Opinione scritta da kafka62
230 risultati - visualizzati 1 - 50 | 1 2 3 4 5 |
VERITA' E SEGRETI
“Tacere e parlare sono un modo di intervenire sul futuro.”
“Le mie mani sono del tuo stesso colore”, annuncia Lady Macbeth al marito, “ma mi vergogno di avere un cuore così bianco”. Similmente alla più famosa opera successiva, “Domani nella battaglia pensa a me”, anche il titolo di questo romanzo di Marias prende spunto dal verso di una tragedia shakespeariana (là il “Riccardo III”, qui il “Macbeth”). E’ un po’ come se le citazioni di Shakespeare, nel titolo o in esergo, fossero per lo scrittore spagnolo una sorta di puntello, di sostegno atto a supportare, conferendo loro un valore semantico più nobile ed elevato, la struttura di libri che del resto, anche al loro interno, fanno un abbondantissimo uso di citazioni (non solo del Bardo, naturalmente, ma anche di altri autori: si pensi a T.S. Eliot in “Berta Isla”). Per continuare con le analogie con “Domani nella battaglia pensa a me”, va poi sottolineato che anche “Un cuore così bianco” si apre con una morte drammatica, seppur avvenuta diversi decenni prima, ossia il suicidio di una giovane donna appena tornata dal suo viaggio di nozze e di cui all’inizio non si sa ovviamente nulla, e forse per questo viene raccontato in modo quasi asettico e distaccato, con inusuali e sconcertanti notazioni psicologiche (il padre della ragazza che ha ancora un boccone in bocca e quando accorre sul luogo della disgrazia non sa decidersi se masticarlo, inghiottirlo o sputarlo e continua a passarselo da una guancia all’altra, o l’ospite che osserva la raccapricciante scena dalla porta del bagno ma non riesce a esimersi dal controllare il suo riflesso nello specchio macchiato di sangue e ravviarsi i capelli). Questa scena è il cardine intorno a cui ruota l’intero romanzo, il convitato di pietra con cui tutti i personaggi devono, volenti o nolenti, fare i conti, un segreto familiare terribile e vergognoso, tenuto celato per tantissimo tempo e solo alla fine rivelato in una angosciante confessione serale. Il tema di “Un cuore così bianco” è proprio quello del segreto e della sua opportunità, del parlare e del tacere, dell’impossibilità di sapere e dell’altrettanto evidente impossibilità di ignorare. E’, in parole povere, la verità e la possibilità che le parole hanno di rivelarla. Non è un caso che il protagonista faccia di professione l’interprete, il cui compito consiste nell’ascoltare e tradurre in continuazione parole altrui, interpretando, memorizzando e intendendo ogni cosa che gli giunge all’orecchio. Ascoltare per Marias è un’attività molto pericolosa. La Lady Macbeth citata all’inizio non è infatti complice del marito per averlo istigato all’assassinio di Duncan, ma per aver appreso dalle sue labbra che il delitto è stato compiuto. “Le orecchie sono prive di palpebre che possano chiudersi istintivamente di fronte a ciò che viene pronunciato, non si possono proteggere da ciò che si presume stia per essere ascoltato, è sempre troppo tardi”. Sapere, essere informato, essere al corrente cambia tutto, rende responsabili anche degli atti che non si sono commessi. Ogni parola pronunciata, che sia sincera o ingannevole, ha, secondo Marias, ripercussioni inimmaginabili, trasformandosi addirittura in questioni di vita e di morte (come nel caso della seconda moglie di Ranz, suicidatasi - lo si apprende alla fine – per non essere stata in grado di sopportare il peso della confessione del marito, e fors’anche per essersi sentita, come Lady Macbeth, sua inconsapevole complice nel delitto da lui perpetrato). Non è un caso che una conversazione ascoltata casualmente dal protagonista attraverso la sottile parete di una stanza d’albergo inneschi in lui una catena di riflessioni capace di ingenerare nel suo matrimonio dubbi, inquietudini e sospetti. L’atto del raccontare, del confessare, del riportare non conduce peraltro alla verità, in quanto “raccontare i fatti deforma i fatti e li altera e quasi li nega, tutto ciò che si racconta diventa irreale e approssimativo benché veritiero”. La verità dipende più dal fatto che le cose rimangano nascoste e non siano conosciute né raccontate piuttosto che dal fatto che esse siano accadute, in quanto “appena si raccontano o si manifestano o si mostrano […] passano a formare parte dell’analogia e del simbolo, e dunque non sono più fatti, ma si trasformano in riconoscimento”. Raccontare le cose “significa spaventarle e far scappare i fatti”. Le parole pertanto non servono tanto a far conoscere quanto a confondere, a occultare e, in fin dei conti, a discolparsi, a liberarsi dalle proprie responsabilità per trasmetterle a qualcun altro. E’ una posizione estremamente pessimistica e negativa, che verrà in parte superata in “Domani nella battaglia pensa a me”, laddove viene detto che “ciò che non si racconta non esiste”. Qui invece raccontare è una sorta di maledizione (che ricorda l’”haunting” del romanzo successivo), come il morso di un vampiro che trasforma chi la riceve in un essere irrimediabilmente dannato. Se la verità non si può diffondere pena la rovina altrui, se il segreto è alla resa dei conti opportuno e financo necessario, la conseguenza inevitabile è che la verità in pratica cessa di esistere. La posizione nichilista di Marias assomiglia un po’ a quelle di certa filosofia contemporanea che negano, nel loro relativismo, che la ragione umana possa addivenire a una definitiva comprensione della realtà e del mondo. “A volte ho la sensazione – confessa il protagonista – che niente di ciò che succede succeda davvero, poiché niente persiste né persevera né si ricorda in eterno. […] Ciò che avviene è identico a ciò che non avviene. […] Tuttavia passiamo la vita… a tracciare una linea… che faccia della nostra storia una storia unica e da raccontare. […] Per questo siamo pieni di rimpianti e di occasioni perdute, di conferme e riaffermazioni e di occasioni sfruttate, quando l’unica certezza è che nulla si afferma e tutto si perde. O forse non c’è mai stato niente”. Nelle opere di Marias c’è sempre, se si riflette bene, una sorta di rovesciamento in negativo delle tematiche affrontate: se in “Domani nella battaglia pensa a me” il tema della sopravvivenza dell’io si ribalta nel suo contrario, ossia l’impermanenza, se in “Berta Isla” l’identità si trasforma nella spersonalizzazione, nell’impossibilità di conoscere l’altro, in “Un cuore così bianco” è la verità a capovolgersi nel suo inesorabile occultamento, nel segreto da preservare a tutti i costi per salvaguardare le apparenze e garantire una parvenza di innocenza.
Come si è forse già capito, nei romanzi di Marias le idee contano assai più della trama. I pochi spunti narrativi (il dialogo tra Guillermo e Miriam i quali, ignari di essere ascoltati dietro la parete dell’hotel dell’Avana, potrebbero star progettando un omicidio, il pedinamento di Bill da parte del protagonista per le strade di New York) vengono infatti lasciati in sospeso, letteralmente abbandonati in favore di un continuo, infaticabile sillogizzare. Marias si muove su un terreno instabile, scivoloso, in quanto non sorretto da una solida impalcatura diegetica, sembra quasi che non sappia che direzione far prendere al romanzo, se farlo essere un giallo, un romanzo d’amore e di gelosia oppure una storia familiare che attraversa diverse epoche e generazioni. Non è un caso che i suoi periodi siano pieni di avverbi come “forse… forse” (per esprimere tutte le possibili, innumerevoli alternative che ogni fatto, anche il più banale, può nascondere) o “se… se” (per manifestare gli assillanti scrupoli del protagonista, come quando egli prima dà dei soldi a due zingari che si sono posizionati con l’organetto sotto la sua finestra, impedendogli di lavorare, per farli spostare in altro isolato, e poi si preoccupa di avere, con questa transazione monetaria, deciso i loro movimenti e comprato le loro volontà, magari influenzando con questo semplice gesto le loro vite future). In apparenza sembra che ci siano solo, lunghe, interminabili digressioni senza importanza (le descrizioni minuziosissime del lavoro di interprete del narratore o dei loschi traffici del padre, esperto d’arte), che rischiano di mettere a dura prova la pazienza del lettore. Eppure, contro ogni aspettativa, alla fine tutto si incastra alla perfezione come i pezzi di un puzzle ben congegnato, rivelando una architettura narrativa che appare estremamente elaborata e funzionale (sebbene l’autore abbia sostenuto spesso nelle sue interviste di non sapere, quando inizia a scrivere un romanzo, come lo stesso si svilupperà, o quanti saranno i personaggi né come andrà a finire). Lo stesso stratagemma (che è un po’ il marchio di fabbrica di Marias) di ripetere più volte le stesse parole, le stesse frasi nel corso del romanzo non risulta tanto essere una mera ridondanza stilistica, quanto un mezzo ottimale per consentire loro, dopo che tante cose nel corso della storia sono trascorse e si sono evolute e fatte più evidenti, di apparire in una prospettiva migliore, più giusta, quasi che alla fine quelle stesse parole e frasi acquistassero una pregnanza di significato, una simbolica chiarezza, che all’inizio, scritte com’erano quasi distrattamente, con leggerezza, non potevano affatto lasciare immaginare. Perfino il mestiere di interprete del protagonista, come si diceva più sopra, acquista un valore metaforico ben preciso (al modo in cui lo avranno quelli di ghost writer e di spia dei personaggi di “Domani nella battaglia pensa a me” e di “Berta Isla”). Al termine di “Un cuore così bianco” tutto quindi miracolosamente torna, le decine di pagine apparentemente prolisse e inessenziali si rivelano quanto mai necessarie, e il romanzo dimostra di possedere una configurazione estremamente organica e coerente, quasi fosse un trattato filosofico, con in più uno stile elegante, raffinato e mai superfluo che mi ricorda alla lontana un autore come Stefan Zweig, oltre a una capacità sopraffina di descrivere la psicologia umana che ne fa una sorta di McEwan, solo con un enorme talento in più rispetto al celebre scrittore inglese.
Indicazioni utili
LIBERARSI DEL TEMPO E SENTIRE IL SUONO DEL FUTURO
“La musica predice il passato, ricorda il futuro. Ogni tanto la differenza sfuma e nel semplice dono unico di un suono circolare l’orecchio risolve l’astruso crittogramma. Un solo ritmo persistente, presente e perenne, e sei libero. Qualche altra misura, invece, e il manto del tempo ti si richiude intorno.”
