separati gli uomini dalle donne, per non rivederle mai più.
Elie perse però un tesoro importante: sé stesso e la fede in Dio.
“La notte era completamente passata. La stella del mattino brillava nel cielo. Anch’io ero divenuto del tutto un altro uomo. Lo studente del Talmùd, il ragazzo che ero, si erano consumati nelle fiamme”.
Aveva soltanto dodici anni.
L’esperienza della deportazione in carri bestiame, dal villaggio di Sighet in Transilvania ad Auschwitz, della vista dei bambini e dei neonati cremati o fucilati mentre venivano lanciati in aria come per il gioco del tiro al bersaglio, la paura delle selezione, regolare e implacabile, le condizioni disumane in cui è vissuto insieme agli altri prigionieri fino al giorno della liberazione: questo è il contenuto del libro.
Abbandonati da tutti, abbandonati da quel Dio che non si stancavano di implorare, mentre Elie aveva ormai smesso di crederGli dall’inizio delle disumane vicende.
Il libro è molto breve, meno di cento pagine, ma atroci.
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Bella, libera e indipendente
È il mio primo libro di Yukio Mishima, l’ho letto tutto d’un fiato, anzi ascoltato tramite audible, perché ero curiosa di scoprire come sarebbe andata a finire, la scrittura è scorrevole senza salti temporali, né richiede particolare concentrazione.
Lo consiglio se volete una lettura leggera, sono sicura che a molti piacerà, perché è interessante l’indagine psicologica accurata della protagonista, Asano Taeko, ricca proprietaria di una prestigiosa casa di moda di Tokyo, divorziata, disinibita trentanovenne che perde letteralmente la testa per un giovane gigolò ventunenne, Senkichi.
Taeko, prima di questo incontro, frequentava senza innamorarsi mai, solo coetanei distinti, appartenenti al mondo patinato della moda, dell’alta società: l’incontro con questo meraviglioso, giovane e misterioso ragazzo fa saltare tutti i dubbi e crollare ogni timore per i giudizi altrui. Le scene d’amore sono delicatamente accennate, senza descrizioni esplicite: caratteristica della letteratura giapponese “vecchio stampo”, nonostante la storia in generale scandalosa.
A parte lo studio e lo scandaglio della mente e degli atteggiamenti di Taeko, unico vero personaggio a tutto tondo del libro, questo primo incontro con lo scrittore giapponese mi ha abbastanza deluso, mi aspettavo una prosa letteraria, contenuti originali, un afflato interessante. Mi è sembrata la solita storia della bella donna matura che per la prima volta scopre il vero amore in un toy boy, dal carattere monolitico, solamente bello e dannato.
La letteratura giapponese offre di più, anche lo stesso Mishima, mi è stato detto, ha scritto libri decisamente migliori.
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Conversazione sulla vita
“Forse non è così terribile che le forze lentamente scemino. Andarsene bisogna pure in qualche modo. Chi come me vive in solitudine fatica a rendersi conto che arriva il momento di cedere il passo, che la vita è fatta di fasi e non si resta identici fino alla fine”.
“Al giardino ancora non l’ho detto”, Ponte alle Grazie nel 2016 e vincitore del Premio Rapallo nello stesso anno, è l’ultimo libro scritto da Pia Pera, appassionata di giardinaggio e traduttrice, prima di morire (proprio nel 2016) per una malattia neurodegenerativa che lei chiama nel libro “malattia del motoneurone” e che lentamente le porterà via le forze fisiche rendendola quasi paralitica.
Il titolo del libro è una citazione di Emily Dickinson: il giardino non sa che il suo giardiniere sta per andarsene. È una sorta di colpa per uno pseudoinganno involontario da parte della Pera per il suo amatissimo giardino:
“…l’inevitabile tradimento: il venir meno della persona che se ne prende cura. (…) Il giardino questo non lo sa. Di colpo cesserà ogni cura. La natura tornerà l’unica forza, si interromperà il dialogo tra uomo e paesaggio espresso nel giardino, la più effimera delle arti”.
Un capolavoro di pittura o scultura sopravvive al suo maestro, rimane intatto, ma un giardino…frutto di tanto lavoro, ha sempre necessità di cure, è un’opera d’arte effimera, temporanea che richiede gli sforzi perenni del suo creatore.
Nonostante si tratti di un diario senza date in cui la Pera registra il progredire della malattia che le sta strappando via via l’indipendenza materiale di muoversi a piacimento e di dedicarsi al giardino come un tempo, ho trovato la lettura veramente rasserenante e consolatoria. Più che un diario il libro sembra una conversazione della scrittrice con i suoi lettori sulla bellezza della vita.
Quand’è che la vita viene apprezzata nelle sue piccole cose, nei dettagli di un fiore, nel raggio di sole che illumina le tende, se non quando la si sta per perdere?
I pensieri talvolta sono confessioni sull’eutanasia, sulla paura non della morte, ma del momento che precede la morte, su come da sana trovava ripugnanti i malati, quelli in carrozzella o nel girello e adesso…adesso che anche lei è malata, bisognosa di aiuto, prova vergogna per quei pensieri.
Pia Pera racconta brevemente dei nuovi medici che ha conosciuto e pur di guarire si affida anche ad un guaritore bretone le cui fissazioni sulle energie negative presenti in casa di lei la lasciano alquanto perplessa.
Non è un libro che parla di malattia e di medici, se non all’apparenza.
È un libro che parla della vita, della gioia di vivere e andrebbe letto da tutti, più volte nel corso della vita.
Il giardino, immagine miniaturizzata del creato, è sempre lì presente, nella sua interezza o tramite un fiore o una pianta, cui alla fine la stessa Pera assomiglia: ormai non riesce più a muovere le gambe e se non viene aiutata rimane bloccata in quel posto e , come il suo stesso giardino, ha bisogno delle cure altrui e delle visite e del calore degli amici.
Il giardino è simbolo della vita: “perchè in giardino si compiono cicli di resurrezione”.
Nel libro c’è la malattia, ma solo in parte. Ci sono tanti amici che le scrivono o che vengono a trovarla, ci sono racconti di passeggiate, si parla di bei libri, c’è la descrizione della gioia per un fiore sbocciato inaspettatamente, di un bel pranzo in compagnia, c’è la luce, tanta luce: è un balcone spalancato sul cortile.
“Alla vita -così bella, dolorosa e abbagliante -non si può chiedere nulla di più. E la morte? Credo che lo scopo della morte sia il rilascio dell’amore”
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A chi ama libri di riflessioni/confessioni
Lui ha riempito la mia vita
“ Bisogna averlo visto notte dopo notte, in quegli otto anni, per misurare realmente tutta la passione da cui era posseduto per i suoi personaggi e per la sua opera, e che finì per consumarlo.
Ci si domanda quando nella sua testa la giostra si sia fermata. Soltanto dopo, nel corso degli anni, ho capito che non si allontanava mai dal sentiero del suo libro. E se dico “il suo libro”, al singolare, è perché aveva sempre in mente la totalità dell’opera”.
Scoprire in poco più di tre mesi la grandezza di un’opera - che è indiscutibilmente uno dei pilastri portanti della letteratura mondiale - e la straordinarietà dell’uomo che l’ha scritta, è una delle esperienze più coinvolgenti che un lettore possa vivere.
Leggere i primi due volumi della Recherche du temps perdu e insieme la testimonianza autentica che la governante di Proust, Céleste Albaret, ci ha lasciato dello scrittore è qualcosa di unico ed emotivamente toccante.
Per quanto possano essere interessanti i saggi, gli scritti e gli studi di famosi accademici sulla grandiosa opera di Marcel Proust, niente si è rivelato essere più coinvolgente della testimonianza di chi è stato vicino a Proust, negli ultimi otto anni decisivi della sua vita, ne ha condiviso gioie e dolori, i ritmi di vita rovesciati.
“…è la sola persona a capire quello che io voglio ancor prima che abbia parlato. Conosce le mie abitudini, le mie carte. (…) se andasse via, non potrei più continuare a lavorare”.
“La mia Céleste”: indispensabile angelo custode, una sorta di seconda madre, senza la quale, possiamo ben dire, non avremmo potuto oggi noi leggere tutta la Recherche nella sua completezza. Proust era malato di asma dalla giovinezza, aveva bisogno di cure, non poteva condurre lo stesso stile di vita di una persona normale: prima di condannarsi ad una esistenza da recluso, usciva di sera tardi e dormiva di giorno. Céleste attendeva vigile il suo ritorno e capiva dall’espressione del volto di lui prima che parlasse, se la serata fosse stata all’altezza delle aspettative o solo una perdita di tempo: nel secondo caso si sarebbe trattato di un verso disastro, perché, incalzante la malattia, il tempo a disposizione per completare la sua opera andava stringendosi sempre più.
Marcel non faceva altro che ripeterselo di fronte a lei. Quasi sempre andavano a dormire in tarda mattinata, poiché lui desiderava raccontarle della sua serata e lei non desiderava altro che bearsi delle sue parole.
Le serate, gli incontri che si concedeva, ricorda la Albaret, avevano il solo scopo di servire alla sua Recherche: studiare i vari personaggi, i loro vizi o le loro virtù, addirittura un particolare di un abito, l’effetto di un fraseggio musicale avrebbero arricchito di autenticità la sua opera.
Una vita donata alla letteratura.
Proust si è letteralmente consumato su un letto, in una stanza gelida di rue Hamelin, ricorrendo solo a boule e a maglioni, animato da un unico scopo: mettere la parola fine all’ultima pagina della sua opera monumentale.
Tutto per la Recherche, ogni sacrificio, ogni respiro.
Non a caso, alcuni suoi amici o conoscenti si sono ritrovati nella Recherche. Il je non è altro che Proust e i suoi genitori, la zia Léonie sono i genitori, la zia, la nonna di Proust. Combray, Balbec hanno corrispondenze in Illiers, Dieppe e cabourg, ossia nei luoghi in cui lo scrittore è vissuto. Attraverso il libro “Monsieur Proust” abbiamo la conferma di quanto l’infanzia e la giovinezza siano stati determinanti per lui in quanto uomo e anche per l’opera.
Sono luoghi in cui non è mai più tornato, poiché :”i paradisi perduti, Céleste, li ritroviamo solo in noi stessi”.
“La mia vita accanto a lui non l’ho mai considerata nè un mestiere nè una servitù. Né lui, d’altra parte, mi trattava come una domestica. Probabilmente perchè aveva subito capito che ero affascinata e che sarei rimasta di mia spontanea volontà, per questo, credo,volle tenermi con sé e si creò tra noi quella meravigliosa intesa”.
Céleste era una donna semplice, senza cultura, ma era molto intelligente e dalla sensibilità spiccata. Quando conobbe Proust, lei lo ricorda nel libro come se ce lo avesse ancora davanti “questo gran signore”, lui era già famoso per alcuni suoi scritti, ma non era ancora all’apice della fama.
La pubblicazione di questo libro è stata dettata da una necessità ben precisa che la Albaret ricorda con insistenza: fare luce su di lui, perchè anche le persone che hanno conosciuto Proust hanno alterato qualcosa della sua vita, ci sono stati pettegolezzi, realtà deformate e lei si è sentita in dovere di rispettare la memoria di lui e soprattutto la verità.
Interessante leggere delle vicende del manoscritto rifiutato da Gide che fece poi ampia e circostanziale ammenda, la vittoria del Goncourt dopo la pubblicazione del secondo volume, le amicizie vere, quelle fittizie, le descrizioni della camera di Proust, la riservatezza e il pudore dello scrittore, i pensieri che condivise con Céleste.
Ogni pagina trasuda un’ammirazione che non si è spenta neppure dopo la sua morte.
In rete ci sono interessanti interviste rilasciate dalla Albaret per la tv francese all’indomani della pubblicazione della sua testimonianza, confluita nel libro (scritto da George Belmont) per i tipi di Robert Laffont, per noi pubblicato dalla casa editrice SE, nel 2004.
“Lui ha riempito la mia vita” , sono parole dette da lei in una delle interviste che ho reperito in rete.
Una donna straordinaria per uno scrittore impareggiabile.
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E’ di una bellezza che fa male…
“Aprì la porta ed entrò. Lo seguiva un giovane, che si tolse goffamente il berretto, indossava rozzi abiti che odoravano di mare e si sentiva evidentemente fuori luogo nello spazioso vestibolo in cui si trovava”
(Traduzione di Enzo Giachino, edizione Einaudi del 1977)
E’ così che comincia la storia di Martin Eden, protagonista che dà il titolo al romanzo più bello, forse, di Jack London. L’introduzione è già trama: Martin è un giovane che profuma di mari lontani, bisogna ancora leggere un pò per conoscerlo bene ed amarlo come ho fatto io in questa intensa lettura, che, confesso ancora meravigliata, non mi ha fatto rimpiangere l’euforia che mi ha trasmesso la Recherche proustiana .
Un corpo forgiato dal duro lavoro, Martin non è avvezzo ancora a trattare con familiarità i signori, i borghesi ricchi, tra cui il giovane, Arthur Morse, che lo ha invitato a casa sua a pranzo per ringraziarlo di avergli salvato la vita in una disavventura di viaggio.
La storia scorre fluida, è uno stile che conosco già: la penna di Jack London sa essere cruda, ma sa anche toccare fantastiche punte di lirismo.
Nel giro di pochi minuti nella casa del giovane borghese, Martin rimane fulminato e rapito dalla sorella di lui: Ruth.
“Era una creatura pallida,eterea, con grandi e spirituali occhi azzurri e una gran massa di capelli d’oro”. Ruth ai suoi occhi è tutto ciò che rappresenta la bellezza, la spiritualità, l’ineffabile, è una dea paragonabile a quelle creature cantate dai poeti.
Nonostante la sua ignoranza, sotto il complesso dei muscoli, scorre in Martin Eden una spiccata sensibilità verso la bellezza, sa apprezzare le poesie e da quel giorno si imporrà di studiare per conquistare la conoscenza, eliminare la goffaggine con cui si esprime per poter sperare di conquistare una donna simile, diventando suo pari.
“Martin Eden” è un romanzo di formazione, ma anche un’opera mondo ricca di tematiche interessanti dalla storia coinvolgente e dalla scrittura fluida, un libro che si “augura” ai giovani, come agli adulti.
È la storia di un giovane che cerca di farsi strada nel mondo della scrittura, con uno studio incessante, con una forza di volontà straordinaria che testimonia il desiderio profondo di un giovane di emergere dalla classe operaia da cui proviene per conquistare il cuore di una donna. È la storia di Jack London che prima di diventare un grande scrittore ha dovuto subire varie umiliazioni dalle case editrici, dalle riviste che gli rispedivano i manoscritti talvolta senza neppure un biglietto di spiegazioni sul rifiuto, senza averli letti.
Interessante scoprire le considerazioni di Eden/London sul mercato editoriale, su quegli scrittarelli che piacciono al popolino e ai borghesi che non sanno apprezzare un romanzo di spessore o un complesso saggio: filastrocche, poesie comiche, aneddoti, ciò che si vende facilmente.
Man mano che Martin studierà filosofia, scienza si avvicinerà al socialismo, prendendone però le distanze, distanze che nessuno riuscirà a vedere, a comprendere: ciò che meraviglia e delude fortemente il giovane è il fatto che proprio le persone più qualificate, laureate, con posti di potere nella società sono cieche o tontedi fronte ai suoi ragionamenti, preferendo la comodità dell’ordine precostituito e rimanendo legate alle apparenze.
Per diventare scrittore, Martin conoscerà la fame, la miseria più nera, sarà costretto a svolgere dei lavori disumani che annichiliranno il suo genio creativo, la sua intelligenza, la sua umanità, risparmierà sul cibo, impegnerà anche l’unico abito buono per presentarsi a casa dei Morse, una volta che, in maniera subdola i familiari di Ruth acconsentiranno al loro fidanzamento, nella speranza che la figlia se ne stanchi presto.
Al ogni fallimento di vedersi pubblicare le proprie opere, Martin si intestardisce sempre più e studia con maggiore accanimento le opere di autori di successo, cerca la bellezza, la smonta, la seziona.
“Non si accontentava di ammirare il raggiante fulgore della bellezza. La bellezza la sezionava in quel suo laboratorio che aveva impiantato nella minuscola camera da letto, dove gli odori della cucina si fondevano col baccano prodotto dalla tribù dei Silva, e sezionata la bellezza, studiatane l’anatomia, si sentiva più vicino a quel giorno quando anche lui avrebbe ricreato una bellezza di uguale valore”
Nessuno crede nei suoi manoscritti, nel suo genio, nel suo talento letterario, la stessa Ruth con dolce fermezza più volte cerca di distoglierlo dal suo intento di pubblicare romanzi e di “farsi una posizione”, “cercarsi un lavoro” che ottenesse l’approvazione dei suoi genitori e del mondo che rappresentano, in modo da potersi sposare. Quella fanciulla così eterea non è all’altezza dei sogni di Martin: trattata dai familiari quasi come una minorenne, una incapace senza esperienza in campo sentimentale,non riesce a liberarsi dai luoghi comuni, dalle apparenze per andare più in là, incontro a lui. L’amore di Ruth è sicuramente sincero, ma non è coraggioso, non è libero quanto quello di Martin.
“Nell’alchimia del suo cervello, la trigonometria, la matematica el’intero campo di scienze collegate con esse, si mutavano in una specie di paesaggio. Le visioni che scorgeva erano costituite di verdi fronde e radure, tutte dolcemente illuminate e solcate da raggi di luce (…) era come inebriarsi di vino”.
Martin è un universo di sogni e passioni, di forza di volontà, di intelligenza, audacia nell’esprimere scomode opinioni, difende Spencer e l’evoluzione, si dichiara individualista quando tutti trovano più comodo condannarlo come socialista.
L’arrivo del successo conferma già la parabola discendente dei suoi sogni: quel mondo borghese, che dalla sua altitudine sociale lo disprezzava, ora lo corteggia. Piovono inviti a pranzo ora che non muore di fame, personaggi importanti che lo avevano allontanato gli parlano ora con cortesia e faccia tosta: sono comportamenti che lui non riesce a capire.
Martin vive la dicotomia successo esteriore/insuccesso interiore, vorrebbe essere riconosciuto e amato per quello che è, per essere Martin Eden e non uno scrittore di successo.
Prova a riavvicinarsi ai suoi compagni di un tempo, ma si rende conto che impossibile: tra lui e loro si frappone una muraglia di libri di filosofia, di scienze, di letteratura. Ciò che ha da dire, da raccontare non può essere più compreso da loro. La cultura costituisce un punto di non ritorno e, paradossalmente è la sua condanna, perché non si può cancellare, in quanto è diventata parte di sè.
È la storia che esalta il valore dell’istruzione, della forza e del coraggio di inseguire i propri sogni rimanendo sempre fedeli al proprio io più profondo nonostante il successo.
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Mi sento di merda, ma ho un aspetto magnifico
“(…)io semplicemente sono altro. È dura per me avere un senso, a qualsiasi livello. Io sono un prodotto, un’aberrazione. Sono un essere umano non accidentale. La mia personalità è abbozzata, informe, la mia crudeltà è radicata e persistente. La mia coscienza, la mia pietà, le mie speranze sono scomparse tanto tempo fa (probabilmente a Harvard) ammesso che siano mai esistite. Non ci sono piú barriere da superare. Non me ne importa nulla di tutto quello che ho in comune con i pazzi e i deliranti, con i perversi e i malvagi, sono oltre tutto il dolore che ho causato e anche oltre la totale indifferenza che ho provato. Ciò nonostante, mi tengo ancora saldo a un’unica, squallida verità: non si salva nessuno, non c’è redenzione per nessuno. Dunque non mi si può biasimare”.
“American Psycho”uscì negli USA nel 1990 quando Bret Easton Ellis aveva ventisei anni - quasi la stessa età Patrick Bateman, il protagonista del romanzo - e già due opere al suo attivo.
Disturbante, terribile, provocatorio (?), violenza gratuita su animali, bambini, senzatetto, ragazze vivisezionate…personaggi superficiali senza filtro critico che, ricchi come Creso, frequentano esclusivamente locali chic, palestre a’ la page, preoccupati solo degli abbinamenti giusti per i loro abiti firmati…un elenco di firme, ogni capo riporta marca, spesso anche il prezzo e il luogo dove sono stati comprati.
Gioventù bruciata nel vuoto cosmico, generazione juppie anni ‘80 tesa verso il consumismo, gli sprechi, le apparenze, un edonismo senza valori: questo è lo spaccato di vita americana dell’epoca.
Diventare un uomo di successo, riuscire a prenotare un tavolo al Dorsia dove poter incontrare il suo idolo, Donald Trump, avere sempre i capelli a posto (una vera ossessione, maniacale), riuscire a non perdersi le puntate di Patty Winters Show e i suoi casi umani, portarsi a letto le migliori ragazze corpoduro, continuare a vivere senza un vero scopo, ma sopravvivere a tutto sniffando righe di coca.
“(…) quando vedo una bella ragazza camminare per strada penso a due cose. Una parte di me vorrebbe uscire con lei e parlarle ed essere davvero dolce e tenero e trattarla come si deve –. Mi fermo e mando giú il mio J&B tutto d’un sorso.
– E l’altra parte che cosa pensa? – domanda Hamlin, curioso.
– Che effetto farebbe la sua testa infilzata su un palo, – dico.”
Il libro è scritto in prima persona, siamo nella mente malata del protagonista, che verso le ultime pagine sbanda e parla di se stesso in terza persona chiamandosi per nome. È un romanzo, come si direbbe adesso, totalmente “fuori”, folle, con discorsi/riflessioni troncati all’improvviso, per rendere l’idea dello stato mentale spesso confuso di Patrick, che lasciano il lettore perplesso.
La narrazione è lineare, senza salti temporali all’indietro, ma solo in avanti. Scene di sesso esplicito, torture: lettura poco piacevole per molte persone, per questo sconsigliato.
Ho apprezzato la capacità dello scrittore di entrare nella mente malata del protagonista e scandagliarla nei suoi più intimi recessi e questo ha un prezzo per il lettore: pagine che non vorresti leggere tanto sono urticanti, stomachevoli, deplorevoli. Tutto ciò “scende giù” nonostante qualche sforzo grazie all’ironia, allo humor nero, qualche scena grottesca. Patrick è un bellissimo ragazzo, curato, colto, ricchissimo, sempre alla moda, amato dalle donne e…da qualche “checca”. Un giovane cui non manca niente…tranne la felicità e il sentirsi amato.
Interessanti le considerazioni sulle storiche rock band, sulla discografia di Whitney Houston (il protagonista ne parla in capitoli a parte, come se fossero degli intermezzi, degli stacchi della storia) consigli di bellezza, di marche di cosmetici e di moda, altre assolutamente non condivisibili in quanto razziste maschiliste, omofobe:
“(…)ho scoperto che si trattava di una cosa chiamata «Gay Pride», la parata dell’orgoglio omosessuale, e mi è venuto il voltastomaco. Orde di omosessuali marciavano orgogliose giú per la Quinta Avenue, con triangoli rosa ricamati su giacche a vento color pastello, in alcuni casi addirittura tenendosi per mano, e in genere cantando stonati e tutti in coro Somewhere. Sono rimasto lí a guardarli davanti alle vetrine di Paul Smith, sconcertato eppure affascinato, con la mente che si ribellava all’idea che un essere umano, un uomo, potesse sentirsi orgoglioso per il fatto di sodomizzare un altro uomo(…)”
È un libro dalla scrittura interessante, ma che sconsiglio vivamente ai deboli di stomaco.
Non è imperdibile.
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- sì
- no
Sogni e desideri
“All’ombra delle fanciulle in fiore”, parafrasando il titolo, è il volume dei “bocci”: giovani donne nel fiore dell’età e della giovinezza, i primi e sofferti amore dell’io narrante, atmosfere vaporose dell’estate, aria di vacanza.
Chi ha letto il primo volume, sa molto bene che i titoli sono indicativi: il contenuto torrenziale, dalla prosa ricca di volute, a trama quasi zero, è un fluire di ricordi, di suggestioni, di sensazioni, di riflessioni.
