Opinione scritta da Ginevrosità

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Ginevrosità Opinione inserita da Ginevrosità    10 Giugno, 2019
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Non ci siamo

Non ci siamo tanto:
- Stile inesistente
- Storia già sentita
- Non ci sono svolte interessanti
- Varie ed eventuali

La vita di Frances, adolescente che non sa quale strada prendere e che raramente prende decisioni d'impatto, può apparire interessante proprio perché non c'è bianco e non c'è nero, ma solo zone grige. Ad esempio, Frances ha un'identità sessuale ancora poco definita, prova sentimenti contrastanti verso la maggior parte delle persone che la circondano (è proprio amore/odio, specialmente quando si tratta della migliore amica. E non ha ben chiaro che fare della sua esistenza.

Il punto è che all'interno del romanzo non c'è mai la svolta che spezza la situazione iniziale, ecco che così mi è parso come un libro fine a se stesso scritto nè bene nè male. Confesso di aver fatto fatica a farmi scendere questa lettura, di certo non comprerò il secondo di Sally Rooney a meno che non senta entusiaste lodi a riguardo.

Rapporti tra i vari personaggi inizialmente curiosi, a lungo andare asfissianti.

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Ginevrosità Opinione inserita da Ginevrosità    08 Marzo, 2019
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Un foglio di formato A4

Finito di leggere ieri sera. Solitamente mi tengo lontana, durante l’anno, dalla letteratura pop (e con pop intendo di massa, di consumo, da spiaggia. Attenzione: la mia definizione non vuole essere un’offesa né all’autrice, né ai suoi lettori affezionati) perché spesso non è quello che cerco. In questo caso però ho sentito che ne parlavano bene al programma “La Bomba” su Radio Deejay; ed io mi sono fatta conquistare dal fatto che una radio fra le più ascoltate avesse dato finalmente spazio al commentare un romanzo, appunto quello della Gamberale. Nel programma la Littizzeto intervistava l’autrice, cogliendo l’occasione per manifestare il suo pensiero sul tema “amori travagliati e malsani che ci fanno ovviamente soffrire ma in cui perseveriamo”; ne esce fuori una simpatica scenetta nella quale l’autrice ammette che verrebbe voglia di prendere a badilate il Lui della storia così come la Lei.
Bene. Il giorno dopo “L’isola dell’abbandono” l’ho comprato: se ti viene voglia di prendere a badilate il personaggio di un romanzo, significa che la trama è coinvolgente e che le personalità sono così ben sviluppate da risultare poliedriche e reali.
A me sinceramente e purtroppo non viene voglia di prendere a badilate nessuno.
La storyline è una matassa sconclusionata in cui Occhi (nomignolo della protagonista), donna incapace di prendere la decisione di dare un taglio alla relazione con Stefano, soggetto con disturbi della personalità (bipolarità) e dipendenza da droga pesante, viene abbandonata da quest’ultimo, il suo uomo, sull’isola di Naxos proprio come Arianna nel mito greco viene abbandonata da Teseo. Qui, conosce Di, un surfista che invece le da tutto l’amore di cui apparentemente lei ha bisogno: un uomo che la rispetta. Nel frattempo, grazie a sbalzi temporali gestiti in modo poco chiaro, sappiamo che Occhi diventa l’amante dello psichiatra di Stefano, per poi leggere in chiusura con il solito finale buonista.
Ora, a me questo tipo di letteratura sta benone. Però perché presentarla in radio come “Il romanzo della Gamberale che sviscera il tema della maternità, e dell’ostinazione ad amare ciò che ci ossessiona, della paura che si prova davanti alla possibilità di essere finalmente felici…” ? Sono temi difficili da trattare ed in my humble opinion sono anche troppi, per uno stile così “di cronaca” che pare di leggere un articolo di giornale che si limita ad esporre i fatti accaduti, per delle personalità profonde quanto un foglio bianco da stampante.
Ho visto qualche barlume quando le letto l’interpretazione artistica che Occhi ha della sua vita, lei è un’illustratrice fumettista che prende spunto dalle difficoltà e le tramuta sketch interessanti dai protagonisti animali. Stefano diventa un coniglietto in balìa dell’umomometro, uno strumento in grado di misurare il suo umore altalenante: blu nei momenti di negatività, rosso nella positività.
Interessante è anche la digressione sul tema dell’abbandono trattato in un mini racconto in cui una bambina si affeziona visceralmente ad un elefantino dalla proboscide gialla (stesso colore della cucina che Occhi aveva scelto con Stefano, starebbe a simboleggiare la loro vita quotidiana serena), che però puntualmente perde di vista.
Morale della favola, se il romanzo fosse stato narrato tramite certe allegorie che sono comparse sporadicamente all’interno del libro, anche mantenendo lo stesso stile elementare, sarebbe stato davvero bello.