Leggendo “Orfeo”, il cui titolo fa ovviamente riferimento al cantore della mitologia greca capace di piegare al suono della sua lira gli animali e la natura, mi è saltato agli occhi ad un certo punto della storia un curioso parallelo con “Il passeggero” di Cormac McCarthy. In entrambi i romanzi infatti i protagonisti sono dei fuggiaschi, ricercati dalle autorità senza che praticamente vi sia una ragione plausibile, la fuga costituendo quasi una condizione ontologica dell’esistenza di coloro che sono stati in passato due talenti precoci e parzialmente inespressi nella musica e nella scienza. Non solo, ma entrambi i libri, i quali peraltro sono sotto la maggior parte degli aspetti diversissimi tra loro, sono anche dei gialli mancati. Se nel caso de “Il passeggero” il MacGuffin è palese (la scomparsa di un passeggero dall’aereo precipitato in mare), in “Orfeo” la questione è più ambigua: l’incriminazione per bioterrorismo di Els è uno spunto abbastanza risibile (utile tutt’al più per polemizzare con la deriva autoritaria dell’America post-11 settembre, con l’emanazione del Patriot Act che, con il pretesto di proteggere una nazione in preda al panico, ha limitato non poco le libertà individuali dei suoi cittadini), ma per tutto il libro il lettore si interroga inevitabilmente sui motivi per cui il compositore d’avanguardia, il musicista sperimentale, l’insegnante immerso a tempo pieno negli spartiti, sia potuto diventare agli occhi delle forze dell’ordine e della pubblica opinione il pericoloso terrorista Bach Biohacker. “Orfeo” infatti alterna in continuazione, come è tipico dei romanzi di Powers, il passato e il presente, ma le due storie (da una parte la vita di Els che attraversa pieno di ambiziose speranze l’intera musica del ‘900, sacrificando amicizie ed affetti al suo scopo di inventare dei suoni capaci di aprire la serratura segreta del mondo, dall’altra il disordinato vagabondare di Els, finito su tutte le prime pagine dei giornali e ricercato dall’FBI) sembrano procedere in maniera parallela e non convergente. La spiegazione del mistero arriva solo nelle pagine finali del libro, quando un Els disilluso, che sembra aver perso la fede nella sua arte e addirittura inizia a soffrire di una specie di amusia, non riuscendo più a provare piacere nell’ascoltare la musica (“ascoltare la musica era come guardare uno spettacolo floreale con gli occhiali da sole”), all’improvviso comprende come tutto nel mondo possieda una armonia, come la materia sia impregnata di ritmi e melodie, come l’intero cosmo sia un immenso coro segreto. I suoi giovanili studi scientifici gli fanno capire che la musica si può ricavare da qualsiasi cosa: “fughe dai frattali, un preludio estratto dalle cifre del pi greco, sonate scritte dal vento solare”. Già ventitré anni prima “Canone del desiderio” ci aveva affascinato con le sorprendenti e quasi mistiche analogie che legavano le Variazioni Goldberg di Bach al DNA. Ora, in “Orfeo”, Powers rafforza vieppiù questo concetto, facendo innamorare il protagonista quindicenne della chimica, in quanto “il linguaggio schematico di atomi e orbitali aveva una logica comune soltanto alla musica” e “la simmetria nascosta nelle colonne della tavola periodica aveva un che della maestosità della Jupiter”. Diventato vecchio e folgorato dalla scoperta della musicalità delle cose, Els decide quindi di lanciarsi in un esperimento folle e azzardato, quasi una sorta di avanguardistica “biocomposizione”: prova cioè a inscrivere la sua musica nel DNA di microorganismi, le sue canzoni nel codice genetico dei batteri, dando loro la possibilità di sopravvivere nel tempo, per l’eternità, “musica per la fine del tempo” da lanciare “nel lontanissimo futuro, inascoltata, sconosciuta, ovunque”. E’ un progetto prometeico, una hybris destinata alla spietata repressione da parte delle autorità (è la casuale scoperta del laboratorio casalingo di Els a farlo scambiare per un terrorista), in quanto gli dei non permettono che qualcuno si innalzi al loro livello. E’ però anche l’opera migliore di Els, che, dopo aver aspettato per tutta la vita una rivoluzione musicale che aveva già vissuto lasciandosela sfuggire, riesce infine a realizzare l’utopia per eccellenza, la libertà suprema, quella di innalzarsi in una dimensione sovratemporale, eterna, con una musica capace di resuscitare i morti, ripristinare le cose perse e fermare il tempo.
Si può dire a ragion veduta, senza tema di venir accusato di blasfemia, che Powers è il Proust della nostra epoca. In tutte le sue opere i personaggi hanno sempre una titanica ambizione, che non è tanto quella di recuperare, come nella “Recherche”, un elegiaco passato perduto, quanto di annullare il presente, il passato e il futuro, e di raggiungere una sorta di tempo immobile, al riparo da qualsiasi contingenza storica. E’ per questo che la musica, la chimica, la biologia sono così importanti, perché sono una scorciatoia per il sublime, per l’iperuranico, per l’eterno, in grado persino di “ingannare il corpo facendogli credere che abbia un’anima”. Già ne “Il tempo di una canzone” Powers aveva detto che “il tempo non scorre, ma è. In un mondo così, tutte le cose che saremo o siamo stati le siamo”. La musica è questo luogo cristallizzato per eccellenza, dove il tempo si può arrestare, anche se solo per lo spazio di qualche battuta. “Il suo non è tanto un anticipare quanto accadrà, ma un ricordarlo”. E in “Orfeo” aggiunge, sottolineando questa trascendente circolarità, che “la musica predice il passato, ricorda il futuro”. Gli aneddoti di Messiaen, che scrive ed esegue il suo quartetto nel lager nazista in cui è rinchiuso (“fra trecentomila prigionieri io ero forse l’unico a non essere prigioniero”) e di Sostakovic, che compone la sua quinta sinfonia facendosi beffe del regime di Stalin che lo aveva messo all’indice per il suo formalismo e le sue dissonanze (tagliatemi le mani, e continuerò a scrivere musica con la penna stretta tra i denti”), sono l’esempio cui Els si appoggia per sostenere la sua concezione di una musica che possa concedere all’ascoltatore di “liberarsi del tempo e sentire il suono del futuro”. Nel suo disordinato peregrinare per l’America, da Est a Ovest, Els diventa quasi l’incarnazione di Harry Partch, il musicista vagabondo, visionario, profetico, inventore di nuovi, eccentrici strumenti, “convinto che la salvezza della musica richiedesse di dividere un’ottava in quarantatré parti”, anziché nelle canoniche dodici. Els libera la musica dalla sua prigione fatta di tasti bianchi e neri, e, in un finale davvero commovente, realizza in extremis il sogno di una vita, ossia “il battere di un po’ d’infinità”.
“Orfeo” non è soltanto un romanzo sulla musica, anche se Powers ci accompagna insieme al suo appassionato protagonista attraverso gran parte della musica del ‘900, da Mahler e Bartok, giù giù fino a Ives, Boulez, Cage e Riley. Esso è, anche e soprattutto, un’opera intimamente, profondamente musicale. Anche chi, come me, sa poco o nulla di note e di ottave, di accordi in maggiore o in minore, di toniche e dominanti, di scale e di fughe, riesce a cogliere la bellezza e la poesia di una prosa sempre di altissimo livello, ispirata e geniale, come quando, parlando de “Il clavicembalo ben temperato” di Bach, Powers scrive che “le linee caleidoscopiche esplodevano nella testa di Peter come un groviglio di scale in un labirinto di Piranesi”, oppure, a proposito di una canzone composta da Els per la moglie, “Il motivetto irresistibile e accattivante, come una nuvola livida soffiata da una brezza di giugno, si lasciava dietro una fascia azzurra che catturava il cuore e lo sollevava verso una prospettiva a volo d’uccello delle cose future. La canzone, soltanto la canzone, il suo enigma, il calore e il desiderio. L’eternità in tre minuti”. Powers è secondo me l’unico autore in grado oggi di far assurgere la musica ai più alti livelli della letteratura, e forse solo la scrittura “musicale” di Thomas Mann (che intendeva il romanzo come un insieme di melodie e di voci che lo scrittore, come in un concerto, assembla e dirige, privilegiando, più che la consequenzialità logica del testo, i suoi aspetti ritmici e musicali) può stargli alla pari. Insieme a “Il tempo di una canzone”, “Orfeo” forma un ideale, impareggiabile dittico sulla musica, il quale, se si aggiunge anche “Canone del desiderio” (in cui è però preponderante la componente scientifica), diventa addirittura una trilogia, in cui l’autore americano raggiunge la perfezione della sua arte, concludendo una fase formidabile della carriera che, a mio avviso, si fa di gran lunga preferire a quella “ecologista”, anche se è proprio quest’ultima, grazie al premio Pulitzer assegnato a “Il sussurro del mondo”, che gli ha finalmente dato la meritata notorietà presso il grande pubblico mondiale.
