Opinione scritta da alba ciarleglio
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Femminismo in cucina e molto altro
Ho cercato recensioni illustri in rete, ma non le ho trovate. Immagino quindi che questo romanzo sia trattato un po' da romanzo rosa e con un po' di puzza sotto al naso. Potrei sbagliarmi ma trovo che sia un libro da regalare alle/agli adolescenti, un libro da assegnare a scuola, oltre che lettura divertentissima per tutti. Nella sua "leggerezza" appassiona dalle prime pagine e travolge, proseguendo nelle sue cinquecento pagine. Quindi un buon incentivo alla lettura per i ragazzi e in generale.
Qui si mette in discussione tutto, la famiglia tradizionale, la scuola, l'educazione, la fede, si rovescia persino il determinismo che sentenzia che a famiglia disfunzionale segua famiglia disfunzionale.
Siamo negli Stati Uniti, anni 50, periodo emblematico per le donne, per le quali la società patriarcale stava disegnando un ruolo non solo sempre e comunque subalterno, ma ridotto ad icona di brava perfetta mogliettina adornata di fili di perle, tendine di pizzo e ripiani di formica nelle cucine.
Elizabeth è una scienziata, ragazza madre di figlia "illegittima" (genio) con cane (genio) al seguito. I personaggi geniali hanno il compito di osservare la realtà con occhi innocenti e rivelarla grottesca, un escamotage per rimanere dentro il racconto senza risultare troppo didascalici.
Il fatto che Elizabeth si ritrovi in televisione a condurre una trasmissione di cucina è del tutto casuale ma necessario alla sopravvivenza. Quello che la protagonista - scienziata, chimica, e in quanto donna, - silurata dalla ricerca sull'abiogenesi- riuscirà a fare di quella trasmissione di intrattenimento per brave mogliettine è il fulcro di tutta la storia.
La cucina smette di essere il luogo con tendine di pizzo e ninnoli di ogni genere, regno indiscusso delle brave mogli votate al sacrificio, ma diventa il luogo in cui la chimica oganica, spiegando i processi di trasformazione, osmosi, di atomi e molecole, non solo trasforma il cibo in nutrimento, che è molto di più del semplice riempire lo stomaco, ma rende il pubblico femminile consapevole delle loro capacità del loro potere e del pezzo di mondo a cui non hanno accesso.
Roba degli anni 50? No no care, siamo ancora indietro un bel po'. Se ci pensate, siamo ancora quote rosa.
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Il 900 e noi
Qualche settimana fa ho chiuso l'ultima pagina di un libro di cui non ho avuto voglia di parlare e scrivere fino ad ora perché è un libro doloroso. Lo era per me così tanto che ad un certo punto l'ho interrotto con l'intenzione di abbandonarlo, poi ho superato la codardia, l'ho ripreso e finito. McEvan con il romanzo Lezioni è tornato con i turbamenti, i misteri, e quella scrittura precisa, perfetta a cui ci ha abituati.
In rete si trovano recensioni dettagliate e interessanti su siti letterari di prim'ordine che definiscono questo romanzo "opera mondo" , e mi sono ricordata che anche Infinite jest, orgoglio e pregiudizio, 2666, Delitto e castigo e molti che non ricordo, furono definiti così. Mi è venuto in mente un articolo letto parecchio tempo fa che ne analizzava le prerogative, "Le opere mondo sono opere che esprimono l'epica nella modernità, complesse, infinite, digressive, allegoriche, polisemiche e aperte. Non più un attraversare i generi, ma i contenuti che essi possono veicolare"
McEwan attraverso la vita dei suoi personaggi, scandaglia gli avvenimenti storici del 900, (dal 1948, anno di nascita del protagonista che coincide con l'anno di nascita dell'autore) dalla guerra fredda alla caduta del muro, dalla Thatcher alla Brexit, dagli attentati dell'Isis alla pandemia. Con molto garbo fa dialogare le due generazioni "dentro" il cambiamento climatico, la prima, quella considerata responsabile, la seconda, quella generazione che la sta subendo e la subirà più di tutti.
Ho parlato di romanzo doloroso non solo per le vicende dei protagonisti, vite che ci mettono davanti al nostro nulla, del dolore della perdita, della malattia e del decadimento fisico, ma anche e soprattutto per il racconto di ciò che il 900 ha rappresentato, del fallimento di progetti storici illuminati.
Sembra proprio che nella Storia, e in egual misura nelle nostre storie personali, imprevedibili variabili ci possano condurre altrove, e che anche quando abbiamo pensato di avere in mano le nostre vite, in realtà non le avevamo affatto.
