Opinione scritta da evelyn73

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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    15 Febbraio, 2025
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contesto familiare e sofferenza

Ho acquistato il libro a scatola chiusa, in quanto avevo già molto apprezzato l'Autore, specie in "se consideri le colpe". La prosa anche qui è sublime, t'incanta questa scrittura melodiosa, dolce, penetrante.
Il romanzo, breve, è un intenso racconto delle vicende e dinamiche familiari ricostruite a posteriori dall'io narrante che decide, adulto, di prendere le distanze dai genitori, di fatto abbandonandoli.
La leggerezza che prova, nel lasciarseli alle spalle, è pari alla pesantezza che ha pervaso la sua vita fin lì, pesantezza derivante dal contesto familiare in cui si è (suo malgrado) trovato a vivere.
È un romanzo totalmente introspettivo, psicologico, descrivendo il faticoso percorso del protagonista volto a liberarsi, emanciparsi dalla famiglia di origine, luogo violento, asfissiante, disfunzionale, che ha segnato profondamente la sua personalità. Non è una lettura scorrevole, a tratti l'ho trovata anche pesante, ma ciò è comunque bilanciato dal numero ridotto di pagine. Consente una riflessione importante. A volte si sentono commenti di incredulità di fronte a figli che decidono di troncare i rapporti con i loro genitori, che decidono di non prendersi a carico la loro vecchiaia, che decidono di andare a vivere altrove, molto lontano dai luoghi (bui) dell'infanzia. Non siamo nessuno per giudicare le scelte degli altri, non sappiamo come e dove le persone sono cresciute, come e dove hanno vissuto, quanto hanno patito. La famiglia, lungi dall'essere quel luogo che il sentire comune si ostina a dipingere come il nido, come il posto dove siamo cullati in una bolla di accoglienza, di calore, di amore, diviene a volte in realtà la fonte primaria di disagio e di sofferenza; bambini senza strumenti per capire e per difendersi da pesanti dinamiche relazionali vissute in famiglia; bambini che subiscono violenze, anche sottili, che poi da adulti sviluppano vulnerabilità se non vere e proprie patologie. Questo dunque: serve forza, ma è comunque possibile agire, liberarsi dai sensi di colpa per quello che la società ritiene abietto e pensare, secondo una logica di sano, sanissimo egoismo, a difendere sé, per iniziare a vivere pienamente, liberi dal passato che ingabbiava in sofferenze. E celebrare poi l'anniversario di questa rinascita.

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mi ha ricordato "magnifico e tremendo stava l'amore" di M.G. Calandrone
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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    25 Aprile, 2024
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lo sguardo al passato e la speranza

****SPOILER****
Al centro una vicenda giudiziaria, che vede Elvira Castell imputata per l'omicidio di un uomo. Qui, nel nucleo del romanzo, troviamo l'avvocato Guido Guerrieri che abbiamo già conosciuto nelle sue precedenti avventure. La sua arringa difensiva porterà a una condanna relativamente lieve per l'imputata, a fronte della pena ben maggiore richiesta dall'accusa. La narrazione di tale vicenda umana e processuale si alterna a riflessioni di stampo psicologico, proposte dallo stesso Guerrieri che rivangando il passato, fa incursione nelle varie relazioni sentimentali avute negli anni (Sara, Margherita, Annapaola) e rievoca vicende personali e familiari durante alcune sedute di psicoanalisi, dettagliatamente descritte.
Queste, se da un lato appesantiscono la lettura e possono risultare noiose (spezzano il flusso narrativo delle vicende legate all'omicidio), dall'altro permettono a chi ha amato l'avvocato Guerrieri di conoscerne aspetti più intimi e personali: Guido infatti si mette a nudo raccontandoci di sé, cercando di trovare un senso alle proprie fragilità e paure. Troviamo qui un uomo maturo, che riflette sul trascorrere inesorabile del tempo, sul suo sentirsi vecchio, stanco e - mi è parso - sul punto di lasciare la professione, anche per questioni deontologiche che egli stesso si pone in riferimento alla linea difensiva assunta per la sua ultima (?) cliente Castell. Il libro tuttavia, seppur caratterizzato da una vena di pessimismo e inquietudine per ciò che tormenta Guido, si chiude con uno spiraglio di speranza e luce. Egli incontra, sul finire di una nottata insonne trascorsa a passeggiare, una coetanea conosciuta anni prima per motivi di lavoro, una donna che ha appena vinto una battaglia contro il cancro e con cui lascia intendere che potrebbe nascere un rapporto di complicità. Colpisce questo finale, laddove emerge la diversa sorte toccata invece a Margherita - con prognosi infausta - a sottolineare da un lato l'ineluttabilità del destino, dall'altro la speranza e le infinite possibilità che la vita può riservare.

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gli altri libri della serie dell'avvocato Guerrieri, consiglio rigorosamente in ordine di pubblicazione !
- testimone inconsapevole (2002)
- ad occhi chiusi (2003)
- ragionevoli dubbi (settembre 2006)
- le perfezioni provvisorie (gennaio 2010)
- la regola dell’equilibrio (novembre 2014)
- la misura del tempo (2019)
- l'orizzonte della notte (2024)
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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    24 Marzo, 2024
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protagonisti indimenticabili

***spoiler***
Inizio a dire che dopo aver finito il libro, ho avuto una forte sensazione di nostalgia dei personaggi e delle loro vicende, nostalgia che dura ancora, dopo oltre una settimana.
Il racconto quindi a mio parere è bellissimo, denso, emozionante, profondo, che dona un messaggio di speranza: può esistere davvero un'altra possibilità per tutti, anche se è faticosissimo ricostruirsi, ritrovare un equilibrio, ridare un senso alla propria esistenza, accettare la pesante gravità di fatti commessi o accaduti. L'Autrice fa tutto ciò senza scadere nella banalità o nell'ovvietà, ma addentrandosi nelle dinamiche psicologiche degli splendidi protagonisti, Emilia e Bruno.
L'assillo del passato sempre pronto a divorare, la difficoltà di non saper gestire la libertà dopo anni di carcere, la fiducia nell'amore, il ruolo della cultura e dello studio quale possibilità di riscatto, i legami familiari interrotti, il rispetto dei tempi dell'altro, l'importanza delle persone che si incontrano durante il proprio cammino, le responsabilità di "un qualcosa d'altro", quando a commettere reati sono minori privati e violati in tutto, sin dalla prima infanzia. Questi sono solo alcuni dei temi trattati per voce di Emilia e Bruno, che ci accompagnano nelle loro sofferte storie facendoci riflettere sull'importanza di conoscere, di non giudicare, di provare a "incontrare" l'altro nelle sua dimensione più profonda. Loro ci parlano della fatica di lasciarsi alle spalle il passato, dell'impossibilità di cancellare l'orrore indicibile che ormai si è commesso o che è capitato. Ci raccontano dell'angoscia di non poter riparare, di non poter tornare indietro. Per fortuna l'essere umano cambia, è in perenne cammino, matura, cresce, ma il passato resta come un macigno, un marchio a fuoco che condiziona pesantemente. Al contempo però emerge l'incredibile forza dell'essere umano, che se trova accoglimento emotivo e comprensione può risollevarsi e ricominciare una nuova vita, trovando sollievo nel prendere atto del passato e - seppur a fatica - lasciarselo alle spalle.