Indicazioni utili
DISTOPIA ENIGMISTICA E METANARRATIVA
“Un mondo sinistro” può essere a pieno titolo iscritto al genere distopico, da Nabokov già frequentato una decina di anni prima nel romanzo “Invito a una decapitazione”. Lo scrittore russo inventa infatti uno stato (Padukgrad, retto dal sanguinario tiranno Paduk), una ideologia politica (l’ekwilismo) e persino una nuova lingua (come in “Fuoco pallido”), ma, sebbene la società descritta sia oppressiva e disumana al massimo grado, “Un mondo sinistro” non si può considerare un romanzo politico di denuncia, tipo “1984” di Orwell (da lui non a caso definito sarcasticamente nella prefazione un “mediocre scrittore inglese”). Nabokov è sempre stato molto chiaro in proposito: “Non mi ha mai interessato la cosiddetta letteratura di carattere sociale. […] La politica e l’economia, le bombe atomiche, le espressioni d’arte primitiva e astratta, l’intero Oriente, accenni di «disgelo» nella Russia sovietica, il Futuro dell’Umanità, e così via, mi lasciano supremamente Indifferente”. Anche se alla fin fine l’ekwilismo risulta molto simile al comunismo dell’Unione Sovietica, sostituendo tutt’al più alla mera uguaglianza economica tra tutti gli uomini una non meglio specificata uniformità spirituale, e anche se lo scrittore che aveva dovuto abbandonare l’amata patria pochi anni prima avrebbe avuto più di un sassolino da togliersi dalla scarpa, egli appare qui molto più coinvolto dai risvolti individuali della vicenda. Il protagonista Adam Krug, un famoso filosofo, è non a caso una persona totalmente apolitica, dal momento che rifiuta recisamente tanto di firmare la petizione dei suoi colleghi accademici al Presidente, il quale ha recentemente chiuso l’Università, quanto di aderire alle lusinghe del regime, che aspira ad averlo dalla propria parte al fine di riuscire ad accreditarsi, in virtù dell’appoggio di una personalità insigne dello Stato, forse addirittura la più insigne, di fronte ai sospettosi governi stranieri. Egli è il classico intellettuale che ama vivere nella sua solipsistica torre d’avorio, circondato dai suoi libri e dai piccoli agi borghesi, e in più è un uomo arrogante, sprezzante, egoista e sicuro di essere invulnerabile, al di sopra di tutto e di tutti (del resto non è certo il primo dei personaggi nabokoviani ad avere connotazioni decisamente negative). In controtendenza con questi atteggiamenti, e nascosto sotto la sua burbera facciata, c’è però il sentimento dolcissimo per la moglie Olga recentemente scomparsa, che gli fa sorgere incontrollabili impeti di commozione (oltre a riaffiorare più volte, sotto forma di sogno o di ricordo, come nella tenera sequenza onirica in cui un’Olga quindicenne cammina con circospezione portando tra le mani chiuse a coppa una falena), e per il figlio David, che fa di tutto per proteggere dall’atroce verità della morte della madre e dalle subdole pressioni della dittatura, la quale ha infine capito che per far cedere Krug bisogna minacciarlo nei suoi affetti più cari. Il romanzo non è però, lo ripeto, una presa di posizione sulla necessità per l’intellettuale di schierarsi, di prendere posizione, vincendo la sua superbia o la sua pavidità. La presa di coscienza di Krug non è quella del Pereira di Tabucchi, ma al contrario ha qualcosa di kafkiano, nel senso che il potere che il protagonista si trova ad affrontare è qualcosa di irragionevole e insensato, con cui non è possibile confrontarsi, neppure in una veste antagonistica, e in definitiva sfuggente e inaccessibile come il Castello dell’autore boemo. Il regime di Paduk è per certi versi addirittura ridicolo, caricaturale. I funzionari venuti ad arrestare Ember sono una coppia ambigua e lasciva, che lascia palesemente trasparire il desiderio di copulare sul letto dell’elegante appartamento del padrone di casa, mentre il poliziotto in borghese che controlla Krug si trasforma addirittura, per camuffare la sua identità, nel buffo manichino esposto nella vetrina di una sartoria. Quando poi Krug, novello Josef K., si reca al Ministero della Giustizia per chiedere un colloquio in relazione all’arresto dei suoi amici, non si accorge che l’edificio è stato da poco trasformato in albergo, e l’individuo da lui scambiato per un alto funzionario altri non è che il capocameriere. Tutto ha l’aspetto di una farsa sgangherata e grottesca, come quando a Krug, che si è alfine dichiarato disposto a collaborare col Governo a patto che gli venga riconsegnato suo figlio, sequestrato nottempo per poterlo meglio ricattare, viene condotto un ragazzo che non è David, ma il figlio dodicenne di un suo omonimo; oppure come nella scena in cui lo stesso dittatore si camuffa da carcerato e, recitando goffamente la parte come un guitto da quattro soldi, cerca di convincere Krug ad accettare l’ultimatum del Governo. Eppure, nonostante che in certi momenti tutto sembri una messinscena di cartapesta, bislacca e traballante, fanno capolino qua e là certi orrori in grado di fare accapponare la pelle al lettore. Si pensi a quell’Istituto per bambini anormali, che sembra richiamare certe aberrazioni naziste, il quale dà gli orfani, considerati creature di nessun valore per la collettività, in pasto a criminali ordinari per fare loro sfogare gli istinti più violenti e repressi, in un orripilante esperimento palingenetico volto a sradicare la malvagità insita in loro e trasformarli così in bravi cittadini! La violenza belluina, cieca, volgare e ignorante della dittatura, non avendo nessun contrappeso che la regoli, men che meno la ragione ed il buon senso comune, è destinata fatalmente a travolgere tutto quanto sotto i cingoli implacabili del suo meccanismo inarrestabile. Nabokov viene mosso però da una sorta di compassione per il suo protagonista e gli concede in extremis, pietosamente, la pazzia, un po’ come Pirandello al suo Enrico IV. Il riferimento all’autore siciliano non è casuale, perché “Un mondo sinistro” ha una forte connotazione metaletteraria. Krug ha infatti spesso l’impressione, nel corso del romanzo, che vi sia una presenza che lo osserva e lo agisce. Egli, ad esempio, non sa perché sia ritenuto un filosofo eminente dai suoi contemporanei: “Era una situazione assai simile a quella che può facilmente verificarsi nei romanzi quando l’autore afferma che l’eroe è un «artista eminente» o un «grande poeta» senza tuttavia fornirne le prove; anzi, badando bene a non fornire tali prove poiché qualunque esempio deluderebbe sicuramente le aspettative e la fantasia del lettore”. Il fatto è che Krug è effettivamente un personaggio letterario, il quale sembra prendere coscienza del fatto che ci sia da qualche parte un autore di questo genere, che non si sente di deludere il lettore fornendo le prove della sua importanza intellettuale tra gli uomini del tempo. Il misterioso raggio di luce che penetra nella buia cella dove Krug è recluso in un certo senso prelude alla caduta del velo di Maya e al disvelamento della presenza dell’autore deus ex machina. La pozzanghera che, all’inizio del romanzo, Krug osserva dalla finestra dell’ospedale, in cui si riflette una porzione di pallido azzurro del cielo, è la stessa pozzanghera che il narratore guarda dal suo appartamento dopo aver scritto la parola “fine” del suo manoscritto: l’una è in fondo lo specchio dell’altra, come se il suo fragile e traslucido elemento liquido fosse l’unico, impalpabile diaframma di separazione tra il mondo della finzione e quello della realtà.
“Un mondo sinistro” esibisce la tipica, prodigiosa abilità stilistica di tutte le opere nabokoviane. Si pensi alla sensibilità vibratile con cui lo scrittore riesce a descrivere perfino le minime differenze nella visione della realtà durante un semplice battito di ciglia, oppure il tour de force stilistico nella chiusura del quarto capitolo, dove Nabokov, descrivendo una ragazza che sale di corsa le scale di casa, passa dalle stelle cucite nel suo scialle svolazzante alle costellazioni dai nomi mitici, a Pascal e al suo “effroi” per “il silenzio eterno di questi spazi infiniti”, e ancora alla mitologia che fa un po’ da rete di sicurezza per il pensiero il quale, con una ardita similitudine, viene paragonato a un acrobata che esegue davanti al pubblico il suo numero da circo. E che dire poi del capitolo 7, in cui la trama arcinota dell’Amleto viene letteralmente destrutturata, smontata e rimontata a piacimento, con il risultato di portare ad esiti stravaganti pur di perseguire intenti apologetici filo-governativi (l’esegesi artatamente proposta dal professor Hamm, il quale sembra prefigurare la celebre figura del Charles Kinbote di “Fuoco pallido”, secondo cui il vero protagonista dell’opera non è Amleto bensì Fortebraccio), o oscure velleità pseudo cinematografiche, o ancora ingegnosi giochetti enigmistici (gli anagrammi con cui Ofelia e Amleto vengono ricondotti a personaggi della mitologia, come nel caso del principe di Elsinore che diventa Telmah, ossia Telemaco, il figlio di Ulisse che uccide gli amanti della madre)? “Un mondo sinistro” abbonda di giochi di parole, anagrammi, paronimi, palindromi, ecc., con cui Nabokov sembra voler dare sfoggio di una sfrenata e virtuosistica fantasia verbale, la quale trova la sua più compiuta realizzazione nell’invenzione di una neo-lingua, che è quella parlata a Padukgrad e di cui ci vengono offerti numerosi esempi nel corso della narrazione. Tali e tanti sono i motivi di interesse del romanzo che molti autori successivi sono stati da esso, in maniera più o meno diretta, più o meno consapevole, influenzati: tra i tanti esempi che mi vengono in mente posso citare “Smarrimento” di Richard Powers (per il delicato, amorevole rapporto che lega padre e figlio, dopo che quest’ultimo è diventato orfano, e per l’analogo, triste destino del piccolo protagonista), “La fortezza” di Jennifer Egan e “Quichotte” di Salman Rushdie (entrambi per il palesamento esplicito dell’autore nel mondo di finzione dei personaggi). Insomma, in “Un mondo sinistro” vi sono innumerevoli, sovrabbondanti pagine in grado di deliziare il lettore, e anche se alla fine dei conti il libro risulta più confuso e meno risolto di altre opere dell’autore, si tratta pur sempre di un Nabokov riconoscibilissimo, ossia di uno scrittore che anche nei suoi lavori “minori” è in grado di accreditare la sua figura artistica come una delle più affascinanti, se non addirittura la più affascinante, del secolo scorso.
Indicazioni utili
DI CANI, SVASTICHE E SPAVENTAPASSERI
“C'era una volta un cane, si chiamava Perkun e apparteneva a un garzone mugnaio lituano che aveva trovato da lavorare nell'estuario della Vistola. Perkun sopravvisse al garzone mugnaio e generò Senta. La cagna Senta, che apparteneva a un mugnaio di Nickelswalde, partorì Harras. Il cane da monta, che apparteneva a un padrone falegname di Danzica–Langfuhr, coprì la cagna Thekla, la quale apparteneva a un certo signor Leeb, che morì nei primi mesi del quarantadue, poco dopo la cagna Thekla. Il cane Prinz tuttavia, generato dal cane da monta Harras e dalla cagna Thekla, fece storia: fu regalato al Führer e cancelliere per il suo compleanno e finì, quale cane prediletto, nelle attualità cinematografiche.”