La lettura della Recherche, che sia il primo o l’ultimo volume, porta con sé sempre un po’ di smarrimento: ogni romanzo che la compone nella sua complessità è privo di quella struttura cui il lettore ha bisogno per orientarsi, per usare le parole di Carlo Bo, per “legare la risposta alla domanda, la soluzione al problema”. E invece con Proust tutti questi canoni saltano, vengono ribaltati e stravolti: ci troviamo di fronte ad una trama moltiplicata all’infinito.
L’opera riconferma dell’impareggiabilità di Proust, incoronata, stavolta, dal Premio Goncourt e anche dal plauso del pubblico.
Di fronte ai capolavori sublimi della letteratura mondiale, ogni commento entusiasta è pur sempre poca cosa.
La Recherche du temps perdu non è una rappresentazione della realtà, ma è una ricerca del passato , di quel “paradiso perduto” da far rivivere ogni volta dentro di sé, è una ricerca della verità. Una verità che però rimane pur sempre parziale e Proust lo sa e sembra -mi verrebbe quasi da dire - che ami lasciare il lettore in questa situazione di sospensione. Proprio come faceva al di fuori della finzione letteraria, stando a quanto testimoniato dalla governante del nostro scrittore, Céleste Albaret, nel libro Monsieur Proust.
Anche qui vi sono più centri e nuclei narrativi che si possono grossomodo ricondurre alle due parti che lo compongono: “Intorno a Madame Swann” dove l’io narrante si innamora della figlia di Swann, avuta da Odette, Gilberte, e dal capitolo delle vacanze a Balbec, dove impararerà ad amare Albertine.
Nella prima parte, quella che nel primo volume ci era sembrata una giovane cocotte scialba, ignorante è qui innalzata al ruolo di Madame Swann, donna matura, circondata da innegabile fascino e da immancabili corteggiatori. Lo scrittore ama mostrarci le sue toilettes, ci mette al corrente dei pettegolezzi scambiati con le sue ospiti nel grande salotto di casa Swann. Cura del dettaglio e studio delle impressioni: questa è una delle mille sfumature di colore che compongono la tavolozza del talento di Proust.
Il lettore non ha il tempo di sentire l’amaro in bocca per l’infelice matrimonio di Swann, che prova compassione per il povero Je narrante che si innamora, non ricambiato, di Gilberte. La prima parte, come anche nella seconda, include sempre un interessante spaccato sulla società che cambia, sull’aristocrazia che odora di stantio e che guarda con disprezzo e timore i parvenues, i nuovi ricchi così ben rappresentati nel primo volume dai Verdurin. Proust ce li fa conoscere senza raccontare in terza persona i personaggi più rappresentativi, ma attraverso il particolare dei loro vestiti, l’arguzia o l’imbecillità dei loro discorsi, la loro sensibilità verso l’arte, la natura, la bellezza, attraverso i loro discorsi. Sono personaggi che a volte sembrano avere vita propria anche al di fuori del romanzo stesso.
Ed è così. È innegabilmente così.
La seconda parte del romanzo è ancora più coinvolgente, più emozionante, probabilmente non ci saranno le stesse atmosfere nei volumi successivi: in Nomi di paese: il paese (da notare la variazione con il titolo dell’ultima parte del precedente volume) l’io narrante è con l’amata nonna a Balbec per respirare l’aria di mare benefica per la sua malattia, l’asma. Come nell’ultima parte del precedente volume, il richiamo all’Italia, al desiderio di vedere quei luoghi, coi suoi paesaggi coi suoi tesori d’arte fa da preludio al capitolo dedicato ai sogni, alla speranza di conoscere la bellezza, quindi al desiderio.
In questa parte l’amore e il legame con la nonna si mostra in tutta la sua necessità
“Una volta le dissi: “«Senza di te non potrei vivere. — Ma non bisogna, mi rispose con voce turbata. — Bisogna indurire il nostro cuore. Altrimenti, che ti succederebbe se io partissi per un viaggio? Spero invece che saresti molto ragionevole e molto felice. — Saprei essere ragionevole se tu partissi per qualche giorno, ma conterei le ore. — Ma se partissi per dei mesi... (a questa sola idea mi si stringeva il cuore) per degli anni... per...». Tacevamo tutti e due. Non osavamo guardarci. Eppure, soffrivo più della sua angoscia che della mia”.
E’ il romanzo della giovinezza, della “ridicola età, un’età per nulla ingrata, anzi feconda caratterizzata dallo stupore, dalla meraviglia, dagli errori di valutazione delle persone e quindi delle prime grandi delusioni. E’ il romanzo del sogno e del desiderio”.
“La pressione della mano di Albertine aveva una dolcezza sensuale in armonia, si sarebbe detto, col colorito roseo, leggermente mauve della sua pelle. Era una pressione che sembrava farvi penetrare nella fanciulla, nella profondità dei suoi sensi, come la sonorità della sua risata (…)”
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L’unicità di un mare
“Comincio a conoscere un po’ questo mare in cui me ne vado alla deriva, fiducioso. Conosco tutti i popoli che vivono attorno a esso. Ieri ero in Italia e di recente ho fatto il giro delle isole greche. Ovunque, e fino in Asia Minore e alle Baleari, ho trovato gli stessi popoli indolenti, forse stanchi di aver scritto da soli, per secoli, la storia del mondo”.
Premessa: questo libro è il mio primo Simenon e non sarò dunque in grado di trovare collegamenti, atmosfere, passaggi e richiami ad altre opere più famose del prolifico scrittore e reporter instancabile.
Ho sempre amato leggere di viaggi e soprattutto di viaggi per mare, diari di bordo e resoconti di avventure: “Il Mediterraneo in barca” si è rivelato una lettura interessante, godibile e soddisfacente.
Il papà di Maigret e di tanti altri libri ha una prosa asciutta, senza ornamenti, ma va dritta al punto, è efficace e possiede a tratti qualche passaggio quasi evocativo. L’occasione di scrittura di questo libro non ha bisogno di particolari spiegazioni: è la prolificità stessa dell’autore a spiegarne la necessità di scrivere qualsiasi cosa, dai romanzi agli articoli, ai reportage.
“Il Mediterraneo in barca” è una raccolta di scritti giornalistici e si presenta come un reportage pur mostrando anche riflessioni più o meno filosofiche sui popoli, su alcuni momenti storici e sull’uomo in generale. Nel 1934 Simenon a capo di una goletta fece il giro dei principali porti del mare nostrum guidato dal vento e provò a dare una definizione di Mediterraneo alla luce di questo viaggio.
“Il Mediterraneo è…”
Questa frase sospesa compare più volte nell’opera. È difficile dare una definizione del Mediterraneo, un mare così antico, crocevia allora, come anche adesso, di popoli, assomiglia proprio ad un corso, una strada maestra dove si incontrano tutti e ci si riconosce:
“Ed è un córso, ve lo garantisco, che assomiglia più di quanto possiate immaginare alla strada principale di una città di provincia. Quando ci si incrocia, ci si saluta. Diciamo buongiorno a Pierre e a Emma, ad Akrim bey o a Pepito. Un altro esempio: voi forse pensate che ci siano migliaia di imbarcazioni (…) Nel Mediterraneo ci si incontra sempre, che sia nella famosa taverna di Atene dove si mangiano i gamberetti arrosto, nel quartiere delle prostitute di Porto Said o negli ombrosi suk di Tunisi”
Lo stupore di chi non è mediterraneo è palese: Simenon non vede l’ora di raccontarci ciò che ha i visto, le storie che ha ascoltato e le esperienze che ha fatto, sia in mare, sia sulla terraferma. È colpito da come gli abitanti delle rive di questo mare conoscano l’arte di vivere alla giornata, sono poveri, ma sono felici, sanno godere della compagnia e della convivialità. Esemplare è la storia dei “cugini” di Angelino, il mozzo della sua goletta: non si tratta di suoi parenti, ma di compaesani senza lavoro fisso e senza fissa dimora che lui aiuta a far lavorare con lui in cambio di qualche ora di musica e di allegria. “Si va di qui, si va di là. Ovunque si vada, c’è un pezzo di famiglia. E ovunque ci sono una mano da dare, un sorso di vino bianco da bere, una scodella di minestra da mangiare”
Non ci sono personaggi principali, il protagonista è il Mediterraneo visto con gli occhi stupiti di un belga curioso. È difficile definire un mare così, non è il vento a definirlo, nonostante le immancabili bonacce e quelle spinte che gli hanno impedito più volte di lasciare definitivamente il tratto di mare da cui troneggia il Vesuvio per dirigersi verso Messina. Non sono i piatti di pasta italiani, non sono le canzoni, non sono solo i paesaggi e i monumenti. Il Mediterraneo è una combinazione unica di popoli e storia, sono questi che più di tutti gli altri fattori contribuiscono a rendere riconoscibile il nostro mare.
“Ebbene, qui siamo nella Bibbia, nel Vangelo. Centinaia di italiani, greci, turchi, siriani attraversano ogni giorno il Giordano in cerca della Terra promessa. Vanno dappertutto, in questo grande bacino, e non si sentono mai spaesati perché dappertutto è la stessa cosa”
L’edizione Adelphi contiene fotografie scattate dallo stesso Simenon, che, come scrive in appendice Matteo Codignola, considerava la fotografia quasi “una prosecuzione della scrittura con altri mezzi – o, naturalmente, viceversa”.
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Genialità di altri tempi
Un giallo firmato da Agatha Christie non può non essere interessante da leggere e godibile per adulti e giovani lettori.
Quando ho voglia di trama e di leggerezza un giallo classico è veramente terapeutico, anche se non vi ricorro spesso.
Per apprezzare l’opera bisogna ricordarsi dell’epoca in cui è vissuta la scrittrice e si rimarrà sbalorditi per la costruzione della storia e la storia stessa che sembrano quasi ideate per un film thriller di alta tensione con tratti macabri ed inquietanti.
La storia si consuma a Nigger Island, in una grande casa di proprietà di un certo signor Owen che invita per motivi diversi, tramite lettera, otto persone, sei uomini e due donne, che tra di loro non si conoscono. Quando queste persone si recano nella casa del signor Owen non trovano né lui, né la moglie, bensì i due governanti, i coniugi Rogers, i quali riferiscono di lavorare da poco per i padroni di casa, ma di non averli mai visti. Otto ospiti più i due domestici: dieci persone, dieci vittime come i dieci poveri negretti della filastrocca presente in ciascuna delle camere degli ospiti che muoiono tutti uno ad uno in circostanze misteriose.
Chi è il signor Owen?si farà vivo?e perché quelle persone sono state invitate e poi uccise?
Niente inizio in medias res, tutto parte dall’inizio, con trama lineare senza salti temporali importanti , tranne i vari flashback nelle vite delle vittime, necessari per la comprensione della storia.
Molto carino, ma non amando particolarmente la lettura dei gialli, non inneggio al capolavoro.
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UN’EVOCAZIONE DEL PASSATO
Primo volume della Recherche, Du côté de chez Swann, tradotto in Italia, a seconda delle edizioni, in Sulla strada di Swann (Einaudi) o Dalla parte di Swann (Mondadori), inaugura il vero romanzo moderno europeo, che segna più di tanti altri capolavori di riferimento del periodo, una rottura definitiva con la tradizione narrativa ottocentesca.
Non a caso, anche se soprattutto per pregiudizi nei confronti dello snobismo del suo autore, non ricevette il plauso del grande scrittore Andrè Gide, ingaggiato dall’editore Gallimard per scovare nuovi talenti e Proust fu costretto a rivolgersi al giovane (e coraggioso), nonché quasi sconosciuto editore Grasset e a pubblicarlo a sue spese. Era il 1913 e la risonanza dell’opera fu tale, che lo stesso Gide, ne dovette riconoscere la grandezza e fare pubblica ammenda nei confronti di Proust.
Alla ricerca del tempo perduto è un’opera impegnativa, si tratta di sette corposi volumi, è forse la saga romanzesca più lunga della storia della letteratura, oltre quattromila pagine: è naturale che ci si avvicini ad essa con un po’ di timore reverenziale e con la consapevolezza che la lettura dell’intera opera richieda mesi o anni. Lo stesso autore vi ha lavorato ininterrottamente da che aveva 37 anni fino a pochi istanti prima di morire, per una complicanza dell’asma di cui soffriva dall’infanzia, all’età di 51 anni. Céleste Albaret, la governante che si è occupata di Proust fino alla fine, qualche anno dopo la scomparsa del padrone, ha rotto gli indugi e ci ha lasciato una sorta di racconto delle giornate del grande scrittore, della sua malattia, delle sue notti passate a scrivere la Recherche fino a ridursi ad “una mano che scriveva” quel romanzo della sua vita che lo avrebbe finalmente consacrato scrittore (Monsieur Proust, Céleste Albaret, edizioni SE 2017).
Per apprezzare Proust, il lettore formatosi sul romanzo europeo dell’Ottocento, deve rassegnarsi a non trovare più il narratore che tiene sotto controllo trama e personaggi, perché è diventato inattendibile e la trama è quasi assente, così come è assente il narrare in terza persona. Queste sono le caratteristiche del Romanzo europeo del primo Novecento e le si possono trovare anche in altri autori, ma la vera rivoluzione, unica ed irripetibile consiste nello stile proustiano.
Il periodare di Proust è talmente nuovo -parola dei traduttori (Giovanni Raboni, Natalia Ginzburg) - la sua “voluta”, il suo periodo lungo anche più di venti righe, rappresenta una rottura con la stessa sintassi francese degli scrittori contemporanei.
L’opera di Proust è un universo a sé stante, coi suoi continui flashback, col suo personaggio-narratore interno che non è propriamente autobiografico, o lo è solo in parte e racconta più eventi, o meglio, più ambienti della Parigi di fin de siècle fino alla fine della prima guerra mondiale, muovendosi tra alta borghesia e alta aristocrazia terriera.
Dalla parte di Swann è diviso in tre parti: nella prima si raccontano i ricordi vissuti dal narratore da bambino in un luogo definito, Combray, le visite alla zia Léonie, i primi desideri, ingenui e indefiniti, d’amore infantili, l’attaccamento forte alla figura materna; nella seconda, per me la più bella, si narra della triste storia d’amore tra il signor Swann - di cui il narratore da bambino aveva sentito tanto parlare dai familiari- e la cocotte Odette de Crécy; nell’ultima parte, Nomi di paesi, il nome ci sono immaginifiche evocazioni che certi nomi di città italiane (e non solo) suscitano alla fantasia del protagonista. In quest’ultima parte si gettano le basi per il volume successivo, dove campeggerà lo struggente amore dell’io narrante per Gilberte Swann.
Proprio nelle pagine di Combray, compare il primo squarcio nel presente, una vera irruzione del passato alla coscienza dell’io narrante.
Un giorno d’inverno, sua madre lo aveva invitato a bere del tè con dei dolcini tipici, morbidi e bombati al centro, detti madeleines. Il protagonista invaso dal sapore e dal profumo di queste, sente risvegliare dentro di sé una forza sconosciuta, di cui sulle prime non riesce ad afferrarne le origini.
Ed ecco le più celebri pagine della letteratura mondiale:
“(…) nello stesso istante in cui quel sorso frammisto alle briciole del dolce toccò il mio palato, trasalii, attento a qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. Un piacere delizioso mi aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. Di colpo, m'aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, allo stesso modo in cui agisce l'amore, colmandomi di un'essenza preziosa: o meglio, questa essenza non era in me, era me stesso. Avevo cessato di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Donde mi era potuta venire questa gioia potente?”
Dopo vani tentativi in cui cerca di isolare queste sensazioni di felicità indefinita, quasi divina, perché il protagonista sente di avvicinarsi a qualche forma di verità, viene travolto dal ricordo legato a quel profumo e a quel sapore. Tutti gli strati del passato più recente e del presente più remoto svaniscono e l’io narrante vive, vive in tutta la sua pienezza, il momento in cui la zia Léonie, la domenica, quando lui era bambino, gli offriva del tè con gli stessi dolcetti.
Ecco l’origine di quel bagliore di felicità intermittente che spesso affiora agli strati più superficiali della nostra coscienza: un profumo, un colore, una melodia o meglio, una frase di una melodia (perché un altro squarcio sarà originato proprio dall’ascolto di una sonata al pianoforte) possono accendere la nostra “memoria involontaria” e farci toccare per pochissimi attimi il nostro passato. E il passato contiene in sé una qualche forma di verità, è realtà tangibile.
“Così è del nostro passato. È fatica inutile cercare di evocarlo, tutti gli sforzi della nostra intelligenza sono vani. Esso si nasconde, fuori del suo dominio e della sua portata, in qualche oggetto materiale (nella sensazione che quell'oggetto materiale ci darebbe), che noi non supponiamo. Questo oggetto, dipende dal caso che noi lo incontriamo prima di morire, o che non lo incontriamo”.
Innumerevoli i passaggi sottolineati, letti, riletti ed ascoltati: Proust è una esperienza di lettura unica. Ho amato particolarmente la seconda parte, ho visto nel signor Swann una sorta di alter ego dello scrittore, il suo frequentare i salotti mondani, la vacuità e le ipocrisie dei nuovi arricchiti (la famiglia Verdurin e il suo club esclusivo di “fedeli” tra cui l’amata Odette) e l’atteggiamento sprezzante dell’aristocrazia di nobile lignaggio che lo stesso autore frequentava.
È la sezione dedicata parzialmente alla vita del dandy, che ricerca il piacere, il bello, è educato all’arte e alla musica, è dannunzianamente “intriso d’arte”. Tutta la Recherche , a differenza del naturalismo francese che l’aveva preceduta, è ben lontana da ogni impegno e denuncia sociale.
Il piacere che si prova a leggere Proust consiste nell’ accorgersi che qualcuno per noi mette su carta, con prosa unica e stile irriproducibile, i nostri pensieri più inconfessabili, rivela le nostre sensazioni più difficili da descrivere ed elaborare. Proust le ha scritte per noi.
Manca ogni tentativo di idealizzare protagonista e personaggi, l’opera si muove su uno scandaglio continuo, su una indagine instancabile dell’animo umano e nei rapporti sociali. È uno spaccato della vita borghese dell’epoca, una testimonianza illustre, un diario della coscienza, un colosso letterario.
Proust non dovrebbe essere uno scrittore di nicchia, una squisitezza per pochi adepti, ma un autore universale che, come dice Franco Fortini in una intervista, “insegna a vivere e a morire”.
“Ma, quando di un passato lontano non resta più nulla, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, soli, più fragili ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l'odore e il sapore rimangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto il resto, a sorreggere senza piegare, sulla loro stilla quasi impalpabile, l'immenso edificio del ricordo”
“Come osserva il critico francese Arnaud Dandieu, Alla ricerca del tempo perduto è un’evocazione del passato, non una sua descrizione. L’evocazione (…)è costruita mettendo in luce momenti di vita scelti con cura, che costituiscono una serie di illustrazioni, di immagini. (…) La chiave per ritrovare il passato è quella dell’arte. La caccia al tesoro ha il lieto fine in una grotta invasa dalla musica, in un tempio ricco di vetrate istoriate. Gli dei delle religioni tradizionali sono assenti, o forse, più correttamente, sono dissolti nell’arte” (Vladimir Nabokov, Lezioni di letteratura, Adelphi, 2018)
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Come orli di nuvole irradiati dal sole
“La cosa spaventosa non è la tenebra, piuttosto la gran luce, dentro e intorno a me. Ci sono incarcerato dentro. Serrato dentro di essa al mattino, la sera, di notte. Circonfuso di luce da tutte le parti, fin dentro il più profondo angolo dell’anima (…)ahimè c’è quel cancro di luce che mi divora l’anima, luce da sopra, luce da sotto, luce di fronte, luce alle spalle, luce di lato, luce al centro, luce esterna, luce interna, tutto insieme, inseparabilmente (…)”.
Lo stile di Handke è un marchio di fabbrica riconoscibile. Dopo aver letto quattro dei suoi libri, posso ben dire che ne riconosco la scrittura, il carattere. Lo si indovina dalle prime pagine: non è esagerato dire che lo si potrebbe riconoscere in mezzo a tanti altri libri ed autori senza bisogno di barare guardando la copertina.
Per apprezzare l’opera di Handke, bisogna entrare in un rapporto di complicità con lui che quasi ci strizza l’occhio: il lettore deve far parte del gioco e partire dal presupposto che la sua scrittura dice una cosa, affinché il lettore possa intenderne un’altra.
È così: ogni storia ha bisogno di più chiavi di lettura, i sottintesi, le immagini, le parole che sceglie di usare chiedono qualche sforzo al lettore abituato a leggere trame monolitiche.
La scrittura di Handke possiede qualcosa di ineffabile, ma è fresca e piacevole. Può lasciare tuttavia il lettore nella frustrazione di non aver afferrato qualcosa.
È ingannevolmente “facile”, perchè Handke ti dà del tu, ti invita a non staccarti dalla pagina e il lettore si incuriosisce, vuole capire dove lo scrittore andrà a “parare”.
La conoscenza di altre opere mi ha permesso di ritrovare temi e immagini care all’autore: in “La mia giornata nell’altra terra” apparso a Berlino nel 2021 e da noi edito da Guanda -che sta curando tutta la produzione dello scrittore austriaco - appaiono motivi e immagini che ho trovato ne “La ladra di frutta”, come la presenza costante del paesaggio naturale (e della frutta) di figure umane borderline tra la realtà fenomenica e un’altra inafferrabile, un brivido di gioia tangibile che coinvolge il lettore e lo prepara a festeggiare la vita.
Trovo un Handke più maturo, rispetto ad opere più tristi e cupe come “Infelicità senza desideri”, che forse ha fatto pace col proprio passato, ha vendicato la morte della madre ne “La seconda spada. Una storia di maggio” (2020) e, come il protagonista del nuovo, breve romanzo, si libera dei suoi demoni, e
“fu un ritorno alla vita; fui di nuovo restituito al mondo, al caro pianeta, alla madre terra. Anzitutto abbracciai mia sorella (…) e poi caddi in ginocchio, con impeto senza curarmi del fatto che, insieme agli anni di follia, anche la mia giovinezza se n’era andata”.
“La mia giornata nell’altra terra” è la storia di un frutticoltore, “una storia che non ho ancora raccontato a nessuno”, che, considerato folle, posseduto, fuori di sè, dagli abitanti del suo villaggio, un giorno fa un incontro straordinario nei pressi del lago. Incontra gli occhi del “Buon Spettatore” (così tradotto da Alessandra Iadicicco, una ripresa del Buon Pastore? Interessante anche la presenza del “coro di pescatori”) e qualcosa di indicibile avviene in lui: si sente rinascere, si libera di tutte le sue ossessioni, dei suoi demoni, non si siede più sulla soglia di granito nei pressi del vecchio cimitero, ma va oltre, dopo un breve tragitto su una leggera barchetta, approda all’”altra terra”, laddove si arricchisce di una nuova vista, non più quella degli occhi, ma una facoltà nuova, “nelle spalle, sulla punta delle dita, nelle piante di piedi”. Nell’altra terra egli scopre la vera gioia, conosce la sua compagna, guarda negli occhi i bambini. Ha “il cuore libero e i sensi sciolti” .
La luce è sempre stata dentro di lui, soltanto che prima, ne aveva paura, ma dopo essere stato redento, si riscopre, si vede con occhi nuovi e la luce che vede dentro e fuori di sè, è la Saumseligkeit
“giocare con la “Saumseligkeit”: accorgersi degli orli più lontani, come nell’immagine che segue, l’immagine che scaturisce da quella originaria, della mia beatitudine davanti agli orli delle nuvole irradiati dal sole lassù in alto, nell’azzurro dell’estate”.
Ognuno troverà nella storia l’interpretazione più congeniale. Andando al di là di ogni lettura in chiave religiosa e mistica, la luce di cui il protagonista-Handke parla, potrebbe rappresentare il dono della poesia e della scrittura: un pò come le grandi ali dell’albatro di Baudelaire, che nel cielo lo rendono immenso, ma sulla terra, in mezzo agli uomini lo rendono goffo e brutto. È così la vita del frutticoltore prima di passare sull’altra terra: disprezzato dagli abitanti del villaggio per via del suo comportamento strano, delle sue “parole inaudite” che col tempo verranno da lui cantate a gran voce, tra lo stupore generale. Certamente è la storia di una cesura, di un profondo cambiamento nella storia personale e nei motivi nuovi e più consolatori dello scrittore austriaco, di cui aveva dato già prova ne “La ladra di frutta”.