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Altri libri sul disagio minorile / giovanile (Ammaniti, D'Urbano)
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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    22 Marzo, 2023
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non è il "vecchio" Mencarelli

Se cercate il Mencarelli de "la casa degli sguardi" o di "tutto chiede salvezza", allora meglio lasciar perdere. Io ho acquistato questo libro convinta di potermi tuffare nuovamente nello splendore e nell'intensità di quegli scritti autobiografici.
Ho invece trovato una prosa piuttosto banale, a raccontare una storiella sempliciotta, protagonisti un padre cinquantenne in fuga con appresso il giovane figlio gravemente disabile.
Al di là della trama che trovate ovunque, lascio questi miei due appunti:
- riconosco all'Autore il CORAGGIO per aver messo per iscritto, forse a sensibilizzare sul tema, che un genitore, seppur tale, può arrivare a provare rabbia e furia cieca non solo verso il "destino" che gli affibbiato un figlio "rotto", ma anche risentimento e odio verso il figlio stesso; il tema dei sentimenti non sempre amorevoli verso i figli è ancora un tabù, in questo senso quindi bene questo libro che tratta l'argomento;
- mi sono chiesta perché l'Autore abbia scelto proprio la figura paterna...forse per appartenenza di genere? Avesse tratteggiato la madre, in fuga disperata accanto a quel figlio malato, avrebbe forse favorito delle riflessioni riguardo allo stereotipo che vede nella madre colei che deve immolarsi sempre e comunque per i figli generati, costretta - in quanto madre - al sacrificio e alla negazione di sé, a cui sono culturalmente vietate debolezze e fragilità, men che mai nei confronti di un figlio con handicap.
Nel complesso...ad maiora!

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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    02 Gennaio, 2023
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"Gli amori che sembrano assurdi certe volte sono i

Titolo questo mio contributo con una frase tratta da un altro libro della Mazzantini (venuto al mondo), perché ben si adatta anche al tema centrale di quest'altro suo romanzo (non ti muovere), con cui l'Autrice ha vinto il premio strega 2002. Per me, è uno di quei libri da cui è faticoso staccarsi, che si legge d'un fiato. Il racconto è travolgente, la scrittura sublime, intensa, più fluida rispetto a "venuto al mondo". Il risultato è una storia che palpita sotto i tuoi occhi mentre scorri le righe, una storia che ti entra dentro, che ti accarezza dolcemente, poi ti scaraventa nel dolore, e a te, lettrice, tocca corde di donna, madre, amante, moglie ignara (?) tradita ... Ci racconta di Italia, di una donna "sciancata", relegata ai margini, con un'infanzia drammatica che riuscirà a rivelare solo al suo più grande amore, Timoteo; Italia che si trascina nella fatica del vivere, che abita una casa di periferia, modesta, umile, in un contesto così apparentemente diverso da quello in cui si trova Timoteo, chirurgo, primario, con frequentazioni altolocate, e profondamente insoddisfatto della sua quotidianità. L'Io narrante è Timoteo, padre di Angela, nata dal matrimonio con Elsa, figura che rimane sullo sfondo, sovrastata da Italia, donna di cui Timoteo è innamoratissimo e a cui rimane legato per anni, mantenendo due vite parallele. Dalla lettura nascono spunti di riflessione su varie tematiche. Propongo qui la riflessione sul concetto di libertà, su quanto l'essere umano possa essere schiavo delle pressioni sociali, ingabbiato in schemi precostituiti e doveri imposti. Timoteo vive una condizione di struggimento continuo, diviso fra gli obblighi derivanti dal suo ruolo e le conseguenti aspettative sociali, e il desiderio di vivere pienamente il suo vero sé, a cui può dar voce solo stando accanto ad Italia.

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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    25 Dicembre, 2022
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salvo la parte su Malik

Le recensioni e la trama di questo libro mi hanno spinta a leggerlo. Di fatto sono rimasta delusa; io non vi ho trovato praticamente nulla di quanto "promesso" appunto dalle recensioni (o dal mercato editoriale). Salvo la parte relativa al dramma di Malik, ovvero al dramma delle madri che affidano i loro figli all'oscurità del mare, nella speranza che in un Paese tanto sconosciuto quanto lontano possano trovare condizioni per vivere una vita migliore. La storia di Malik colpisce nel profondo e non lascia certo indifferenti. Ma la parte su Mattia? Mentre Malik attraversa il mare, Mattia vive a Milano una quotidianità senz'altro sofferta, alla ricerca anche lui di un "posto dove stare", ma non ho capito il senso dell'accostamento di queste due condizioni esistenziali. Mattia tra l'altro pare uscito dalla penna di altri e anche la scrittura, la prosa, lo stile, non sembrano appartenere alla stessa Autrice che descrive Malik e il suo mondo. Il racconto della quotidianità del "nostro" adolescente milanese l'ho trovato noioso e inutilmente ripetitivo (es: descrizione gara in motorino!). A mio parere sarebbe stato meglio sviluppare ulteriormente tematiche e aspetti inerenti il dramma dei naufraghi, visto appunto con gli occhi dei bambini, senza "infilarci" contemporaneamente altro.
Basta con la Sparaco, di questa Autrice tengo e mi faccio bastare "nessuno sa di noi", davvero imperdibile.

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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    30 Ottobre, 2022
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LA MALA LETTURA

Curiosa di leggere qualcosa di diverso dalle avventure del celeberrimo Schiavone (forse anche lui un po' troppo strascicato), ho acquistato questo libro "a scatola chiusa", ma sono rimasta delusissima. Questo romanzo parte discretamente, ma ben presto diviene senza senso alcuno, scene grottesche al limite del ridicolo (il matrimonio......), ripetitivo, superficiale ... non va a parare da nessuna parte .. ultime 50 pagine non ne potevo più ...ma anche la casa editrice che scende così in basso? Assolutamente investite questi soldi per letture migliori, che abbondano. Ad maiora quindi!