Il brano riportato in esergo, che ricorda vagamente le genealogie di biblica memoria, è a mio parere perfettamente rappresentativo del modo in cui Gunter Grass ha concepito quel ciclopico, smisurato e ambiziosissimo romanzo che è “Anni di cani”. Così come, in maniera apparentemente impassibile e anodina, da personaggi del tutto marginali (addirittura dei normalissimi cani, appartenenti a mugnai e falegnami) si arriva direttamente, saltando a pie’ pari ogni barriera logica, alla più alta carica della nazione, quella del Fuhrer in persona, allo stesso modo la storia comune e la Storia con la iniziale maiuscola si intrecciano senza soluzione di continuità, e il racconto di amicizia e tradimento di Amsel e Matern nell’arco di tre decenni diventa l’occasione per narrare, in maniera intenzionalmente allegorica, l’epopea di un’intera generazione. Simbolico è ad esempio il personaggio di Amsel, la cui natura cristologica si rivela in occasione della sua “risurrezione” dal pupazzo di neve in cui lo hanno imprigionato le SA e della sua nuova vita nei panni del non più goffo e pingue, bensì affascinante e carismatico, Haselof alias Brauxel alias Boccadoro. Simbolico è anche Matern, il quale incarna l’uomo comune, che cambia fede e bandiera a seconda delle circostanze (“Ero rosso, ho vestito bruno, passai al nero”), vittima in buona fede del fascino manipolatorio delle ideologie. Perfino il cane Prinz può essere visto come l’emblema del popolo tedesco, pronto ad abbandonare opportunisticamente il nazismo poco prima del suo tracollo per cercare un nuovo padrone da servire con cieca fedeltà. In “Anni di cani” Grass è capace di passare dalla ordinaria quotidianità ai grandi avvenimenti della Storia in pochissime righe, come quando una banale scommessa fatta per vincere la noia porta alla scoperta che la maleodorante montagnola vicino alla postazione della contraerea, circondata dal filo spinato, è fatta di ossa umane, svelando all’improvviso l’indicibile orrore di un campo di sterminio, dove la gente scompare senza lasciare traccia di sé. Il nazismo è sempre sullo sfondo, defilato e quasi inghiottito dal vorticoso avvicendarsi delle vicende individuali, ma esso è nondimeno l’inesorabile convitato di pietra con cui tutti, prima e dopo la fine della guerra, si trovano costretti a fare i conti. Quella del romanzo di Grass è infatti un’analisi implacabile e spietata della rimozione collettiva che la società tedesca del dopoguerra ha operato nei confronti dell’esperienza nazionalsocialista. Matern dopo la fine del conflitto gira in lungo e in largo la Germania, con il proposito di “denazificarla” e di vendicarsi di tutti coloro che lo hanno ingannato, umiliato e tradito negli anni precedenti, ma trova solo gente che si è scrollata di dosso tutte le responsabilità e i sensi di colpa, che vuole solo dimenticare e nascondere negli armadi gli scheletri del passato, cosicché la sua caccia rancorosa ai colpevoli diventa una donchisciottesca lotta contro i mulini al vento (“A cosa gli serve la testa fatta di ferro battuto se le pareti da sfondare sono state costruite con la precauzione di renderle permeabili? E’ una professione: spingere porte girevoli? Fare buchi nel formaggio svizzero? Fare a pugni con le ombre? Piantare chiodi dentro nemici di gommapiuma?”), e l’unica meschina soddisfazione che alla fine riesce a togliersi, nel nuovo Stato “lardellato di vecchi nazisti”, è quella di spargere intenzionalmente lo scolo tra le loro mogli. Il fatto è che egli stesso è compromesso con il nazismo non meno che gli altri ex membri del partito o ex ufficiali della Wehrmacht, e la sua voglia furiosa, manifestata con il suo irrefrenabile digrignamento dei denti, di regolare i conti con loro nasce più dal tentativo di cancellare la vergogna per avere egli stesso partecipato anni prima al feroce pestaggio dell’amico Amsel, colpevole solo di essere ebreo da parte di madre, che da un reale intento palingenetico. Ad un certo punto, verso la metà degli anni Cinquanta, vengono immessi sul mercato dei fantomatici “occhiali della conoscenza” i quali, una volta indossati dalle nuove generazioni, permettono loro di smascherare il passato dei loro genitori (“Nella doppia lente degli occhiali per l'identificazione del padre, si ripetono gli atti di violenza, commessi tollerati provocati undici dodici tredici anni fa: omicidi, spesso a centinaia. Complicità con. Fumare sigarette e stare a guardare mentre. Assassini approvati decorati acclamati. I motivi di omicidio diventano leit-motiv. […] Ogni padre ne ha almeno uno da nascondere”). Nonostante ciò, non avviene nessuna rivolta dei figli contro i loro genitori, come si sarebbe potuto supporre: come prima i padri e le madri avevano conservato i loro segreti fin dentro i sogni, così i figli continuano, chi per pudore, chi per paura di vedere associata la propria figura a quella del familiare, a mantenere la più totale discrezione. “Questo comportamento diventa sempre più la principale regola di vita di tutti gli interessati: dimenticare! Sui fazzoletti, sugli asciugamani, sulle federe dei cuscini e nelle fodere dei cappelli vengono ricamati motti: Ogni uomo deve saper dimenticare. L'oblio è qualcosa di naturale. La memoria dovrebbe essere abitata da ricordi piacevoli e non da insopportabili fetori. Perciò ognuno deve avere qualcosa in cui credere: per esempio Dio; o chi non può in lui, creda nella bellezza, nel progresso, nella bontà dell'uomo o in qualche altra idea. "Noi, qui, in Occidente, crediamo fermamente nella libertà, da sempre." E allora: attività! L'oblio come operosità produttiva.” La satira di Grass è feroce e non risparmia neppure il “wirtschaftswunder” il miracolo economico tedesco, visto come un processo nato dalla necessità di cancellare le ignominiose responsabilità dei potentati economici e finanziari per essersi rassegnati con stolida acquiescenza all’ascesa di Hitler al potere. Lo scrittore tedesco lancia a più riprese le sue frecciatine contro le varie Krupp, Siemens, Bayer e Mercedes, i cui successi vengono beffardamente attribuiti ai magici vaticini dei vermi della farina del mugnaio Matern, al cui cospetto si recano i loro dirigenti per avere anticipazioni sulla congiuntura economica e consigli sulle politiche industriali da intraprendere, così come contro il filosofo Martin Heidegger, l’autore di “Essere e tempo”, il cui filo-nazismo e il cui nichilismo metafisico vengono apertamente presi in giro nel personaggio di Stortebeker, che parla un linguaggio ridicolmente filosofico anche nelle occasioni più prosaiche della vita quotidiana (come quando commenta la cattura di un topo affermando: “Il topo si fa essenza anche senza il topico, ma non può esserci topico senza il topo”). L’ironia dissacratoria di Grass, che non risparmia niente e nessuno, è tanto più spietata quanto più imbocca la strada del surrealismo. Nel finale, ad esempio, si scopre in cosa consiste l’industria messa in piedi da Amsel-Brauxel nelle viscere di una vecchia miniera di plutonio: la creazione di un universo sotterraneo di spaventapasseri automatizzati che riproducono tutte le emozioni umane e tutti gli aspetti, anche quelli più inquietanti e controversi, della società del tempo. Questi spauracchi sono lo specchio deformato, ma intimamente fedele, di un mondo che, mentre si atteggia a evoluto, libero e democratico, continua ad essere impastato di autoritarismo, di opportunismo e di crudeltà, tanto è vero che Matern, condotto a visitare la miniera dall’amico, esclama a più riprese: “Ma è l’inferno, qua dentro!”. Questi spaventapasseri, come spiega Brauxel con dovizia di particolari, vengono venduti in grandi quantità in tutto il mondo, e la loro inesorabile diffusione sembra quasi un morbo esiziale impossibile da arginare. L’amara morale di Grass è che, se è vero che gli spaventapasseri sono fatti a immagine e somiglianza dell’uomo, è altrettanto vero che molti uomini sembrano vivere e comportarsi come gli spaventapasseri animati di Brauxel, mere marionette senza anima e senza coscienza, in balia delle fluttuazioni e delle circostanze della Storia.
“Anni di cani” è la terza parte della cosiddetta “Trilogia di Danzica”, comprendente anche “Il tamburo di latta” e “Gatto e topo”, da cui riemergono alcuni personaggi indimenticabili, come il piccolo Oskar Matzerath, che in una scena è scoperto ad ascoltare insieme ad Amsel il suono della neve che cade sul suo tamburo, oppure Tulla Pokriefke, che ricordavamo dal romanzo precedente come “una specie di sgorbio con le gambe storte”, “fatta di pelle, ossa e curiosità” e che “puzzava di colla di falegname”, e che qui è invece oggetto dell’infatuazione amorosa del cugino Harry Liebenau, o ancora l’ausiliario della Luftwaffe Stortebeker, affascinato dalla filosofia di Heidegger, che diventerà il capo della “banda dei conciatori” descritta nel libro di esordio. Mentre “Gatto e topo” era, a conti fatti, un’opera minore, poco più che un racconto, con “Anni di cani” Grass torna a respirare l’aria rarefatta delle vette letterarie raggiunte quattro anni prima con “Il tamburo di latta”. A paragone dell’Everest rappresentato dal romanzo d’esordio, “Anni di cani” è un K2 molto più impervio, ostico e disagevole da scalare. E’ ad esempio difficile trovare un vero e proprio centro nevralgico che permetta al lettore di orientarsi, dal momento che il racconto è affidato a una triade di narratori, in uno strano, ibrido meccanismo di scrittura collettiva che alterna esperienze, umori e stili molto differenti tra loro e che ricorda a tratti negli esiti l’”Ulisse” di Joyce. Nelle oltre cinquecento pagine di questo romanzo eccessivo, sproporzionato e fluviale (uso non a caso questo termine, dal momento che la Vistola, il fiume che sfocia nella baia di Danzica, assume un’importanza determinante nella prima parte del libro) c’è dentro di tutto: la mitologia nordica (gli dei Perkunos, Pikollos e Potrimpos) e le leggende (i dodici cavalieri e le dodici monache senza testa, il gigante Miligedo), le tradizioni popolari e le favole (l’espressione “c’era una volta” ricorre ben 34 volte), la letteratura epistolare romantica (le lettere di Harry a Tulla) e il teatro brechtiano (la discussione pubblica radiofonica), la cronaca quotidiana e l’affresco storico, in un pastiche che lo apparenta in qualche modo alla coeva letteratura postmoderna (Matern sembra quasi un alter ego teutonico di Benny Profane, mentre la fabbrica di spaventapasseri di Brauxel ricorda l’Università-mondo di “Giles ragazzo-capra”). La caratteristica più pregnante di “Anni di cani” è però la sua visionarietà, che sconfina sovente in una sorta di realismo magico. Ci sono pagine, come quelle dell’incendio che divampa nella birreria ma che risparmia il bancone dove i due amici, incuranti del fuoco, continuano a rievocare il passato comune, o quelle degli spaventapasseri che, come in una staffetta, corrono accanto al treno di Matern per portare ad Amsel la notizia del ritorno dell’amico, o ancora quelle di Amsel e Jenny che escono letteralmente trasformati dai pupazzi di neve in cui erano stati intrappolati, come farfalle da una crisalide, pagine di un surrealismo fantasioso ed esuberante che non sfigurerebbero di fronte ai romanzi di un Garcia Marquez o – perché no? – di un Cartarescu, e che pure non tolgono nulla alla forza derisoria e polemica del pamphlet grassiano. Così come non la tolgono tutti quei personaggi eccentrici, bislacchi o altrimenti memorabili, che paiono usciti dai racconti di Bruno Schulz, come la nonna Matern, immobilizzata da nove anni in soffitta su una sedia, in grado di muovere soltanto i bulbi oculari, che ritrova all’improvviso movimento e parola per scendere in cucina e salvare l’oca che sta bruciando sul fuoco, oppure il mugnaio Matern, capace di predire il futuro con strabiliante precisione grazie alle informazioni suggeritegli dai vermi contenuti nel sacco di farina che tiene costantemente sulla spalla, o ancora il professor Brunies, ossessionato dai minerali, che raccoglie instancabilmente durante le passeggiate con la sua scolaresca, e dalle caramelle al malto, che autoproduce e mangia compulsivamente. Certo, non tutto è a fuoco in “Anni di cani”, e men che meno perfetto. Alcune parti sono innegabilmente ridondanti e prolisse, altre si leggono a fatica per la loro complessità sintattica. Eppure, se solo si riesce ad andare oltre le frasi prismatiche, piene di digressioni ed incisi, oltretutto lasciate spesso a metà (un po’ come se l’autore volesse dimostrare che, quasi che il non detto fosse ritenuto preferibile a, insomma cose così), si può riuscire a intravedere in trasparenza, dietro la satira esagerata e bulimica di Grass, quelle che sono le sue emozioni più intime e profonde, e in particolare la nostalgia, sperimentata dal suo alter ego Amsel (l’artista che crea gli spaventapasseri con tutto quello che gli capita tra le mani, come le assicelle, le frasche e gli stracci portati dalla corrente del fiume) quando cerca a tutti i costi di ritrovare il coltellino regalato all’amico e da questi gettato con noncuranza nella Vistola, la nostalgia – dicevo – di una purezza perduta. “Niente è puro. Neanche la neve è pura. Nessuna vergine è pura […] L'idea, rimane pura? Neanche all'inizio è pura. Gesù Cristo non è puro. Marx Engels non puri. La cenere non pura. E l'ostia non pura. Nessun pensiero si mantiene puro. Neanche l'arte fiorisce pura. E il sole ha le sue macchie. Tutti i geni hanno le loro mestruazioni. Sul dolore nuota la risata. In fondo al gran gridare indugia il silenzio.”
Indicazioni utili
BIOGRAFIA INVENTATA DI UN MASANIELLO SICILIANO
«A seguito di l'accordo che questi potenti ficiro, la nostra terra passa da essiri propietà delli spagnoli a essiri propietà di un duca che di nome fa Vittorio Amedeo di Savoja e che pirciò da duca passa a re. E nui semo sempri uguali a cìciri o a favi che s'accattano e si vinnino». […]
«Tu pensi che con questo re cangia qualichi cosa?» fece Giurlannu Cucinotta.