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Dove dorme la ragione
Spesso i titoli sono emblematici e rivelatori, soprattutto se sono originali e non tradotti.
“Il mare non bagna Napoli” è stato pubblicato nel 1953 sulla rivista “Gettoni” fondata da Elio Vittorini e costò alla scrittrice l’allontanamento dalla città, perché il suo libro venne considerato “contro Napoli”.
In effetti, ad una lettura superficiale, potrebbe sembrare un libro che indugia a delineare la putrefazione a cielo aperto di una città “spaesata” dopo la guerra mondiale. Realtà messe su carta e sbandierate ai quattro venti dure da digerire, soprattutto per gli intellettuali e i politici del posto. Per la povera gente no, neppure avrebbe potuto leggerlo, quel libro, essendo totalmente analfabeta, in condizioni igieniche precarie e afflitta dalla malnutrizione.
Non volevano che queste “vergogne” venissero decantate negli articoli e nei libri della Ortese, che, nella prefazione all’edizione Adelphi, si chiede ancora in cosa abbia sbagliato nello scriverlo e pensa di trovare una risposta nella sua “nevrosi”, nella “metafisica”, questo volersi rifiutare di accettare “la realtà”, un suo personale ”spaesamento”.
L’esperienza della Ortese - facendo qualche forzatura, ovviamente - ha qualche analogia con quello che, qualche decennio prima, era successo a Grazia Deledda: gli abitanti del nuorese, capeggiati dal parrocchiano, erano convinti che lei avesse scritto romanzi e racconti contro il suo paese di origine.
All’inizio si è detto che il titolo sia importante: togli il mare a Napoli, hai tolto alla città il suo spirito e la sua grazia vitali. La città che viene descritta è una città distrutta dalla guerra, lacerata dal suo interno: orrore, macerie senza speranza di riscatto.
La scrittura della Ortese è sempre stata giornalistica e qui torna soprattutto nella seconda parte dell’opera. Un libro che ha varie facce: da un lato, la rappresentazione di una Napoli che rovescia la propria immagine, non più cartolina di paesaggio mediterraneo, dall’altro la contrapposizione con la classe intellettuale napoletana, dalla scrittrice accusata di non riuscire a scavalcare “le mura di cinta” dei propri orizzonti culturali.
I primi tre racconti, che quasi si staccano dagli altri scritti presenti nell’opera, sono quelli che più mi sono piaciuti e che ho letto voracemente, mentre la seconda parte mi è sembrata quasi fuori posto, disarmonica rispetto alla prima.
C’è una innegabile attenzione della scrittrice verso i piccoli e gli umili, verso il popolo napoletano oppresso dalle miserie, verso quei bambini che di infantile non hanno più niente se non l’età anagrafica. Stupendo il racconto “Un paio di occhiali”, dove, con estrema vividezza, vengono tratteggiati i personaggi, in particolare quello della piccola Eugenia, “quasi cecata” , che aspetta con ansia e con orgoglio di indossare gli occhiali dalla montatura dorata e con la catenella, costati a zia Nunziata “ottomila lire vive vive!”. Eugenia non è che la prima di tanti bambini invecchiati e ingialliti anzitempo, con le unghie sporche, il viso e i capelli appiccicati dal sudiciume, scalzi e talvolta senza vestiti addosso.
Meraviglioso, intimo e delicato, il secondo racconto, “Interno familiare”, dove la scrittrice dà prova di grandi capacità nell’indagine psicologica della protagonista, Anastasia Finizio, zitella inaridita dal lavoro con cui orgogliosamente mantiene la madre e la numerosa famiglia, che si scopre all’improvviso ancora giovane e papabile per il matrimonio quando una sua vecchia fiamma, un certo Antonio Laurano, torna a Napoli dopo anni di assenza e chiede di lei. Da napoletana ho avvertito veri, naturali, reali i personaggi, i luoghi, i modi di dire, ho apprezzato lo sforzo di cogliere l’essenza dello spirito del popolo, la sua tendenza alla tragicità, più che all’allegria. I personaggi della prima parte non sono certo personaggi storici, ma sono vivi e reali. Nella seconda invece l’autrice fa nomi e cognomi dei giovani intellettuali napoletani che aveva intenzione di intervistare per un articolo destinato ad un giornale del Nord Italia: Prisco, Compagnone, La Capria, Prunas (sardo trapiantato a Napoli), Pratolini che non era propriamente napoletano. Questi intellettuali deludono la Ortese, che si era recata a Napoli per trovarvi qualcosa di autentico, cercava “il Vesuvio e il contro Vesuvio, il mistero e l’odio per il mistero”, invece questi ragazzi si presentano svagati, malinconici, dal pensiero che “non esce dai confini del sesso, dal tumulto e dal peso del sangue”.
Nonostante la dicotomia che pesa non poco sulla gradevolezza dell’opera, credo che “Il mare non bagna Napoli” sia un documento straordinario che dipinge il quadro di una città bella, regale, offesa ingiustamente dalla guerra e da una classe politica ed intellettuale debole e scialba.
“Esiste, nelle estreme e più lucenti terre del Sud, un ministero nascosto per la difesa della natura dalla ragione; un genio materno d’illimitata potenza, alla cui cura gelosa e perpetua è affidato il sonno in cui dormono quelle popolazioni(…) . Buona parte di questa natura, di questo genio materno e conservatore, occupa la stessa specie dell’uomo e la tiene oppressa nel sonno; e giorno e notte veglia il suo sonno, attenta che esso non si affini. (…) Alla immobilità di queste regioni sono state attribuite altre cause, ma ciò non ha rapporti col vero. È la natura che regola la vita e organizza i dolori di queste regioni. Il disastro economico non ha altra causa”.
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La prima pittrice
“Ricordai la mia delusione quando papà mi aveva fatto vedere la Giuditta di Caravaggio. Mentre segava il collo dell’uomo, era completamente passiva. Caravaggio aveva concentrato tutta l’emozione sull’uomo. Evidentemente, non riusciva a immaginare che una donna fosse in grado di pensare. Io invece volevo dipingere i suoi pensieri, se una cosa del genere era possibile: la determinazione, la concentrazione e la fede nell’assoluta necessità di quel gesto. Il destino del suo popolo era tutto nelle sue mani. Non il piacere nel compierlo, solo la necessità di doverlo fare. E anche i pensieri di Oloferne: la confusione, il terrore, il mondo divenuto incontrollabile. Sì, era qualcosa che conoscevo. Quella parte ero in grado di farla. Ma Giuditta? Potevo farla?”
“La passione di Artemisia” è stato pubblicato nel 2002 ed ha avuto discreto successo in Italia. L’opera ha come focus una parte della vita di Artemisia Gentileschi, figlia del famoso Orazio, dal processo per “ripetuti atti carnali” alla morte del padre. La pittrice, come forse già si sa, nonostante fosse stata vittima di stupro da parte dell’ aiutante del padre, Agostino Tassi, fu costretta dall’ Inquisizione a sopportare la tortura delle sibille che le rese per lungo tempo impossibile tenere in mano un pennello. A diciassette anni Artemisia era già un talento per il suo papà, e non solo per lui, ma le terribili macchie sulla sua reputazione le resero impossibile restare a Roma.
L’autrice, Susan Vreeland, scomparsa da poco, è stata in Italia, nelle città dove è vissuta la Gentileschi e in una intervista ha detto di aver consultato almeno settanta volumi per documentarsi sulla biografia della grande pittrice, la prima donna che si mantiene coi guadagni del suo pennello e della sua arte.
Tuttavia sono rimasta delusa dal libro: a metà lettura sono stata tentata di abbandonare, ma per il rispetto che porto sempre ad un autore e al suo lavoro, mi sono sforzata di proseguire nella speranza di un riscatto, ma è stato logorante.
A parte qualche apprezzabile passaggio in cui la scrittrice ha provato a mettersi nei panni di Artemisia, presa dal sacro fuoco dell’estro artistico e la ricostruzione dell’amicizia con Galileo Galileo - ribelle quanto lei, ma nel campo scientifico - ho trovato la storia troppo romanzata, con parecchie libertà nella biografia dell’artista. A farmi storcere il naso sono state anche alcune pagine “rosa”. Artemisia, nel rapporto col marito, Pietrantonio Stiattesi, che la sposa per sanare i suoi debiti, non ha veramente nulla da invidiare a certi romanzetti sentimentali che strizzano spesso l’occhio ad una sensualità stantia, a momenti sdolcinati, che possono piacere per carità, ma che io posso sopportare solo nel caso in cui l’opera presenti però spessore letterario e rigore nella ricostruzione storica.
Non credo che leggerò altro dell’autrice.
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- no
RICORDI DI UNA DONNA STRAORDINARIA
“Vestivamo sempre alla marinara: blu d’inverno, bianca e blu a mezza stagione e bianca in estate. Per pranzo ci mettevamo il vestito elegante e le calze di seta corte. Mio fratello Gianni si metteva un’altra marinara. L’ora del bagno era chiassosa, piena di scherzi e di spruzzi; ci affollavamo nella camera del bagno, nella bagnarola, e le cameriere impazzivano. Ci spazzolavano e pettinavano i capelli lunghi e ricci, poi li legavano con enormi nastri neri”.
Nell’Avvertenza, Susanna (Suni per gli amici e i familiari) Agnelli, precisa che ha scritto”nel linguaggio che le è abituale nel parlare” i suoi ricordi d’infanzia fino al matrimonio con Urbano Rattazzi nel 1945. Un documento interessante per scoprire la vita delle famiglie dai grandi nomi nel ventennio fascista e durante la seconda guerra mondiale: il racconto di una parte della vita di questa donna straordinaria, diventata poi senatrice intelligente e lungimirante, sorella di Maria Sole, di Clara, legatissima all’amato Gianni, alla madre, donna Virginia, vedova anzitempo, che aveva dato alla luce ben sette figli.
Un nome importante che spesso sarà per lei un peso, e in altre occasione un indubbio vantaggio: i piccoli di casa Agnelli non hanno avuto certo vita facile nonostante la ricchezza. Governanti zelanti, un rigido rituale a tavola, libertà vigilata, merende poco gradite…Un papà sparito troppo presto e un nonno che riesce all’istante a togliere la potestà genitoriale alla nuora, per la relazione nata tra lei e Curzio Malaparte
“…bello, in una strana maniera esotica. Aveva i capelli neri, liscissimi, lucidi come velluto, tirati all’indietro su una testa molto rotonda. Le ciglia, che erano una cornice spessa intorno agli occhi scuri e brillanti, facevano parte del suo sguardo. Quando sorrideva le sue labbra si incurvavano e scomparivano; (…) Era una narratore affascinante”.
I primi anni scorrono tra Torino e Roma, luogo di vacanza, dove Suni conosce Raimondo, il suo primo amore giovanile e Galeazzo Ciano, circondato di adulatori, di cui l’autrice parla con affetto, ma non con particolare stima.
Dopo aver letto il libro, ho desiderato sapere di più su di lei, ho cercato immagini e interviste, testimonianze e mi sono resa conto che forse si parla veramente poco di lei, come di tutte le donne che hanno rischiato la vita sulle navi ospedale per curare, confortare soldati, italiani, alleati o nemici, indistintamente. Suni non aveva ancora l’età minima richiesta, ventun anni, quando insistette presso la madre affinché intercedesse per lei per farla lavorare nella Croce Rossa.
Incredibili e anche attuali, da mettere i brividi, le pagine in cui l’autrice racconta l’esperienza di crocerossina:
“L’estate è finita. Mi hanno imbarcato su un’altra nave. Siamo andati in Jugoslavia, Albania, Grecia a raccogliere i soldati feriti, disfatti, malati; non c’era luce nei loro occhi, nessun futuro a cui guardare”.
Con uno stile asciutto e cristallino, l’autrice racconta a brevi tratti, ma incisivi, quello che provava in quel tempo, i primi amori, i primi dispiaceri, l’importanza dell’amicizia, con una spontaneità disarmante. E viene fuori tutto il carattere di Susanna Agnelli: non era certo una donna dai facili sentimentalismi, insicura, anzi! era pragmatica, determinata, libera ed indipendente:
“Pensavo che ero stata una sciocca a interrompere gli studi. Mi sarebbe piaciuto diventare medico e capivo che dovevo fare in modo che la mia vita dipendesse soltanto da me stessa, senza costringere un’altra persona a creare per me il paradiso o l’inferno”.
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SPIRITO ERRANTE NEL TEMPO
“Dopo le mie innumerevoli vite, posso dire che dalla creazione del mondo, la barbarie umana non ha fatto un solo passo verso il progresso. Nel corso dei secoli, l'abbiamo soltanto ricoperta con una mano di vernice; nient'altro.
"Non uccidere!" dice la Legge Divina. Storie!... La prova è che domani mattina sarò impiccato. In questo momento, negli arsenali di tutto il mondo si costruiscono cannoni, corazzate, e mille altri raffinati strumenti destinati a uccidere”.
Ultimo lavoro dell’eclettico californiano Jack London, pubblicato nel 1913, qualche anno prima della morte per overdose di antidolorifici, “Il vagabondo delle stelle” (“The star rover”, titolo originale) è un libro meraviglioso che ti cattura per la prosa affabulatrice e ti folgora per le profonde considerazioni sull’uomo e sulla tortura.
Credo che sia il libro che più rispecchi lo scrittore, la sua vita e, forse, che sia il suo testamento letterario.
London non ha certamente vissuto una vita tranquilla e monotona! Nella sua breve esistenza ha provato i mestieri più disparati, le avventure più spericolate, scritto dei libri magnifici da leggere ad ogni età come “Il richiamo della foresta”, “Zanna bianca” e dei capolavori come “Martin Eden”.
Darrell Standing, protagonista de “Il vagabondo delle stelle” è un docente di agronomia dell’università di Berkeley, in California. In un raptus di “collera rossa”, il cui movente viene rivelato solo alla fine dell’opera, uccide un suo collega, un certo Haskell.
Il protagonista non vuole soffermarsi sull’omicidio, che serve solo come pretesto per aprire una più ampia narrazione/riflessione sul concetto di prigione.
Intriso di studi sullo spiritualismo bergsoniano (soprattutto), London attraverso questo romanzo, che alcuni hanno definito addirittura “saggio narrativo” per la sostanza e la forma più profonde, riflette sulla metempsicosi ossia sull’incarnazione continua dello spirito in altri corpi dopo la morte, un processo che attraversa i secoli e anche i millenni della storia umana.
“La morte assoluta non esiste. La vita è Spirito, e lo Spirito non può morire.
Soltanto la carne muore e passa; e si dissolve, per poi rinascere sotto forme nuove e diverse. Forse effimere, che a loro volta periranno, per rinascere ancora”.
Quando comincia Darrell a viaggiare col pensiero nelle sue vite precedenti? Proprio quando viene messo nella cella d’isolamento come criminale “incorreggibile” e, in particolare, quando gli mettono addosso la camicia di forza (non a caso nel 2005 uscì nelle sale cinematografiche la sua trasposizione col titolo “The jacket”, diretto da John Maybury).
La camicia di forza, la tortura più disumana che sia mai stata inflitta ad un essere umano!
Allo scopo di estorcergli la verità su un carico di dinamite nascosto nel carcere, un’invenzione, un brutto tiro giocatogli da un detenuto canaglia, Cecil Winwood, che voleva ingraziarsi i suoi aguzzini, i carcerieri ridurranno lui e altri uomini a “rottami umani”. Ore ed ore di torture fisiche, giorni e notti condannati a morire di fame e di sete, ulteriori strette a quella camicia che ti impediscono di respirare e che ti stritolano anche le costole e gli organi interni.
Darrell Standing prova in ogni modo a non impazzire durante quei terribili anni di isolamento: ricorre all’ autoipnotismo, gioca con le mosche, impara a comunicare con gli altri detenuti elaborando un linguaggio in codice fatto di colpi alle pareti.
Ma viaggiare con lo spirito attraverso i secoli è la sua salvezza, per non perdere l’umanità e l’intelligenza, in quel luogo dove vi è un “vaneggiare di cervelli offuscati dal dolore […] E questo cervello abituato a pensare, colmo di cultura e di scienza, lavorava comunque senza sosta. Era nato per l'azione, e io ero condannato a una passività totale”.
Lo vediamo bambino che riconosce da una fotografia diversi luoghi della Terrasanta, come se fosse stato e vissuto lì e lascia a bocca aperta il missionario che gli aveva mostrato le foto e i suoi stessi genitori. Lo vediamo sperduto nelle desolate steppe dell’Asia, poi marinaio, poi figlio di carovanieri mormoni nell’Arkansas in tempi immemorabili, poi lo vediamo nei panni di un certo Adam Strang, un inglese in terra coreana, poi funzionario romano in Giudea all’epoca di Gesù. E con lui, nelle precedenti vite, sempre una donna eccezionale che lo ama: la coreana signora Om, la seducente Miriam, per citare le più importanti.
Quest’opera forse non sarà allo stesso livello del suo romanzo più acclamato, Martin Eden, ma a me è piaciuto veramente tantissimo, perché è visionario, suggestivo, scritto bene, profondamente attuale.
“Anche gli uomini più intelligenti sono a volte crudeli. Gli imbecilli lo sono in modo abnorme. Ora, gli aguzzini che mi tenevano in loro potere, dal direttore all'ultimo secondino, erano degli abissi d'idiozia...”
L’anima vagabonda tra le stelle è l’arte stessa della scrittura: nelle storie lo scrittore, ma anche il lettore, vive più vite, fa diverse esperienze, vive diverse culture, viaggia nel tempo e nello spazio.
“Nella mano, tengo la penna stilografica, alzata sulla carta, e penso che nel corso delle mie vite passate, altre mie mani hanno agitato dei pennelli, delle penne d'oca, e tutti i più strani e diversi strumenti di cui l'uomo, sin dalla più remota antichità, si è servito per scrivere”.
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Il riscatto letterario del supermercato
Ultimo lavoro della scrittrice francese, un libro particolare, diverso da quelli scritti finora. E non meno interessante.
Non si tratta di narrativa, bensì, come dice la Ernaux, di una sorta di
“diario in cui fissare le impressioni lasciate dalle cose, dalle persone, dalle atmosfere”.
Impressioni alla guida del carrello, dunque.
La scrittrice parte dai ricordi e dalle impressioni provate nel fare la spesa nel primo supermercato aperto in Slovacchia, dopo la disgregazione del regime comunista: agli esordi del consumismo, dunque,nei paesi ex-sovietici.
Le persone erano disorientate di fronte agli scaffali, non avevano familiarità col self service, in loro si leggeva imbarazzo, titubanza nel toccare i vari prodotti esposti, esperienza che invece negli altri Stati occidentali era già abitudine.
La scrittrice effettivamente ha tenuto un taccuino in cui segnare, in maniera sistematica a partire dal 2012, le atmosfere, le impressioni, gli incontri degni di nota vissuti nella quotidianità della “corvèe” della spesa.
“I supermercati (…) suscitano pensieri, fissano in ricordi sentimenti ed emozioni. Quante storie di vita si potrebbero scrivere anche solo attraversando da una parte all’altra uno dei centri commerciali che frequentiamo.
(…) Chi fa politica, chi scrive sui giornali, gli “esperti”: chiunque non abbia mai messo piede in un ipermercato ignora la realtà sociale della Francia di oggi”.
Il supermercato o l’ipermercato -la Ernaux cita anche grandi nomi di catene commerciali francesi, “moschettieri della distribuzione”- è un microcosmo degno di studi e di attenzione: dai consumi al comportamento di fronte agli scaffali e alle casse.
Dalla categoria di persone che frequentano il supermercato da una fascia oraria all’altra si possono fare considerazioni e dedurre che “l’orario della spesa è fattore di segregazione”, perché nei momenti morti della giornata o della serata si presentano quelle categorie di persone, soprattutto donne velate accompagnate da un uomo, che evitano gli sguardi altrui.
“Ci sono persone, popolazioni, che non si incontreranno mai” : è la significativa considerazione della scrittrice.
La realtà del supermercato ci espone agli sguardi altrui in un momento fatidico e cruciale: quello della cassa. Presentarsi davanti al nastro è esporre i propri desideri, la propria identità, la propria intimità, il proprio status anagrafico agli occhi altrui. Si diventa più timidi e impacciati talvolta.
Atmosfera di consumi, trionfo di desideri non solo di adulti, ma anche di bambini, spesso iperviziati. Persone che diventano subito loquaci ed attaccano bottone con la Ernaux riconoscendola, qualcun altro invece, che, di corsa, si affretta a riempire il carrello senza guardare in faccia nessuno.
L’assenza di una guida al reparto libreria, amara considerazione della scrittrice, - come darle torto!- insieme alla presenza preponderante di bestseller e non di libri di qualità letteraria, chiude il discorso che si era aperto con la virilizzazione del reparto di telefonia e di tecnologia.
“A me serve una chiavetta USB. Sono perfettamente consapevole del fatto che chiedere al commesso di scomodarsi per spiegarmi quanti giga devo scegliere dimostra un’ignoranza madornale, confermata infatti dal sorrisino che mi riserva. E’ un reparto fortemente virile. Ed è anche quello che ha più commessi, spesso inoperosi. In libreria non ce n’è nemmeno uno.”
E sulla domanda perché mai la realtà del supermercato è stata per anni snobbata dai grandi romanzi francesi, la nostra scrittrice fornisce due intelligenti ed acute risposte, che lascio a voi il piacere di scoprire da soli.
La realtà del supermercato presenta un aspetto positivo incontrovertibile: l’inclusività.
Recarsi al centro commerciale, dice la Ernaux, è come recarsi ed immergersi in uno spettacolo di luci, di abbondanza, dove ci si può sentire spesso disorientati, ma “mai degradati”, perché si è parte della festa senza distinzioni.
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Un femminista postmoderno inglese
“Nights at the circus”, 1984, poco conosciuto in Italia, rispetto ad altri romanzi inglesi suoi contemporanei, è invece un classico della letteratura britannica, insignito di uno dei più prestigiosi premi letterari inglesi, promosso dall’Università di Edimburgo (il James Tait Black Memorial Prize).
In Italia è stato edito dalla Fazi, con una postfazione di Dacia Maraini.
Angela Carter si inserisce nel filone femminista, ma anche postmoderno e surrealista per la caratterizzazione del personaggio femminile, le idee alla base dell’opera, la complessità del tessuto narrativo che unisce vecchio e nuovo.
Avevo già letto “Le figlie sagge” ed avevo apprezzato la penna duttile, cruda e magica, comica e anche tragica, tutto insieme. Quando prendo in mano un libro della Carter ho la sensazione di immergermi in un caleidoscopio di immagini e di sensazioni, più che in tutti i romanzi che ho letto nella mia vita (per questa pirotecnica di immagini penso alla trilogia di Cartarescu, anche se lo scrittore rumeno sia indubbiamente a livelli molto più alti della Carter).
È la storia di Fevvers (vero nome: Sophia) una donna-uccello, donna-angelo, fate voi. È una famosa, procace trapezista ricercata da tutti i capi di Stato, che durante i suoi numeri circensi volteggia ad ali spiegate sotto i colorati e magici tendoni. Lei dice candidamente, al signor Walser, il biondone americano -il giornalista che la sta intervistando per cercare di carpire il segreto delle sue ali, quel trucco che sicuramente c’è e non si vede-, di essere nata da un uovo, da genitori sconosciuti.
Nata-da-un-uovo!
E non è l’unica stranezza nel libro: lei ostenta la verginità, nonostante sia stata cresciuta in un bordello da una certa Ma’Nelson e poi sia finita nelle mani di Madame Schreck che gestiva un “museo delle donne mostro”, all’occorrenza una casa chiusa per uomini dai gusti particolari disposti a pagare lautamente. In quella casa vivevano “la bella addormentata”, una cerea e smilza fanciulla che si svegliava solo per assumere un pò di cibo per tenersi in vita, una vita narcolettica, Meraviglia, una donna piccolissima, un vero folletto, ma ben conformata in tutto e altre strane creature.