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Ginevrosità Opinione inserita da Ginevrosità    22 Febbraio, 2019
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Risparmia i tuoi soldi

Cercherò di essere gentile ed esaustiva, insomma di trovare le parole giuste per spiegare perché questo non può essere definito un romanzo riuscito. Mi trovo però un po’ in difficoltà, visto che si tratta di una lettura disarmante.
Il protagonista (Antonio, mi pare) dalla personalità talmente indifferente e scarna che mi ha reso impossibile ricordare il nome, è un medico di successo, molto bravo nel suo mestiere. Questo tale ha una famiglia, una figlia che ovviamente ama e una moglie che rispetta, ma con cui non accende più la fiamma della passione. Antonio (passatemi il nome anche se non ne sono sicura) conosce un altro medico per puro caso, forse in un locale di Bari (poco importa), una donna di nome Leontine. Mostrolonardo vuole mostrarci Leontine come una donna stravolgente, in grado di impadronirsi sempre più dei pensieri e del tempo del protagonista, il quale continua ad incontrarla in pausa pranzo o durante qualche uscita sbarazzina serale.
Posto che si può narrare la qualsiasi all’interno di un romanzo, ciò che importa è il come si narra e i temi trattati, mi permetto di dire che la storia è inconsistente. L’ambientazione, presumibilmente affascinante come tutto il sud Italia, ci appare piatta, da per scontato che le stelle sono belle, che l’aria è leggera, che la gente è calorosa… Ok Mastrorlando, questo lo sappiamo, ma il personaggio cosa percepisce davvero di tutto questo scenario? Come vive l’ambiente?
Se scegli una certa ambientazione significa qualcosa, non deve essere un personaggio a caso in un posto a caso.
I temi trattati potevano spaziare su diversi fronti: famiglia, amore ed erotismo a 40 anni, senso di colpa per via di un tradimento… Nessuno di questi abbastanza sviscerato.
Stile lineare, scialbo, niente da dire.
La prossima volta dovrò fare più attenzione a ciò che compro sul Kindle store, perché in questo caso mi ero soffermata su una citazione ad inizio romanzo, non dell’autore, che mi aveva fatto impazzire, il resto è stato un flop.

Questo è l’amaro della vita:
che solo in due si può essere felici
e che i nostri cuori sono attratti
da stelle che non ci vogliono

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Ginevrosità Opinione inserita da Ginevrosità    18 Febbraio, 2019
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Cinematografico