«E che deve cangiari, Giurlà» intervenne Fofò. «L'accanusci la poisia?».
«Quali poisia?».
«Quella che fa: "Tutti lu sannu, lu sapi puro u mulu / ca u viddranu lu piglia sempri 'n culu." Ti piaci la poisia?».
«No».
«Ma la poisia si può cangiari» fece Zosimo. «Accussì, per esempio: "È scrittu 'n celu, lu jorno spunterà / ca futtemu lu Re, u Papa e a Nobiltà." Chista ti piaci?».
«A cangiari una poisia è facili» commentò Giuggiuzzu Siracusano, ch'era il più vecchiu di tutti. «Lu difficile è cangiari lu munnu».
«Volenno, ci si arrinesci» fece Zosimo addiventato serio.
«E comu?» fece Tanu Gangarossa. «Nun avemu né armi né esercitu, siamo soli e abbannunati, nun avemu putiri, nenti, avemu sulu gli occhi per chiangiri...».
«Una cosa l'avemu» disse Zosimo sempri serio. «La fantasia. Che è l'arma più piricolosa.».
Così come Georges Simenon è diventato un autore di straordinario successo grazie al personaggio di Maigret, ma lo si ricorda negli annali di letteratura soprattutto per i suoi “romanzi duri”, allo stesso modo Andrea Camilleri è noto ai più per il suo eroe maggiormente popolare, ovverossia il commissario Montalbano, ma la parte più considerevole dal punto di vista artistico della sua produzione è sicuramente costituita dai suoi romanzi storici. Lo scrittore di Porto Empedocle ama infatti partire spesso da episodi storici documentati, ancorché poco o nulla conosciuti, per poi svilupparli e rielaborarli in maniera del tutto soggettiva e autonoma, creando così una sorta di falso storico, il quale però, un po’ come avveniva per il Thomas Mann di “Giuseppe e i suoi fratelli”, alla fine risulta più verosimile della realtà tramandata dai testi ufficiali. La cosa più notevole è che Camilleri, pur ambientando le sue storie prima del 1900, sembra sempre avere davanti agli occhi la situazione della Sicilia di oggi, la quale appare anzi, con le sue ben note problematiche sociali, economiche e culturali, proprio come la risultante inevitabile e necessaria dei processi storici avvenuti diversi secoli prima. Questo si nota più che mai ne “Il re di Girgenti”, la cui ambientazione è addirittura a cavallo tra Seicento e Settecento (qualche decennio dopo i “Promessi sposi”, tanto per intenderci), all’epoca della dominazione spagnola prima e quella dei Savoia poi, che tanta sofferenza arrecarono, con il loro malgoverno, la loro corruzione, la loro ferocia repressiva, oltreché con l’esosità delle loro tasse e gabelle, alla popolazione dell’isola. Camilleri crea un quadro storico molto circostanziato, citando episodi come il terremoto del 1693, la controversia liparitana del 1711 (già trattata da Sciascia nella sua “Recitazione” scritta trent’anni prima) o la pace di Utrecht del 1713, e all’interno di questa cornice sviluppa la storia di uno dei tanti capipopolo che in quegli anni si fecero portavoce, con rivolte destinate inevitabilmente al fallimento, del malcontento della classe contadina, costretta dai dominatori stranieri a una vita di stenti, di fame e di sofferenza. Il protagonista Michele Zosimo è una sorta di Masaniello siciliano, che grazie alla sua innata intelligenza e alle sue doti di empatia e di saggezza, diventa ben presto il paladino della popolazione di Montelusa contro i soprusi e le soperchierie del potere laico e di quello religioso. Grazie alle sue imprese coraggiose e temerarie, e a dispetto della sua giovane età, riesce a far sì che i suoi concittadini possano superare indenni la carestia (costringendo l’avido vescovo a distribuire obtorto collo le sue ingenti scorte di frumento), a mitigare gli effetti della peste (bruciando tutte le chiese della città e così impedendo gli assembramenti che avrebbero propagato il contagio) e a punire l’odiosa Inquisizione che aveva ucciso il venerato padre Uhù (trasformando il cadavere del poveruomo bruciato sul rogo in una sorta di ordigno devastante). La sua ascesa arriva fino al punto di costituire un piccolo esercito, dare l’assalto al palazzo del Governo e al castello dove sono acquartierati i soldati piemontesi e, una volta conquistata la città, farsi proclamare re, dopo avere inciso sul tronco di un sorbo le proprie leggi rivoluzionarie (curioso anacronismo di un metodo arcaico di far conoscere la legge, quasi una sorta di tavola di Hammurabi vegetale, e di norme che per contro sembrano preannunciare l’Illuminismo o addirittura, in quella idea di fratellanza universale tra popoli, anticipare di due secoli la novecentesca Società delle Nazioni).
Nonostante che il romanzo abbondi di lutti e di tragedie, di sofferenze e di atrocità, e non sia, come è fin troppo facile immaginare, a lieto fine, dal momento che la storia si può sì reinventare con la fantasia, ma non ribaltare nei suoi esiti ultimi (a meno di non trovarsi in un film di Quentin Tarantino), il tono adottato da Camilleri, e la cosa non deve stupire chi conosce almeno un poco l’autore siciliano, è tutt’altro che lugubre e pessimistico. “Il re di Girgenti”, che per inciso è l’opera più lunga e a mio parere anche più ambiziosa mai scritta dello scrittore empedoclino, strabocca infatti di storie picaresche, di aneddoti curiosi e di personaggi originali (si pensi a padre Uhù, che gira per le campagne con la sua croce in spalla in cerca di diavoli da esorcizzare, al mago Apparenzio, che legge il futuro di Zosimo, riconoscendone per primo l’eccezionalità, o il brigante Salamone, che lo incita a “ristari sempri uniti, aiutaricci l’uno con l’àutro” e a guardarsi “dalli nobili e putenti” che “sono latri, sasini e pripotenti”), storie, aneddoti e personaggi che il vernacolo siciliano, che qui per ovvie ragioni (dal momento che il romanzo è popolato soprattutto di “viddrani, bracciatanti e povirazzi”) è più utilizzato del solito, rende assai saporiti e divertenti. In tutto il testo inoltre il realismo di fondo va di pari passo con un tono favolistico, che richiama alla lontana “I nostri antenati” di Italo Calvino o la “Lunaria” di Vincenzo Consolo. Basti pensare alla scena della nascita di Zosimo, con Filonia che si trova a partorire da sola, circondata solamente dalle bestie della casa, le quali, al termine del parto, in una sorta di bizzarra Adorazione in chiave animale, porgono alla madre e al figlio i loro doni: la gallina fa cadere un uovo caldo da succhiare, la capra offre le sue mammelle gonfie di latte e il cane pulisce con la lingua la pelle del neonato il quale, anziché mettersi a piangere come ci si sarebbe aspettato, inizia a ridere di gusto come un uomo fatto. Qua e là fa capolino anche qualche elemento sovrannaturale (come quando Zosimo fa terminare la siccità grazie al rogo dei suoi libri), e ciò ha fatto parlare qualcuno di “realismo magico”, ma questa è solo una suggestione tra le tante, così come lo è l’influenza del Manzoni nelle pagine storiche. Il fatto è che “Il re di Girgenti” è un libro tipicamente camilleriano, a partire dall’evocativo idioletto, che non deve essere confuso con il dialetto siciliano tout court, ma che, per la sua musicalità, a me fa sempre venire in mente il grammelot che ha reso celebre Dario Fo. Ci sono poi i finti documenti storici, i memoriali apocrifi dell’epoca, che Camilleri dissemina qua e là per accrescere l’impressione di verosimiglianza dei fatti narrati. Non manca inoltre il gusto ironico e beffardo con cui lo scrittore affronta anche le tematiche più spinose, e con cui il protagonista si muove sul palcoscenico del mondo e cerca di risolvere tutti i problemi e le complicazioni che si trova di fronte, mantenendo sempre la fantasia a fargli da bussola, da stella polare: si pensi alla burla dell’acqua mescolata all’olio, con cui i concittadini di Montelusa riescono a evitare la requisizione del loro olio e contemporaneamente a far punire dal Viceré l’odioso duca Pes y Pes, o ancora a quella della finta apparizione del santu Campagnolo, orchestrata da Zosimo per placare il senso di colpa dei tanti fedeli che, per non stare né col papa ne col re, non possono più frequentare le funzioni religiose o prendere i sacramenti. Accanto ai topoi, agli archetipi della letteratura camilleriana, è presente però qui per la prima volta un elemento di forte novità rispetto agli altri romanzi dello scrittore di Porto Empedocle, cosa che rende a mio avviso “Il re di Girgenti” forse la sua opera più suggestiva e compiuta. Sto parlando del sentimento, dell’emozione, che tracimano dalle pagine più apologetiche o da quelle più sarcastiche, per dar vita a momenti di pura poesia, e financo di commozione. Quando ad esempio Ciccina, la moglie di Zosimo, muore cadendo da una scala, l’uomo, in preda alla disperazione, corre fino alla grotta di padre Uhù e lì, con un rudimentale flauto costruito con una canna, suona la musica che il vecchio mentore gli aveva insegnato per fermare un istante i morti prima che scendano nel luogo da cui non si torna, e in quel momento Ciccina, evocata da quel suono sconsolato, soffiato nello strumento come se fosse l’ultimo gesto della sua vita, gli appare nella nebbia vestita con l’abito da sposa, mentre si muove lentamente dandogli le spalle e si volta un’ultima volta a guardarlo negli occhi, prima di continuare il cammino e, come Euridice, sparire nell’oscurità. Il capitolo finale è altrettanto meraviglioso, e la scena di Zosimo sul patibolo, che immagina di aggrapparsi al filo di una comerdia, di un aquilone, per volare nel cielo, e da lì osservare, con leggerezza, con liberazione, con allegria perfino, la scena dell’impiccagione e il se stesso che penzola dalla forca, fa capire alla perfezione quanto Camilleri sia uno scrittore di razza, unico e inimitabile.