“…ma i distinti signori che sborsavano i loro quattrini per darci una sbirciatina. Cos’è, infatti, “normale” e cos’è “anormale”? Lo stampo che serve a formare gli esseri umani è estremamente fragile. Basta un colpetto da nulla per romperlo”.
Ma non è finita: quando Fevvers viene venduta al circo del Colonnello, troviamo fenomeni da baraccone, non i soliti (il nano, la donna barbuta, etc.) ma scimmie che ragionano e parlano come esseri umani, anzi, meglio degli esseri umani, il maialino dello stesso Colonnello, Sybil, sembra umanizzarsi, l’Uomo Forzuto assomiglia ad un gorilla senza cervello…uno spettacolo esilarante, da leggere e da immaginare. La regina del circo è però lei, Fevvers…
Colori, luccichii come quelli dell’uovo Fabergé , grazie al quale scappa dal granduca che le aveva spezzato il portafortuna e le cui avances stavano per mettere in pericolo la sua incolumità. Cristalli di ghiaccio che si sciolgono, barlumi di luce, colorati travestimenti con piume sgargianti, immagini inquietanti, macabre, accennata sensualità, improvvisi lampi di erotismo, ma anche immagini di squallore.
“Quella vestaglia sudicia, orribilmente incrostata da una riga di cerone attorno al collo... Lizzie alzò la massa dei capelli rivelando, sotto la seta rancida e sdrucita, la sua doppia gibbosità, le cui dimensioni facevano pensare che avesse un seno davanti e l’altro dietro, la sua vistosa deformità, le colline gemelle dell’escrescenza che teneva sempre celata quando si trovava esposta a una luce diversa da quella dei riflettori. Infatti, per la strada, a un ricevimento, a pranzo nei costosi ristoranti dov’era ospite di principi, duchi, capitani d’industria e altri personaggi del genere, era la sua deformità a emergere, anche se lei non mancava mai di attirare gli sguardi e la gente si metteva in piedi sulle sedie per vederla”.
È folle. Una storia che si fa beffe del lettore, non sai fin dove credere a quello che leggono i tuoi occhi, ma Fevver ci è o ci fa? È magia oppure lei e la sua “tata” Lizzie si prendono gioco di te oltre che del povero malcapitato Walser? Dal camerino disordinato e sudicio di Fevvers a San Pietroburgo alla Siberia, più ambientazioni, tante avventure dove il surreale è d’obbligo e la libertà della donna, anche. Cosa rappresenta Fevvers se non la donna libera? Una donna che si dà solo a chi ama e desidera, chi è se non la rappresentazione del Desiderio?
“«Matrimonio? Puah!», sbottò Lizzie, stizzita. «Dalla padella alla brace! Cos’è il matrimonio se non prostituirsi a un uomo solo invece che a molti? Già, proprio così”
“Notti al circo” mi è piaciuto più de “Le figlie sagge”, l’ho trovato superiore e più coinvolgente, tranne che nella penultima sezione della storia, che ho avuto necessità di rileggere tanto mi sono sentita completamente disorientata. È un libro che ti fa sorridere, mentre giri le pagine, è bizzarro, stranissimo, surreale. Ma ci sono anche passi che ti accoltellano, ti fanno riflettere soprattutto nelle parti ambientate nel bordello e al circo, dove gli essere umani sembrano animali, e gli animali specie più sagge ed evolute. La stessa Fevvers ha le sue debolezze: i soldi e i diamanti, ma anche un’altra che si aggiungerà. Un uomo…
Penso di aver detto troppo, vi lascio allora con una frase del libro, credo che a nessuno dispiacerà:
“…noi donne, a conti fatti, sosteniamo il mondo”.
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Il fine giustifica i mezzi (forse)
Rispetto alla forma del romanzo, quella del racconto sembra, a torto, minore. Ma con Maupassant siamo di fronte all’Arte del racconto. “I racconti della beccaccia”, “I racconti dell’orrore” (che io ho letto e riletto da ragazza) per esempio, sono piccole perle di narrazione, di acume, di intelligenza e di affabulazione.
“L’eredità” nell’edizione Einaudi è fuori catalogo, è introvabile nelle librerie e bisogna cercarlo all’usato oppure in biblioteca. Molto più probabilmente è possibile trovarlo nelle più recenti e varie edizioni di racconti del celebre scrittore.
Si tratta di un racconto molto interessante, per il realismo che permea la narrazione e per l’argomento sempre attuale: fin dove può spingere l’avidità dell’essere umano?
La storia ruota attorno all’eredità, oltre un milione di franchi, che la vecchia zia zitella lascia a sua nipote Coralie ad una condizione ben precisa però: che si sposi e che diventi madre.
La narrazione non si apre in medias res rispetto al focus del racconto, per cui il lettore ha tutto l’agio di conoscere l’ambiente in cui lavora il padre di Coralie, il signor Cachelin e il suo futuro sposo, signor Lesable. Si tratta di un reparto del Ministero della Marina, dove il primo, ex sottoufficiale di fanteria marina, è archivista e il secondo, giovane zelante e preciso, è un impiegato prossimo alla promozione.
Il signor Cachelin, consapevole dell’importanza del matrimonio di sua figlia Coralie, sceglie come genero proprio Lesable e fa di tutto per invitarlo un giorno a casa e spingere i due giovani l’uno nelle braccia dell’altra.
L’abilità di Maupassant sta nel rappresentare i personaggi con pochi tratti di penna, poiché non si sofferma a descrivere minuziosamente i particolari fisici, ma sa rendere bene un’attitudine dello sguardo, il modo di vestire, un veloce abbozzo della costituzione fisica perfezionata anche dai dettagli caratteriali e il lettore si trova davanti un personaggio a tutto tondo.
“La porta si aprì di nuovo ed entrò, in fretta e con aria preoccupata, un giovanotto di bassa statura, con le fedine da ufficiale di marina o da avvocato, il colletto dritto assai alto, che si mangiava le parole come se non avesse mai tempo di finire ciò che diceva. Distribuì delle strette di mano da uomo che non ha tempo da perdere (…)”.
I due giovani si sposano, ma il matrimonio dopo quindici mesi non ha ancora portato frutto. Nella famiglia Cachelin Lesable volano le parole amare, il disprezzo esplicito…tutto per quel benedetto testamento che prevedeva una clausola “da nulla”, una condizione facilissima da soddisfare!
Per Lesable era come avere davanti il palo della Cuccagna con il premio in cima, ma senza riuscire ad arrampicarsi.
“Si scambiavano frasi sgradevoli, e Cachelin, che indovinava l’accaduto, li bersagliava con frizzi da caserma, acidi e grossolani.
Un pensiero li tormentava continuamente, li rodeva, attizzava il loro reciproco rancore: l’inafferrabile eredità.
Adesso Cora trattava il marito dall’alto, con durezza. Lo trattava come un ragazzino, un moccioso, un uomo da nulla. E Cachelin, a tavola, non faceva che dire: - Io, se fossi stato ricco, figlioli ne avrei avuti tanti... Quando si è poveri, bisogna essere ragionevoli. - E, rivolgendosi alla figliola, soggiungeva: - Tu saresti come me, e invece.. - E lanciava al genero un’occhiata significativa accompagnandola con una spallucciata sprezzante”.
Una situazione simile non può durare a lungo e infatti…la somma ereditata verrà riscossa. Ma a quale prezzo?
Un capolavoro di ipocrisia, di amaro materialismo tipico della Francia della Bella époque e dell’Europa del progresso della seconda rivoluzione industriale.
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L’immobilismo meridionale e l’immutabilità di una
Romanzo capolavoro dello scrittore catanese Federico De Roberto, I viceré (1894) racconta la storia di una antica famiglia nobile, imparentata coi Viceré spagnoli, gli Uzeda, principi di Francalanza, nel passaggio dal mondo borbonico a quello sabaudo.
L’opera si apre con la morte della matriarca Teresa Uzeda, vedova di Consalvo VII,
“principe di Francalanza e Mirabella, duca d'Oragua, conte della Venerata e di Lumera, barone della Motta Reale, Gibilfemi ed Alcamuro, signore delle terre di Bugliarello, Malfermo, Martorana e Caltasipala, cameriere di S. M. il Re (che Dio sempre feliciti)”
e della numerosa famiglia di figli, nipoti, cognati e cognate che accorrono per la lettura del testamento. Nel corso della narrazione lo scrittore ci farà conoscere da vicino la storia e il carattere dei vari Uzeda, maschi e femmine, indistintamente. Lo sviluppo narrativo prosegue in gran parte in maniera lineare con qualche flashback, ma senza appesantire la scorrevolezza della trama.
De Roberto racconta la storia di una famiglia potente, di origine feudale, che si integra, non senza difficoltà, nel nuovo regime istituzionale creato dall’Unità d’Italia. Interessante documento dell’epoca, I viceré testimoniano l’impossibilità di mutare sostanzialmente le forme, le modalità con cui si esercita il potere in una società cristallizzata come quella siciliana. Nella parte conclusiva del romanzo, il “principino” Consalvo, ultimo degli Uzeda, si dedica all’ascesa negli incarichi politici fino a rappresentare la Regione in Parlamento e va a fare visita alla zia Ferdinanda, la zitellona, con cui aveva prima litigato, poiché lui dalle idee più democratiche e lei baluardo delle tradizioni e dei vecchi privilegi.
Emblematiche le parole di Consalvo rivolte alla zia:
“Vostra Eccellenza vede che sotto qualche aspetto è bene che i tempi siano mutati!...(…) rammenti tutte le liti tra parenti, pei beni confiscati, per le doti delle femmine... Con questo, non intendo giustificare ciò che accade ora. Noi siamo troppo volubili e troppo cocciuti ad un tempo. (…)Vostra Eccellenza riconoscerebbe subito che il suo giudizio non è esatto. No, la nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa.»
Nulla è cambiato e niente cambierà: l’immobilismo meridionale diventerà un leit motiv di altre opere e di altri autori siciliani dopo De Roberto.
Un romanzo di ampio respiro, che narra la storia di una intera famiglia, dei suoi componenti, alcuni degni di ammirazione, altri degni di disprezzo per l’attaccamento al denaro e per la viltà: una descrizione dura, impietosa a volte, in cui prevalgono i motivi atavici del potere, dell’interesse, dell’egoismo individuale, della gelosia e anche della follia ancestrali.
Un classico eclissato da altri titoli più famosi, ma imprescindibile.
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DONNE IN LOTTA CON IL LORO TEMPO
Sei donne, sei artiste che hanno dovuto farsi strada nel mondo per affermare il proprio talento e la propria indipendenza: Artemisia Gentileschi, Elisabeth Vigée Le Brun, Berthe Morisot, Suzanne Valadon, Charlotte Salomon, Frida Kahlo. Coraggiose, tenaci, irrequiete, ribelli, caparbie e passionali.
Elisabetta Rasy traccia una breve, ma intensa biografia delle sei artiste, diverse tra loro, per nazionalità, estrazione sociale, periodo in cui vissero, temperamento. Accomunate però dalla lotta contro condanne, incomprensioni dovute al momento storico e culturale in cui sono vissute.
Il libro apre ogni biografia con un autoritratto, purtroppo riprodotto in bianco e nero. La Rasy con la sua penna riesce a metterci davanti agli occhi la vita ispirata da quelle pitture.
Mi rendo conto che arricchire il libro con qualche inserto fotografico avrebbe fatto lievitare di non poco il prezzo di copertina, che è modesto, per volere dell’editore o dell’autrice stessa, perché lo scopo è parlare di queste donne attraverso la loro arte e i momenti salienti delle loro esistenze. Quanto ai dipinti si fa come ho fatto io: li ho cercati in rete ed è stato bellissimo, soprattutto perché prima avevo letto le descrizioni della Rasy. Tuttavia, rimango dell’idea che almeno l’autoritratto di presentazione delle varie pittrici sarebbe dovuto essere a colori, utilizzando magari una carta speciale, che avrebbe poi fatto individuare ad occhio la struttura del libro. Ad ogni pittrice un tratto del carattere che la contraddistingue: “Coraggio” per Artemisia Gentileschi, “Passione”per Frida Kahlo, “Irrequietezza” per Berthe Morisot, e così via.
Grazie a questo libro ho conosciuto artiste che non avevo mai sentito prima nominare, né ho mai studiato, a parte la Gentileschi e la Khalo: a scuola l’arte, la letteratura che studiamo, e non solo, tranne che per l’età contemporanea, passa sotto silenzio il nome di grandi donne dal talento che non aveva nulla da invidiare a quello degli uomini.
Come diceva Virginia Woolf in “Una stanza tutta per sé”, se una donna avesse avuto il genio di Shakespeare sarebbe stata derisa, avrebbe trovato ostacoli invalicabili per affermare il suo genio, senza un uomo in società avrebbe fatto una fine miseranda e poco onorevole, finendo probabilmente suicida in un fiume. Il genio ha bisogno di trovare sfogo altrimenti per una donna è una doppia condanna.
Una delle artiste di cui ho letto volentieri e con ammirazione la biografia è stata Artemisia, violata dall’aiutante del padre, costretta a sposare il suo stupratore e imparare le cose del mondo e il “posto” delle donne sin da bambina:
“Era quello il mondo brutale dei maschi che Artemisia aveva imparato a conoscere sin da bambina (…) . Erano uomini che parlavano del sesso cosiddetto “gentile” con prepotente oscenità e dei rapporti con le femmine con una volgarità arrogante, e poi dipingevano bellissime madonne, sante umanamente sofferenti e splendide e gloriose eroine dell’antichità (…) . Gli angeli del turpe Caravaggio erano figure gentili, a volte danzanti (…).
A ventisette anni, coraggiosa e ribelle, è già un’artista affermata. Ma anche la Vigée Le Brun, sottile delicata per cui “ dipingere e vivere sempre state una stessa parola”, la sofferente e bella e certamente più famosa Frida Kahlo, consumata dall’amore per il marito dongiovanni Diego Rivera e dal desiderio mai realizzato di diventare madre. L’amore segreto e magico della Morisot e di Manet, la storia di Suzanne Valadon, figlia bastarda di una serva che da modella diventa lei stessa pittrice, una donna che “ha raccontato la sua verità di donna e ha raccontato le donne, il loro corpo,la loro intimità in un modo nuovo, diverso dalla tradizione”.
Una lettura interessante, adatta a tutti.
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Darwinismo commerciale
“Tra quei candori, nel disordine apparente dei tessuti, caduti come per caso fuori dalle scatole, c’era una frase armonica, il bianco seguito e svolto in tutti i suoi toni, che nasceva, cresceva, si allargava, con la strumentazione complicata di una fuga di autore classico, che col continuo svolgimento rapisce le anime in un volo sempre più largo. Sempre il bianco, e mai lo stesso bianco; tutti i bianchi gli uni sugli altri, contrapponendosi, compiendosi, giungendo all’ultimo splendore della luce. Dai bianchi scuri delle ghinee e delle tele, dai bianchi sordi delle flanelle e delle lenzuola, si passava ai velluti, alle sete, ai rasi, sempre salendo; il bianco a poco a poco si accendeva, e finiva quasi in fiammelle dove c’erano le pieghe; poi volava nella trasparenza delle tende, diveniva luce libera nelle mussoline, nei merletti, nelle trine, soprattutto nei veli così leggeri che erano come l’ultima nota che si disperdeva; mentre l’argento delle sete orientali cantava più acuto in fondo all’immensa alcova”.
Dal prolifico ciclo dei Rougon Macquart, il romanzo Al Paradiso delle signore (1883) si presenta come un interessante documento, uno spaccato di vita parigina della Belle Époque che, come una lente di ingrandimento, punta a mostrarci nei dettagli, la nascita dei primi grandi magazzini per la moda delle signora nella capitale francese.
Personaggio femminile principale dell’opera è la giovane Denise Baudu, ventenne, proveniente dalle campagne di Valognes, che, in seguito alla morte dei genitori, si trova a dover badare ai due fratelli minori e così tenta la fortuna a Parigi, presso lo zio paterno, proprietario di un piccolo negozio di articoli per signore, Il vecchio Elbeuf.
Lo zio, però, con moglie e figlia, non naviga in buone acque per mantenere lei e gli altri due nipoti: l’unico aiuto che può darle è indirizzarla al grande negozio di fronte, Il paradiso delle signore, tenuto da un giovane vedovo, Octave Mouret, causa delle sue disgrazie finanziarie. I grandi magazzini infatti hanno sbaragliato la concorrenza delle piccole, tradizionali botteghe di stoffe, cappelli, ombrelli, superstiti di un vecchio e ormai superato modo di fare commercio, non più adatto alla Francia post illuminista, già nel pieno della seconda rivoluzione industriale. Siamo nell’età dell’acciaio, dell’elettricità, delle grandi esposizioni internazionali, delle prime fotografie e il giovane Mouret, sagace, dalla vista lunga, “poeta del suo genere” anno dopo anno, vede quintuplicare i suoi guadagni grazie a trovate coraggiose, ma fortunate.
I suoi grandi magazzini appaiono come una grande, misteriosa macchina agli occhi invidiosi dei bottegai vicini, e a quelli della timida e semplice Denise
“Allora a Denise parve di trovarsi davanti a una macchina ad alta pressione che desse impulsi perfino alle vetrine”
una macchina il cui motore segreto sono i magazzini nei sotterranei, nascosti agli occhi di chi non è addetto ai lavori: è lì che arrivano ogni giorno centinaia e centinaia di pacchi contenenti stoffe delle qualità più svariate, ma anche - novità per i parigini di quegli anni- abiti già pronti. Tutto verrà venduto a prezzi bassissimi, addirittura “a scapito”: la tentazione della moda a basso costo attira al Paradiso delle signore le gran dame, servite e riverite da compiacenti commesse, ma anche esponenti dei ceti meno abbienti che, per la prima volta, provano l’ebbrezza, l’euforia dello“shopping”ante litteram.
“…tutte le massaie, un reggimento intero di borghesi e di popolane si buttavano sulle occasioni, sugli scampoli e sugli scarti esposti quasi lì sulla strada. Mani alzate continuamente tastavano le stoffe appese all’entrata: un bordato a trentacinque centesimi, certa roba grigia in lana e cotone a quarantacinque, ma soprattutto un òrleans a trentotto centesimi che devastava addirittura le borse povere. Era un urtare di spalle e di gomiti intorno alle ceste e agli scaffali…”
E ancora, i sensi inebriati dall’ irresistibile tentazione delle stoffe tanto agognate a prezzi da urlo:
“Le signore si sentivano soffocare, e avevano il viso pallido e gli occhi lucenti. Si sarebbe detto che tutte le seduzioni del magazzino conducessero a quella suprema tentazione, e che quella fosse la stanza intima della colpa, l’angolo dove le più forti cadevano, in mezzo alle trine. Le mani si tuffavano in quel morbido candore, e tremavano dal piacere”.
Nella trappola di Mouret, che prospera non solo per il passaparola, cadono massaie e popolane, che, attirate anche dalla possibilità di intrattenere i propri bambini con dolciumi e palloncini offerti dal venditore, si recano lì e poi tornano a casa con la borsa svuotata.
Il romanzo è degno di essere letto ed apprezzato per le tantissime tematiche che presenta e per la meravigliosa penna di Zola, uno dei padri del Naturalismo francese, che, come i contemporanei Flaubert ed i fratelli Jules e Edmond de Goncourt, mira a far sì che l’opera “risulti scritta da sè”, seguendo lo stile dell’impersonalità. Il lettore scopre i personaggi e il loro carattere soprattutto attraverso le loro azioni e il loro agire: Denise, da impacciata “sciattona” campagnola, derisa dalle commesse veterane del Paradiso, con la sua semplicità ed onestà, dà una lezione di perseveranza e di determinazione a tutti. Lo stesso Mouret, che passa da una donna all’altra, non senza il secondo fine di fare pubblicità alla sua attività commerciale, capitolerà di fronte ai virtuosi rifiuti di lei.
Ma perché Denise lo rifiuta, pur amandolo? Sembra che neppure lei lo sappia, ma all’interno del romanzo c’è già la risposta. Attraverso la storia di questa ragazza così particolare e delle commesse, Zola ci mostra la condizione delle giovani ragazze povere di Parigi: senza la “protezione” di un uomo si rischia di morire di fame, di non rivestire alcun ruolo nella società, di diventare vittima della strada.
E le commesse sono pericolosamente avvinte in questo circolo vizioso:
“Quasi tutte le ragazze per via del loro quotidiano strofinarsi con le clienti ricche diventavano alla fine d’un ceto senza nome, indeterminato, che stava tra l’operaio e il borghese; e sotto la loro arte di vestirsi, sotto i modi e le frasi prese a prestito, non c’era che una istruzione falsa, la lettura dei giornaletti, qualche tirata di dramma, e tutte le sciocchezze che correvano per Parigi”
Diventavano quasi una categoria sociale a parte, non definita, né borghese né villana, che il contatto quotidiano con le grandi dame lasciava su di loro il profumo del vizio del lusso. Ma Denise, forte dei suoi valori, si tiene al di fuori da tutto ciò.
Altra storia interessante, ma anche crudelmente commovente, è quella della famiglia dello zio Boudu e dell’artigiano di ombrelli Bourras, un “bel vecchione” con la fama di artista che intagliava i manici degli ombrelli, che ogni giorno “dichiara guerra” al Paradiso delle signore che, non solo gli ha portato via le migliori clienti, ma vuole anche appropriarsi, dietro lusinghiero compenso, della sua vecchia e malconcia casa. Il vecchio si rifiuta con grande ostinazione, nonostante Denise provi a farlo ragionare e ad aprirsi al nuovo modo di vedere il mondo del commercio. Come Darwin in quegli anni aveva mostrato, la capacità di adattarsi è il segreto per sopravvivere ai grandi cambiamenti e chi rimane piccolo verrà travolto da quelli più grandi.
Per Bourras, per Baudu e tutti i piccoli bottegai di Parigi che non accettano di reinventarsi e di adattarsi a questa “prostituzione del commercio” saranno inevitabilmente soppiantati da Il paradiso delle signore e dalla modernità.
Mi sento di dire ai lettori curiosi che stavolta Zola non lascia un finale dall’amaro in bocca. Tutto ciò mi ha enormemente e piacevolmente sorpresa.
Ho apprezzato l’attualità della storia, la ricchezza delle tematiche e non mi hanno dato alcun modo fastidio le frequenti descrizioni del funzionamento degli ingranaggi del grande magazzino e degli ambienti, tutt’altro!
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Sì per la ricostruzione storica, ma non mi convinc
Carla Maria Russo per la ricostruzione storica è una garanzia. È il terzo libro dell’autrice che leggo e premetto sin da subito che, per quanto riguarda il personaggio femminile, non è all’altezza dell’”Acquaiola”: manca quella caratterizzazione, quella drammaticità e quella credibilità.
Protagonista è Caterina Dolfin, storicamente esistita come poetessa e che aveva sposato, suscitando scandalo all’epoca, l’ambasciatore e poi procuratore della Serenissima, Andrea Tron. Prima del matrimonio con Caterina, Andrea era il super favorito dal popolo e dall’aristocrazia per la carica di Doge della Repubblica di Venezia, ma non venne eletto proprio perché, come viene ben spiegato nel romanzo, era inconcepibile che un uomo tanto influente elevasse al rango di consorte una donna di facili costumi, una arrampicatrice sociale che era riuscita a far annullare il suo precedente matrimonio con Marcantonio Tiepolo, che non aveva mai amato.
Caterina non è soltanto bella, bionda dagli occhi di un azzurro pervinca, ma è colta, conosce il francese, è intelligente: il padre le aveva fatto leggere le opere d’oltralpe, i principali scritti dell’illuminismo francese. La madre, Donata Salamon, diversa dal marito Giovanni non soltanto per intelligenza e cultura, ma anche per il carattere, mal tollerava che la figlia venisse istruita dal padre sulle opere peccaminose, pericolose che le avrebbero impedito non solo di prendere marito, ma che avrebbero istillato in lei quella ribellione, quella passione che ben conosceva nel marito, che considerava un dongiovanni e uno scapestrato.