Appena finito questa lettura: divorata in due giorni, avrei anche potuto dimenticare di mangiare, persino di respirare, se solo quest'ultimo non fosse un atto automatico.
La storyline, colma di detto e non detto e di irrisolto fino all'ultimo capitolo, mi ha risucchiato assieme allo stile scorrevole e privo di flussi di coscienza (me ne aspettavo una quantità fastidiosamente considerevole, e invece zero). E' un impianto narrativo che stuzzica lo spirito investigativo:
Che mi aspetto che succeda adesso?
Cos’è successo prima?
Chi c'è dietro a tutta la faccenda?
Allo stesso tempo si concentra sul presente, sul qui adesso, sul concreto e si ha la sensazione di campare, esattamente come tutti i narratori di "Una brava ragazza", alla giornata. E' bello da film, anche se per la produzione ci sarebbero alcuni ostacoli dati dalla personalità dei personaggi, ma qui sto divagando.
La venticinquenne Mia, inizialmente appare come una ragazza indifesa, sbaragliata dagli eventi. In realtà è molto più cosciente di quanto sembri, ed è intelligente, scaltra e senza paura, oltre ad essere molto bella. Ha sempre tentato di reprimere certi aspetti della sua personalità, anche certi pensieri ,ma gli eventi estremi in questa storia non le permettono più di celarli a se stessa. Emerge così un personaggio interessante, non per forza buono o cattivo, ma sicuramente con qualcosa da insegnare. Molto buona anche la costruzione di tutti le personalità fondamentali per lo sviluppo della storyline, alle fine vi chiederete chi è tra loro la vittima e non sarà semplice rispondere.
Resta un libro adatto ai lettori curiosi, che amano i colpi di scena. Certo non si può dire che sia carico di "poeticità" e finezze stilistiche, non è quello ciò a cui Kubica ha puntato. Ma se cercate pathos saprà soddisfare.

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Ginevrosità Opinione inserita da Ginevrosità    10 Febbraio, 2019
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Così mi sento

Ho letto questo libro il mese scorso e per un po' sono rimasta senza parole.
Prima di tutto, non sapevo della sua esistenza fino a quando non l'ho visto in libreria con una copertina mozzafiato: una ragazza con il capello rosso e l'occhio chiaro che mi ha fissato suggerendomi "Sceglimi". E l'ho scelto senza aver prestato la dovuta attenzione alla trama sul retro, poi l'ho portato a casa e letto così come veniva.
Immagino Antonio Dorigo nelle vesti di un uomo a modo, distinto come ogni borghese che si rispetti, ma tolta quella scorza si legge una sensibilità particolare, una spaesatezza, una fragilità che in un cinquantenne non siamo abituati a vedere. I sentimenti che prova per Laide infatti, sono gli stessi che ho provato io stessa quando ero sui 19-20 anni, un amore descritto egregiamente bene, che va a braccetto con il disagio e il malessere. Un amore malato sì, ma non concentriamoci solo su quello, consideriamo invece come è stato giustificato e condotto dalle prime pagine fino alle ultime: riesce proprio ad entrare nella testa di chiunque soffra per amore, di chiunque abbia covato dentro sè la malattia di un pensiero fisso, anzi di una persona fissa. E non c'è rispetto per se stessi che tenga contro un amore del genere, non c'è speranza di dimenticare "la Laide", non c'è umiliazione che possa scottare chi ha superato i confini della ragione cavalcando un sentimento così pazzo e fuori luogo, un sentimento che Dorigo può solo fingere di controllare. E lei, d'altra parte che fa? Beh, lei logicamente è giovane, estroversa, amica di tutti, amante del lusso... Spietata. E' palese che non amerà mai Dorigo, a cui non lascia neanche una speranza alla quale aggrapparsi.
Amare anche se non ci si guadagna niente
Amare anche se si perde
Amare anche se il sentimento non è ricambiato
Ci vuole coraggio, credetemi.
Lo stile utilizzato è lo specchio del disagio, della paranoia.

Io l'ho amato.

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Ginevrosità Opinione inserita da Ginevrosità    05 Gennaio, 2019
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Da leggere ma non rileggere

Restando in superficie potrei dire che è la storia di un uomo fortunato.
E’ effettivamente ciò che ho pensato alla prima pagina, leggendo un concetto come “Sono vecchio, invecchio lentamente e mi hanno detto che per questo, Dio mi ha sorriso”.
Beh, chi non vorrebbe poter vivere cavalcando i secoli? Chi non vorrebbe insegnare al prossimo la storia dell’umanità affermando di averla vissuta sulla propria pelle? A questo punto, chi non vorrebbe vivere da semi-dio e innamorarsi di una donna “normale”, di una lei che vive meno di un secolo? Ops.
Ed ecco perché Tom, il protagonista non tanto fortunato, si definisce maledetto e nel corso del romanzo descrive il modo in cui ha gestito la sua “disfunzione” in una vita costellata di avventure per mare, villaggi, città sperdute e metropoli in tempo di guerra, di pace e di confusione.