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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    21 Giugno, 2022
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la mia parola per Melina

Romanzo davvero imperdibile, denso, ricco, vivido. Acquistato a scatola chiusa, stante le mie opinioni assolutamente positive rispetto alle precedenti letture di questo Autore. "Le madri non dormono mai" offre spunti di riflessione continui sul concetto di libertà contrapposto a quello di schiavitù, su quanto l'essere umano possa essere schiavo - seppur apparentemente libero (libero nel senso di "non ristretto", "non detenuto", "non sottoposto a misure coercitive"): schiavo della propria storia familiare, della propria infanzia, ingabbiato in schemi imposti e in una quotidianità sofferta che non è capace di abbandonare, perpetuando dolore, impossibilitato a dare una svolta alla propria esistenza. Questo Uomo, che seppur libero, può avere una vita segnata, difficile, peggio ancora se la società gli assegna un ruolo per il quale non può permettersi di mostrare debolezze (il direttore del carcere, le guardie, la psicologa ....). Al contrario qui, le donne detenute (e i loro figli), seppur formalmente recluse, sono messe nella condizione di essere libere di intraprendere importanti percorsi introspettivi e di crescita, che le portano ad abbandonare il passato, riuscendo a liberarsi dai loro fantasmi interiori e concedendosi di vivere pienamente. Finale crudo, inaspettato. La mia parola per Melina è SPERANZA.

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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    18 Settembre, 2021
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due madri

Esordio piacevole ed interessante per quest'Autrice. L'impianto narrativo di questo breve romanzo trova origine da un fatto realmente accaduto (vedasi la storia di Elena Recanati, madre di Massimo Foa). Protagoniste sono qui due famiglie, unite da un segreto che va via via svelandosi, fino a quando Teresa, ormai anziana, riuscirà finalmente a dare voce a quello che ha taciuto per tutta la sua vita. Il romanzo è costituito da molti capitoli piuttosto brevi, che non seguono un preciso ordine cronologico, ma che ci portano "qua e là" nel tempo, tra il 1944 e il 2003, raccontando le vicende ora della famiglia Sellaci, ora quelle di Alia e di sua madre Elda. Nonostante i continui salti temporali, la trama risulta comunque ben comprensibile. La descrizione della condizione delle donne deportate nei lager mi ha ricordato i racconti della Senatrice Liliana Segre. La scrittura è bella, sia delicata che intensa, le parole sono ricercate, così come è evidente il lavoro di ricerca svolto dall'Autrice, per poterci presentare questo suo primo libro fondato anche su aspetti storici. Vi è qualche espressione dialettale piemontese, ma comunque comprensibile dal contesto.

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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    10 Luglio, 2021
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scialbo

Ho acquistato questo libro attratta dalle recensioni e da un personale interesse per l'argomento in questione (dinamiche familiari e appunto, nello specifico, per come impatta la relazione materna sul percorso di crescita dei figli). A parte un paio di passaggi, la tematica tanto pubblicizzata è trattata con superficialità; gli episodi raccontati sono al limite dell'imbarazzante; nulla di nuovo né di originale...

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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    28 Febbraio, 2021
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deludente

Siamo purtroppo lontani dal Carofiglio che ci raccontava le avventure dell'Avvocato Guido Guerrieri.
Ho trovato questa storia piuttosto banale, rispetto ad altre opere di questo Autore.
Personaggi poco caratterizzati, ritmo noiosetto, nel complesso romanzetto scialbo.
Peccato !

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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    27 Luglio, 2020
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(...avrei preferito non leggerlo)

Curiosa di continuare a seguire le vicende dell'Avv.to Malinconico, ho atteso tanto l'uscita di questo libro, più volte posticipata. Probabilmente nutrivo aspettative eccessive, anche sul la base dei precedenti "capitoli" della vita di Malinconico, che mi erano piaciuti. Questo invece non lo consiglierei. Ho trovato il racconto noioso e banale; "vuote" ed eccessivamente dilungate tante battute col collega Benny, i figli presenti per un padre che si ammala, la relazione con la terza donna che si consolida, gelosie reciproche, soliti cliché dei ricatti fra politici locali ....ho segnato un paio di frasette significative, nulla di più. Peccato.

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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    24 Marzo, 2020
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governati dal caso: allentare la presa!

Questo Autore non delude mai. Libro zeppo di spunti di riflessione, con accenni a tematiche scientifiche, alla letteratura, alla biologia, alla statistica, a micro analisi della società contemporanea e del passato. Il messaggio trasmesso, nonostante (o proprio perché) si parli di ipocondria, è di prendere la vita più alla leggera, di non affannarsi e dannarsi per nulla, perché tutto è governato dal caos, o dal caso, e è impossibile tenere tutto sotto controllo e dare un senso a tutte le cose. Occorre trovare la pace e la serenità nella bellezza delle piccole cose quotidiane e nelle persone che si amano. Decisamente attuale e quasi profetico il capitolo "calci in culo per tutti" , dove si parla di pandemie, epidemiologia, virus, con richiami anche alla peste descritta dal Manzoni, per riflettere sui significativi corsi e ricorsi storici (maschere dei monatti).

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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    15 Dicembre, 2019
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Prima parte bella, poi ..

Forse perché nutrivo grandi aspettative nei confronti di questa lettura, forse per la mia (errata) supposizione che il romanzo avrebbe dipanato il mistero attorno alla nascita della protagonista Violette, fatto sta che ho terminato la lettura provando delusione. Fino circa a metà del libro (sono oltre 400 pagine) il racconto scorre veloce, è piacevole, simpatico, coinvolgente ed accattivante, tanto che la mattina puntavo la sveglia un'ora prima del necessario per continuare a leggere. Dopo, a mio parere, la narrazione perde il ritmo, diventando a tratti noiosa, pesante e ripetitiva. La storia racconta le vicende (per lo più amorose) di varie persone che per motivi diversi vengono a contatto con la quotidianità, trascorsa o attuale, di Violette. Queste vicende però risultano eccessivamente intricate, con salti temporali che seppur chiari, rallentano la fluidità della narrazione, costringendo spesso a ricollocare mentalmente i vari personaggi al posto e al momento giusto. Ridondanti le descrizioni delle conquiste sessuali di Philippe; intenso invece il personaggio di Sasha e di come egli riesca lentamente a infondere speranza e serenità a Violette, segnata dal dramma più devastante che possa capitare ad una donna.
Cento, centocinquanta pagine in meno avrebbero fatto di questo libro un piacevole ricordo da conservare.

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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    06 Dicembre, 2019
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scarpe che non fanno più male

*****SPOILER*****
Storia emozionante di Amerigo Speranza, che trascorre la prima infanzia in un contesto di estrema povertà, nella Napoli dei primi anni '40. Ad otto anni, parte per essere ospitato da una famiglia di Modena, come tanti altri suoi coetanei; la permanenza di Amerigo presso questa famiglia "adottiva" non sarà però temporanea come da programma iniziale. La quarta parte del libro (delicata, toccante, commovente) è dedicata ad Amerigo adulto, che torna a Napoli alla notizia della morte della madre. Sarà per lui l'occasione per ripercorrere un viaggio a ritroso, per sistemare importanti tasselli della sua vita rimasti in sospeso e per riconciliarsi col passato. Nelle ultime pagine ho percepito la crescente serenità che man mano si faceva spazio nell'animo di Amerigo, man mano che s'imbatteva in luoghi e personaggi del passato, dando un significato al proprio percorso personale e sciogliendo i propri tormenti interiori, fino alla decisione di interessarsi al nipote Carmine. Questo, grazie allo zio Amerigo, avrà la possibilità di riscattarsi rimanendo a vivere nel suo luogo natio, senza essere strappato agli affetti familiari e senza dover subire uno stravolgimento delle proprie abitudini.
Ho apprezzato l'idea di simboleggiare la pace interiore dell'Amerigo adulto con le scarpe che ora non gli fanno più male (semplicissima ma impattante la figura e la descrizione del calzolaio che gli sistema le calzature, proprio mentre Amerigo via via si riconcilia con se stesso, con il passato, con la madre), mentre in tutto il romanzo il tema del cammino doloroso è rappresentato da scarpe strette, scomode, piccole, da scarpe indossate da altri a cui il piede del piccolo protagonista si deve adattare.