Indicazioni utili
APPRENDISTATO DI UN NICHILISTA
“L’emozione è tutto nella vita
Quando siete morti è finita”
(Vinicio Capossela, “Bardamu”)
“Morte a credito” racconta gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza di Ferdinand Bardamu, l’alter ego letterario di Céline, ed è quindi una sorta di prequel del “Viaggio al termine della notte”. Chi si aspettasse però, in virtù di questo semplice dato cronologico, una narrazione meno disturbante e disperata, più leggera e disimpegnata, del suo precedente, più famoso, capolavoro resterebbe profondamente sconcertato e deluso. Dietro la scrittura irriverente, iconoclasta e scandalosamente divertente di Céline si avverte infatti anche qui, non meno che nel “Viaggio”, un inconfondibile sentore di solitudine, di acredine e di dolore. La “morte” del titolo si affaccia in scena fin dalle prime righe: “Eccoci qui, ancora soli. C’è un’inerzia, in tutto questo, una tristezza… Fra poco sarò vecchio. E la sarà finita, una buona volta”. E poi, inopinatamente: “Ieri alle otto di sera la signora Bérenge, la portinaia, è morta”. Bisogna sempre tenere presente questo retrogusto amaro (“l’incredibile acre gusto… non se ne andrà mai più”), perché la morte è sempre dietro l’angolo e, a dispetto di tutte le picaresche avventure di Ferdinand, è proprio lei la vera protagonista del romanzo, pronta a prendersi, con macabri colpi di scena, il primissimo piano, come dimostrano gli sconvolgenti suicidi di Nora Merrywin e di Courtial de Pereires, che segnano repentinamente la fine dei rari, quanto mai provvisori momenti di tregua nell’esistenza di Ferdinand. Quella di Bardamu è un’infanzia “dickensiana”, intrisa di povertà e di violenza, popolata di esseri pusillanimi e meschini, insensibili ed egoisti, ma, a differenza che in un “David Copperfield” o in un “Oliver Twist”, qui manca del tutto non solo il lieto fine, ma anche la semplice speranza che la vita possa migliorare, ancorché impercettibilmente, in un prossimo futuro, e non essere semplicemente una crudele e spietata scuola di nichilismo. Il mondo familiare di Ferdinand, caratterizzato da miseria nera, da piccoli commerci che rendono meno della fatica che si è costretti a sobbarcarsi, da liti domestiche e rancori con il vicinato, e poi quello esterno, fatto di lavori mal pagati o non pagati affatto, di soprusi e di truffe, di promiscuità e di guai con la legge, sono tuttavia descritti senza alcun pathos drammatico, e soprattutto senza una vera e propria partecipazione emotiva da parte dell’autore, in grado di trasformare Ferdinand nel protagonista sfortunato di un’opera di critica sociale, ma al contrario con quel distacco cinico, con quella ironia caustica, così tipicamente céliniani, che non portano mai al riso liberatorio, benché le vicende narrate siano sotto certi punti di vista sommamente spassose, ma fanno semmai sogghignare il lettore a denti stretti, giacché l’umanità di Céline è una versione non edulcorata di quella a noi contemporanea, grottescamente deformata – è vero – eppure lo stesso riconoscibilissima. Gli strali dello scrittore francese non risparmiano praticamente niente e nessuno: l’istituzione familiare, la giustizia, la religione, la scienza ed il progresso (quegli inventori che assillano senza tregua Courtial e che assomigliano a un esaltato manipolo di pazzi fanatici…). Perfino il linguaggio è messo in discussione, come dimostra la profonda sfiducia che nutre nei suoi confronti Ferdinand, il quale, nel corso del suo soggiorno inglese, conscio che le parole vengono quasi sempre usate da quelli più grandi di lui per ingannare e per mentire, per circonvenire e per raggirare, si chiude in un impenetrabile mutismo: curioso atteggiamento da parte di chi, da grande, deciderà di intraprendere la carriera di romanziere!
Ci sono scrittori che andrebbero sempre letti a voce alta, per apprezzare meglio il ritmo, la musicalità della loro prosa. Si pensi ad esempio a Saramago, a Bernhard, a Guimaraes Rosa, a Gadda, le cui opere guadagnano enormemente da una lettura che dia forma sonora a quelle particolarissime architetture lessicali, con le loro pause ariose o i loro vorticosi crescendo, le loro poetiche sospensioni o le loro ossessive iterazioni, le loro inconfondibili cadenze o i loro dialettali neologismi. Louis-Ferdinand Céline è a tutti gli effetti uno di questi autori, abilissimo com’è a usare le parole come le note su uno spartito, quasi fosse una sorta di Paganini del romanzo. La sua scrittura è infatti pirotecnica e strabiliante, spiazzante e provocatoria, un curioso e originalissimo mélange di argot vernacolare e di linguaggio colto, che fa di Céline un bizzarro ircocervo: autore popolare da una parte, fino a sfiorare la volgarità e la blasfemia (quante frasi, espunte dalla censura nell’edizione originale, sono state solo in seguito reintrodotte tra parentesi quadre), ed elitario, ostico e respingente per la grande maggioranza dei lettori, dall’altra. “Morte a credito” non possiede forse la forza espressiva e la carica innovativa del “Viaggio al termine della notte”, ma certe sue pagine sono comunque degli autentici tour de force stilistici: penso ad esempio ai febbrili deliri di Ferdinand, veri e propri capolavori dadaistici, o ancora a scene genialmente raccapriccianti, come l’omerica “vomitata” sul traghetto nel corso della turbolenta traversata della Manica, oppure la descrizione del ritrovamento del corpo di Courtial, con la sua faccia orrendamente devastata dallo sparo del fucile. E’ proprio per brani come questi che ritengo che Céline sia, al di là di ogni considerazione sulle sue discutibili opinioni politiche, uno dei più grandi scrittori del Novecento, capace di conquistare innumerevoli schiere di estimatori, ma talmente unico, come tutti i precursori troppo in anticipo sul loro tempo, da non aver lasciato dietro di sé alcun vero epigono in grado di accampare fondati diritti sulla sua peculiarissima, inimitabile eredità artistica.
Indicazioni utili
GIUSEPPE IL NUTRITORE
“Grande è l’arte dello scrivere! Ma cosa più grande ancora è quando la vita che si vive è essa stessa una storia.”
“Giuseppe in Egitto” si era chiuso con Mut-em-enet che aizzava la servitù della casa contro Giuseppe, il “mostro ebreo”, falsamente accusandolo di aver attentato con la violenza ai danni della sua virtù. Per far ciò, la moglie di Potifar fa leva sulla più retriva demagogia sciovinista, titillando l’orgoglio di razza dei suoi sottoposti egizi per incitarli a ribellarsi contro l’abietto usurpatore straniero. Come risuonano tristi e profetiche le parole di Mut-em-enet, alla vigilia di quella che sarebbe nel volgere di brevissimo tempo diventata la più grande e vergognosa tragedia del ventesimo secolo, la Shoah, il genocidio del popolo ebreo per mano dei connazionali di Mann, i nazisti tedeschi! E in quale nuova, sorprendente luce ci appare l’intero ciclo di “Giuseppe e i suoi fratelli”, se si pensa che l’ultimo suo capitolo, pubblicato nel 1943, è praticamente contemporaneo agli orrori di Auschwitz, Birkenau e Dachau! In “Giuseppe il nutritore” non mancano velate allusioni al nazismo, come quando Giuseppe, giustificando davanti al Faraone l’uso della forza in determinati frangenti storici, dice: “Che cosa vorresti tu fare con re predoni che incendiano, saccheggiano e taglieggiano? Tu non puoi insegnare loro la pace di Dio, perché sono troppo stupidi e malvagi per comprendere. Gliela puoi insegnare soltanto battendoli […] Stolida è la spada, eppure non vorrei dire accorta la mansuetudine. Accorto è l’intermediario che a quest’ultima consiglia la fortezza”. Nonostante che il conflitto mondiale, con bellicosi popoli che premono ai confini e terribili carestie, aleggi costantemente sullo sfondo, “Giuseppe il nutritore” è comunque di gran lunga il romanzo più “leggero” dell’intero ciclo. Persino la iniziale prigionia di Giuseppe, la sua seconda “caduta nella fossa” (dopo quella drammatica provocata dai fratelli invidiosi nel secondo capitolo, che lo aveva portato a un passo dalla morte), si rivela tutto sommato un castigo lieve, quasi simbolico, in quanto il protagonista si trova di fronte un carceriere estremamente umano, giusto e sensibile, al punto che, quando Giuseppe entrerà nelle grazie del giovane Faraone per avere interpretato i suoi enigmatici sogni, egli ne farà, in un bizzarro scambio di ruoli, il suo fedele maggiordomo. La tetralogia di “Giuseppe e i suoi fratelli” assomiglia perciò a un fiume che, dopo le rapide vorticose, progressivamente si acquieta per tornare a fluire placidamente e senza fretta in prossimità della sua foce. Giuseppe dopo tanti anni riesce finalmente a incontrare i suoi fratelli, giunti dalla loro lontana terra per acquistare cereali, si palesa, dopo un’ingegnosa messinscena, ai loro occhi, increduli di trovarsi di fronte, nei panni di un potente dignitario egizio, al loro fratello perduto, li perdona magnanimamente per i loro antichi misfatti e giunge perfino a far trasferire in Egitto l’intera tribù di Israele e a riabbracciare il vecchio e amato padre che lo credeva morto, e che quindi può solennemente morire in pace. Sintetizzato così sembra il più classico e scontato degli happy end, anche se va detto che Mann non inventa nulla di nuovo rispetto al testo biblico. Il tutto è però raccontato dallo scrittore tedesco con una leggiadra e incomparabile ironia, conscio com’è che “tutto deve compiersi nel più ilare dei modi, come uno scherzo solenne” e che “l’ilarità, l’arguto scherzo sono quanto di meglio Dio ha concesso agli uomini”. In “Giuseppe il nutritore” ritorna così quell’ironica levità che aveva caratterizzato “Le storie di Giacobbe”, ossia il tomo introduttivo della tetralogia. Si prenda ad esempio la storia dell’ambiziosa e risoluta Thamar, che vuole a tutti i costi entrare con un ruolo di primo piano nella storia di Israele (e che infatti diventerà la progenitrice del re Davide), il cui inganno ai danni di Giuda, da cui si fa mettere incinta a sua insaputa, ricorda non a caso la beffa del furto della primogenitura di Esaù o quella ordita da Giacobbe contro Labano per liberarsi dal suo odioso giogo.
La leggerezza di “Giuseppe il nutritore” non deve però far pensare che il coté intellettuale del libro sia affievolito rispetto a quello dei suoi predecessori. In esso infatti si narrano miti (quello, ad esempio, del dio-bambino nella caverna), si discetta dottamente di dèi in conflitto tra loro (Aton e Amun) o al contrario misteriosamente affini (Aton e Jahvè), si discute di questioni filosofiche e di astrusi sofismi (l’essere come punto di incidenza tra il non-essere e l’essere-per-sempre), si interpretano sogni come se fossero messaggi in codice della divinità. Non inferiore è poi la componente meta-letteraria del romanzo, giacché più volte, come nei libri precedenti, Mann cerca di accreditare la sua storia come più realistica, più veritiera di un originale “la cui laconicità poco risponde al modo in cui la storia raccontò originariamente se stessa, cioè a come la realtà storica si svolse a suo tempo”. Mann scrive così “non con la disinvolta imprecisione della leggenda, bensì con la ragionevole riserva che impone il rispetto per il reale svolgimento dei fatti. Qui infatti non si millanta, ma si racconta”. Pertanto lo scrittore di Lubecca non si fa scrupolo di fermare la narrazione per fare una precisazione psicologica, oppure per chiarire un’inesattezza storica, o ancora per stemperare le esagerazioni del mito (come quando mette in dubbio che gli anni della carestia siano stati effettivamente sette, o i componenti della tribù di Giacobbe precisamente settanta, lasciando intendere che chi ha tramandato la storia abbia voluto privilegiare dei numeri considerati sacri rispetto ad altri meno emblematici). Mann si pone quindi come un mediatore tra la storia che in origine si è raccontata da se stessa e la storia come è giunta, con i suoi travisamenti e i suoi malintesi, fino alle nostre generazioni, ed in fin dei conti si fa egli stesso protagonista con le sue riflessioni parallele alle vicende di Giuseppe.