Quando Caterina conosce per puro caso il futuro doge Andrea Tron, lei aveva perso il padre da pochi mesi e la madre si era affrettata a farle sposare Marcantonio Tiepolo.
Avrei chiuso il libro, se non fosse stata per l’interessante ricostruzione storica e anche per l’avvincente narrazione tipica della Russo, perché questa prima parte mi ha fatto pensare ad un romanzo rosa, con classico motivo della fanciulla bella, istruita, ma povera che incontra l’uomo fatale, sciupafemmine, ricco, di successo, che le fa vivere una favola. Difficoltà, equivoci, invidie che li separano nella parte centrale della narrazione con chiusura a lieto fine. Avevo già capito la piega che stava prendendo la storia. E invece…scopritelo voi. Certamente,se andate su Wikipedia, troverete tutta la storia della Dolfin e vi toglierete il piacere di leggere questo libro. E’ la storia vera, poco conosciuta, di una donna di grande cultura, di una poetessa italiana, inserita in un contesto storico degno di essere letto: la grandezza di Venezia prima del Trattato di Campoformio (1797), le belle descrizioni dei luoghi, dei monumenti, tratteggiati con pochi tratti, l’inserimento di personaggi e di intellettuali italiani che conobbero davvero di persona la celebre dama.
È un libro che fa piacere leggere per la ricostruzione storica e la narrazione affabulatrice della Russo, ma non per la caratterizzazione dell’eroina e degli altri personaggi, che mi sono parsi tutti un pò scialbi.
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- sì
- no
Un cane formidabile
“(…)il gusto del sangue, la gioia di uccidere, tutto questo apparteneva a Buck. Solo che era infinitamente più profondo. (…)
Era alla testa del branco, cacciando quell’essere selvatico, carne vivente da uccidere coi suoi propri denti e lavare il muso nel sangue caldo fino agli occhi.
C’è un’estasi che segna il massimo della vita, e oltre la quale la vita non può andare. E questo è il paradosso di vivere: che quest’estasi viene quando più si è vivi e viene come una completa incoscienza di essere vivi.
Questa estasi, questa dimenticanza di essere vivi viene all’artista preso dentro e fuori di sé da una coperta di fiamma, viene al soldato pazzo di guerra nel campo di battaglia e incapace di fermarsi, e venne Buck che guidava il branco, lanciando l’antico urlo del lupo correndo dietro al cibo che era vivo e che fuggiva rapido in avanti nella luce della luna.
Stava toccando il profondo della sua natura e di quelle parti della sua natura che erano più profonde di lui, tornando indietro nel grembo del tempo “.
Questo è uno dei passi che secondo me è emblematico per capire la sostanza di questo libro, erroneamente considerato per ragazzi. In questo passo vi è anche la visione che London aveva del mestiere di scrittore, quando la fiamma della passione artistica brucia nel petto e fa scrivere quasi come se fosse esigenza istintiva e fisiologica.
In effetti mi ci sono avvicinata perché volevo leggerlo ai miei figli la sera prima di andare a dormire e, dalle prime pagine, ho capito che è anche abbastanza crudele e cruento per essere letto a dei bambini! Succede anche con certe fiabe quando non c’è Disney a indorare la pillola.
“Il richiamo della foresta” è la storia del cane Buck, frutto dell’incrocio tra un sanbernardo e un pastore scozzese, un cane massiccio e un cane-lupo.
Cresciuto in un tranquillo e luminoso luogo chiamato “proprietà del giudice Miller”nella californiana vallata di Santa Chiara, viene venduto a tradimento da un aiutante del giardiniere del padrone ad un avventuriero richiamato, come tanti uomini, dai giacimenti di “biondo metallo” del Klondike, nel Canada. Durante la traversata viene educato alla “dura legge del bastone e della zanna”, ossia alla lotta per la sopravvivenza.
Questo romanzo ricalca il darwiniano struggle for life in tutto e per tutto.
“Era adatto all'esistenza, tutto qui, e si adattava inconsapevolmente al nuovo genere di vita. In tutta la sua vita non aveva mai evitato un combattimento senza badare a disparita? di condizione”.
Buck, a contatto con altri esseri umani diversi dai figli giocherelloni del giudice e con cani impegnati non a prendere il sole nel giardino di qualche padrone benestante, ma a trascinare pesanti slitte nel freddo e nel gelo, talvolta in condizioni di sottonutrizione, si trasforma.
Entra in gioco la capacità di adattamento delle specie che sopravvivono ai cambiamenti ambientali. Un “diavolo dagli occhi rossi” che combatte se provocato, che ruba cibo solo per esigenze di stomaco, diventa puro istinto. Dovrà dimostrare di essere un cane grosso e forte per non soccombere alle bastonate degli uomini e ai morsi crudeli degli altri cani che si contendono il cibo e il posto più importante nel tiro della slitta. E questo istinto lo porterà ad avere una certa sensibilità per la foresta verso cui prova una fortissima, inspiegabile attrazione nonostante l’amore e la fedeltà per l’unico essere che adora e che protegge, John Thornton.
“Uccidere o essere ucciso, mangiare o essere mangiato, era questa la legge; e a questo comandamento che sorgeva dalle profondita? del tempo egli prestava obbedienza”.
Un cane umanizzato a volte, fino all’inverosimile, personaggio principale a tutto tondo, attorno al quale ruotano altri personaggi, uomini spinti dal gusto per l’avventura e dall’avidità, ridotti in pratica, a semplici figurine che lo incontrano sulla propria strada. Un bel libro da scoprire e da rileggere per riflettere e per godere di uno stile cristallino, che sa essere tremendamente crudele e semplicemente commovente.
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LA PROPORZIONE È IL CUORE DELLA BELLEZZA
Un poderoso romanzo storico che accontenta il lettore attento alla ricostruzione storica e quello che ama le storie avvincenti, fatte di intrighi, di passioni, di lotte per il potere. Le oltre mille pagine che contengono la narrazione sono scritte in uno stile lucido ed accattivante, la costruzione del romanzo è adatta, come poi si è fatto, ad una riproduzione cinematografica.
Tutto ruota attorno alla costruzione di una cattedrale. La storia si ambienta nel XII secolo, nel Basso Medioevo, da poco superato il fatidico anno Mille, in Inghilterra. Le vicissitudini della costruzione della cattedrale nel villaggio di Kingsbridge rappresentano il tronco dell’albero, da cui si diramano tanti rami rappresentati dalle storie dei vari personaggi. Il luogo è lo spazio di incontri e di scontri, di conflitti di interessi.
Cuore pulsante della vita è il priorato di Kingsbridge guidato dalla figura forte, sagace e determinata di padre Philip, di cui il lettore conoscerà la storia nei primi capitoli del libro. Tom il costruttore con Ellen, la sua amata, caparbia e ribelle “fuorilegge” che vive ai margini della foresta, i figli di Tom avuti dal precedente matrimonio con Agnes, il figliastro Jack, alla ricerca della storia del suo vero padre, la bellissima Aliena, figlia dello spodestato conte di Shiring , caduta in disgrazia per colpa del sadico William di Hamleigh.
La ricostruzione storica è affascinante, ci catapulta in una realtà distante da noi, con le storie di trovatori e di cantori, ci mette di fronte ad una violenza che imbruttisce gli uomini, ci fa toccare con mano la fatica della povera gente, ci fa ammirare personaggi forti e carismatici come padre Philip:
“L’ammirazione che Tom che provava per lui [Philip] cresceva di anno in anno. Mentre si guardava intorno e vedeva i giovani impegnati nella corsa, i vecchi che sonnecchiavano all’ombra e i bambini che sguazzavano nel fiume, pensava che era Philip a tenere insieme quel piccolo mondo. Governava il villaggio, amministrava la giustizia, decideva dove si sarebbero costruite le nuove case e dirimeva le liti; dava lavoro a quasi tutti gli uomini e anche a molte donne, come operai del cantiere o servitori del priorato; e gestiva lo stesso priorato che era il cuore pulsante dell’intero organismo” (p.568)
e donne di carattere come Aliena ed Ellen:
“Le donne potevano fare quasi tutto ciò che facevano gli uomini. Chi restava quando gli uomini combattevano le guerre o partivano per le crociate? C’erano donne che facevano il carpentiere, il tintore, il conciapelli, il fornaio e il birraio” (p.904)
Una storia ambientata in una Inghilterra dove la giustizia era ancora fortemente arbitraria e portava i più forti a distruggere sempre i più deboli e quelli che erano schierati dalla parte sbagliata, vittime molto spesso della volubilità dei regnanti, talvolta impegnati in guerre fratricide.
“Era sorprendente, pensò Philip, come una lampante ingiustizia poteva finire per apparire un caso equilibrato quando veniva discusso a corte” (p. 545)
La poderosità del libro è frutto di più componenti ben armonizzate tra loro proprio come in una meravigliosa ed imponente cattedrale gotica, dove, come Tom spiegherà al figliastro Jack interessato a questioni architettoniche, “la proporzione è il cuore della bellezza”: l’intreccio ad ampio respiro delle storie dei personaggi principali partendo talvolta dalle loro origini, le descrizioni dettagliate di scene, di alcune battaglie, le spiegazioni architettoniche delle cattedrali, le parti dialogate che sono minime rispetto ai discorsi indiretti liberi e alle sequenze narrative.
Per i non addetti e non appassionati ai particolari architettonici delle cattedrali qualche passo potrebbe risultare difficile, tuttavia questo dettaglio non inficia la piacevolezza della lettura.
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L’ultima novella di Yehoshua
Nelle intenzioni dello scrittore, ormai ottantaquattrenne, malato da tempo, “La figlia unica” è il suo ultimo lavoro e, allo stesso tempo, è un omaggio all’Italia, sua seconda patria, così ama definirla.
Una storia apparentemente leggera, delicata come la protagonista dodicenne, Rachele, ma che invece tocca argomenti impegnativi come l’identità culturale e religiosa, la malattia del padre, la solitudine dell’essere figlia unica.
Rachele Luttazzo proviene da una famiglia di avvocati benestanti, con servitori e cuochi al seguito, suo padre Riccardo è ebreo e non vuole che la figlia, scelta per la sua bellezza radiosa a interpretare il ruolo della Madonna nella recita natalizia, partecipi all’evento. Figlia unica e unica nipote, viziata e abituata al lusso, ma anche quasi “adultizzata”, costretta a cavarsela da sola tra le strade di una grande città del Nord Italia e, in occasione delle vacanze natalizie sulla neve - inconcepibile! - abbandonata dal padre che non riesce a resistere alla seggiovia, si arrangia da sola per tornare all’albergo dove i familiari (padre compreso) si sono già riuniti.
Una famiglia mista, un nucleo ebraico disgregato, dove la madre è una convertita che non compare mai nella storia, è una vera ombra; delle nonne una è atea convinta, l’altra è una ebrea non praticante: Rachele viene da questo substrato, è una bella ragazzina alla ricerca della propria identità e delle proprie radici. Ma è, nonostante gli agi e la bellezza promettente, una ragazzina sola. Soli sembrano anche i compagni di classe, di cui alcuni in particolare, condividono con lei, il peso di mandare avanti la famiglia, avendo uno dei due genitori malati.
Altra tematica che qui non viene approfondita è, infatti, la malattia: il tumore al cervello di papà Riccardo, che Rachele chiama “l’appendice”, un’aggiunta che è cresciuta nella testa paterna per meglio comprendere il mondo. La malattia di cui soffre anche il nostro amato scrittore.
In questo racconto lungo, le radici ebraiche di quei pochi ebrei italiani, sembrano essere sempre in pericolo soprattutto in occasione del Natale, la festa cristiana più avvolgente e coinvolgente: le recite, le chiese magnificamente addobbate, le atmosfere e le prelibatezze culinarie tipiche, cibi assolutamente non kasher, quindi non adatti ai dettami dietologici ebraici.
Trova spazio all’interno dell’opera anche “Cuore” del De Amicis, in particolare due racconti, che la supplente pensionanda di italiano, raccomanda a Rachele di leggere, e qualche frecciatina al fascismo. La narrazione fa larghissimo uso di dialoghi che alleggeriscono, come si sa, la trattazione di argomenti gravi.
A lettura ultimata, il libro mi ha lasciato con una strana sensazione di incompiutezza, come se la leggerezza con cui sono stati trattati argomenti importanti, sia stata veramente un pò troppa. Alcuni argomenti avrebbero avuto bisogno di maggior respiro, di una articolazione della narrazione maggiore. Senza contare qualche superficialità sulla storia d’Italia. Anche il finale è così aperto che dà quasi fastidio. Piacevole, ma mi aspettavo qualcosa di più.
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Confessioni di un aspirante suicida
“Non mi piace la vita. La vita sarà pure tanto bella come afferma qualche cantante e poeta, ma a me non piace. Che nessuno venga a tessere le lodi al cielo del tramonto, alla musica o alle strisce delle tigri. Al diavolo tutti quegli ornamenti. Per me la vita è un’invenzione perversa, mal concepita e peggio realizzata. Mi piacerebbe che Dio esistesse per chiedergliene conto. Per dirgli in faccia quello che è: un pasticcione (…). L’unica scusa di Dio è che non esiste”. (p.13-14)
Un altro Aramburu, lontano mille miglia da quello di “Patria”, con cui l’avevo conosciuto. Per me uno scrittore che si reinventa sperimentando tematiche, idee e forme nuove dopo un enorme successo letterario, è degno di interesse.
E ogni romanzo nuovo di Aramburu va letto come esperienza a sè, senza confronti e senza inutili aspettative generate dall’aver letto un libro colossale (non solo per la mole) come quello che gli ha fatto meritare lo Strega europeo.
“I rondoni” è un libro che celebra la vita…attraverso il suicidio programmato. Che paradosso!
L’ironia, le rivelazioni crude, i pensieri che tagliano e scavano dentro ferendoci nel profondo qui sono ancora più forti e sono inseriti all’interno di una narrazione intima che segue la struttura di un diario scritto ogni giorno in maniera quasi maniacale dall’agosto di un anno imprecisato al mese di luglio di quello successivo.
L’espediente del diario, così come quello dell’ epistolario, ha il pregio della confessione senza filtro, senza ipocrisie e senza reticenze. E quasi sempre fa affezionare il lettore al protagonista.
Chi non riuscirebbe a provare empatia per Toni, il professore di filosofia cinquantaquattrenne, con un matrimonio frettoloso e fallito alle spalle, con una ex moglie che lo ha tradito per una donna, con un figlio problematico? Come non affezionarsi al suo amico Bellagamba - nomignolo appioppatogli in segreto dopo l’impianto di una protesi al posto del piede destro perso in un incidente - alla sua ossessione stramba per le visite ai cimiteri, alle sue idee sulle modalità di suicidio che animano le discussioni con Toni al solito bar di Alfonso?
Come non amare la cagnetta Pepa, compagna inseparabile, silenziosa e comprensiva come un essere umano?
Il (falso)focus dell’opera è organizzare al meglio il proprio suicidio: Toni e Bellagamba le hanno pensate veramente tutte, dall’impiccagione, considerata poco elegante, alla polvere di cianuro. Il nostro professore ha però deciso di lasciare questo mondo con calma: ha bisogno di un anno per i preparativi, vuole andarsene senza lasciare nulla di sè , tranne che qualche bene di valore al figlio Nikita.
Tutto fa tranne che vivere i suoi giorni come se fossero gli ultimi. La sua principale preoccupazione è disfarsi degli oggetti (libri compresi, ahimè) e dei ricordi: i primi li lascia in giro per la città, in un angolo della strada, sotto la panchina del parco…i secondi li elabora e li “digerisce”nella scrittura, che a questo punto direi quasi terapeutica. È un prepararsi al distacco, con lucidità e consapevolezza, dalle memorie, dai libri amati: un procedimento di cui Toni ha tutto sotto controllo. È un uomo che non ha mai vissuto nulla di eccezionale, è inacidito dalla vita, dalle vicende familiari, dal rapporto poco fraterno col fratello, dall’ amarezza che il matrimonio gli ha riservato, dal piattume dei suoi studenti, dalla sua vita sessuale squallida. Prima sesso a pagamento poi la rassicurante e disponibile Tina: la sua love doll. Toni arriva a caricare di umanità una bambola, a considerarla parte dell’ultima fase della sua vita, una ‘donna’ ideale che gli assicura piacere senza tanti rituali e sceneggiate, sicura e affidabile.
“Le donne hanno ormai l’accesso al mercato del lavoro, la capacità di prendere decisioni e l’indipendenza economica. Alcune più di altre, ovviamente, come noi, i loro eterni rivali oppressori, nati per non ascoltarle né comprenderle. Bene, molto bene. Se lo meritano. (…) Noi adesso abbiamo le love dolls. Presumo che se le avessero inventate prima, la storia dell’umanità avrebbe percorso strade meno sanguinose”. (p.234-235)
Eppure non possiamo considerare Toni un nichilista. Una delle sue frasi preferite è di Cioran “Il suicidio è un pensiero che aiuta a vivere” (p.388) ovviamente annotata nella sua Moleskine, raccoglitore di preziose citazioni, che ogni tanto dispensa anche a noi curiosi lettori. Ma non si esime dal disprezzarsi per questa sua necessità di legittimare alcuni suoi pensieri ricorrendo a citazioni “In materia di pensiero, sono come gli scarabei stercorari, che vivono nella merda altrui”.(p.670)
Toccanti, nelle ultime pagine, i ricordi legati alla madre, che ha sempre visto come dispensatrice nostop di calore, protezione e nutrimento, “tetta incessante” , “un essere che serve e che dà”(p.671) . Attraverso le memorie, sparse alla rinfusa man mano che scrive nel suo diario, scopriamo la storia familiare di Toni, i suoi traumi, i suoi dispiaceri, le sue prime esperienze amorose.
Scritto in prima persona, in uno stile che è talvolta pirotecnica verbale, l’opera apre spesso piccole finestre metaletterarie che ho apprezzato: considerazioni sulla talvolta discutibile qualità dei libri vincitori di premi letterari e di successo editoriale, giudizi personali sulle opere dal finale aperto, dichiarazione d’amore verso certi libri che hanno significato molto nella sua vita. Tuttavia mi sento di avvertire certi lettori che hanno apprezzato “Patria” per lo stile e per la storia: stavolta ci troviamo di fronte ad un libro diverso, per certi versi accostabile al romanzo postmoderno americano per l’assenza di filtri sia nel linguaggio che in alcune descrizioni, senza però esagerare e senza tuttavia far risultare queste caratteristiche estranee all’economia dell’opera.
I rondoni, che danno il titolo al romanzo, appaiono come messaggeri di speranza, insieme alla primavera, sono fortemente attesi da Toni e non compaiono molto spesso come mi sarei aspettata. Sono figure misteriose, che si mostrano quando meno te le aspetti e a volte, se le aspetti, non si fanno vedere: sono gli angeli dell’ateo che spera di salvarsi dalla noia del vivere, sono imprevedibili, incarnano il suo ideale di vita.
“Se avessi potuto scegliere tra nascere uomo e nascere rondone, visto come è andata avrei deciso per la seconda opzione. Dico sul serio. Ora starei divorando insetti nei cieli dell’Africa anziché respirare il fumo di automobili (…) Che bella filosofia esistenziale: uscire da un uovo, solcare l’aria in cerca di cibo, vedere il mondo dall’alto senza tormentarsi con domande esistenziali, non dover parlare con nessuno, non pagare le tasse né le bollette della luce, non credersi il re del creato, non inventarsi concetti pretenziosi come l’eternità, la giustizia, l’onore, e morire quando ti tocca, senza assistenza medica, né onoranze funebri “. (p.92-93)
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A chi ama le confessioni, i diari.
IL COSTO DEGLI IDEALI
“Il giorno in cui ammazzarono il Txato pioveva. Giorno feriale, grigio, di quelli che sembrano continuare ad allungarsi, in cui tutto è lento, bagnato e la mattina è uguale al pomeriggio. Un giorno normale, con la cima dei monti che circondano il paese coperta dalle nubi. (…)Il Txato non sapeva, come poteva saperlo?, che vedeva oggetti, sbrigava faccende, aveva pensieri per l’ultima volta. Per lui fu l’ultima alba. E per l’ultima volta svolse delle azioni quotidiane. Prese/toccò/guardò cose nel corso dell’ultima mattina della sua vita”.
Il romanzo in lingua spagnola più importante degli ultimi decenni. Patria è un’opera poderosa, notevole sia per il contenuto sia per lo stile. Poco più di 700 pagine, dove la narrazione prosegue per piani temporali che si intersecano e si sovrappongono richiedendo al lettore, soprattutto all’inizio, la massima attenzione.
Il romanzo è ambientato in terra basca, da cui proviene lo stesso Aramburu. L’inizio in medias res, i nomi insoliti dei personaggi, cui non siamo abituati se non conosciamo la cultura basca, sono le difficoltà cui va incontro chi si accinge a leggere il romanzo, insieme al fatto che la storia prosegue su piani temporali diversi: si va avanti e poi si va indietro, poi di nuovo avanti…
Come nei grandi capolavori ad acquerello dove altri dettagli si aggiungono dopo che la prima passata di colore si è asciugata. Verso la fine tutti tasselli tornano e viene fuori un diamante perfetto, il cui prismatico vertice corrisponde all’omicidio del Txato. Questa scena torna più volte nel romanzo: una volta vista dall’io narrante, un’altra volta dal Txato stesso, un’altra ancora da uno dei terroristi. Un libro che cattura per la storia delle due famiglie protagoniste, per i forti personaggi femminili, in particolare le due matriarche Bittori e Miren, per il travaglio dostoevskiano del terrorista Joxe Mari una volta in cella.
Patria è la storia di due famiglie divise e distrutte dall’ETA e dalle vicissitudini della vita, due famiglie amiche, divise da ideali diversi. La famiglia del Txato, piccolo imprenditore nel settore dei trasporti, sposato con Bittori, ucciso dall’ETA, perché aveva smesso di pagare “il contributo volontario” all’organizzazione. La moglie continuerà a parlare con lui seduta sulla sua tomba e, in questa corrispondenza di amorosi sensi, racconterà a lui e a noi dei figli, di Nerea e di Xavier, ciascuno infelice a suo modo.
Patria è la storia della famiglia di Joxian, legata da anni a quella del Txato, composta dal modesto e umile capofamiglia, sua moglie Miren e i tre figli: Aranxa, costretta a quarantaquattro anni sulla sedia rotelle e al silenzio in seguito ad un ictus, Joxe Mari, il prediletto dalla madre, il terrorista che finisce a vent’anni in cella per tutta la vita, e Gorka, il mite e saggio figlio omosessuale.
In questa rosa dove i petali disposti concentrici e a raggiera sono le storie dei vari personaggi, il lettore conoscerà da vicino le sofferenze e i travagli di ognuno, dall’adolescenza all’età matura, ciascuno con le sue ferite, i suoi sogni infranti. I personaggi più forti sono indubbiamente le donne: anche le figlie, Nerea e Aranxa, entrambe con un matrimonio fallito alle spalle, contribuiscono con le loro storie personali alla ricchezza non soltanto “emotiva” del romanzo.
In un intenso dialogo dopo anni di separazione, l’una dirà all’altra:
“Ci sforziamo di dare un senso, una forma, un ordine alla vita, e alla fine la vita fa di noi quello che le va”.
Dinamica la figura del terrorista Joxe Mari, amato ed idolatrato dalla madre, perché eroe della lotta armata e dell’ideale aberzale (patriottico basco) di liberazione: il giovane in cella sconta la propria vita e brucia la propria giovinezza.
“Ti chiedi: ne è valsa la pena? E per tutta risposta uno si ritrova con il silenzio di questi muri, la faccia sempre più vecchia nello specchio, la finestra con il suo pezzettino di cielo che gli ricorda che ci sono vita e uccelli e colori là fuori, per gli altri”.