Come ha scritto nella recensione annamariabalzano43, segnalo anch'io che le prime tre parti del libro riportano tanti termini napoletani e congiuntivi "scorretti", per cui io ho fatto inizialmente un po' di fatica, ma il significato delle parole (ad esempio zoccole pittate, scuorno, scucchia, mellone, cacaglio) si deduce comunque dal contesto o ci si aiuta con internet.

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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    01 Aprile, 2019
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questioni etiche

Protagonista del romanzo è Fiona, Giudice non più giovanissima dell'alta corte di Londra, specializzata in diritto di famiglia. Questa figura viene tratteggiata dall'Autore in modo approfondito sia nella sua vita privata che in quella professionale; per entrambi questi ambiti vengono suggeriti importanti spunti di riflessione. Intanto, come si fa ad operare una scissione netta fra queste parti? Alcuni aspetti di noi si travasano dall'una all'altra dimensione e non è scontato riuscire a coniugare opportunamente l'agire professionale con i vissuti personali. Conosciamo Fiona in un momento di crisi coniugale, perché l'ancora attraente marito le confessa interesse sessuale per una giovane donna.
Parallelamente Fiona lavora in maniera intensa ed appassionata a situazioni drammatiche che arrivano in Tribunale, situazioni che pongono anche questioni etiche legate al diritto (o meno) dell'essere umano di decidere per la vita degli altri, che riguardano la responsabilità in capo ad un soggetto nel trattare questioni che toccano la vita altrui e l'impatto che tali decisioni hanno sull'altro: fino a che punto, e legittimati da chi o da che cosa, possiamo entrare, giudicare, intrometterci nella sfera altrui e decidere per essi? E nella vita privata, ha diritto Fiona a trattenere il marito che con la massima onestà le confessa attrazione per un'altra, argomentando tale attrazione con elementi oggettivi? (il loro distacco emotivo come coppia, distacco che tra l'altro Fiona non nega, ammettendo di essere stata assorbita dal lavoro).

Il nocciolo del romanzo sta nella vicenda di Adam Henry, un ragazzo alla soglia dei 18 anni, testimone di Geova, in punto di morte perché rifiuta una trasfusione. Fiona con una sentenza permette ai medici di procedere con la trasfusione anche se rifiutata dal ragazzo e dai familiari. In questa situazione la "nostra" Giudice protagonista, che si può ipotizzare abbia sofferto per la mancata maternità, vedendo forse in Adam il figlio non avuto, lascia emergere un'importante dimensione emotiva ed umana, avvicinandosi al ragazzo, ma "abbandonandolo" poco dopo, nascondendosi dietro il ruolo professionale e innalzando difese. Adam si ritrova disorientato, senza un punto di riferimento, immaginava che colei che gli aveva ri-concesso la vita, la potesse anche riempire di "qualcosa". Adam sperimenta così una sensazione di tradimento e lascia infine Fiona piena di sensi di colpa.
La vicenda è servita a Fiona anche per dare a se stessa una rappresentazione più umana: prima risoluta nel non cedere alla richiesta del marito che di fatto le chiede di avallare le sue scappatelle, si scopre poi lei stessa debole e "umana" e la coppia infine si riavvicina.

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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    06 Marzo, 2019
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la scatola rossa

Attirata da recensioni positive e apprezzando il romanzo introspettivo/psicologico, ho iniziato questa lettura con entusiasmo. La narrazione si è rivelata pesante, noiosa, ripetitiva, prolissa, ridondante .... Vi si narra il percorso catartico di Ida (oggi voce narrante di donna adulta, che vive un matrimonio freddo con Pietro, a Roma), che circa vent'anni prima, all'età di 13, anni ha vissuto la sparizione misteriosa ed improvvisa di suo padre Sebastiano. Questo, colpito da depressione, un giorno sceglie di andarsene, abbandonando moglie e figlia nella loro casa di Messina. Circa vent'anni dopo, con la solita motivazione della madre anziana che decide di vendere la casa, Ida torna in quella casa d'infanzia a Messina per portare un aiuto pratico alla madre: la casa dev'essere ristrutturata prima di essere venduta e occorre decidere quali oggetti tenere e quali oggetti buttare. Questo breve soggiorno offre a Ida l'occasione di ripensare a tutta la sua vita, che è tutta imperniata sull'episodio della scomparsa del padre. Ora donna, rievoca il suo passato, intriso di dolore e angoscia; si riaffacciano ricordi prepotenti e Ida rinfaccia alla madre, in un dialogo fra le due stentato anche molti anni dopo, come non si sia mai data voce al loro dolore, ma si sia sempre cercato di soffocare tutto, impedendo una rielaborazione della scomparsa del padre (e del marito) e lasciando che il fantasma del padre, il suo pervasivo ricordo, la impigliasse, trattenendola in una gabbia devastante di ricordi, bloccando il suo percorso di crescita e costringendola a rimanere sempre ancorata al passato, incapace di sganciarsene in maniera sana.
Ida, tuffandosi nel passato e rievocandolo, rivedendo oggetti dell'infanzia e incontrando l'amica di un tempo - Sara - compie un viaggio a ritroso nella sua memoria, rievoca la sua storia e si libera infine da fardelli e macigni mai elaborati che hanno segnato la sua vita fin lì e che hanno compromesso anche il suo modo di relazionarsi agli altri. Questa liberazione avviene attraverso un gesto simbolico purificatorio, descritto verso la fine della vicenda, quando Ida si affranca dai suoi tormenti devastanti e laceranti, dando finalmente una sepoltura simbolica al padre; ora può iniziare a respirare e guardare oltre.