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Oramai
In inglese non esiste una parola con lo stesso significato, per questo il nonno di origine Italiana immigrato in USA, utilizza “oramai” per descrivere il carattere ineluttabile di alcune cose. L’oramai si inserisce nella lingua del luogo per descrivere un oggetto inutilizzabile, una stagione che termina, un giocattolo irrimediabilmente rotto o qualsiasi cosa la cui perdita è inevitabile.
E Oramai è la parola chiave del romanzo, utilizzata ancora dai nipoti, un palliativo più che mai necessario alla storia che Lorenza Pieri racconta. L’oramai si respira in tutto il romanzo, e sembra proprio tutto perduto, che sia questo un oggetto o la memoria della madre malata di Alzheimer o la casa dell’infanzia.
Non amo svelare troppo nelle mie imperfette dilettantistiche recensioni perché mi sembra di togliere il gusto della lettura, preferisco raccontare le mie sensazioni e le mie emozioni. I protagonisti della storia sono due fratelli e una sorella, ed è sorprendente come l’autrice riesca a decifrare quel legame così intimo, indissolubile e conflittuale che esiste solo nella fratellanza, (eh già, in italiano nella lingua parlata, non esiste un termine che includa i generi) quel conoscersi così bene tra fratelli, da prevederne le reazioni, e anche quel lessico famigliare già descritto mirabilmente dalla Ginzburg trova spazio nel racconto.
Con la stessa precisione affronta un tema attualissimo: come viene percepito il cambiamento climatico da noi comuni mortali che abbiamo la sventura di attraversarlo? Si, perché i fatti da lì nascono, l’erosione è quella di un luogo, c’è una spiaggia, una casa di vacanza costruita dal nonno sulla costa atlantica in tempi non sospetti, ed è l’avvicendarsi dei fenomeni atmosferici, sempre più catastrofici e frequenti che costringe i fratelli a lasciarla quella casa, con la sua mole di ricordi e di oggetti. È il momento di salutare per sempre la casa sull’oceano e Anna decide di ritualizzare quel momento coinvolgendo i fratelli, un rito da cui si dipana tutto il racconto.
E il racconto è dolce e a tre voci (dolce persino nella malcelata rabbia da impotenza) Anna, Jeoff e Bruno, attraverso i sedimenti degli oggetti ritrovati ripercorrono parte delle loro vite, dei loro amori adolescenziali, dei loro lutti e delle loro liti.
Aggiungo questo libro a una lista che ho negli anni sempre aggiornato, una lista di piccoli preziosi libri che posso regalare alle persone a cui tengo, non ultime le mie sorelle e i miei fratelli Se dovessi riporlo accanto a autori affini, lo metterei tra Elizabeth Strout e Kent Haruf
“Poi abbracciò Bruno. Gli disse: Grazie. Grazie di tutto, anche per aver dato di matto proprio adesso. Lo dico sempre, la pazzia ci salva dall’essere degli stronzi. La pazzia ci salva la vita.”
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La scelta di Toni
A caldo, dopo aver chiuso le oltre settecento pagine del libro I rondoni, è difficile descrivere la potenza di questo romanzo.
Vorrei chiarire che io non sono una letterata o una esperta, sono solo una a cui piace leggere e mi è capitato di leggere anche letteratura russa, non tanta, qualcosa, e da quando è successo, mi sono resa conto che riconosco gli scrittori che in qualche modo ne sono conoscitori e ne sono fortemente influenzati perché credo sia impossibile non esserlo. Aramburu è tra questi.
Durante la lettura mi ha ricordato Le memorie del sottosuolo di Dostoevskij e La morte di Ivan Il'ic di Tolstoj.
Così come l’uomo del sottosuolo, la forma è principalmente un lungo monologo. il protagonista, Toni, professore di filosofia, decide di cominciare il suo monologo interiore che proseguirà per tutto l’anno di tempo che lo separa dalla sua “morte volontaria”, così come chiama il suicidio l’amico Bellagamba.
Cito dall’introduzione di Malcovati alle memorie del sottosuolo, una parte che calza a pennello per il nostro aspirante suicida e il suo diario, perché meglio non si potrebbe dire;
Fausto Malcovati, Introduzione a Memorie del sottosuolo, Edizione Garzanti, Milano maggio 1992.
«Memorie del sottosuolo è un'opera fondamentale per Dostoevskij: d'ora in poi tutti i personaggi dei suoi principali romanzi avranno un sottosuolo, e vi penetreranno per poi risorgere rigenerati o per affondarvi senza speranza, senza soluzione. Certo, sottosuolo è negazione, è distruzione delle abitudini sociali cristallizzate, è rifiuto delle fissità convenzionali, è maledizione della solitudine.»
Ed è questo che fa Toni, scava nei ricordi più sordidi e in una lunga confessione, se ne libera. Si libera anche delle cose materiali a cui è stato più legato, si alleggerisce del peso di tutto ciò che lo ha portato fino lì, persino dei testi dei pensatori più amati nei suoi studi filosofici.