Il leit motiv del romanzo, sotteso alle numerose e avvincenti storie di Giacobbe e di Giuseppe, resta comunque soprattutto uno: la scoperta di Dio da parte dell’uomo. E’ curioso come questo sentimento religioso, che da Abramo in poi si fa sempre più raffinato, presupponga un atteggiamento che a molti potrebbe apparire addirittura presuntuoso ed egocentrico, ossia mettere il proprio io e la propria salvezza al centro di tutte le cose, come essenziale premessa per la creazione di un Dio insieme universale e personale. Parlo di creazione non a caso, perché se l’uomo ha bisogno di Dio per decifrare e portare a compimento il proprio destino, diventandone docile strumento dei suoi disegni, allo stesso modo Dio necessita dell’uomo per rivelarsi e venire alla luce. Nel gustoso e quasi umoristico “Preludio tra le gerarchie celesti” si immagina addirittura un Dio che ambisce a farsi incarnazione di un popolo per poter essere come gli altri dèi, per scendere dal suo algido e solitario iperuranio e sperimentare quella vitalità che l’uomo deve aver provato con il peccato originale, quando ha rinunciato alla perfezione dell’Eden per l’attrazione verso la materia, l’informe, la vita. E’ questo, secondo Mann, il misterioso motivo che porta alla nascita del patto stretto da questo Dio, geloso e collerico non meno che sommamente sapiente e giusto, con i patriarchi dell’Antico Testamento, da Abramo giù giù fino a Giuseppe, e che lo scrittore tedesco descrive con un’ineguagliabile vena, non soltanto mistica e religiosa, ma anche e soprattutto umorosa, viscerale e carnale, facendone il centro di gravità di un’opera che parla, in una maniera solo apparentemente contraddittoria, di cose ultraterrene mentre contemporaneamente narra di passioni e di speranze, di amori e di rancori, di vendette e di riconciliazioni estremamente terreni, come se Giuseppe e i suoi fratelli fossero in tutto e per tutto nostri contemporanei. In questo, io credo, risiede la grandissima forza espressiva, e in ultima istanza il fascino, di un’opera dalle ambizioni smisurate, ma che si legge con grande facilità, trascinante come un romanzo d’amore o d’avventura e leggero, a dispetto della sua mole, come una nuvola o come una piuma.
Indicazioni utili
DIRE L'INDICIBILE
“Allora, sulla soglia della dannazione, ecco che io ho mangiato la vita e io sono stata mangiata dalla vita. Capivo che il mio regno è di questo mondo. E lo capivo per quanto di infernale c’è in me. Poiché in me stessa io ho visto com’è l’inferno.”
All’inizio de “La passione secondo G.H.” Clarice Lispector piazza una significativa premessa: “Questo libro è un libro come un altro ma avrei piacere fosse letto solo da persone dall’anima già formata. Quelle persone sanno come l’avvicinamento a ogni cosa avvenga per gradi e con sofferenza – e passando talvolta attraverso l’opposto di ciò che è la meta. Quelle persone e solo loro capiranno [….]”. La scrittrice brasiliana mette subito le mani avanti e pone il lettore sull’avviso. E’ come se dicesse: “Attenzione, questo libro potrebbe urtare seriamente la vostra sensibilità!”, e declinasse per mezzo di questa puntigliosa raccomandazione ogni responsabilità per le conseguenze derivanti da un incauto utilizzo dell’opera. In effetti, l’avvertenza dell’autrice è tutto fuorché esagerata, giacché “La passione secondo G.H.” è un libro a dir poco disturbante, a tratti addirittura scioccante, oltre che impervio e faticoso al di là di ogni umana immaginazione. Non si può neppure dire che esso sia un vero e proprio romanzo: se davvero volessi trovargli a tutti i costi una definizione, forse potrei parlarne come di una cronaca oggettiva, fedele, minuziosa fino ai particolari più vergognosi e più ripugnanti, di uno sconvolgimento, di una catastrofe. Una catastrofe però, tengo a precisare, senza pathos e senza emozione, o meglio, con le parole stesse dell’autrice, “senza fragore e senza tragedia”. La Lispector nega al lettore ogni manifestazione di empatia nei confronti della protagonista, di cui infatti ci vengono rivelate solo le iniziali, G.H., e pochissime altre informazioni: che è una donna senza marito né figli, che è attraente e finanziariamente indipendente, che vive in un elegante attico di un lussuoso condominio. Quando una mattina decide di dedicarsi alla pulizia dell’appartamento ed entra nella stanza della domestica che ha da poco lasciato il servizio, la sua vita cambia radicalmente. La vista di una blatta in quell’ambiente nudo e spoglio come un minareto o come la camera di un ospedale psichiatrico destabilizza una psiche presumibilmente fragile e sovreccitata e fa crollare inesorabilmente, come un precario castello di carte, la sua apparentemente inattaccabile esistenza, fatta di “ricamo, amore e anima già formata”. La Lispector descrive l’allontanamento progressivo e inarrestabile di G.H. dalla realtà come un “tranquillissimo delirio”, con la blatta che, rimasta prigioniera, col corpo schiacciato a metà nell’anta dell’armadio, fa da muta testimone al lucido farneticare della donna. La blatta fa venire subito in mente, come un riflesso condizionato, Franz Kafka, ma la similitudine tra i due scrittori, al di là del loro essere entrambi ebrei, è solo apparente. In Kafka lo scarafaggio è infatti la metafora di una condizione di esclusione sociale o di alienazione esistenziale, mentre al contrario ne “La passione secondo G.H.” c’è una sorta di sovrapposizione, di immedesimazione tra la protagonista e la blatta (“La verità è che io avevo guardato la blatta viva e in lei scoprivo l’identità della mia vita più profonda”). Se di metamorfosi si può ancora parlare è la “metamorfosi di me in me stessa”. G.H. scende nelle caverne sotterranee, ctonie, del proprio io, e vi ritrova la materia viva, primitiva ed ancestrale, di cui è fatto il mondo. Davanti alla blatta scopre tutto l’orrore, ma anche l’ambiguo fascino, dell’inumano. Allontanatasi definitivamente dalle sovrastrutture artificiali della vita precedente, con il suo ordine, le sue regole e le sue leggi, la donna si ritrova in un non-luogo, in una sorta di deserto psichico, dove non esiste più il passato né il futuro, ma soltanto l’adesso (“Quello che io voglio è l’immediato e senza abbellirlo di un futuro che lo redima, senza abbellirlo neppure della speranza”). Se la trascendenza è un retaggio del passato, ecco allora che non rimane se non una totale immanenza (“Voglio il tempo presente che non ha promessa, che è, che sta essendo”) e l’abbandono all’inumano, al demoniaco. In uno dei pochi momenti lirici del testo, G.H. immagina di aver rubato il cavallo da caccia del re del sabba e di aver galoppato tutta la notte, con incosciente bramosia, nell’inferno della gioia, risvegliandosi la mattina dopo al bordo di un ruscello, senza ricordare assolutamente nulla. G.H. sa di essere stata catturata dal demoniaco e sa che il satanico trotto del cavallo è ormai dentro di lei per sempre. “So che di notte, quando lui mi chiamerà, io andrò. Voglio che sia ancora una volta il cavallo a condurre il mio pensiero. […] Quando, di notte, lui mi chiama verso l’inferno, io vado. Scendo giù come un gatto per i tetti. Nessuno sa, nessuno vede. Mi presento nell’oscurità, zitta e sfolgorante. […] All’alba vedrò noi due esausti presso il ruscello, senza sapere quali sono stati i nostri crimini fino al sopraggiungere dell’alba. Sulla mia bocca e sulle sue zampe la traccia del sangue. Cosa abbiamo immolato?” La sofisticata donna borghese di prima si è ormai trasformata, si è messa a quattro zampe e, strisciando, si è presentata alle porte dell’inferno, scoprendo l’attrazione dell’abominevole, dell’immondo, dell’amorale: “Io ero giunta al nulla, e il nulla era vivo e umido”.
A dire il vero, la protagonista si aggrappa ancora, di quando in quando, a una fantomatica mano da stringere, a un non meglio precisato amore, forse nell’estremo tentativo di impedire la definitiva disumanizzazione, la caduta nel mondo infernalmente libero della blatta, ossia della materia nuda e cruda, privo di orpelli, di regole e di valori. Ma è tutto inutile: per chi ha tagliato definitivamente i ponti con il passato, non c’è più la possibilità di tornare indietro, alla vita precedente, ma solo la discesa, graduale e inesorabile, verso il nucleo più profondo dell’esistenza, e la scoperta, con orrore e allo stesso tempo con incanto, che questo nucleo è neutro, opaco e indifferente (“la vita ha il purissimo sapore del nulla”), proprio come gli occhi della blatta morente che, davanti a G.H., guardano senza più sentimenti, al di là perfino del dolore. La protagonista scopre che “essere vivo è una compatta indifferenza che irradia. Essere vivo è inaccessibile alla più acuta sensibilità. Essere vivo è inumano”. La verità cui è faticosamente giunta G.H. è una verità in negativo, in quanto si riduce a qualcosa che non avrà mai la possibilità di comprendere: “Ciò che sembra mancanza di senso – è il senso. Ogni momento di mancanza di senso è l’esatta spaventosa certezza che lì c’è il senso”. La verità è un enigma, ma la sua spiegazione è solo, nella maniera più sconfortante, la ripetizione dell’enigma stesso. Cessare di capire è allora l’unico modo per capire, cessare di essere è l’unico modo per essere: “quanto meno sono, più vivo, quanto più perdo il mio nome, più mi chiamano, […], quanto più ignoro la parola d’ordine, più compio il segreto”. L’estremo gesto di questa spersonalizzazione, il definitivo suggello alla conquista dell’inumano, è il momento più conosciuto del libro, sicuramente il più intollerabile e disgustoso: in bilico tra follia e realtà, G.H. si ciba della blatta come atto di suprema catarsi nella materia, di superamento di ogni tabù, quasi fosse una blasfema eucarestia. Assistiamo qui al definitivo superamento della morale, anzi alla creazione di una nuova morale, una morale “talmente estranea da non poterla neppure capire e da esserne sconcertata”. In questa morale non c’è spazio per la bellezza, per l’empatia o per la bontà, ma solo per la materialità delle cose, per l’inumano appunto (“L’umanità è fradicia di umanizzazione. […] Esiste una cosa che è più ampia, più sorda, più profonda, meno buona, meno cattiva, meno bella. Sebbene pure quella cosa corra il pericolo di trasformarsi, nelle nostre mani grossolane, in purezza”). Il superamento, il rinnegamento dell’io avviene nel segno di una libertà incondizionata (“infine si era davvero spezzato il mio involucro e io ero senza limite”), anche se questa infinitezza non può che sussistere in un’accezione giocoforza negativa: “Non essendo, io ero. Sino alla fine di ciò che non ero, io ero. Ciò che non sono, io sono. Tutto sarà in me, se io non sarò; perché “io” è appena uno degli spasmi istantanei del mondo”. Al termine di questo agghiacciante deliquio, rimane una negatività talmente profonda, talmente assoluta, da assomigliare a una rivelazione, ma anche alla follia.