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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    10 Gennaio, 2019
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il senso della sofferenza

**SPOILER
Breve e intenso racconto delle traversie di una famiglia molto povera; le loro vicende narrate coprono i primi decenni del 1900. La prima parte è ambientata in un piccolissimo villaggio della Russia al confine con la Polonia (Volinia), quindi in America, dove ad un certo punto parte della famiglia emigra, al seguito di un figlio (Semarjah), precedentemente fuggito oltreoceano in quanto disertore.
Il protagonista è Mendel Singer, un ebreo molto religioso, pacifico, le cui giornate sono scandite dalla preghiera, da riti rassicuranti e dall'insegnamento: è un maestro, insegna ai bambini del luogo a leggere la Bibbia. Sposato con Deborah, la coppia ha quattro figli: Jonas, Semarjah, Mirjam e Menuchim, quest'ultimo affetto da una non meglio specificata malattia (viene definito "storpio", pronuncia solo "mamma", ha crisi epilettiche). La madre disperata si rivolge al rabbino, il quale le profetizza la guarigione del figlio, a patto che lei non lo lasci mai. Si capisce quindi lo strazio della madre, quando anni dopo sarà costretta a lasciarlo per andare in America (un esilio, più che un'emigrazione), ove tutta la famiglia si trasferisce, richiamata da Semarjah; questa è anche l'occasione per portare la loro unica figlia Mirjam lontana dai "cosacchi", in quanto la ragazza è attratta dai soldati.

Quasi tutti i riflettori della critica sono puntati sulla figura del probo Mendel Singer e della sua attinenza con Giobbe, il personaggio biblico messo alla prova da Dio, che gli manda sventure. Da qui tutte le riflessioni sul come giustificare la presenza di Dio, di fronte alle sofferenze dell'essere umano.
Spendo invece una parola sulla moglie e madre Deborah, che si staglia come una figura perennemente in pena, sofferente, gran risparmiatrice, che prova disprezzo manifesto per il marito ("uno stupido insegnante di stupidi bambini", lo definisce "stolto", in una scena gli sputa); la donna non sopporta come il marito accetti tutto in maniera serafica ("non esiste alcun potere contro la volontà del cielo"), mentre lei, più attiva, meno fatalista ("l'essere umano deve cercare di aiutarsi, e Dio lo aiuterà") si prende in carico il pensiero di e per Menuchim e il peso dei figli che dovranno arruolarsi. Dopo i primi anni di matrimonio, la relazione fra Mendel e Deborah evolve in una reciproca indifferenza, se non fastidio, che entrambi provano reciprocamente. Denso di sofferenza materna il momento in cui lei si rivolge a Kapturak nella speranza di un suo intervento per esonerare entrambi i figli dal servizio militare, spicca l'angoscia di possedere del denaro per "comperare" la diserzione di uno solo dei due, quindi il sacrificio del fratello Jonas, che sceglie liberamente di arruolarsi, liberando di fatto il fratello dall'onere.
Le vicende di Mendel ricordano e ricalcano il personaggio biblico di Giobbe, uomo retto onesto e probo. La fede di Mendel infatti, a seguito delle sfortune che incombono sulla sua famiglia (un figlio disperso in guerra, uno morto, Mirjam ricoverata in clinica psichiatrica, morte della moglie) inizia a vacillare: c'è un passaggio forte in cui viene descritta la rabbia di Mendel verso questo Dio prima amato, ora messo in forte discussione. Mendel mangia carne di maiale ed è sul punto di bruciare i suoi testi sacri e altri simboli religiosi. Mendel è convinto che il Dio lo stia punendo per qualcosa, e palpabile è l'angoscia per non sapere quale sia il peccato commesso.
Alla fine, il Mendel messo a dura prova dalle avversità della vita, quando pensava che tutto fosse perduto, viene ricompensato e gli viene offerta la possibilità di riprendere serenamente il suo cammino, seppur a fianco di affetti diversi.

Consiglio questo libro, che si può leggere a diversi livelli di profondità: da storia romanzata fino a disquisizioni di teodicea. Ci sono dei passaggi di prosa molto intensa, specie in relazione ai vissuti di Deborah verso i figli. Io son stata sfortunata con l'editore (Liberamente, che credo sia della Rusconi): ci sono dei refusi e pure due pagine invertite, mi sono trovata la pagina 69 al posto della 75 e viceversa. Inoltre la traduzione di S. Stefani a tratti lascia a desiderare. Evitare quindi quest'edizione e traduzione.

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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    30 Novembre, 2018
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La Merica

SPOILER ***
L'Autrice ci regala lo spaccato storico di una piccola realtà paesana, ambientando la vicenda nell'Italia centro meridionale, in un periodo che si deduce compreso fra la metà del XIX secolo e quello dell'Italia fascista. Si narra la vita grama, misera, stentata di Maria, la protagonista, dai suoi 15 anni sino alla morte. Attorno a lei ruotano altri personaggi: dalle amiche che come lei condividono una povertà schiacciante, fino ai "signori" del luogo, alle cui dipendenze Maria lavorerà per decenni. Ben descritta la condizione sociale dei poveri e la miseria estrema cui erano costretti: fame, analfabetismo, emigrazione in America, sottomissione della donna all'uomo, donna che deve sottostare ai dettami imposti dalla società del tempo senza azzardarsi ad allontanarsi dagli schemi precostituiti. Questo "sentire comune" risulta molto vincolante per la libertà delle persone, le ingabbia in una (non) vita che non ammette deroghe dalle aspettative. Maria invece viene tratteggiata come una figura molto forte e dura che riesce a collocarsi al di sopra di tali dettami, conduce una vita senza sposarsi, esegue lavori da uomo, la maternità è segnata da durezza e indifferenza, anche per la crudeltà e violenza del concepimento. La figlia di Maria, Nella, si affranca da una condizione sociale infima sposando un "signore" e regalando alla madre gioie insperate. Sarà infatti proprio la non amata figlia Nella ad offrire a Maria la possibilità di vivere serenamente almeno gli ultimi anni della sua vita, quando troviamo una Maria ammorbidita, capace di riscattarsi dalla maternità "mancata" attraverso l'amore per la nipote, Linù, che le insegnerà a scrivere il suo nome. Il messaggio è di grande speranza e sottolinea come un dramma possa trasformarsi nel tempo, lasciata decantare la sofferenza, in un'occasione di pace interiore. La prosa e la struttura del racconto sono molto semplici. Brevissimi i capitoli, aventi ad oggetto ora l'uno, ora l'altro protagonista. L'inizio è buono, ma poi la narrazione a mio parere diviene noiosa e del tutto prevedibile.
La trama in sé è buona, ma poteva essere declinata e narrata in maniera più approfondita per gli aspetti di storia sociale; evitabili alcune ripetizioni, a tratti ridondanti. Nel complesso lo colloco fra i libri "senza infamia e senza lode".

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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    15 Agosto, 2018
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L'errore nel quadro

Si dice sia un romanzo in parte autobiografico, io l'ho letto in quanto entusiasta dello Starnone trovato in "Lacci". In generale sono abbastanza soddisfatta della lettura; il giudizio medio deriva dalla presenza di alcune parti noiose e anche ripetitive, che potevano essere evitate, perché appesantiscono inutilmente quello che è "buon impianto narrativo". La voce narrante è quella di Mimí, che ora adulto (scrive dopo la morte del padre, avvenuta nel 1998) compie un viaggio a ritroso nel tempo raccontandoci la tormentata storia di sé e della propria famiglia: la madre Rusiné, il padre Fedrí, i fratelli maschi (solo un breve accenno all''ultimogenita femmina), gli amati parenti del ramo materno, pochi accenni agli zii paterni. La vicenda, arricchita di precisi riferimenti storici e culturali, è ambientata principalmente nella Napoli degli anni '40 e '50, un contesto segnato da fame, miseria, povertà, dalla necessità di arrangiarsi in qualche modo.