L’uomo che vive attraverso i secoli è un topos delle letteratura, per cui niente di geniale sotto il punto di vista della trama, il che non fa di questo un libro da scartare a prescindere, con l'accusa di non dare nulla di nuovo; anzi credo che sia valido per come è organizzato l’impianto narrativo: non lineare per quanto riguarda l’arco temporale degli eventi ed appagante ogni capitolo in inizia e si esaurisce un argomento lasciandomi fino alla fine con la stessa domanda (e adesso che succede?).
Questa disposizione e linguaggio lo rendono facilmente comprensibile.

L'elemento che ho apprezzato di più è il protagonista, in lui ho notato la bravura dell'autore nel costruire un personaggio più credibile della storia e degli eventi, un Tom smarrito e malinconico, umanissimo nella sua condizione eccezionale.
Si tratta di una personalità senza ghingheri, mossa da desideri così comuni, -come ritrovare la propria figlia perduta e sentirsi libero di amare e specialmente di essere amato per l'uomo che è-, da permettere al lettore di sovrapporsi a lui e di immedesimarsi tanto da sentirsi anch'esso un "alba".
E' ben sviluppato anche il tema del segreto, di un non-detto che Tom si porta dentro che lo rende frustrato e insicuro, portandolo, per la volontà di proteggere i suoi affetti, ad affidarsi alle mani sbagliate.

Tutti gli altri personaggi non sono egualmente degni di nota, ecco perché non do il massimo dei voti e non mi interessa se costruire dei buoni personaggi non è il primo obiettivo di Haig; perché per un buon libro è quello che descrive l'anima umana e non in modo così credibile che solo attraverso quella visione la storia si impregna di realtà.
Con un libro io voglio conoscere una o più persone.

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Ginevrosità Opinione inserita da Ginevrosità    26 Dicembre, 2018
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Cenerentola

Il romanzo di Gail Honeyman mi ha piacevolmente stupito, specialmente sul finale.
Specialmente quando ho scoperto che era un romanzo d'esordio. Mi spiego meglio: è scritto così bene che ho stentato a credere che si trattasse davvero di un primo romanzo e ho dovuto interrogare Google per crederci. Piccola parentesi: …per poi realizzare di essere per l’ennesima volta scesa dal pero rendendomi conto che quello che avevo scelto in libreria non era proprio un romanzo a caso, ma il caso letterario dell’anno. Ma ho proseguito leggendo con nonchalance, interrompendo solo per un certo periodo, dopo essere arrivata a metà, perché l’ho giudicata inizialmente una lettura un po’ lenta. Ho preso un respiro e poi il romanzo, con la mia attenzione ha preso a decollare.
Il linguaggio è colloquiale e lo stile semplice, a tratti può sembrare superficiale, ma bastano venti secondi di libero pensiero per accorgersi che nulla è lasciato al caso o buttato lì, ogni informazione è essenziale e sfocia nell'ultima parte del romanzo dove ogni dubbio e curiosità di sorta del lettore trova chiarezza. Parole semplici, ma complesse allo stesso tempo, quando Eleanor parla e da conferma della sua raffinatezza. Parole semplici e ponderate anche se si parla di solitudine e dolore, di spiacevoli sorprese. E forse, per far passare i concetti nel 2018, è in parte ciò che penso ci voglia.
Mi sono rasserenata quando ho letto che l'autrice ha impiegato due anni interi per scrivere "Eleanor Oliphant sta benissimo", in primis perché sto scrivendo un romanzo da circa un anno e non ho ottenuto un risultato neanche lontanamente simile, secondo sono contenta che ci sia qualcuno che non sforni romanzi ogni sei mesi per il gusto di pubblicare. No, questo è un romanzo ben progettato, che si legge velocemente ma che ha bisogno del suo tempo per essere interiorizzato; regala riflessioni a proposito della solitudine, dell'ingenuità, del saper stare al mondo, dell'amicizia, del rapporto genitori-figli... E, visto che siamo in tema di Natale e feste varie, lo regalerei a più di una persona proprio perché si tratta di una storia che può piacere a molti. C'è una discreta ricchezza di temi, in contrasto con lo scenario che è sempre uguale a se stesso: non si discosta dalla realtà cittadina circoscritta in un appartamento per il quale la protagonista paga un affitto, un ufficio brulicante di colleghi con cui non ha niente in comune e in cui svolge un lavoro monotono e malpagato e infine, vari pub e discoteche di sorta, che Eleanor considera a tratti posti insopportabili frequentati da gente incomprensibile.
Eppure le cose possono cambiare, e cambiano in un modo coerente e delizioso.