Del romanzo di Tolstoj , le considerazioni sulla morte e il fare i conti con le relazioni famigliari fallite, e non manca la figura salvifica e lo stupore di ricevere cura e attenzione in maniera del tutto gratuita e solo per bontà di cuore, così come Ivan Il’ic le riceve dal suo servo.
Non mancano le considerazioni politiche nel romanzo, il totale disincanto nei confronti proprio di questa, e non manca, tema caro allo scrittore, un accenno al dramma e all'orrore del terrorismo con le sue inevitabili conseguenze sulle persone.
Un romanzo destinato ad essere un classico, tanto quanto Patria, premio Strega europeo del 2018
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La cura
Ricordo di aver letto un articolo tempo fa che riguardava una associazione che si occupava di curare i reduci di guerra e in particolare le vittime di tortura, lo faceva in maniera del tutto particolare: insegnava loro a restaurare mobili. Il responsabile della struttura, uno psicanalista, raccontava quanto il riportare una superficie danneggiata, ad una condizione liscia e compatta, ha, in qualche modo, effetto levigante sulle cicatrici del corpo. Quel ripassare, levigare, lucidare, guarisce quindi. Ed è un po’ questo che fa il protagonista della storia, lo fa prima senza rendersene conto, nel paese dove approda con intenti ben diversi, un paese altrettanto ferito, dove i personaggi che incontra, altrettanto bisognosi di cura, essi stessi ne traggono vantaggio e forza È un romanzo sulle relazioni, sulla difficoltà di stringerle ma allo stesso stesso tempo sulla ineluttabilità dello stringerle quelle relazioni. La scrittrice si cala nel personaggio maschile con grande abilità, ma è costante la percezione che le donne, con la loro attitudine alla cura, trovino più facilmente la strada della guarigione. Nell’ultima pagina una citazione : “la donna è il futuro dell’uomo “ ne conferma la mia intuizione .
Romanzo profondo, scritto con semplicità e dolcezza che ci invita a portare con noi ovunque andiamo la nostra “cassetta degli attrezzi”. Altrimenti siamo perduti.
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una comunità di destino
É probabile che Ishiguro abbia tratto ispirazione dalla vicenda della pecora Dolly, la prima clonazione avvenuta proprio nel Regno Unito alla fine degli anni novanta, e che suscitò un ampio dibattito su etica e scienza. Kathy, la protagonista del romanzo, vive infatti negli anni novanta, le date della morte di Dolly, avvenuta nel 2003, e l'uscita del romanzo nel 2005, non mi sembrano del tutto casuali.
Un romanzo straniante, difficile, ma coinvolgente e perfetto nella scrittura.
Difficile scriverne senza svelarne la storia, per questo mi concentro sulle sensazioni suscitate.
I ricordi di Kathy sono minuscoli e dettagliati aneddoti nei quali si avverte la totale privazione di affetti famigliari e, allo stesso tempo, il desiderio di rendere questi ricordi affabulanti e costitutivi della propria storia.
Una sorta di recherche proustiana deprivata della sua essenza, un lavoro di svuotamento credo molto faticoso per lo scrittore, ma assolutamente funzionale alla storia.
Il lettore impara presto ad amare i tre giovani protagonisti, per sopperire almeno in parte alla solitudine affettiva imposta dal loro destino e non solo, perché nel corso degli anni saranno condannati a vivere esclusivamente tra di loro e con “quelli come loro”, una comunità di destino tristemente sfruttata ed emarginata.
Le questioni che affronta questo romanzo sono tante e immense: non riguardano solo il rapporto tra noi e la scienza e fino a dove è consentito spingerci, riguardano il nostro attaccamento alla vita nonostante la consapevolezza e l'incapacità di darle un senso, riguardano la tradizione religiosa che giustifica il sacrificio di innocenti. Si possono intravedere la nascita dell'eugenetica e i corpi nudi e privati di tutto delle vittime dell'olocausto, e ancora, altri lager, quelli degli animali da reddito, i cui corpi diventano lombate, prosciutti e costatine per i nostri innocenti barbecue; riguardano il dominio, la biopolitica e molto altro.
La meraviglia del romanzo è proprio quello di far emergere nel lettore tutte queste questioni, in un racconto che non prevede (se non in pochissimi casi funzionali alla storia) la presenza “umana”, ma solo la desolazione della sua tracotanza e ambizione.