Il padre viene rievocato attraverso dettagliati racconti principalmente risalenti a quando Mimí abitava con la famiglia in Via Gemito, all'incirca dal 1948 (Mimí ha 5 anni) fino ai suoi 14 anni.

Tutto il romanzo ruota attorno alla figura paterna, tratteggiata dall'Autore come un uomo collerico, violento fisicamente e verbalmente, che sfiniva tutti con i suoi racconti pedanti finalizzati all'autocelebrazione ed autoesaltazione delle sue qualità, in primis di artista (pittore), costretto invece a fare il ferroviere e a soffocare il suo estro artistico per colpa, a suo dire, della famiglia disgraziata che gli era toccata in sorte.
Mimí rievoca la sua infanzia basandosi sul ricordo degli infiniti racconti ed aneddoti del padre, riportandoli in parte come li aveva vissuti da bambino ingenuo, in parte con la consapevolezza e il distacco degli anni successivi, quelli della maturità e della consapevolezza ("io ascoltavo sedotto, da ragazzino: non sapevo ancora essere perfidamente dubbioso come poi lo sono diventato negli anni"); la paura, il timore, ma anche l'ammirazione per il padre provati nell'infanzia ("a volte è allegro, inventa filastrocche sconclusionate, canta canzoni, ha un'aria da gran signore, una chiacchiera divertente.."), nel tempo si trasformano in un prendere le distanze dal padre, cosí borioso e pieno di sé che si appropria anche delle fatiche dei parti della moglie Rusiné. "Non so distinguere tra ciò che ho visto io e ciò che mi ha fatto vedere lui con le sue parole".
Il bambino Mimí vive nella speranza che il padre possa cambiare, che acquieti la sua rabbia grazie ai propri successi artistici, che di fatto non arriveranno mai.

Vengono ben descritte le dinamiche familiari generate da un uomo come Fedrí, che impatteranno inevitabilmente a livello emotivo sulla quotidianità dei suoi prossimi congiunti, in particolare sulla vita di Mimi e di sua madre Rusiné; intensi certi passaggi come quello in cui il bambino Mimí, obbligato a posare per un'enorme tela che sta dipingendo il padre ("I bevitori"), si accorge di un errore di prospettiva del genitore, e tenta di "aggiustarla" muovendosi impercettibilmente fino a raggiungere la posizione secondo lui giusta, terrorizzato alla sola idea di far presente al padre l'errore.

Emerge una figura femminile, in quel Sud del dopoguerra, "buona solo a fare figli", che deve stare in casa per non far svergognare il marito in occasioni mondane, a lui solo riservate; il medico che davanti ai primi segni di grave malessere di Rusiné, consiglia la quinta gravidanza, appunto perché "le donne si sentono bene solo quando sono incinte". Rusiné prova a ribellarsi, tentando anche per due volte di aprire un'attività di sartoria, o di mostrarsi in pubblico quale donna piacente che è; questo è inammissibile per Fedrí, nel tempo la donna si rassegna, agendo anche autolesionismo, fino ad ammalarsi e morire nel 1965.

Un'intensa parte del romanzo è dedicata alla storia di Fedrí piccolo, con una madre violenta e cresciuto dalla nonna materna.

Mimí, dopo la morte del padre, tenta di ricomporre le vicende che hanno caratterizzato la sua infanzia e si porta a Napoli, a rintracciare fatti e cose che hanno segnato il suo percorso di vita, alla ricerca di una qualche verità; ripercorre quelle stesse strade in cui aveva camminato da piccolo, va alla ricerca dei quadri del padre, finiti appesi (e dimenticati) in uffici pubblici, ma alla fine si arrende, rinunciando a cercare il quadro che ha segnato la sua infanzia ("I bevitori"), e lascia il ricordo del padre così come ce l'ha descritto negli anni di via Gemito.

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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    10 Giugno, 2018
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noia !

Attratta dalle recensioni e commenti tutti positivi, mi sono lasciata tentare ... inizio molto promettente, poi a mio parere una noia mortale. Soporifero. Verso la fine saltavo frasi, segnale questo per me che proprio non va ... ma volevo finirlo, seppur in qualche modo. Probabilmente sono io a non aver capito il messaggio che l'Autrice voleva far arrivare (alle donne?) ... di fatto la protagonista vive un'infanzia con una madre oppressiva, da cui riesce a prendere le distanze. La presenza ingombrante della madre segna anche la sua personalità e il suo modo di essere (ma questo non sarà mica una novità), per cui tramite il rapporto (professionale) con Avvocato Lepore - un anziano misogino il cui racconto del passato è disseminato qua e là nel romanzo - pare riesca a svoltare e riappropriarsi della propria vita. mah! premio Calvino 2017 all'unanimità???? Letto libri "anonimi" decisamente migliori. Via alla bancarella dell'usato!

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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    11 Aprile, 2018
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lavoro introspettivo

Prosa intensa, melodiosa (“partiva quando il giorno era ancora incastrato nel buio”); Andrea (voce narrante), ricoverato in ospedale per un ictus, nasconde ai medici il suo reale stato di salute (si è ripreso, ma non lo dà a vedere) e finge di non avere ancora il contatto con la realtà; sfrutta così il tempo del ricovero per ripensare alla propria storia, ricordando gli avvenimenti del passato ed in particolare cercando di trovare dei motivi per spiegare la fine del matrimonio con l’amata Ernestina, da cui ha avuto una figlia, Preziosa. La sofferenza più grande è riconducibile all’interruzione del rapporto con la figlia.
Andrea oscilla fra il desiderio di uscire allo scoperto per riprendere i contatti con i familiari (la figlia, i genitori e la nonna) e il desiderio di starsene invece lontano da tutti, al riparo dalla realtà esterna, tormentato/angosciato per il fatto che nessuno lo cerca, tanto che dopo mesi di ricovero nessuno sa chi sia questo uomo. Andrea sceglierà quindi l’autoisolamento e la chiusura in sé, che gli permetteranno - alla fine di un importante e a tratti doloroso percorso introspettivo - di accettare gli avvenimenti del suo passato e di motivare la separazione con la fine dell’amore (“la colpa era dell’amore. Finito. E dirlo non è facile. Allora ci si appiglia a qualsiasi motivo per affogare il vero”).