La storia della Cenerentola del XXI secolo, quello dei casi clinici e degli amori che esistono solo nella testa, quello della realtà che se la guardi bene però, non è poi così male.

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Letteratura rosa
 
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Ginevrosità Opinione inserita da Ginevrosità    30 Novembre, 2018
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Titolo quantomai azzeccato

Qlibri si raccomanda di non inserire come titolo alla recensione quello del romanzo, in questo caso però non ho parole (o fantasia) con cui intitolare questo commento, e la mia logica suggerisce che di fatto è così: il romanzo descrive esattamente le dinamiche dell'amore in quell'età in cui si passa l'80% del proprio tempo a sognare, immaginare, plasmare una relazione amorosa.
Il punto di vista è di Giulio, un ragazzo preso dai suoi studi umanistici. Ama i libri e i film. Vive di famiglia (mamma, papà e fratelli), di tv accesa la sera per compagnia e anche di uscite con gli amici.
Racconta di come la normalità della sua vita procede tra alti e bassi, tra le discussioni di mamma e papà che rendono il clima a cena davvero pesante per un tipo riflessivo come lui; presto impara che la vita non è sempre un sogno e non è fatta delle soffici nuvolette che ha nella sua testa, impara che accadono cose a cui non aveva mai valutato di pensare... E per un tipo sensibile come Giulio, è difficile in primis stentare a credere alla realtà, e poi agire.
E' il principio di una crescita che può emozionare coloro che hanno vissuto in salita fino ai vent'anni, sul vagone di un trenino delle montagne russe, coloro che si godono il panorama fino a quando la giostra si blocca in quello spazio prima di una ripida discesa e ci si ritrova a fare i conti con fatti e sensazioni mai conosciute.
Per Giulio la ripida discesa è Silvia, o forse è un mezzo in realtà, necessario a disillusione. Silvia è come l'acqua, l'aria, il vento, non la può fermare nemmeno il lettore, non si sa dove va, che fa, che pensa.
Lo stile è lineare, la trama (come si dice oggi a vent'anni) "ci sta", l'effetto sorpresa c'è, a prescindere dal fatto che il lettore lo possa considerare banale e consueto.
Roma poi, è descritta a grandi linee nella sua bellezza storica ma anche attraverso lo specchio dei giorni odierni in qui si riflette la sua particolarità. Io poi non ho mai visto la capitale, e leggere certe dinamiche mi ha portato senz'altro a desiderare di prenotare un viaggio, ma ciò che è più apprezzabile è che mi ha dato un'idea semplice e curiosa.
Sarebbe bello se i depliant turistici fossero scritti da ventenni che si affacciano al futuro, quel futuro che per Giulio fino ad ora era solo un'idea degli altri... E adesso cosa farai, quando ti trovi a farla tua?
Ma torniamo al mio pizzico di cattiveria: avrei caratterizzato la figura paterna con colpi di penna più decisi, avrei dato più colore al colpo di scena. Ma questo è solo il primo colpo di Biferali, ho visto che sta scrivendo un altro romanzo che di sicuro leggerò e commenterò.
Buona la premessa, intanto!