Unica salvezza sarebbe chiedere perdono a Bittori e alla famiglia del Txato, ma:
Constatò: chiedere perdono richiede più coraggio che sparare, che azionare una bomba. Quelle sono cose che possono fare tutti. Basta essere giovane, ingenuo e avere il sangue caldo. E non era soltanto che ci volevano due palle così per riparare sinceramente, anche se soltanto a parole, alle atrocità commesse.
A completamento dell’opera lo scrittore ha inserito un Glossario dei termini baschi utilizzati nel romanzo.
Patria è il romanzo che parla di vittime, le vittime dell’ETA: uccisi e uccisori, indifferentemente. Tutti i personaggi suscitano empatia nel lettore, con tutti i loro pregi e i loro difetti.
“«L’ETA deve agire senza fermarsi mai. Non ha altra scelta. È da tempo che è caduta nell’automatismo dell’attività cieca. Se non fa danni, non è, non esiste, non svolge nessuna funzione. Questo modo di funzionare mafioso è al di sopra della volontà dei suoi componenti. Nemmeno i suoi capi si possono sottrarre. Sì, va bene, prendono decisioni, ma è solo apparenza. Non possono comunque evitare di prenderle perché la macchina del terrore, una volta che ha preso velocità, non si può fermare”.
Patria ha vinto il Premio Strega europeo 2018 e il Premio Tomasi di Lampedusa. E’ quel libro che non vorresti mai terminare di leggere, è il libro che, concluso, ti manca.
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In questo infinito buio che ci circonda
“È solo di notte, nella luce lunare, che si capisce veramente cosa sono gli alberi, queste colonne di legno e di schiuma che si protendono verso lo spazio vuoto del cielo. Se non c’è la luna, bisogna andare a tentoni nel buio, sotto la sconvolgente volta celeste crivellata di miriadi di stelle disabitate e di altre bave di luce”.
Un uomo, di cui non conosciamo nè l’età nè la sua storia, decide di ritirarsi in un borgo abbandonato, lontano dai suoi simili. Quest’uomo è l’io narrante di un storia breve e molto particolare.
Non abbiamo indicazioni sullo spazio e sul tempo, conosciamo soltanto questo suo desiderio di sparire in mezzo alla natura, alla ricerca di risposte alle sue domande. I personaggi sono pochissimi: un pastore albanese esperto di avvistamenti UFO e un bambino…morto, che abita in una casina di pietra, tutto solo, che provvede a se stesso meglio di un adulto: lava, stira, cucina e va alla scuola serale. Un bambino senza nome, come il protagonista, senza un passato, solo e dimenticato dal mondo.
Incontri che hanno dell’assurdo, eppure nell’economia della narrazione si caricano di significati profondissimi e particolari che rendono unico questo breve romanzo. Un’avventura metafisica.
Un viaggio alla ricerca di se stessi in un tempo sospeso, in un luogo indefinito, dove la vita è rappresentata esclusivamente dalla vegetazione, dagli animali e dagli insetti.
“Sono venuto qui per sparire, in questo borgo abbandonato e deserto di cui sono l’unico abitante”.
Secondo quanto leggiamo nella prefazione , “La lucina” (pubblicato nel 2013) sarebbe il testamento letterario dell’autore, sbucato “da una zona molto profonda della mia vita”. L’urgenza con cui è scaturita dalla sua penna, ne tradisce la sua “natura intima e segreta”. Come per un germoglio che ha voluto vita autonoma, Moresco ha coltivato questo spunto che teneva da parte, in mezzo agli appunti in vista della composizione degli Increati (2015).
In questo suo eremo selvaggio, dove la natura afferma il tuo strapotere, il protagonista viene colpito dalla presenza di una lontana lucina che si accende ogni notte, oltre il crinale di fronte casa sua. Chi accende quella lucina? E perché?
Meravigliose riflessioni notturne e descrizioni taglienti come un bisturi. Sorprendiamo la voce narrante parlare -e si sorprende lei stessa - con gli insetti, con le piante, con gli alberi cui pone domande senza risposta:
“Perché c’è tutto questo sottobosco cattivo?” mi domando. “Che cerca di avviluppare e di cancellare e di soffocare gli alberi più grandi? Perché tutta questa misera e disperata ferocia che sfigura ogni cosa? Perché tutto questo brulicare di corpi che cercano di prosciugare gli altri corpi suggendoli con le loro mille e mille scatenate radici e le loro piccole, forsennate ventose, per dirottarne su di sé la potenza chimica, per creare nuovi fronti vegetali in grado di annientare tutto, di massacrare tutto? Dove posso andare per non vedere più questo scempio, questa irreparabile e cieca torsione che hanno chiamato vita?”
In presenza di un desolante e cupo materialismo senza Dio, dove la natura appare in tutto il suo crudele e meccanico trasformarsi, esclusivamente volto al ripetitivo ciclo della vita che segue alla morte. Una natura lucreziana e leopardiana, un dissolvimento senza speranza di materia, pasto per una nuova.
Cieco pessimismo senza riscatto. E senza una voce che dia risposta, se non un conforto.
In questa sorta di fiaba apparente, c’è un senso del dolore che sembra colpire solo l’uomo, la natura, “matrigna”, è indifferente a tutto quello che succede alla sua prole.
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Una storia dall’Iran
“Figlia mia, ci sono un sacco di cose che devi ancora imparare riguardo a questo Paese e al suo popolo. Ha settemila anni, forse anche di più. Quando qualcosa arriva a una simile età comincia inevitabilmente a incrinarsi. Comincia a marcire. L’albero più vecchio è il primo a prendere fuoco”.
“Aria” è il romanzo di esordio della scrittrice iraniana trapiantata in Canada, Nazanine Hozar, e narra la storia di Aria, una bambina abbandonata alla nascita e cresciuta da ben due madri adottive in momenti diversi.
Potrebbe rientrare per certi aspetti, ma non per altri, nel romanzo di formazione così come potrebbe rientrare anche nel romanzo storico, ma non a pieno titolo.
Aria vive nel pieno della rivoluzione Khomeinista e la sua storia personale, si intreccia strettamente con quella dell’Iran dagli anni Cinquanta agli anni Settanta. Raccolta in fasce in una notte d’inverno, tra i cumuli di immondizia e gli alberi di gelso in fiore, da quello che diventerà il suo Bobo (il suo papà), Behruz, vivrà una infanzia di abbandono e di degrado, trascurata da Zahra, moglie di Bobo, che non riesce ad affezionarsi a lei. Zahra è una iraniana malvista dalla gente di Teheran sud, perché ama vestire all’occidentale, ama truccarsi, girare per le strade senza velo e coi tacchi, però non ama né il marito né la bambina che questi ha raccolto per strada. Zahra rimarrà per tutto il romanzo una figura enigmatica, forse la più interessante, una madre degenere, paradossale, tesa tra la superstizione e il desiderio di cambiamento, che sparirà nella prima parte del romanzo per lasciare il posto ad altri personaggi.
Aria: questo è il nome che Behruz aveva dato alla bambina, perché amava la canzoni e la musica classica.
“Ti chiamerò Aria, come tutti i dolori del mondo e tutti gli amori del mondo (…) Sarà come se tu non fossi mai stata abbandonata. E quando aprirai la bocca per parlare, tutto il mondo ti conoscerà”.
Gli amici più cari di Aria saranno Kamram, il bambino dal labbro leporino che vedeva la piccola Aria lasciata sola sul balcone tutto il giorno, picchiata e maltrattata da Zahra, e poi, nell’adolescenza Mitra e Hamlet. Si tratta di una lunga storia che ci immerge nelle atmosfere dei bazar:
“…venditori di tappeti, di noccioline e di gioielli; aleggiava l’aroma del fegato bollente, tagliato a pezzetti e infilzato su sottili spiedini di metallo che la gente addentava”
Ci introduce e ci fa addentrare nel cambiamento che l’Iran sta vivendo:
“Erano sparite le foto dello scià. Non c’era neanche una bottega che ne esponesse il ritratto. Scelse un vicolo a caso e comincio a percorrerlo lasciandosi portare dalla folla, sbirciando dentro le botteghe. Non si vedeva da nessuna parte l’immagine dello scià. Ma quello che ne aveva preso il posto lo lasciò stupefatto. In ogni negozio era esposta una foto incorniciata di un vecchio mullah, un uomo che Ramin riconobbe e il cui ricordo risaliva ai tempi lontani in cui era stato messo in prigione. Era lo stesso mullah che aveva fomentato una protesta ed era stata mandato in esilio”.
Si tratta di Khomeini, ormai osannato per le strade di Teheran e non solo, che da Parigi era riuscito, tramite una fitta rete collaboratori, a far diffondere i suoi messaggi per una rivoluzione culturale e politica in Iran. Insieme ai suoi messaggi il Paese conosceva la musica e i divi americani.
Il romanzo è diviso in quattro parti, ognuna prende il nome di una donna : Zahra, Fereshteh, che si prenderà cura di Aria, Mehri, che è la madre biologica della protagonista e poi Aria.
Si apre e si chiude col rosso, come un anello: il rosso del sangue del parto di Mehri e il rosso, colore della passione “Amore. Furore. Cuore. Sangue. Abbi sangue, abbi cuore. Non scomparire mai” le dirà Yaghut, la pazza della città, che inviterà Aria a chiamare la sua bambina Ghermez. Rosso rubino.
L’opera è vasta e contiene molte tematiche: l’amore, l’amicizia, l’abbandono, la violenza, il rapporto e il contrasto tra zoroastrismo, Islam ed ebraismo, la questione femminile, spie e sospetti. Senza contare che i personaggi che ruotano attorno ad Aria sono ben caratterizzati e interessanti. La narrazione è in larga parte lineare, senza piani temporali che si sovrappongono. Ottima scelta stilistica tenendo conto della corposità della storia.
Per essere un esordio va riconosciuto alla scrittrice il merito di aver tenuto sotto controllo una materia multiforme e varia, anche se in qualche punto il romanzo risulta essere dispersivo. Ho trovato un po’ frettolosa la parte finale, quella dedicata agli episodi di guerriglia nei mesi della rivoluzione islamica,che probabilmente sono stati rappresentati in maniera molto più soft di come i sopravvissuti la ricordino.
“Assassinavano le persone per paura? -chiese Mitra.
“C’è mai altra ragione oltre questa? “
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Un lampo tra le tenebre del tempo
Se un libro è considerato un capolavoro, un motivo ci sarà. I libri belli non sono quelli che piacciono per forza a tutti, ma sono quei libri talvolta difficili che ti lasciano addosso qualcosa che sa di eterno.
“Al faro” non è per tutti, il lettore va avvisato. Il focus del libro non è assolutamente una piacevole ed agognata gita fuori porta che profuma di mare e risuona dei versi dei gabbiani. Se cercate questo nel libro, chiudetelo. Chiudetelo, assolutamente, perché siete a quanto di più lontano dall’opera della scrittrice.
Non è un libro di trama, è invece un libro di stile. Uno stile equilibrato, dove il virtuosismo non è troppo ardito e, quindi, accettabile.
Ho riscontrato una sola difficoltà. I flussi di coscienza sono multipli, ora entriamo nei pensieri di un personaggio, ora nei pensieri di un altro e questi voli pindarici, che talvolta si accavallano, richiedono concentrazione altrimenti si rischia di non seguire la scrittura. Io ho riletto le prime trenta pagine almeno due volte, poi sono riuscita ad armonizzarmi con lo stile e da allora è stata solo una piacevolissima scoperta.
Avevo già letto La signora Dalloway, ed apprezzato con immenso piacere lo stile della scrittrice. Ho trovato originale e particolare il romanzo “Orlando”, ma “Al faro” mi rende concorde con coloro che lo ritengono il capolavoro della Woolf.
Per apprezzare pienamente quest’opera secondo me, sarebbe interessante leggere il diario della scrittrice, perché è lì che lei spiega la concezione di To the lighthouse, tradotto ultimamente con il titolo “Al faro”, titolo più vicino all’idea del testo.
Non è la gita al faro il cuore della narrazione, ma la tensione verso un qualcosa incarnato da un faro, che potrebbe significare la verità, il senso del tempo, la realizzazione delle aspirazioni personali disattese.
Il faro potrebbe essere il ricordo della madre di Virginia Woolf, qui rappresentata dalla signora Ramsay.
Nel diario Virginia Woolf scrive:
“the presence of my mother obsessed me. I could hear her voice, see her, imagine what she would do or say as I went about my day’s doings. She was one of the invisible presences who after all play so important a part in every life […], It is perfectly true that she obsessed me, in spite of the fact that she died when I was thirteen, until I was forty-four”
Un giorno, la scrittrice, illuminata da una specie di correlativo-oggettivo, pensa a sua madre e immediatamente immagina un faro. Scrive velocemente il libro, libera un fiume in piena. La scrittura diventa la terapia per elaborare il lutto dopo tanti anni.
Ma “Al faro” è un concentrato di materia letteraria: non solo la figura centrale della madre che tiene unita la numerosa famiglia, ma anche il tema dello scorrere del tempo, della precarietà delle nostre vite, delle tensioni umane, dell’amore, delle ipocrisie, del non detto che rode le viscere, dei pensieri che scorrono più vivi e veri del meccanicismo delle azioni quotidiane. È un libro che parla di attese, di bellezza, di natura, di ricordi, di consuetudini di una famiglia che ad un certo punto perde il suo “faro”, e tutto questo è raccontato in una esplosione di immagini e di puro lirismo. Perchè il signor Ramsay e la signora Ramsay, tratteggiati magnificamente dalla penna della scrittrice, corrispondono grosso modo al padre e alla madre della Woolf!
Il padre, filosofo, con le sue idiosincrasie, le sue letture preferite, le sue concezioni sul sesso femminile, innamorato della bella moglie, odiato dai figli perché ama quasi contrariarli
“…i figli generati dai suoi lombi, dovevano rendersi conto sin dall’infanzia che la vita è difficile, la realtà intransigente, e il passaggio a quel paese favoloso ove le nostre speranze più vivide s’estinguono e le nostre frali scorze naufragano nella tenebra(…)”
(Traduzione Giulia Celenza, ediz. Garzanti)
La signora Ramsay, come la madre dell’autrice, rappresenta ciò che c’è di buono e di bello, è amata da tutti, mette una buona parola sempre per gli amici e muore prematuramente.
“Tutti ricorrevano a lei, da mattina a sera, così, perché era donna; chi voleva una cosa, chi un’altra; i ragazzi crescevano; e a lei pareva ormai d’essere niente più che una spugna inzuppata d’emozioni umane”.
Il libro è diviso in tre parti, un trittico di tre pannelli dove poesia e colori incontrano flussi di coscienza e talvolta epifanie liriche: La finestra, Il tempo passa, Il faro.
Interessante anche il personaggio di Lily Briscoe, che probabilmente è l’alter ego della Woof, nubile, pateticamente legata al sogno di dipingere bei quadri, che riflette sui rapporti tra i sessi:
“Ella non avrebbe mai capito quel giovanotto. Quel giovanotto non avrebbe mai capito lei. Le relazioni umane erano tutte così, ella pensava, e peggio ancora (fatta eccezione per il signor Bankes) quelle fra uomini e donne. Quelle poi erano estremamente ipocrite”.
Ah, l’amore, quel sentimento così “puerile, eppure così necessario!”
Raramente ho trovato pagine così intense, non serve leggere un libro di trama, i grandi autori non sarebbero grandi se avessero scritto libri “facili”. I grandi autori hanno fatto proprie le sensibilità del tempo in cui sono vissuti, le hanno rielaborate, hanno corretto centinaia di volte i loro scritti non punti dalle esigenze di mercato, ma dalle esigenze della letteratura. Quella vera.
Al faro è un libro pieno di luce e di colori, quelli ad acquerello che usa Lily Briscoe per dipingere la cara amica ormai estinta e quelli della letteratura che usa Virginia Woolf.
“Di scatto, come se qualcosa la richiamasse laggiú, si girò verso la tela. Eccolo – il suo quadro. Sí, con tutti i suoi verdi e i suoi azzurri, le linee che correvano verticali e di traverso, la sua aspirazione a qualcosa. L’avrebbero messo in soffitta, pensò, sarebbe andato distrutto. Ma che importanza ha? si chiese, prendendo di nuovo il pennello. Guardò i gradini; erano deserti; guardò la tela; era confusa. Con repentina veemenza, come se per un attimo lo vedesse distintamente, tracciò una linea là, al centro. Era fatto; era finito. Sí, pensò, posando il pennello stremata, ho avuto la mia visione.”
Voglio terminare con una piccola citazione di Hisham Matar (introduzione, edizione Einaudi):
“…l’intero romanzo è come un lampo che per un istante inonda la foresta. Invece di disperdere l’oscurità, ne lascia una traccia indelebile”.
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Le onde
La Mammavéra
“Le parole sono la parte più concreta della materia.
La materia è uno scherzo ben riuscito.
Le parole non sono mai completamente pulite.
Le parole non dimenticano la materia dalla quale evaporano, ma non ne hanno alcuna nostalgia”
Ed è con le parole, stavolta scelte per un romanzo, la sua prima opera narrativa, che la poetessa Maria Grazia Calandrone dichiara il suo amore verso la madre adottiva, che lei vuole chiamare Mammavéra, tutto attaccato, proprio così.
Licenze poetiche, licenze di pausa, a capo inattesi, voluti dall’autrice. Stile sincopato che mi piace tantissimo. Scrittura tagliente, che sa farsi delicata.
Una narrazione in prima persona che, dopo le prime pagine in cui l’autrice presenta i suoi genitori, procede spesso per salti temporali, con piccoli quadretti, ricordi sparsi, come se stessimo sfogliando un album di fotografie sistemate, a volte, alla rinfusa. E in questo cammino la Calandrone ci accompagna con la sua voce mista di nostalgia e anche di orgoglio.
Dopo quasi cinquant’anni di silenzio, la nostra poetessa consegna al mondo i ricordi della donna che l’ha adottata, Consolazione, detta Ione, del loro rapporto di Amore che diventa poi Disamore, quando lei decide di rivelare alla figlia, quando aveva solo quattro anni, di non essere lei la Mamma Vera.
“Sono caduta nel Disamore a quattro anni, quando Madre rivelò Io non sono la tua Mamma Vera. Quella di Madre fu una decisione anticipatoria, d’amore ansioso: aveva letto sul giornale la notizia del suicidio (un altro! che cortocircuito nella mente di Madre!) di una diciottenne che, nel predisporre le carte per il proprio matrimonio, aveva scoperto d’essere stata adottata e si era tolta dalla vita. La ragazza doveva aver sentito sabotate le radici della propria identità. Il futuro che stava fondando, in lei valeva meno del passato. Le persone sono strane. A quattro anni, non ero probabilmente prossima al matrimonio, né avevo intenzione di richiedere documentazione alcuna circa la mia propria ascendenza: quello di Madre fu uno scrupolo decisamente precoce, ma ho sempre compreso con sincera adesione il conflitto che la indusse in errore”.
Questa rivelazione ebbe peso solo sulla vita di Ione, sui suoi nervi e le conseguenze sono sotto gli occhi del lettore.
Da quel momento qualcosa si ruppe nel loro rapporto, da parte della madre
“…non credette più al mio Amore. Come chi si sia frettolosamente denudato e non possa più tornare indietro. Quello che è stato visto, è stato visto”.
Tra le pagine fotografie, ritagli di giornale, frasi di canzoni, ricordi di eventi epocali (nube tossica partita dall’ICMESA di Meda, seguita dieci anni dopo da quella di Chernobyl), l’incontro con Ornella Muti.
Nessun periodo lungo, se non pochissimi. Capitoli brevi, momenti intensi tratteggiati, dichiarazioni d’amore incondizionato verso quella mamma professoressa, così sorridente in quelle fotografie mentre stringeva a sé la piccola Maria Grazia.
Leggendo questo libro, e anche ascoltandolo (su audible potete ascoltare la voce della Calandrone, è lei stessa che legge) con quelle pause ad effetto, quelle parole scelte al posto di altre, ho pensato a quei colpi di pennello che gettano sulla tela una macchia di colore che a poco a poco con l’acqua si apre ingrandendosi, mostrando tutte le sfumature che la sola pennellata, all’inizio, non rivelava.
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…e non sono solo parole!
“Stai zitta: e altre nove frasi che non vogliamo sentire più” è stata una lettura interessante. Su audible, avete la possibilità di ascoltarlo dalla voce della stessa scrittrice e vi assicuro che non c’è modo di distrarsi: il tono è proprio come la penna di lei. Graffiante, duro, incisivo e chiaro.
Come per il monologo della Cortellesi, in occasione del David di Donatello 2018, sul significato delle parole maschili declinate al femminile, anche in questo caso possiamo dire che…non sono solo parole.
Come ho avuto modo di leggere altrove, in altri libri sulla tematica della disparità di genere, il linguaggio è importante, è veicolo di cultura, è specchio di una mentalità
“Il linguaggio è una infrastruttura culturale che riproduce rapporti di potere”
Attraverso brevi capitoli titolati che incarnano anche espressioni stereotipate entrate nel nostro linguaggio comune, l’autrice ci mostra come certe espressioni rivelino in realtà, senza neppure nasconderle, vere discriminazioni sessiste e tentativi di sminuire il potere, le capacità, l’importanza di una donna che abbia qualche ruolo di rilevanza in gli ambito sociale, politico o economico.
L’utilizzo, ad esempio, del nome di battesimo o di soprannomi e non del titolo culturale/ruolo politico economico di quella donna “Virginia, Giorgia, Elena…” per indicare “sindaca”, “onorevole”, “dottoressa”, ecc.
Per i giornali italiani è impossibile utilizzare per le donne il cognome (senza farlo precedere dall’articolo determinativo) o il titolo professionale. È un modo come tanti altri che la giornalista ci illustra, per sminuire il potere delle donne.
Addirittura, l’utilizzo di diminutivi, di soprannomi, (la Merkel accetta di farsi chiamare “Mutti”, mamma) serve per
“Ridurre la distanza simbolica, ispira paternalismo (…) diminuisce l’autorevolezza della funziona ricoperta”
e rende più umane, più avvicinabili, donne che, come gli uomini si distinguono per qualche merito. Un trattamento di familiarità non richiesto.
Ma in Italia, dice l’autrice, una donna capace, piena di talenti, “una donna che comanda è un evento eccezionale che appartiene al fiabesco mondo del fantasy”.
Se si vuole attivare una rivoluzione culturale, bisogna cominciare dal linguaggio. È in quest’ottica che la denuncia della Murgia ha senso, al di là di ogni critica che le si potrebbe muovere. Le idee sono in sostanza ben condivisibili, anche se, a mio parere, in certi passaggi, ho rilevato qualche punta di esagerazione e di radicalismo che mi ha lasciata alquanto perplessa.
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Delitto e castigo
“Il marchese di Roccaverdina”, uno dei principali romanzi del Verismo italiano, uscì nel 1901 per i tipi dell’editore Treves di Torino, lo stesso che aveva pubblicato anni addietro “I Malavoglia” (1881), “Mastro-don Gesualdo” (1889) di Verga e anche “Il piacere” (1889) di D’Annunzio.
L’opera mi è piaciuta tantissimo: la ricchezza delle tematiche, la presenza di una figura principale forte e complessa, lo stile lineare, con pochissimi flashback, per chi ama i classici è un must read.
Un capolavoro quasi dimenticato, forse perché oscurato dalle opere dell’amico fraterno Giovanni Verga, con cui condivideva non solo la passione per la scrittura -vicina ai dettami del Naturalismo francese, adattato alla realtà del Sud Italia - ma anche per la fotografia, di cui il Capuana fu un vero maestro.
Il romanzo è ambientato nei luoghi in cui è nato e cresciuto l’autore, tra Rabbato e Margitello, nel catanese. Non si tratta di un giallo: al lettore verrà svelato nei primi capitoli che il marchese è l’autore di un terribile delitto.