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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    06 Aprile, 2018
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meglio il "vecchio" De Silva

Acquistato "a scatola chiusa" per la piena fiducia che nutro/nutrivo in De Silva, specie dopo la lettura di "La donna di scorta". L'esordio è esilarante, poi è tutto un calare del ritmo narrativo e dei contenuti, fino a giungere ad alcune pagine che ho saltato in toto. Parecchie se non eccessive le parole volgari, merda cazzo coglioni, evitabili o almeno contenibili. Quella del terapeuta emerge come una figura inverosimile e ridicola ed è tra l'altro uno schiaffo alla categoria professionale. Il romanzo non lascia nulla, se non il messaggio (banale) di non farsi troppe paranoie che tanto le cose vanno lo stesso come vogliono; almeno io l'ho capito così. Comunque .... meglio rimanere ancorati sui libri del "vecchio" De Silva.

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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    04 Aprile, 2018
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la madre seduta sul marciapiede di una stradina

Racconto autobiografico, corredato da foto e da stralci di autentica corrispondenza di fine anni ’50 fra Elena e Vittorio (genitori dell’Autore), dove Alajmo ci rende partecipi del dramma che anni addietro ha colpito la sua famiglia: l’Autore ripercorre la storia e lo svilupparsi degli intrecci familiari, dove il nodo è costituito da un tragico evento accaduto nel ’78 e che non può non avergli segnato la vita. La prosa è scorrevole (il libro si può leggere in un solo giorno, massimo due), molti gli spunti di riflessione che l’Autore semina nel corso della narrazione, ad esempio i suoi pensieri sulla non consapevolezza dell’uomo dell’attimo esatto in cui egli è felice, la non consapevolezza dell’importanza dei piccoli gesti (le “Gioie Irrecuperabili”), la difficoltà di accomiatarsi dalle persone care, l’ineludibilità del fato, per cui non si può mai sapere quando sarà l’ultima volta che vediamo una persona …
Alajmo tratteggia nel corso del libro se stesso bambino, poi ragazzo, adolescente, quindi padre di Arturo, avuto dalla compagna francese.
Delicato il richiamo alla memoria di parenti (nonni i zii) di entrambi i rami familiari, protagonisti dei Natali di “Roberto bambino” trascorsi a casa della nonna; alcuni ricordi sono sfumati, ma intrisi di memoria olfattiva.
Alajmo ci racconta il ricordo a volte ovattato, a volte vivido, dei segnali di malessere che dava la madre Elena ancor prima del ’78; lui bambino innocente che spera, ad ogni dimissione della madre dalla casa di cura, di non vedere più i farmaci da cui la madre era divenuta dipendente …. riecheggia la sua adolescenza/prima gioventù, irrimediabilmente segnata dall’episodio in cui ha incrociato la madre per l’ultima volta - inconsapevole in quel momento che non ci sarebbero poi state mai più altre occasioni di vederla. Alajmo lenisce la sofferenza dell’essere umano con una vena di ironia nei suoi confronti, trova linfa vitale nella paternità, idea rifiutata in gioventù (tanto devastante fu il trauma), ma poi concretizzatasi poco prima del suo 35esimo compleanno con la nascita del figlio Arturo; quindi va oltre, aprendo il pensiero al suo divenire nonno, quasi angosciato all’idea che, in caso contrario, nulla di sé verrà lasciato ai posteri. Nel finale, a mio parere, emerge serenità, grazie all’avvenuta rielaborazione dei vissuti e alla riconciliazione con un passato tormentato.

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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    18 Marzo, 2018
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La dinamica della violenza intrafamiliare

E’ il racconto di ciò che accade il 4.5.2001, nell’arco delle 24 ore, a vari personaggi, tutti legati fra loro a vario titolo (conoscenze, famiglie ricomposte, parentela, amori clandestini). Tutti i personaggi sono ben caratterizzati a livello psicologico, la Mazzucco tratteggia sapientemente soprattutto Emma e Antonio, i protagonisti di tutto l’intreccio. Coppia con due figli, lui non accetta la separazione e dopo che lei si è rifugiata dalla propria madre con i due figli, lui mette in atto comportamenti di stalking per farla desistere dalla sua intenzione di interrompere il matrimonio. Vi è descritta benissimo la tipica dinamica patologica della violenza intrafamiliare (specialmente nel capitolo “quindicesima ora”), spicca la lucida follia di Antonio, il prendere forma del suo piano, come egli considera Emma un suo “possesso” , i timori di lei nel momento di sporgere denuncia contro il marito, la minimizzazione degli eventi da parte della vittima, i dubbi della donna, i sensi di colpa nonostante i soprusi subiti, la sofferenza dei figli Kevin e Valentina per la mancanza del padre, col figlio minore che arriva al punto di scrivere in un compito a scuola che il padre è morto, e spera che il padre biologico sia un altro e che un giorno si farà vivo per proteggerlo; la primogenita Valentina in un’età adolescenziale tipicamente a rischio, è attratta da compagnie malsane e ne subisce passivamente l’influenza; Emma lavora, deve sbarcare il lunario, e i bambini sono spesso soli, ospiti dalla nonna materna che non è certo un sostegno morale per la figlia Emma. Il finale è drammatico e scioccante, come già espressamente anticipato nell’introduzione. Romanzo purtroppo attualissimo, stante la cronaca. Cosa poteva fare Emma di diverso? Sono questioni così personali, delicate e complesse quelle che orientano i comportamenti delle persone che non è possibile dare una risposta univoca; però vorrei qui dare un input per andare oltre all’approccio vittimistico che vede la donna appunto vittima dell’uomo violento, e lo faccio chiedendomi quanto Emma sia stata parte attiva nel mantenere nel tempo il legame malato, ad esempio nel momento in cui davanti al Maresciallo dei Carabinieri che raccoglie la sua denuncia, lei pensa “Antonio, Antonio mio. Se lo denuncio, lo rovino. Lo sospenderanno. Il lavoro è tutto quello che gli resta. Se dico la verità gli tolgo l’unica possibilità di risollevarsi. E questi uomini, mi crederanno? ….. se alla fine lo condannano, gli toglieranno anche bambini. Ho diritto di farlo? I bambini hanno bisogno di lui …Antonio non mi ha uccisa, dopotutto. E a loro non ha mai fatto del male” (nel capitolo “diciassettesima ora”). Questo solo un brevissimo estratto, ma nel racconto veniamo a sapere dalle riflessioni dello stesso Antonio che ha mandato Emma in ospedale “solo” cinque volte in 12 anni. E allora che significato assume per la donna rimanere lì , incastrata e incapace di uscire dalla spirale della violenza? Perché le donne rimangono? Si esplicita anche che Kevin era stato concepito proprio per salvare la coppia, quindi il padre prova rancore verso il figlio, perché non è riuscito nell’intento .. come possono portare certi pesi, i bambini?
Quindi il testo pone e propone parecchi spunti di riflessione. A tratti prolisso (si potevano tagliare decine di pagine superflue) , ma nel complesso una scoperta tale per cui leggerò anche gli altri libri di questa Autrice

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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    17 Marzo, 2018
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il valore della cultura

Una piacevolissima scoperta. Preso a caso al supermercato, si è rivelato un libro scorrevole, piacevole, emozionante, dolce, intenso, denso di sentimenti. In primo piano la profondità delle persone che hanno vissuto drammi personali e familiari, la debolezza e la forza dell'essere umano, il valore della cultura, l'importanza di trasmettere la propria storia alle generazioni successive quale insegnamento di vita e per non dimenticare gli sforzi di chi ci ha preceduto. Unica cosa mi ha dato un po' fastidio l'uso - in tutto il romanzo - del pronome "gli" riferito al genere femminile, ma forse è per calare anche la "parlata" nel contesto sociale di tutta la vicenda.