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Ginevrosità Opinione inserita da Ginevrosità    15 Novembre, 2018
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Pagina 155

Ho comprato il romanzo in questione, l'unico della Munro, in alternativa al malloppo di racconti che ha scritto (di cui si parla sempre molto bene) perché ero estremamente incuriosita dallo stile indiscutibilmente fenomenale, a detta di orde di lettori.
Tuttavia non ho potuto acquistare il malloppo in questione, perciò ho optato per il romanzo "La vita delle ragazze e delle donne", semplicemente perché non mi scollo dal cartaceo ma allo stesso tempo deve essere un "cartaceo comodo", visto che leggo sui mezzi e non posso portarmi in borsa troppe pagine.
Addio malloppone, a volte occorre scendere a compromessi.

Bando alle ciance, perché è il momento di confessare che non sono riuscita, da settembre fino ad adesso, a concludere la lettura. Sono affossata a pagina 155 di 293, e mi sono anche concessa una settimana di distacco per cercare la voglia di leggere che avevo smarrito a causa della trama a mio parere poco interessante.
La Munro mi aveva agganciato inizialmente, con il personaggio dettagliatamente descritto dello zio Benny, di cui da un momento all'altro non ho avuto più il piacere di leggere nulla. Dopo poco, confrontando questo ad altri personaggi, mi sono resa conto che era l'unico metro di giudizio, termine di paragone con il quale misuravo il mio interesse per il romanzo. Con questo non voglio dire che ho trovato tutti gli altri personaggi piatti, anzi, almeno fino a pagina 155 erano ben delineati, peccato che fossero tutte persone noiose e che si comportassero, pensassero in modo noioso. Per me questa è una mancanza grave, forse è l'unico motivo che mi convince ad abbandonare un qualsiasi libro, che abbia la fama di essere un classico e\o un capolavoro; questo perché non sopporto che non ci sia sostanza nelle vite che sto leggendo.
Mi sono sforzata di andare oltre, ma non ci sono riuscita e per paura di perdere l'entusiasmo e l'abitudine ai libri, però piuttosto che prendere in mano quel romanzo preferivo fare altro.

Detto questo, non ho nulla da dire sullo stile di scrittura. La storia non mi ha arricchito per niente, lo stile invece credo proprio sia una miniera d'oro di figure retoriche e di aggettivi che assumono, grazie alla penna dell'autrice, un significato speciale.
Ecco perché, prima o poi, vorrei terminare la lettura anche se soffro di sbalzi di amore e odio per l'unico romanzo della Munro.

Frase da ricordare: "Camminando per le strade di quelle cittadine, indossavo la mia anonimità come una coccarda, come una coda di pavone"

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Ginevrosità Opinione inserita da Ginevrosità    17 Settembre, 2018
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Insipido

Ho visto un frammento di Sicilia da nientemeno che un drone. Esordisco in questo modo, perché a parer mio storia e ambientazione in un romanzo devono avere un forte legame, devono andare di pari passo, contrastarsi o trovare complicità, ma in ogni caso, intrecciarsi. "Ciò che inferno non è" mi ha permesso di vedere un frammento di Sicilia, ossia Brancaccio, dall'alto, dandomi l'idea di non essere immersa nella scia degli eventi che accomunano i personaggi, ma piuttosto di esserne fuori in modo irrimediabile, come se fossero tutti quanti chiusi dentro una teca, ed io lettrice fuori a battere sul vetro. Questa visuale che faticava a scendere nel dettaglio dell'ambientazione ha cozzato in malo modo con il punto di vista dei personaggi che si concentravano su pensieri articolati. Insomma la dissonanza tra ambientazione descritta non nel migliore dei modi e viaggi di pensieri fin troppo esasperati, non mi ha reso semplice credere in ciò che leggevo, nonostante la trama e l'idea di fondo promettessero bene.