La vittima, Rocco Criscione, suo devoto servitore, al punto di essere conosciuto col nome di “Rocco del marchese”, era stato costretto a sposare la donna che per dieci anni il padrone si era tenuto in casa come schiava e concubina, Agrippina Solmo, giurando che non l’avrebbe mai toccata, che sarebbero stati nella stessa casa come fratello e sorella.
Questa strana trovata del marchese era stata dettata dalla necessità di mettere a tacere lo scandalo che la sua condotta peccaminosa gettava sul buon nome della famiglia.
Purtroppo però, roso dalla gelosia e dal sospetto che i due fossero venuti meno al giuramento, il marchese in preda ad un terribile raptus con una “fiammata” del fucile uccide il servitore e non fa nulla per scagionare l’innocente, un certo Neli Casaccio, condannato per omicidio al posto suo.
Il perno del romanzo è il rimorso della coscienza del marchese, una sorta di “Delitto e castigo” verista: la celebre opera russa era conosciuta in Italia, basti pensare anche a “Canne al vento” della Deledda, pur con le caratteristiche che renderanno riconoscibile e irripetibile l’opera della scrittrice sarda.
Antonio, marchese di Roccaverdina, per tutta la durata della narrazione, cercherà in tutti i modi di mettere a tacere la voce della sua coscienza che gli rende la vita impossibile. I suoi nervi sono ipersensibili e si alterano per un nonnulla: le stesse “magherie” dell’amico Aquilante che lui tanto derideva prima del delitto, gli mettono addosso strani brividi e paure sconosciute, come quella di ritrovarsi da solo nel salone di casa. Ad un certo punto dona il grande crocifisso di legno a grandezza naturale ai frati della vicina parrocchia, perché non riesce più a passare per lo stanzino in cui era sistemato da decenni, senza tremare:
“egli rivedeva il gran Crocifisso che lo guardava, lo guardava con gli occhi velati dallo spasimo dell'agonia, agitando le labbra tumide e pavonazze per pronunziare parole che non prendevano suono (…)”
Per alleggerire la coscienza rivela in confessione il delitto allo smilzo don Silvio, che di là a poco morirà col suo segreto. Ma ciò non basterà a calmare i suoi nervi. Le stesse dottrine positivistiche, di cui si fa portavoce suo cugino, il cavaliere Pergola, riusciranno solo per poco a far respirare il nostro marchese.
«Avete gli occhi chiusi, caro cugino. Se credete di guadagnarvi il paradiso!... Il paradiso è quaggiù, mentre respiriamo e viviamo. Dopo, si diventa un pugno di cenere e tutto è finito.»
«E l'anima?»
«Ma che anima! L'anima è il corpo che funziona; morto il corpo, morta l'anima. Chi ha mai visto un'anima? Soltanto don Aquilante e i pochi pazzi suoi pari si illudono di parlare con gli Spiriti.» «Che ci assicura che sia come dite voi?» «La scienza, l'esperienza. Nessuno è mai tornato dall'altro mondo...(…)
Un romanzo interessante, ligio ai dettami del Verismo, che cala le vicende in luoghi reali, in epoca post-unitaria. Le credenze religiose vengono attaccate su un doppio fronte: dalla scienza positivista e dalle idee evoluzionistiche (il cugino) e dallo spiritismo (don Aquilante). Questi personaggi sono assolutamente pittoreschi e contraddittori: l’uno, ateo e scettico, credutosi moribondo si fa riempire la casa di reliquie di santi, tutte provenienti dalle vicine chiese, e sposa la donna con cui ha convissuto in peccato tanti anni e l’altro, l’avvocato, uomo di legge colto, che cede alle lusinghe dello spiritismo e delle scienze occulte.
Da segnalare l’uso di proverbi del luogo, proprio come nei romanzi di Verga, lo spaccato di vita contadina, di cui la fa parte lo stesso Antonio dei Roccaverdina, “il marchese contadino”. I braccianti e i lavoratori conducono una vita dedita al sacrificio, legata al ritmo e al capriccio delle stagioni, dove il raccolto non è all’altezza delle grandi culture intensive del Nord Italia e del Nord Europa.
Nodo cruciale della questione meridionale:
“Noi abbiamo quel che ci meritiamo», aveva soggiunto il marchese. «Non ci curiamo di associarci, di riunire le nostre forze. Io vorrei mettermi avanti, ma mi sento cascare le braccia! Diffidiamo l'uno dell'altro! Non vogliamo scomodarci per affrontare le difficoltà, né correre i pericoli di una speculazione. Siamo tanti bambini che attendono di essere imboccati col cucchiaino... Vogliamo la pappa bell'e preparata!»
Un capolavoro (quasi) dimenticato da recuperare, sia per la ricchezza delle tematiche, sia per la complessità psicologica del protagonista.
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Due vite, due solitudini
Da quando mi sto avvicinando alla letteratura nordica, mi sono resa conto di quanto poco so di quella parte d’Europa, storicamente e culturalmente.
Scopro sempre più di essere portatrice di una vergognosa ignoranza.
Leggere “Miraggio 1937” è stato stimolante e si è rivelato una piacevolissima esperienza di lettura.
L’autore, Kjell WESTÖ è un autore finlandese di lingua svedese.
Per comprendere lo spaccato di vita in cui si muovono i protagonisti, l’avvocato Thune e la sua assistente, la signora Wiik, è necessario conoscere un po’ di storia della Finlandia e l’autore, previdente, ce la offre nella postfazione.
La Finlandia nasce da una costola della Svezia nei primi dell’Ottocento e ceduta ai Romanov: tra paradossi e contraddizioni, nel suo interno palpitò a lungo un cuore nazionalistico che venne affiancato nei primi del Novecento da nuove ideologie, il socialismo e il nazismo. Dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale, i giovani, sia di lingua svedese sia di lingua finlandese, si arruolarono in segreto al fianco dei tedeschi, nella speranza di emanciparsi dalla Russia. In realtà dopo la deposizione dello zar Nicola II, la Finlandia era preda dell’anarchia più totale che sfociò in una terribile guerra civile.
La signora Wiik, vero nome Matilda Ahlbäck, è vittima dei soprusi di questa guerra e dentro di sé cova il desiderio di vendicarsi dell’uomo che ha abusato di lei quando era praticamente una ragazzina. Quest’uomo, che lei chiama il Capitano in realtà è…
lo scoprirete solo alla fine.
Rimarrete spiazzati.
L’altro protagonista - la storia è narrata in terza persona - è l’avvocato Claes Thune, che porta con sé , come Matilda, una storia di solitudine: sua moglie Gabi, lo ha lasciato, dopo averlo tradito di nascosto con uno dei suoi più cari amici, Robi. Nonostante ciò, Thune rimane in buoni rapporti con l’amico e lo invita, come fa ormai da tanti anni, nel suo studio una volta a settimana al “circolo del mercoledì “ al quale fanno parte una ristretta cerchia di conoscenze dell’avvocato.
Due vite sole, due vite grigie, quella della signora Wiik e quella del dottor Thune, due solitudini che forse avrebbero potuto incontrarsi più da vicino: scopriremo man mano la vera storia della donna, mentre quella di Thune viene rivelata dall’inizio. Lo sfondo è quello asfissiante di una nazione allo sbando, dal passato terribile sferzato dal vento di una nuova guerra mondiale.
L’opera potrebbe essere considerata un noir anni Trenta, ma è riduttivo, non è solo né prevalentemente questo. Si apre in medias res a vicenda già conclusa e continua con un unico, lungo flashback, l’antefatto.
Il titolo del romanzo proviene dall’omonimo titolo di un pezzo musicale di Konni, fratello di Matilda, facente parte di band chiamata Arizona: Miraggio 1938.
“Sulla città aleggiava un’atmosfera irreale. La vita un sogno, un miraggio dai contorni indefiniti. Ecco di nuovo quella parola.”
Appena apre il libro, il lettore troverà la foto, risalente al 1938, di alcuni corridori al traguardo, uno dei quali visibilmente vincitore. Una foto storica: quel vincitore non vinse alcuna medaglia, quel giovane venne qualificato come quarto, perchè…ebreo.
“Vinse Abraham Tokazier, in primo piano sulla linea del traguardo, eppure nella classifica ufficiale risultò essere arrivato quarto: la Finlandia non voleva offendere gli amici tedeschi presenti in tribuna premiando un ebreo” (prefazione dell’editore)
Alla famiglia di Tokazier la vittoria venne riconosciuta postuma, parecchi decenni più tardi.
È questa l’atmosfera straniante e straniata dal libro: i due protagonisti si muovono in un mondo in cui non si riconoscono, con gli ideali a pezzi e con l’infelicità negli occhi.
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A chi vuole avvicinarsi alla letteratura nordica.
Il patriarcato del monoteismo
“Dio, Allah, Buddha. Comunque lo si chiami, è in suo nome che gli uomini scatenano il loro odio contro le donne. La Bibbia, la Torah o il Corano sono gli strumenti di questa aggressione, spesso utilizzati a sproposito. E quando non bastano le Sacre Scritture vengono in soccorso i santi per chi li venera, i miracoli per chi ci crede, gli hadith del Profeta (veri e falsi), i dogmi. Le religioni costituiscono l’alibi per il patriarcato. (…) Non si può essere tolleranti con le religioni; altrimenti, proprio qui in Europa, un giorno ci troveremo sedute in fondo all’autobus, come succede non solo in Iran ma anche in Israele, isolate su spiagge riservate a sole donne – in Italia sono già state avanzate richieste del genere (…)”
Questa è una parte della prefazione al libro di Giuliana Sgrena, giornalista sequestrata a Baghdad da un gruppo di jihadisti, mentre stava lavorando ad un servizio per il quotidiano “Il manifesto”. Come l’autrice tiene a sottolineare, il libro non è né un pamphlet né un’opera di esegesi, ma una ricerca personale condotta con rigore sulle fonti delle tre religioni principali: cristianesimo, ebraismo e islam. La lettura è stata coinvolgente e mi ha arricchito dal punto di vista culturale, mi ha offerto numerosissimi stimoli di riflessione e di approfondimento per le tematiche sulla disparità di genere, che quest’anno ho approfondito con grande attenzione ed interesse.
L’opera è suddivisa in dieci capitoli, di cui alcuni abbastanza corposi, ma che si leggono con fluidità e piacere. Nei primi capitoli la scrittrice riporta alcuni episodi cruciali della sua infanzia e anche qualche altro della sua prigionia irachena: le suore bigotte e severe che la additavano come la figlia del diavolo, perché il padre era comunista, il silenzio della donna velata che, nella cella, le procurava qualche assorbente di fortuna quando aveva il ciclo ed era, perciò, inavvicinabile.
Il sangue mestruale! quale sporcizia e immondizia! E il sangue del parto? Secondo alcuni padri della chiesa Gesù stesso è stato partorito mentre “il seno della vergine rimaneva chiuso”, in questo modo era nato senza sporcarsi del sangue di donna. A proposito di “donna”: la stessa madre di Gesù viene chiamata da lui “donna”, raramente madre. La scrittrice tratta anche degli argomenti un pò crudi, come ad esempio le varie tecniche per l’infibulazione, cioè una vera e propria mutilazione dei genitali femminili al fine di controllare la sessualità della donna sin dalla tenera età. Quella parte ha suscitato in me orrore e tanta rabbia: come si può accettare, anche da parte delle stesse donne, una pratica così, non solo umiliante, ma anche pericolosa per la salute stessa!?
Ma i muri culturali sono talvolta invalicabili e difficili da abbattere, soprattutto quando non c’è, da parte della vittima, qualsiasi tentativo di ribellione. Perché le donne sono fatte per starsene zitte: dare la parola ad una donna è darle quasi l’autorizzazione a spogliarsi, a esporsi nuda. Questa misoginia di fondo delle religioni monoteiste, baluardo da millenni del patriarcato ha gettato le basi alla discriminazione di genere: dalla relegazione ai ruoli tradizionali, alla caccia alle streghe, dai veli che coprono solo i capelli a quelli integrali, dall’inattendibilità della testimonianza di una donna alla mortificazione della femminilità. Versetti biblici e sure coraniche, tutti schierati contro la donna. Una misoginia che si perde nella notte dei tempi, eppure prima dell’avvento dell’impostura delle religioni monoteiste, - fa notare la Sgrena- la società era matriarcale e si basava sul culto della Dea Madre e degli attributi fisici femminili della fertilità dell’abbondanza.
“Dio odia le donne”: il dio degli ebrei e dei cristiani, il dio degli islamici ha contribuito a seminare quella disparità di genere che ancora oggi stiamo tentando di sradicare dal mondo. E non basta essere laici!
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Nella tenebra bianca
“Nelle alte montagne della nostra patria c’è un paesino con un campanile piccolo ma molto appuntito, che col rosso di cui sono dipinte le sue tegole spunta dal verde di tanti alberi da frutta e per questo suo color rosso si vede di lontano nell’azzurro smorto e vaporoso dei monti. Il paesino si trova proprio nel mezzo di una valle piuttosto ampia, che ha quasi la forma di un cerchio un poco allungato.”
Come faccio a confessare a tutti che nel bel mezzo della calura delle ultime settimane, che ci sta letteralmente sciogliendo in casa (per chi non ha il condizionatore come me) e fuori casa, mi sono persa in un libriccino dal contenuto assolutamente agli antipodi della stagione?
Un racconto nordico, ambientato nella notte di Natale, che sa di fiaba?
Non avevo mai sentito parlare nè dell’autore e nè di questo libro, mai dire mai! Ecco una piccola gemma lucente della letteratura tedesca!
Il racconto è breve. Il focus è la piccola grande avventura tra il bianco della neve e nel silenzio più assoluto di due bambini, Corrado e Susanna, detta Sanne, fratello e sorella, che vanno a trovare la nonna che abita a qualche chilometro dal loro villaggio. Ormai il fratello è grande e non c’è bisogno che vengano accompagnati dai genitori. Dopo qualche giorno insieme, la mattina della vigilia di Natale, la notte santa, la nonna riempie loro le tasche e le piccole borse di leccornie, compresi i doni di Natale e li congeda affinché tornino alla loro abitazione prima che faccia buio. In realtà i bambini vengono sorpresi dal bianco abbagliante della neve e si perdono tra i ghiacci.
“La prima cosa che i bambini videro, quando misero piede nel bosco, fu che il terreno ghiacciato appariva grigio, come fosse cosparso di farina, e la cima di più d’uno stelo sottile dell’erba secca lungo la via o fra gli alberi si piegava sotto il peso dei fiocchi di neve, e sui rami verdi degli abeti che si aprivano come mani, posavano già delle linguette bianche”.
Il racconto di questa avventura è magistrale!
“I bambini andarono avanti nel fossato ed entrarono sotto la volta e sempre più dentro. Era tutto asciutto, e sotto i piedi avevano ghiaccio liscio. Ma nella grotta tutto era azzurro, azzurro come nulla al mondo, un azzurro tanto più profondo e più bello del firmamento, simile a vetro di color celeste, attraverso cui penetri una chiara luce. C’erano archi spessi e archi sottili, ghiaccioli, aghi, ciondoli pendevano dalla volta, la galleria si sarebbe addentrata ancora di più, non sapevano quanto, ma non andarono avanti. Si stava tanto bene nella grotta, era caldo, non cadeva neve, ma era così terribilmente azzurro che i bambini ebbero paura e uscirono di nuovo all’aperto”.
Come Stifter racconti i paesaggi innevati, le pareti cristalline, come egli sappia rendere angosciante e insieme magico un ambiente tanto ostile a due innocenti bambini che sognano di sentire le campane della mezzanotte per cogliere un indizio sul loro percorso inutile. La dolcezza e il senso di protezione che il fratello manifesta prendendosi cura della sorellina, sistemandole lo scialletto, ripulendole il grembiule dalla neve che l’aveva ricoperta durante il cammino, il calore della comunità che si stringe attorno alla famiglia dei due bambini, scaldano il cuore.
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IL NERO DEL SILENZIO
“In altri tempi, più o meno ordinari, c'era sempre qualcuno con lo sguardo perso nel proprio cellulare, di mattina, a mezzogiorno, di sera, in mezzo al marciapiede, incurante degli altri che gli passavano velocemente accanto, completamente immerso, ipnotizzato, consumato dall'apparecchio, con gli altri che quasi gli andavano incontro per poi schivarlo all'ultimo momento; e adesso questi tossicodipendenti digitali non possono fare niente, i cellulari sono fuori uso, ogni cosa è fuori uso, completamente totalmente fuori uso”.
Ultimo libro del grande scrittore americano Don Delillo, una sorta di distopico (ma non troppo), apocalittico (senza sfociare nelle conseguenze estreme) che induce il lettore a riflettere sull’impatto della tecnologia nella vita dell’uomo contemporaneo. E se un giorno, per un motivo sconosciuto dovesse scomparire la connessione web, i computer non dovessero più funzionare, le linee ferroviarie, aeree, navali, le informazioni andassero tutte in “down”?
Il tema non è certo nuovo nella letteratura, però siamo di fronte a Don Delillo, uno degli scrittori americani viventi più importante, che sa conferire a questi motivi un sapore originale.
Il libro è molto breve, circa 120 pagine o poco più, è stato il più atteso di quest’anno, qualche fan aveva accettato anche di leggerlo in lingua. Io non avevo mai letto nulla dell’autore e quindi ho iniziato dall’ultimo libro scavalcando le grandi opere, come faccio sempre nelle mie letture disordinate, senza criterio, che procedono per puro opportunismo, sensazioni, occasioni.
“L'uomo sfiorò il pulsante, modificando la posizione verticale del sedile. Si ritrovò con gli occhi fissi sul più vicino dei piccoli schermi posizionati in alto, appena sotto la cappelliera: parole e numeri che cambiavano di continuo con il procedere del volo. Altitudine, temperatura esterna, velocità, ora di arrivo. Aveva sonno, ma continuava a guardare.”
L’incipit del libro ci catapulta a bordo dell’areo, insieme ai coniugi Jim Kripps e Tessa Berens che, dopo la pandemia che ha sconvolto il mondo, hanno passato le vacanze a Parigi e ora tornano a Newark. Siamo nel 2022, insomma, l’anno prossimo.
I personaggi, come l’altra coppia che troveremo più avanti, hanno delle manie: lui, nonostante sia assonnato, non riesce a smettere di leggere le futili informazioni sul volo che compaiono sullo schermo dello scomparto business dell’areo, attratto come un ossesso non stacca gli occhi dal dispositivo. Sua moglie invece, ha la capacità di parlare per rispondere alle domande incalzanti del marito sulla traduzione di alcune parole che compaiono sullo schermo e scrivere contemporaneamente nell’ennesimo quadernino tutti i pensieri, importanti o da scartare in seguito, che potrebbero essere spunti di scrittura.
All’improvviso il guasto sconosciuto, il velivolo comincia a traballare, lo stesso Jim si ferisce alla fronte nell’impatto causato dall’atterraggio di emergenza. C’è una strana pausa a questo punto, come in un film, e ritroviamo la coppia fuori dell’aereo, non si sa come, insieme ad altre persone ferite, in una sorta di ospedale. Prima della medicazione incontreranno una donna chiacchierona, molto bizzarra (come se loro stessi non lo fossero) poi raggiungeranno la casa di due amici: Max, studente di fisica e Diane, la sua docente universitaria. Il primo, di fronte a questo blackout che ha bloccato non solo la sua città, ma probabilmente tutto il mondo, comincia a parlare a ruota libera, imitando la voce di Einstein (di cui stava studiando un manoscritto), mescolando teorie complottistiche e apocalittiche, falsi aforismi del grande fisico, mentre Jim, continuando a fissare lo schermo nero della tv, inventa la radiocronaca della finale di Super Bowl che avrebbero dovuto vedere insieme!
Nessuno si affaccia alla finestra, nessuno sbircia fuori per vedere il panico tra la gente. Sono chiusi in un appartamento e tutto si trasforma come in un pezzo teatrale, in due parti: prima nell’aereo e poi a casa di Diane, due luoghi chiusi e fuori il caos che Don Delillo non vuole rappresentare lasciando il lettore in una realtà allucinata e dandogli la possibilità di immaginare cosa succeda al di fuori della casa di Diane.
La tecnologia sparisce dal mondo, “La parola stessa mi pare obsoleta, persa nello spazio. Dov’è la fede nell’autorità dei nostri device sicuri, delle nostre capacità di criptaggio, dei nostri tweet, dei troll, dei bot”.
Cos’è l’uomo senza la tecnologia? Il comportamento dei personaggi, quasi degli automi impazziti, nel silenzio degli schermi neri, testimonia la necessità non tanto di dare una spiegazione a questo fallimento quanto piuttosto di riempire il vuoto dello spazio chiuso lasciato dalla tecnologia. Parlare, parlare, parlare, non rimanere zitti, continuare a guardare, a fissare lo schermo nero, quasi ipnotizzati. La tecnologia ha riempito talmente le nostre vite che se dovesse sparire all’improvviso saremmo destinati alla regressione.
Non a caso, la frase di apertura del libro è “Non so con quali armi si combatterà la Terza guerra mondiale, ma la Quarta guerra mondiale si combatterà con pietre e bastoni” attribuita ad Albert Einstein, guru del giovane Max.
Mi è piaciuto, gran bella penna, ma mi aspettavo fuochi di artificio…
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Sanguinare per sentirsi vivi
Non lo so”
Così Paolo Nori, col tono scanzonato e sincero che lo contraddistingue, risponde alla domanda “che senso ha oggi, nel 2021, parlare di Dostoevskij?” con cui apre il libro. Per fortuna, come succede qualche volta che ad una domanda risponde in questo modo, aggiunge subito dopo “vado avanti”.
E infatti Paolo Nori va avanti. E in che modo!
Il libro non è una biografia asettica di Dostoevskij, ma un romanzo, ben scritto e coinvolgente che a volte si interrompe per lasciare spazio agli “intermezzi” dello scrittore parmense. Intermezzi che sono ricordi, episodi della propria vita, come quello in cui racconta quando il suo cuore cominciò a sanguinare:
“Delitto e castigo l’ho letto che avevo forse quindici anni […] e ho avuto, me lo ricordo perfettamente, la sensazione che quella cosa che avevo in mano, quel libro pubblicato centododici anni prima a tremila chilometri di distanza, mi avesse aperto una ferita che non avrebbe smesso tanto presto di sanguinare. Avevo ragione. Sanguina ancora.” (p. 9-10)
Certo non è stato semplice per l’autore ripercorrere a 57 anni le sensazioni e le emozioni provate quando ne aveva 15 (intervista di Roberto Festa a Paolo Nori, “Venerdì” di “Repubblica”, 9 aprile 2021 al link https://www.repubblica.it/venerdi/2021/04/09/news/paolo_nori_dostoevskij_sanguina_ancora_intervista-295255672/ ), tuttavia ha avuto la prova che Dostoevskij gli lacera il petto anche a distanza di anni, con alle spalle nuove esperienze, non sempre positive, tutt’altro, e con un background completamente diverso.
Eppure all’inizio, se non ci fosse stata la spinta dell’amico Antonio Pennacchi, la “ritrosogna” (p.12) gli avrebbe impedito di lanciarsi in questa quasi-sfida con se stesso e i suoi ricordi. “…un misto di ritrosia e di vergogna, ritrosogna, si potrebbe chiamare, che brutto nome (…)”.
Lo stile, il modo di trattare la biografia di Dostoevskij è tipicamente “noriano”, contraddistinto dal tono svagato, a volte anche canzonatorio con cui affronta i discorsi ed è l’ingrediente segreto che rende meraviglioso, senza nulla togliere al grande russo, la lettura del libro. L’ho notato anche nell’altro lavoro che ho letto, “I Russi sono matti”: quando si toccano certi punti per così dire nevralgici, quando si rivelano verità profonde, non serve a nulla usare concettualismi, termini altisonanti. Serve invece la semplicità e il parlare diretto, a tu per tu col lettore. E anche con se stesso. Sì anche con se stesso, questo libro scritto nel pieno della pandemia, come l’autore stesso ricorda (p.49) assume, in certi passaggi, i toni di un diario intimo.