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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    11 Marzo, 2018
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INVISCHIAMENTO FAMILIARE

SPOILER Breve romanzo crudo d' introspezione psicologica. Prosa scorrevole, narra le vicende di una famiglia isolata dal mondo (solitudine, degrado, e ambientazione in zona desolata), unita da un legame gravemente patologico che scaturisce in maltrattamenti verso il figlio minore, in un incesto, nel terrore dei fratelli di poter essere divisi e nel non essere in grado di separarsi dal cadavere della madre. Su questo riflette il secondogenito Jacke - voce narrante - che motiva a posteriori la decisione di seppellirla in cantina "per tenere unita la famiglia", esplicitando "avrebbe potuto essere più interessante dividerci". Ben tratteggiata la gelosia che prova Jacke verso il ragazzo della splendida sorella maggiore, Derek. Derek è l'unico "esterno" che prova a inserirsi in questo sistema familiare tutto avvolto su se stesso, ma ne verrà "espulso", anche se sarà colui che indirettamente permetterà lo svelarsi del dramma familiare. Il finale è molto sfumato, il seguito può essere quindi immaginato a proprio gusto. Consigliato a chi è appassionato di addentrarsi nell'intricata e a volte sconvolgente mente umana.

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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    10 Marzo, 2018
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appartenenza al di là del legame di sangue

SPOILER - Primo libro per me della D'Urbano, che si è rivelata una piacevole scoperta. Lo stile narrativo crolla un po' nell'ultimo centinaio di pagine, un po' "buttate giù" e a tratti lente, rispetto invece alla parte precedente, molto accattivante e coinvolgente. I personaggi sono un po' alla Ammaniti , caratterizzati da vivere una situazione di disagio a più livelli.....Storia ambientata in un quartiere degradato, si narrano le vicissitudini di 4 fratelli da parte materna, i padri sono invece assenti per motivi che vengono via via spiegati (morte, rifiuto, latitanza all'estero). I principali temi trattati sono il forte senso di appartenenza alla famiglia al di là dei legame di sangue e indipendentemente dalle condizioni di vita (questione messa in evidenza anche dalla solitudine di Delia, di tutt'altra estrazione sociale rispetto ai 4 fratelli) e la possibilità sempre e comunque del riscatto personale, di potercela fare a cambiare rotta, a non rassegnarsi ai posti e alla vita che il fato ci vorrebbe assegnare. E questa possibilità per Valentino di migliorare se stesso dà un senso al dramma che colpisce l'amato fratello Alan.

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Ammaniti
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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    10 Marzo, 2018
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E' meglio il Manzini di Rocco Schiavone

Manzini abbandona (spero temporaneamente) le avventure di Rocco Schiavone per regalarci uno spaccato di vita molto sofferta di una donna moldava che pone nel proprio progetto migratorio elevate aspettative per un futuro migliore per sé e soprattutto per il figlio, rimasto ad aspettare la madre nel paese di origine. Finale a sorpresa, che pone qualche riflessione sulla condizione dell'essere umano, sulla vecchiaia, sulla morte, sul senso della vita, sul denaro che non necessariamente significa felicità ... Una decina di pagine trattano il tema del maltrattamento agli anziani e mi hanno un po' turbata.... La prosa è molto scorrevole, lettura leggera e accattivante, invoglia a leggere ovunque a ogni ora per sapere il seguito.

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Breve storia dei trattori in lingua ucraina di Marina Lewycka
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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    09 Marzo, 2018
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una prosa come quella di Bajani è rara

Sicuramente una storia molto triste, per l' enorme sofferenza del personaggio, sempre accompagnato dal dolore, ignorato da tutti, fino a che una bambina non coglie/accoglie quel dolore; la prima parte mi è più chiara, mi è parso di cogliere la presenza di una madre molto depressa, che non ha mai considerato il figlio, e un padre violento ... si trova la tensione del protagonista tra volontà di agire per riscattarsi, cambiare la propria condizione, e il rimanere passivi a crogiolarsi nella propria condizione; risalta l'individuazione di un posto dove sentirsi più sereno lasciando sfogare il dolore (bosco) ; il rifugio nella fantasia ... la seconda parte mi è meno chiara, è il cammino verso il divenire adulti, meno coinvolgente rispetto alla parte precedente; non so, mi ha un po' delusa questo Bajani; resta però una prosa incantevole e dolcissima, quasi da trattenere il fiato per le emozioni suscitate dalle parole sapientemente unite a creare un'atmosfera per cui è valsa la pena immergersi in questa breve lettura !

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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    08 Marzo, 2018
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la meta non è un posto ma è quello che proviamo

Lacrimuccia non trattenuta nel leggere le ultime pagine.... e alcune risate qua e là nel corso della lettura. A me questo libro è piaciuto molto: più del secondo romanzo "la tristezza ha il sonno leggero". Mi chiedo come l'Autore - uomo - sia riuscito a tratteggiare così bene e profondamente un personaggio femminile come quello della protagonista Luce. Questa, nel narrarci le sue vicende "qui e ora", ci accompagna a tratti anche nel suo passato, in un'infanzia infelice dove l'unico raggio di sole è rappresentato dalla nonna materna; un passato che spiega i suoi tormenti attuali, che la portano anche ad immaginare di andarsene dalla sua città per voltare del tutto pagina, come in passato aveva fatto il padre, quindi il fratello Antonio. Con l'aiuto di altri personaggi, in particolare un vicino anziano di casa (in passato giramondo, ora costretto all'immobilità su una carrozzina) e un bambino, Luce riuscirà - arrancando e sbrogliando antiche questioni familiari - a trovare l'agognata serenità. Che non dipende dal luogo in cui siamo, ma da quello che portiamo dentro e dall'accettazione e comprensione di quello che siamo. Il finale mi ha portata al brano di Marco Mengoni in cui canta "la meta non è un posto ma è quello che proviamo. E non sappiamo dove né quando ci arriviamo".

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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    08 Marzo, 2018
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intenso

Mi chiedo perché questo Autore italiano sia poco conosciuto, a fronte della sua magnifica scrittura. Questa breve storia è eccezionale per l'intensità della prosa. La combinazione e la ricercatezza delle parole diventano musica. Commuove al di là della trama , per il "solo" modo in cui vengono descritte cose, eventi, situazioni, personaggi ...

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