La figura di Don Pino è troppo studiata, preparata, di un'antipatica perfezione che non può essere umana. L'unico segno dal quale si evince il suo lato umano (in questo caso parlo della manifestazione di una qualsiasi debolezza, che in un contesto del genere è del tutto normale) è verso la fine: la sua paura di morire. L'unico sentimento che mi è parso reale, credibile di questo personaggio si è racchiuso in qualche riga giunta ormai al termine del libro... Troppo tardi. Ahimè, solo per questo barlume non riesco a salvare l'intero testo, perché anche dal punto di vista delle parti dialogate, il prete parlava a volte come un anziano, altre volte come Gesù, altre volte ancora come un bambino. E nessuna di queste manifestazioni di sè mi ha convinto.
Il protagonista non è stato partorito bene dalla penna di D'Avenia, il che può essere sconcertante, visto che l'autore confessa che Federico è il suo alter ego. Con "il ragazzo" è questione di dettagli. Nel suo caso non sono stati i dialoghi, ma le piccole cose a deludermi.
Ad esempio, ricordo un passaggio in cui Federico parla di quando aveva fumato la sua primissima sigaretta, e dice di non aver più fumato da quel giorno, perché dopo una sola sigaretta una tosse cronica, asfissiante, è stata la compagna che per due giorni non l'ha lasciato respirare.
Adesso. Diciassette anni. La prima sigaretta. Non ti posso credere, se mi dici che hai tossito per due giorni, nemmeno se mi impegno. Una sigaretta ti fa tossire per mezz'ora al massimo.
Certamente si può considerare, questa qui sopra, una puntualizzazione da poco, che alla luce di quanto narrato non dovrebbe contare niente, eppure per me resta una questione di cura venuta a mancare, ed è un peccato. Senza contare il fatto che di queste quisquilie è pieno il romanzo.
La caratterizzazione di tutti gli altri personaggi (Manfredi, Lucia, Nuccio, Il Cacciatore...) è stata piuttosto superficiale e si è eclissata in flussi di coscienza brevi e piuttosto scontati.

Mal riuscita è stata l'idea di narrare in prima persona, poi in terza, poi tornare alla prima... Non ha aiutato a delineare i contorni per realizzare un quadro della situazione.
Questa volta D'Avenia ha calcato un po' troppo la mano sulla carta, lo stile di scrittura in questo modo si è notevolmente appiattito dai tempi di "Bianca come il latte" e si è manifestato in questo suo ultimo romanzo sotto forma pallidi, sporadici guizzi di originalità.

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Ginevrosità Opinione inserita da Ginevrosità    10 Settembre, 2018
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Scivolata su una buccia di Banana

Come Marco, anche io ammiro molto la cultura giapponese e mi piacerebbe davvero poter capire il significato di certe tradizioni che sembrano così lontane dalle nostre. Inoltre, il Giappone è una terra suggestiva e meravigliosa, per questo, non avendo sempre le possibilità di affrontare un viaggio importante e costoso, mi piacerebbe leggerne almeno qualche riflesso nei romanzi. E' questo che cercavo da "Le sorelle Donguri": scenari mozzafiato, vento che mi scompiglia i capelli e trasporta petali di fiori, usi e costumi a me sconosciuti, sapore di una cucina ricca e particolare che incornicia una bella storia.
Purtroppo ho percepito lo stile di scrittura vuoto, frasi elementari e corte. Troppi punti odiosi che rendevano i pensieri della protagonista vaghi e piatti.
La storia non è niente di che, ma su questa so che non bisogna avere troppe pretese, visto che un bravo scrittore sa rendere interessante anche la lista della spesa. Tuttavia, ci sono delle scivolate dell'autrice che mi hanno più volte spinto a chiudere il libro e guardare per aria. Non ho apprezzato il modo in cui è stato introdotto l'amore della vita di Guri-chan: lui riemerge attraverso un sogno, lei fa ricerche in merito e poi la vicenda viene lasciata lì senza un perchè, semplicemente la vita della protagonista continua esattamente come prima. Non è stato gestito granché bene, questo amore aggiunto nel mezzo della storia.
Ho proseguito a denti stretti la lettura per un motivo che inizialmente giudicavo curioso: le foto di scorci del Giappone interrompevano la scrittura.Personalmente apprezzo oltremodo illustrazioni e foto, le trovo un trampolino di lancio che aiuta l'immaginazione a tuffarsi per bene in un oceano nuovo. Sono arrivata fino alla fine sperando che venissero giustificate... Perché proprio la foto di un grattacelo? Perché proprio la foto dei fiori fucsia? Non ci è dato sapere.