Nel libro non si parla solo di Dostoevskij, ma anche di altri grandi autori russi, conosciuti in vita o meno (Tolstoj non conobbe mai di persona il grande autore) le cui vite si intrecciano con la sua, ci sono stralci di lettere, aneddoti, richiami ad altri autori e alle opere che hanno fatto grande la letteratura russa.
“Cioè io credo che la letteratura russa sia la letteratura più bella del mondo, ma non è che voglio convincere tutti, e il mio sentimento nei confronti di chi, per esempio, non ha mai letto Puskin, Gogol’, Lermontov, Leskov, Dostoevskij, Tolstoj, Cechov, Bulgakov, Chlebnikov, Charms, Il’f e Petrov, i fratelli Strugackij o Venedikt Erofeev è di invidia, perché che meraviglia, che hai davanti, se si dovesse mai decidere a mettersi per strada. Ecco. Volevo dirlo.” (p. 58)
Finalista al Premio Campiello 2021, l’opera di Nori è un omaggio al grande autore russo e, in realtà, come l’autore scrive nel testo, dobbiamo ad Antonio Pennacchi, amico dello scrittore, scomparso qualche settimana fa, la realizzazione di quest’opera. Cosa c’è di più bello che scrivere un libro per ricordare non soltanto il primo amore letterario, ma anche ringraziare un grande amico?
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La Storia è fatta dagli umili
“Uno scandalo che dura da centomila anni” questo è il sottotitolo della poderosa opera di Elsa Morante pubblicato, per suo volere, in formato economico, nel 1974 dopo tre anni di gestazione.
Sottotitolo provocatorio, contenuti e ideologie scomode -fin troppo - per i vari orientamenti politici dell’Italia degli anni di piombo. Il mondo intellettuale, all’epoca, si divise: ci fu chi, come Natalia Ginzburg salutò l’opera con grande entusiasmo e chi, come Pasolini, Calvino e tanti altri critici - tutti maschi, sottolineo - manifestarono un parere avverso. Chi non si espose, e il suo silenzio fu eloquente, fu il critico Fortini. Il libro vendette e continua tuttora a vendere migliaia di copie ogni anno, sancendo così la grandezza dell’opera e dell’autrice, nonostante la distanza con gli eventi narrati.
La scrittrice ha voluto raccontare la seconda guerra mondiale attraverso gli occhi di personaggi indimenticabili: Iduzza (Ida) Ramundo, ebrea e madre di Nino, avuto dal marito Alfio, e del piccolo Useppe (Giuseppe), figlio di uno stupro subito quando era fresca vedova, Davide Segre, giovane ebreo anarchico che sembra incarnare nei suoi monologhi l’alter ego della Morante.
Ci sono altri personaggi minori, tutti incontrati da Ida, ormai sfollata, nei vari rifugi romani: la numerosa famiglia detta “i mille”, rumorosa e disordinata, Carulì, ragazza madre di due gemelle, Giuseppe detto secondo, Quattro punte, amico di Nino dedito come lui al contrabbando, le signore Marrocco, fino ad arrivare agli animali, tutti ben caratterizzati, che dimostrano, come il piccolo Useppe, una sorta di saggia innocenza e inconsapevolezza. Il lettore conoscerà la gatta Rossella, innamorata del giovane Davide, che gli si struscia addosso appena lo vede, il cane Blitz e la cagna Bella. Quest’ultima sembra essere dotata di intelligenza umana tanto da fare da seconda madre al piccolo Useppe nelle sue scorribande fuori casa.
La Storia, quella con la S maiuscola non è fatta dai grandi uomini, anzi qui gli uomini sono tutti destinati a fallire, ma è fatta dai più deboli: le donne e i bambini. “La Storia” , infatti, è un romanzo che sotto vari aspetti esalta la maternità e l’infanzia. La narrazione è generalmente lineare, se si esclude il flashback all’inizio che serve per introdurre la storia familiare di Iduzza. Il linguaggio usato è molto versatile, va da quello dialettale (parlato soprattutto da Nino) a quello più colto (che caratterizza il giovane Davide Segre) a quello infantile.
È un romanzo-fiume che, nonostante la lunghezza (circa seicento pagine) si legge con piacere e coinvolgimento emotivo. Veramente un grande romanzo, una epopea familiare, una storia di dolore e di profonda pietà.
L’autrice ha consegnato in quel lontano 1974 una delle opere più importanti della nostra letteratura, un capolavoro di vivacità narrativa e di ricchezza di tematiche fuse armonicamente tra loro. “La Storia” narra gli episodi più crudi dell’età contemporanea attraverso gli occhi di una donna semplice e timorosa, madre instancabile e quelli azzurri di suoi figlio Useppe, un bambino che catturerà il cuore del lettore.
Col suo modo tenero e ingenuo di approcciarsi alla realtà, il suo linguaggio misto di termini dialettali e inventati, conferisce spessore a tutta l’opera.
“ Dalle altre femmine, uno può salvarsi, può scoraggiare il loro "amore"; ma dalla madre chi ti salva? Essa ha il vizio della santità... non si sazia mai di espiare la colpa di averti fatto, e, finché è viva, non ti lascia vivere, col suo amore”.
Consiglio gli approfondimenti della storia critica all’indirizzo:
https://www.quodlibet.it/recensione/3377 e link annessi, alcuni rimandano anche ad interessanti interviste
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Senza rimpianti verso il passato, senza sogni per
SENZA RIMPIANTI VERSO IL PASSATO, SENZA SOGNI PER IL FUTURO
“Erano i primi giorni di guerra, quando ci si dispera per tutti i caduti e si piange per tutti quelli che partono. Più tardi, ahimè, ci si farà l’abitudine. Si penserà a una persona soltanto, al proprio congiunto. Ma all’inizio di una guerra il cuore è ancora completamente puro, non di pietra.”
Rispetto alle altre letture dell’autrice affrontate finora, “Il ballo”, “ Il malinteso”, “David Golder”, “Il vino della solitudine”, “ in quest’opera, non solo non ho trovato il filone tematico materno/paterno che attinge dallo scrigno autobiografico familiare dell’autrice e che a tratti rende le sue opere ridondanti, ma ho trovato qualcosa di diverso, innanzitutto il finale (che non mi aspettavo, ma non faccio spoiler) e lo sfondo storico, molto più presente, più incisivo e prepotente, anche più del racconto “Come le mosche d’autunno” che pure ho molto apprezzato.
La storia comprende l’arco delle due guerre mondiali, si ambienta in Francia e ha come protagonisti Pierre Hardelot e Agnès Florent, l’uno “era il rampollo delle Cartiere Hardelot di Saint-Elme. I genitori di Agnès erano fabbricanti di birra. Solo un estraneo, qualcuno che non fosse della zona, avrebbe pensato che i due potessero sposarsi”.
Eppure si amavano, anche se Pierre, quando comincia la storia è fidanzato con Simone Renaudin, paffuta e lattea fanciulla che, pur non dimostrandolo apertamente, (scopriremo nel corso degli avvenimenti) era accesa di vera passione per lui e non perdonerà il suo tradimento.
Pierre e Agnès rappresentano la coppia che, nonostante le due guerre mondiali che li separano e lacerano i loro cuori con l’angoscia e il vuoto, trae forza dalla presenza l’uno dell’altra.
Il loro è un amore che, nonostante la passione di gioventù, ha basi su qualcosa di più solido, sin dall’inizio:
“Ma non era il piacere che gli aveva dato a legarlo così intensamente a lei. Era qualcos’altro, qualcosa che traeva origine da una zona più fluida della carne, più calda dell’anima. «Dal nostro sangue» mormorò. «Nasce dal sangue».”. Sono i pensieri del giovane Pierre dopo la prima notte di nozze.
“I doni della vita” è la storia di più famiglie, non soltanto quella di Pierre e di Agnès, ma anche di Simone, che sposerà poi un uomo libertino che la farà soffrire, è la storia anche dei genitori di Pierre, che, all’indomani dello scoppio della prima guerra mondiale illustreranno per primi al lettore i “doni della vita”:
“ma so bene che cosa, nella sua divina saggezza, la Provvidenza intende per felicità. Tante responsabilità, tante angosce, tante prove: insomma, i doni che la vita ci offre, cara Marthe…”
Alla fine dell’opera torneranno ancora questi “doni della vita”, con un’altra consapevolezza e un sapore più intenso, poiché il lettore avrà conosciuto meglio, palpitando per le sorti della coppia, del loro figlio Guy, il carattere dei protagonisti, dei loro slanci, nonostante le brutture delle due guerre mondiali.
La bellezza e la grandezza di questo libro sta nel ripercorrere i sentimenti che ha vissuto la stessa Némirovsky, che purtroppo però, non riuscirà a vedere la fine del secondo conflitto mondiale: l’ansia nell’ascoltare i notiziari alla radio, quella sensazione di sospensione quando non si sa quando lasciare la propria abitazione e quando restare, l’attaccamento tutto borghese (?)agli oggetti preziosi o meno tanto cari, ai propri beni, la propria abitazione…le lacrime di delusione delle giovani donne nel guardare quel bel vestito che non potranno più indossare.
«Già,» disse Pierre «un prezzo così alto non lo si paga due volte».
Ma noi sappiamo invece che non è stato così.
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Disincanti
Esordio dello scrittore russo Goncarov , assolutamente consigliato e godibilissimo. L’invito di Tolstoj a leggerlo è valido tutt’oggi: “Una storia comune è una delizia, con essa si impara a vivere”.
Il romanzo presenta da subito le tematiche care all’opera sua più famosa, “Oblomov”: l’opposizione vita di città e vita di provincia, la nausea del vivere, l’uomo inutile, l’uomo inetto, che verranno però meglio approfondite nell’opera principale.
Per me è stata una bella esperienza, mi ha strappato sorrisi e, insieme, ha rivelato verità scomode, fuori da ogni ipocrisia ed ogni filtro morale.
La narrazione è in terza persona, il personaggio principale è Aleksandr, giovane della media borghesia di campagna, coccolato dalla madre, che addirittura quando dorme gli chiude la bocca per evitare che possano entrarci le mosche. Questo ragazzo, avvertendo dentro di sè una predisposizione per la letteratura, per le gesta eroiche, gli slanci sentimentali, sente troppo stretta la vita di campagna e, pur se legato alla giovane contadina Sof’ja , desidera fare carriera a San Pietroburgo, contando sulla guida dello zio Pjotr Ivanic, scapolo brillante, ricco industriale con agganci nell’ambiente politico.
Lo stridore tra zio e nipote è evidente dal primo incontro: il giovane vorrebbe abbracciarlo e saltargli al collo, pieno di gratitudine e felice di conoscerlo, mentre lo zio, composto, freddo, misurato, detesta ogni manifestazione fisica di affetto e considera questi slanci “da seminarista”.
Pjotr è un uomo di successo, smaliziato, senza ideali, disincantato nei confronti della vita e di fronte agli innamoramenti, ai sogni (anche letterari) del nipote, non solo è scettico, ma si diverte a smontare piano piano tutte le teorie romantiche del giovane.
Aleksandr crede nell’amore eterno, ai legami indissolubili delle anime gemelle, pensa di poter vivere di sogni e di promesse d’amore e sprezza “il vile metallo”, di cui si comprenderà presto l’importanza.
Il giovane scopre, dopo essere stato tradito dall’innamorata pietroburghese, di essere incostante anche lui: quando la nuova donna di cui innamora si scioglie per lui, lo cerca, piange per le sue assenze, il giovane si annoia, la evita, non fa nulla per rassicurarla del suo amore. Si renderà ben presto conto, a proprie spese che l’amore non è eterno, per questo suo zio consigliava
“di non prendere moglie a uno che sia innamorato. L’amore passa, è una verità elementare».”
“è colpa della natura che non ammette gli amori eterni. Quelli che credono nell’amore eterno e immutabile finiscono per comportarsi come quelli che non ci credono, con l’unica differenza che non se ne rendono conto o non vogliono confessarlo; e noi crediamo che siano angeli e non esseri umani. Sciocchezze!»”
Il prezzo di questa lezione è, per la verità, molto caro: Aleksandr passerà mesi e mesi gettato su un letto a contemplare il soffitto, provando nausea verso se stesso e il consorzio umano, incapace di scrivere opere in versi e in prosa, di lavorare proficuamente.
Non anticipo il finale però, è molto carino!
Le idee dello scrittore pur vissuto quasi due secoli fa, sono assolutamente valide e molto attuali: un romanzo ambientato nella Russia delle seconda metà dell’Ottocento, quando ci si muoveva con carrozze, si viveva senza auto e senza smartphone, eppure parla alle nostre coscienze agli uomini e alle donne di oggi, di ogni età.
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Fuga senza fine, Joseph Roth
NOSTALGIA CANAGLIA
Un piccolo gioiello, oscurato da titoli più famosi, in primis da “Suite francese”, che, secondo il mio modestissimo parere, non è la sua opera più riuscita. Nella ricchissima bibliografia della Némirovsky, fortunatamente scampata al silenzio dopo la Shoah e pubblicata dalla figlia, ci sono tematiche ricorrenti e, se si leggono di seguito le opere più famose quali “Il vino della solitudine”, “Il ballo”, “ La nemica”, “David Golder” , si corre il rischio di imbattersi in un percorso letterario immaginifico monotono con giudizio errato sulla qualità letteraria della Némirovsky.
Nel racconto “Come le mosche d’autunno “ ho trovato una ventata d’aria nuova, inedita: tematiche diverse, punte di lirismo descrittivo, una dolce malinconia, nuova, se penso alle opere lette sopracitate. È nei racconti che l’autrice dà il meglio di sé, liberandosi da quella ‘scrittura come terapia’ che campeggia nei titoli principali, quell’acredine verso la famiglia di origine, per aprirsi a nuovi motivi narrativi.
In questo racconto l’autrice narra della fedelissima, anziana balia della famiglia Karin, Tat’jana Ivanovna che era in servizio da loro
“ da cinquantun anni. Era stata la balia di Nikolaj Aleksandrovi?, il padre di Jurij, e dopo di lui aveva tirato su i suoi fratelli e le sue sorelle, poi i suoi figli... Si ricordava ancora di Aleksandr Kirillovi?, ucciso durante la guerra di Turchia nel 1877, trentanove anni prima... E adesso toccava ai ragazzi, a Kirill e Jurij, partire anche loro per la guerra...”.
Questa balia è dunque la memoria storica della famiglia, della casa e dei luoghi dove è stata felice, amata e benvoluta dai padroni.
Ai tempi della storia suo marito, i suoi figli, sono già morti da tanto tempo, al punto da faticare anche a ricordarne le sembianze. La narrazione comincia con la famiglia Karin che, sorpresa dalla Rivoluzione di ottobre, è costretta a fuggire verso la Francia. Con l’arrivo della guerra il piccolo cosmo di Tat’jana, fatto di devozione profonda, di cure amorevoli, di rituali che si ripetono nel tempo, come i rigidi inverni russi, viene sconvolto.
Nel corso del lungo viaggio, l’anziana nutrice vede i componenti della famiglia Karin sbattere di qua e di là tra le pareti della casa come insetti in autunno:
“Fin dal mattino venivano chiuse imposte e finestre, e in quelle quattro stanzette buie i Karin vivacchiavano fino a sera, senza uscire, sconcertati dai rumori di Parigi, respirando con fastidio il tanfo degli scarichi e delle cucine che saliva dal cortile. Camminavano avanti e indietro da una parete all’altra, in silenzio, come le mosche d’autunno, allorché, passati il caldo e la luce dell’estate, svolazzano a fatica, esauste e irritate, sbattendo contro i vetri e trascinando le ali senza vita”.
Autunno: stagione della malinconia per eccellenza, con la sua “estate fredda” per dirla con Pascoli, con quel suo senso di stordimento dopo la calura estiva, che esercita il suo effetto subdolo sulle mosche, che sembrano impazzite, sbandate come i personaggi della storia, e sbattono le loro ali contro i vetri delle finestre.
La storia mi ha colpito per la devozione commovente della nutrice, che reca cuciti nell’orlo della veste i diamanti e i preziosi da portare ai suoi padroni, che protegge come se fossero suoi. Che guarda con nostalgia e amore i ritratti dei giovanotti di casa come se fossero figli suoi, suoi nipoti. Che ascolta le storie antiche che le pareti di casa sembrano narrarle.
È la storia di una donna anziana che si tiene in piedi grazie al desiderio di servire e alla speranza di poter accudire anche i futuri figli e nipotini dei padroni. In terra straniera con gli occhi cerca la neve, quelle belle e terribili nevicate russe che avevano rappresentato nella sua vita la sicurezza della consuetudine.
Ma a Karinovka, nuova residenza lungo il percorso che dovrebbe portare i Karin in Francia, l’autunno sembra una stagione perenne.
“Era cominciato in autunno, quando le giornate diventavano sempre più corte, e in casa si aspettava ad accendere la luce per non consumare troppa elettricità. Lei spolverava e scuoteva di continuo le stoffe degli arredi; la polvere si sollevava, ma poi ricadeva subito altrove, come cenere lieve.”
Anche l’immagine della polvere che ricade come cenere lieve é di una potenza poetica notevole, un richiamo alla morte, un correlativo oggettivo, direi, come altre immagini che vi invito a scoprire.
Breve racconto di una nostalgia che diventa quasi agonia, tanto che anche al lettore viene da dire insieme a Tat’jana:
“Com’è lungo l’autunno qui, a Karinovka…”
Se amate Cechov, questo è il libro che più si avvicina al grande russo, nume tutelare della Némirovsky.
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Sono le persone a fare la cultura
Questo piccolo pamphlet è un intervento della celebre scrittrice nigeriana tenuto nel 2012 alla TEDXEuston Conference dedicato all’Africa.
La Adichie premette che anche il concetto di femminismo è avvolto dagli stereotipi: la femminista è insoddisfatta e infelice, odia gli uomini, non mette il rossetto e i tacchi, non si depila. Nella sua infanzia, sentirsi dire “sei proprio da una femminista” non era un complimento. Gli stereotipi limitano il nostro modo di pensare bisogna quindi abbatterli per primi, perché la cultura è un prodotto umano e perciò gli stessi uomini possono cambiarla e cambiare mentalità. Alla donna è stato insegnato sin da bambina a comportarsi da piccola sposa, obbediente, composta, misurata e silenziosa. Da lei ci si aspettano emozioni tipicamente femminili (il pianto, ad esempio), mentre altre come la rabbia e l’aggressività, sono considerate virili. Ed ecco che poi da grandi, se una donna sul posto di lavoro si altera, viene allontanata, ma se invece a parità di ruolo, ad arrabbiarsi è un uomo, questi viene apprezzato dai colleghi.
Bisogna cominciare dalla radice, cambiare quello che insegniamo alle nostre figlie e ai nostri figli: la forza, la creatività, l’intelligenza, le emozioni non dipendono dagli ormoni.
“Se facciamo di continuo una cosa, diventa normale
Se vediamo di continuo una cosa, diventa normale.
Se solo i maschi diventano capoclasse, a un certo punto finiamo per pensare, anche se inconsciamente, che solo i maschi diventano capiclasse. Se continuiamo a vedere solo uomini a capo delle grandi aziende, comincia a sembrarci naturale che solo gli uomini possano guidare le grandi aziende”.
Come affermava la grande Wangari Muta Maathai, vincitrice del Nobel della pace “più in alto sali e meno donne troverai”: ancora oggi basta dare uno sguardo ai dati del WEF (World Economic Forum) per accorgerci che in tutti gli Stati del mondo, anche quelli “occidentali”, la disparità di genere, il gender gap, è ancora notevole per quanto riguarda la partecipazione femminile ai ruoli di responsabilità e di potere politico ed economico.
Il pamphlet è stato scritto nel 2012 e non tiene conto della discriminazione non binaria, ma è veramente illuminante, piacevole ed interessante per farci aprire gli occhi e cominciare la lotta contro i muri culturali, che si possono sicuramente abbattere perché:
“Non è la cultura a fare le persone, bensì le persone fanno la cultura”.
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Il corpo elettrico, Jennifer Guerra
Le ragazze stanno bene, Giulia Perona Giulia Cuter
Classico del femminismo, il secondo sesso, Simone de Beauvoir
Un libro amaro
L'autrice ci ha messo in guardia col titolo, in effetti è così: si tratta di una storia fondamentalmente dura ed amara, scritta in uno stile asciutto e tagliente.
È una storia che parla di povertà, di case in assegnazione, di una famiglia sgangherata, di un fratello maggiore figlio di un altro uomo, di due gemelli, di un padre in sedia a rotelle, ridotto allo stato larvale, di una figura materna forte, caparbia e assertiva.
L’io narrante è una ragazza che vedremo prima bambina poi adolescente e adulta fino alla laurea. Un romanzo di formazione? Più che altro di distruzione, direi.
La protagonista sembra particolarmente portata a distruggere con la rabbia, dovuta a un intimo senso di emarginazione nella cerchia dei pari, quei pochi rapporti positivi che potrebbe coltivare, in primis l’amicizia di Iris.
Mentre la madre, di cui conosciamo il nome da subito, dalle prima battute del libro, - Antonia Colombo, detta poi La Rossa, per via della sua capigliatura- si dimostra un personaggio forte, dominante, che fa rigare tutti dritto in casa e non solo, la figura paterna è giusto un abbozzo, un’ombra.
Nella prima parte del libro si affaccia spesso anche la figura del fratello maggiore, Mariano, per poi scomparire nella seconda parte.
Della protagonista, io narrante, conosceremo il nome solo alla fine, citato una sola volta. Gaia. La figlia di Antonia la Rossa, così viene riconosciuta ad Anguillara Sabazia, luogo in cui il romanzo si ambienta. È una ragazza che non riesce a vivere le amicizie spontaneamente, si vergogna delle sue origini, della sua famiglia, della sua casa stretta e così non invita mai nessun’amica a fare i compiti da lei.
“Noi non abbiamo i cellulari, non abbiamo la televisione, non abbiamo un computer, noi senza mezzi, senza possibilità di comunicazione, chiusi nel passato di un mondo che sta correndo al galoppo, ci sorpassa, ci schiaccia sotto i suoi zoccoli duri”.
E lei non è una povera vittima innocente dei bulli della scuola, delle amiche che le hanno portato via il ragazzo: dentro lei cova una rabbia così forte da straniare talvolta il lettore. È capace di fare del male, di picchiare, anche di ammazzare (ma non succederà) per cieca vendetta. Come lei stessa dice neppure le amiche la conoscono bene e non sono in grado di concepire la portata “ dei miei momenti schizoidi, delle mie imprevedibili ma cadenzate reazioni esagerate”.
E il lago? Il lago è sempre sullo sfondo, onnipresente quasi in ogni capitolo. È il lago di Bracciano con le sue credenze, i suoi miti, il suo presepe subacqueo. È un elemento positivo della storia, ma non fino in fondo “molto tempo fa era un vulcano, perché questo è il nostro lago: il risultato di una implosione”.
Implosione. Anche nella protagonista si verificano delle implosioni di rabbia, è una supernova che fa terra bruciata. Una violenza insensata che a lungo andare non piace al lettore.
Del libro mi è piaciuta la prima parte, infatti, è stata molto coinvolgente: bello l’intro con la presentazione della madre, che la protagonista nel libro chiama sempre Antonia. Una donna che lotta, che sa quello che vuole, che lavora in casa instancabilmente, che pulisce, che educa i figli al rispetto delle persone e delle cose. Mi è piaciuta anche la parte relativa ai primi episodi di bullismo vissuti da Gaia (e diciamolo!), ma poi i personaggi che sono entrati nella sua vita non hanno lasciato niente, mi sono sembrati tutti delle ombre. La seconda parte mi ha coinvolta sempre meno, ho notato un sottotono che mi ha lasciata un po’ delusa, inoltre alcune situazioni e alcune persone anche (Cristiano ad esempio) mi sono parse poco verosimili, ho notato un calo generale.
Lo stile della Caminito è asciutto, secco, con passaggi molto concitati. La parte narrativa-descrittiva lascia spazio ad ampi flussi di coscienza, fiumi in piena ed elenchi di cose. I dialoghi non vengono evidenziati coi canonici segni di interpunzione, ma vengono interamente travolti da un unico fluire narrativo.
Consigliato.
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