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Delitto, castigo, perdono
Questo romanzo esce in Italia proprio quando l'ETA si scioglie definitivamente, dopo decenni di terrore che conta più di ottocento morti e tra questi, più di trecento civili. Certamente, quando i media ci restituiscono le immagini e le storie del terrorismo, ci si sofferma troppo poco sull'effetto che questi assassinii provocano sulle famiglie delle vittime. In questo romanzo, Aramburu esplora il terreno fragile, scivoloso e incerto di chi ha subito il danno e di chi lo ha inferto. Ma che succede quando i protagonisti del racconto vivono nella stessa comunità, per di più legati da profonda amicizia? È questo che racconta lo scrittore, riuscendo a far impallidire qualsiasi motivazione politica davanti alla potenza dei personaggi, delle donne in particolare, mogli e sorelle delle vittime. Un racconto dettagliato che non può non farci pensare al nostro paese, -con le dovute differenze storiche- e della "nostra" lotta armata. Racconta come giovani menti vengono requisite dall'organizzazione, soprattutto se prive di senso critico, è meraviglioso il confronto tra i due giovani fratelli, Joxe Marì e Gorka, uno vittima della propria ignoranza, facilmente manipolabile, l'altro poeta, appassionato lettore e per questo sbeffeggiato. Meravigliosa la figura di Bittori,
che non può darsi pace, e dei suoi dialoghi sulla tomba del marito assassinato.
Altra nota affascinante, è che l'autore si serve di una forma di scrittura audace, diretta, popolare. Ogni tanto ci si chiede: ehi! sta parlando proprio a me!
C'è un bellissimo andamento circolare nel romanzo, se dovessi rappresentarlo graficamente, sarebbe il cerchio Zen, simbolo dell'illuminazione, della forza, dell'universo. Quell'universo mondo che non ha bisogno di sparare o di vendetta, ma più semplicemente desidera una richiesta di perdono come riparazione all'ingiustizia subita. È così determinata Bittori, da chiuderlo quel cerchio, in un finale sottotono e potente che lascia il il groppo in gola.
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Una goccia di splendore
Quante volte si cerca in maniera disperata di fuggire dal dolore? Orah, una donna intensa, passionale e fedele solo all'amore, lo fa nella maniera puerile di una bambina, rifugiandosi in luoghi dove nulla può raggiungerla. Un racconto on the road, a piedi, con la sola compagnia dell'amico e amante reduce di una guerra che ne ha distrutto ogni forma di vita e di gioia. Ecco quindi la forza del racconto e della parola, ecco nella lunga marcia tra pietre, sassi e caprifogli, il rinascere di "una goccia di splendore" nonostante tutto. Qui la parola è tutto, per questo Grossman a volte sembra ridondante nelle sue 780 pagine, ma raccontare è l'unico modo che possiede Orah per far tornare in vita l'amico e scongiurare la morte di suo figlio Ofer, in guerra. Non c'è mai morte nel romanzo, solo vita, proprio come accade quando perdiamo qualcuno che amiamo e non facciamo altro che ricordarlo, in maniera disperata, per tenerlo in vita. Così, lentamente, Avram ritrova prima il suo corpo, spento dalla tortura e dalle sevizie subite, si riappropria di ogni muscolo, di ogni sensazione, un risveglio lento in cui il lettore viene coinvolto per ritrovare quell'adolescente intelligente, vivace, verboso, instancabile che è stato insieme a Ilan e Orah. Con il racconto di Ofer (il cerbiatto) si scongelano in Avram anche gli affetti rifiutati, goccia a goccia, passo passo, come il cammino. Il lavoro di Orah è elefantiaco, con sé stessa e con il mondo maschile che la circonda, quattro uomini che detestano la guerra eppure la venerano, uomini che lasciano sempre "la tavoletta alzata", quella fatica del suo essere donna tra loro, che svela in diversi momenti e in una mirabile pagina che racconta della ragazza di suo figlio:
"E dopotutto ancora non si sentiva pronta ad ammettere davanti a lui, pressoché un estraneo, fino a che punto si era sentita sbigottita, e anche un po' beffata, nel vedere come la giovane Talia avesse ottenuto senza sforzo ciò che lei non aveva mai cercato di pretendere dai suoi tre uomini, ciò a cui aveva rinunciato quasi in partenza: il pieno riconoscimento della sua femminilità, il suo diritto all'autodeterminazione in una casa con tre uomini, il fatto che l'essere donna non era soltanto una sorta di capriccio, frequente e un po' seccante, e nemmeno una protesta esasperante e patetica contro la cosa vera (l'essere uomini, cioè), come di tanto in tanto le davano a intendere. Accelerò il passo, mosse le labbra senza voce e avvertì un leggero mal di testa, come al liceo, quando si ritrovava davanti a un foglio costellato di equazioni. No, era incredibile ciò che Talia aveva fatto, Dio solo sa come, con movenze molto lievi della sua personalità. Orah sorrise tra sé, irritata. Persino il povero Nicotina, il cane, persino lui cambiava atteggiamento quando Talia era nei dintorni".
Così con questo romanzo, Grossman tiene in vita il suo figlio perduto in guerra e sé stesso.
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