Alla fine, "Le sorelle Donguri" non mi ha lasciato nessun ricordo, nessun messaggio da portare con me. In poche parole mi ha arricchito quanto un articolo di cronaca all'interno di un giornaletto di provincia.

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Ginevrosità Opinione inserita da Ginevrosità    10 Settembre, 2018
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Unico nel suo stile

Non prediligo i romanzi riguardanti la guerra, o che comunque abbiano anche un vago sfondo di conflitto, povertà e miseria. E questo non perché sono posh, ma credo che questa mia selezione derivi da un capriccio: i romanzi di guerra sono ovviamente tristi, perché penso alle morti reali che la guerra ha comportato e comporta. Il punto è che per me un romanzo non può iniziare con l'essere ovviamente triste o ovviamente felice, per il semplice fatto che non cerco un "ovviamente" in un romanzo. Insomma, deve sorprendermi.
"L'insostenibile leggerezza dell'essere" è stata l'eccezione che ha permesso di discostarmi da quel mio assurdo capriccio.
Insomma, la guerra in Boemia è diventata un palco sul quale i personaggi (sono almeno tre quelli importanti) si muovono, agiscono, pensano, cercano il loro posto nel mondo per evadere e stare meglio, com'è naturale per l'uomo. Tuttavia dal "Kitsch" non si scappa, nemmeno se Sabina parte per l'America e Tomas e Tereza vanno a vivere in campagna, perché la guerra e il Kitsch, una volta conosciuti, ti segnano a vita.
La questione però non è tragica come sembra, perché c'è amore nel romanzo, c'è soprattutto voglia di vivere ed esprimersi, c'è il tentativo di cambiare le cose, c'è la voglia da parte dei personaggi di pace (dai demoni della guerra certo, ma anche quelli che hanno dentro) e felicità. E poi c'è l'autore, fantastico, un po' disilluso, che si ostina a seguire le loro storie, inseguendo un senso, fornendo spiegazioni sul peso delle scelte dei personaggi e le loro altrettanto pesanti emozioni.
E' proprio il pensiero dichiarato dell'autore la chiave della svolta che mi ha permesso di andare avanti nelle pagine, fino alla fine. Tra tutti i personaggi è lui il mio preferito se possibile, per la sincerità della scrittura, è riuscito a raggiungermi molto più degli altri, e tutt'ora sono in bilico sul sospetto che sia stata questa l'intenzione di Kundera.
Lo stile è difficile per me da definire, direi comprensibile in primis, ma guai a saltare accidentalmente una proposizione, nel giro di pochi secondi si rischia di non capirci niente e occorre riprendere dall'esatto punto in cui la concentrazione aveva lasciato a piedi la lettura. Per me, quest'ultimo è un gran bel complimento sullo stile, in quanto significa che i concetti, anche se ripresi più volte all'interno del romanzo, non sono mai ripetitivi, ma ogni volta viene aggiunto qualcosa di nuovo che permette di vederci chiaro.
La trama è stata apprezzata per quanto mi riguarda, non certo amata alla follia, ma lo posso accettare alla luce del fatto che i personaggi sono caratterizzati tanto da essere memorabili: i sogni di Tereza fondati sulla realtà, Sabina e la sua dimensione artistica "influenzata", Tomas e il sesso con tante donne. Tutti sono speciali a loro modo, indipendentemente dal corso degli eventi. E anche questo è un complimento, se vogliamo.

Questo era il primo romanzo di Kundera che ho letto, devo assolutamente selezionarne un altro per inquadrare lo stile che mi è piaciuto molto, e avere delle conferme. Cosa consigliate

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