Con “La passione secondo G.H.”, Clarice Lispector ha tentato di dare voce all’inesprimibile, di “dire l’indicibile”. Non è solo la protagonista, ma anche la scrittrice, e noi lettori con lei, ad addentrarsi in territori vergini, inesplorati, mai percorsi prima da essere umano. “Dovrò forzarmi di tradurre l’ignoto in una lingua che ignoro. […] Parlerò in quel linguaggio sonnambulo che se io fossi sveglia non sarebbe linguaggio”. Il risultato di questo sforzo è un exploit letterario formidabile, in cui la scrittrice brasiliana fa tabula rasa di tutta la cultura occidentale per descrivere l’afasia, l’alienazione, la crisi dei valori dell’uomo moderno. La Lispector bordeggia i territori della psicosi, ma, paradossalmente, il suo linguaggio non è quello sconnesso, squilibrato della pazzia, non è neppure quello survoltato dell’allucinazione, bensì quello da una parte lucido, preciso e meticoloso (ogni capitolo inizia ad esempio con la frase che aveva chiuso il capitolo precedente, quasi a rafforzare, raddoppiandolo, il suo significato), dall’altra incantato e sublime di chi guarda da altezze vertiginose la lontananza del mondo. Il romanzo è inoltre pieno di riferimenti religiosi: c’è il deserto dell’Antico Testamento, c’è la passione del titolo che richiama quella di Gesù, c’è (lo abbiamo visto) l’eucarestia e ci sono perfino le preghiere (“Benedetto il frutto del ventre tuo”, declama G.H. guardando la materia biancastra che fuoriesce dal corpo della blatta, “benedetta tu sia fra le blatte, adesso e nell’ora di questa tua mia morte”). Dio è citato spessissimo, ma a ben vedere è un dio incomprensibile, un dio che si confonde col nulla o col demoniaco, o forse è lo specchio in cui si riflette l’immagine deformata dell’io (“Che cosa Sei? e la risposta è: Sei. Che cosa esisti? e la risposta è: ciò che esisti”). La Lispector lancia al lettore domande gigantesche, ultraterrene, ma gli nega ogni possibilità di udire una qualche risposta. Tutto il libro è anzi pieno di cortocircuiti logici (“Tutta quella realtà io la vivevo con un sentimento di irrealtà della realtà”; “l’inferno è il dolore come godimento della materia”), che destabilizzano e non ci fanno mai stare in una posizione comoda e sicura. Quello che leggiamo, così astratto e insieme così concreto, non è un’esperienza onirica (anche se, analogamente a un sogno, anche qui si scopre che la logica non ha senso), tanto è vero che tutto si svolge alla luce di una giornata assolata e caldissima. Ciononostante la Lispector, con un coraggio sovrumano, riesce a scandagliare l’inconscio più segreto, remoto e inaccessibile dell’uomo come nessun onirista sarebbe in grado di fare. Il lettore che avrà la forza di resistere a un libro che supera di slancio, con spregiudicata temerarietà, le colonne d’Ercole della letteratura “normale”, per affrontare un ignoto dalle conseguenze pericolose e imprevedibili, godrà alfine, dopo aver rischiato di finire soffocato da una prosa che non lascia un solo attimo di respiro o annientato da una storia quanto mai sgradevole e scabrosa, godrà alfine di un piacere raffinato e ineffabile, in qualche modo simile a quello provato dalla protagonista quando dice: “stavo nell’inferno trapassata dal piacere”.
Indicazioni utili
IL MIRACOLO DELLA VITA
“Allora apro gli occhi e comincio a sognare”
Giunti al termine della lettura di “Abbacinante” si può apprezzare pienamente la simmetria sottesa alla costruzione della trilogia. Così come i titoli dei tre libri fanno riferimento alla figura della farfalla, in cui le due ali si presentano come immagini speculari rispetto al suo corpo, allo stesso modo ogni singolo volume può essere idealmente attribuito a un personaggio distinto, ossia Marioara nel primo e Costel nel terzo, le cui vite riflettono e compendiano quella del figlio Mircea, protagonista assoluto dell’intera trilogia, ma soprattutto perno unico e incontrastato della sua parte centrale. Ne “L’ala sinistra” ad esempio era stata narrata favolisticamente la discendenza di Marioara da Vasili, il ragazzo senz’ombra della stirpe dei Badislav, mentre ne “L’ala destra”, in modo altrettanto mitico, si racconta delle nozze mistiche, in una magica villa sul lago di Como, del principe Witold, appartenente all’aristocratica famiglia polacca degli Csartarowski, con Miriam, una ragazza ebrea che diventerà la bisavola di Costel. Con questo espediente leggendario Mircea si attribuisce una genealogia fuori del comune, un po’ – se vogliamo – come nei Vangeli di Matteo e di Luca, in cui Giuseppe viene fatto discendere dal re Davide, in modo da poter attribuire a Gesù la legittimazione di ultimo germoglio dell’albero di Jesse. Il riferimento alla Bibbia non è così peregrino, giacché l’opera di Cartarescu avoca a sé in diverse circostanze la qualifica di “vangelo”. E’ la singolare e particolarissima teleologia dell’autore romeno, secondo cui l’uomo è come un bruco, incapace di immaginarsi una realtà diversa dal suo essere un banale organismo amorfo, un semplice tubo digestivo dotato di vista, eppure destinato a trasformarsi in una mirifica farfalla, simbolo dell’anima che anela con tutta se stessa a un’ultravita trascendente e miracolosa. Siccome la salvezza non è malauguratamente per tutti, ma, similmente allo spermatozoo che, unico tra i milioni di altri spermatozoi, riesce a fecondare l’ovulo, è appannaggio solamente di un essere eletto, predestinato, Cartarescu attribuisce un carattere messianico a se stesso e alla sua opera. Non deve sorprendere perciò che in ogni pagina di “Abbacinante” l’unica parola che conta è: io. Autobiografia folle e visionaria, che si affida ai sogni e alle visioni per recuperare un passato in cui si nasconde il segreto più autentico dell’esistenza, “Abbacinante” è perciò stracolmo di momenti onirici, allucinati, in certi momenti simili a un vero e proprio trip lisergico. Nel suo megalomane ma indubbiamente geniale monologare, l’autore non si fa scrupolo di scomodare una misteriosa setta, gli Scienti, il cui compito è quello di volgere il corso della Storia per far sì che, al suo termine, il giovane Mircea sia in grado di scrivere il suo manoscritto; rischia consapevolmente il ridicolo descrivendo una sorta di miracolosa concezione, quando un bambino nasce dentro il cranio di Herman, “l’uomo della sofferenza”, cresce al suo interno come un tumore e viene dato alla luce in una sorta di apocalittico finale, in cui lo stesso Padreterno fa capolino, assiso sul suo trono, sopra la cupola della Casa del Popolo di Bucarest; e dissemina l’intero libro di altre fantasmagoriche sequenze oniriche, come quando Mircea vola sui tetti della capitale, risvegliando un intero popolo di statue, atlanti, cherubini, mascheroni e gorgoni che si animano e scendono dalle facciate e dai piedistalli per incontrarsi nell’oscurità deserta e silenziosa della notte, oppure quando Mircea sogna di scendere in un buio e profondo seminterrato dove ci sono le macchine che tessono il reale, creando i rimpiazzi e le parti di ricambio per le cose che nel mondo soprastante si logorano e si consumano, e da lì prosegue in altri mondi, stupefacenti o spaventevoli, incontrando uomini scheletrici e mutilati, pupari di lepidotteri dentro sarcofagi iridescenti, statue ciclopiche, trasformandosi addirittura in una ragazza e sperimentando il terrore più insopportabile come la bellezza più estatica. I sogni per Cartarescu sono più reali della stessa realtà: tramite essi l’autore può tornare nella casa di Floreasca abitata quando aveva solo pochi mesi di vita, quando cioè era troppo piccolo per serbare dentro di sé una qualche memoria, e può recuperare i ricordi, le sensazioni, perfino gli odori e i colori, di tutte quelle esperienze parimenti seppellite in antichissimi strati archeologici del proprio io. La fantasia si confonde pertanto con la vita, come se ci trovassimo sopra un nastro di Mobius con un lato di realtà e uno di sogno, entrambi riflettendosi a vicenda, ognuno dalla parte opposta dello specchio.
Se il manoscritto di Mircea è “più vero del mondo”, tuttavia la realtà preme, pretende spazio con la sua cruda, urgente evidenza, e alla fine fatalmente si impone. Siamo alla fine del 1989 e, similmente a quanto accade in altri Paesi dell’Europa dell’Est, anche in Romania scoppia la rivoluzione. Il dittatore Ceausescu, che ha governato dispoticamente il Paese per decenni, imponendo il più bieco culto della personalità, affamando letteralmente la popolazione e terrorizzandola con la sua polizia segreta, la famigerata Securitate, viene crudelmente deposto dopo una sanguinosa insurrezione. “Sono tempi difficili, tempi apocalittici. Stanotte ho visto persone morire – scrive Cartarescu -. Cosa c’entro io con tutto ciò?” Il “mostro solitario, senza donna, senza casa, senza una pietra su cui poggiare capo, destinato a scrivere, per anni e anni, un libro illeggibile e infinito, ma che avrebbe sostituito un giorno l’universo”, è costretto ad uscire dalle sue “caverne interiori” per trovarsi “immerso fino al collo nelle sottane sporche della storia”, a gridare nelle piazze di Bucarest, in mezzo a migliaia di altri dimostranti, slogan contro il dittatore, e venire perfino arrestato per una notte. E’ una sfida enorme, per colui che ha fatto dell’io il solo Verbo possibile, quella di confrontarsi con “questo scarabocchio osceno sopra un muro chiamato Storia”. Cartarescu vorrebbe essere come “l’uccello che vola sopra il campo di battaglia e non sa cosa significa Stalingrado”, ma l’attualità impellente lo riporta giù a terra, schiacciato tra decine di altri corpi accaldati e infervorati. Come fare allora per impedire che il manoscritto diventi diario, “intriso di ciò che più ho detestato fino a oggi: della trama di caos e pestilenze e orde e sovrani e mancanza di senso e infelicità; cioè di storia, storia, storia”? Al contrario di Uwe Johnson, che ne “I giorni e gli anni” aveva scelto, in polemica con il narcisismo solipsistico tipico di certa letteratura allora in voga, proprio la forma del diario, Cartarescu decide di raccontare la rivoluzione alla sua maniera, e cioè fantasmagoricamente, il più possibile lontano dal piatto realismo: basti pensare che essa è rappresentata da una gigantessa alta dieci metri, abbigliata con il costume tradizionale romeno, che la scalcagnata troupe di un circo bucarestino sfrutta cinicamente per prendere il potere rimasto vacante, per poi stuprarla in una sorta di orgia collettiva. Simbolismo e fantasia si mescolano in maniera inestricabile, la realtà scivola nel misticismo, e la stessa Casa del Popolo, simbolo del potere assolutistico di Ceausescu, si trasfigura diventando una location favolosa e assurda, con corridoi infiniti, statue alte decine di metri e cupole che arrivano, come una torre di Babele dei tempi moderni, fino al cielo.
“L’ala destra” è un distillato del Cartarescu più puro. Il sogno si confonde con la realtà, la finzione letteraria con la vita (“Non so più quando vivo e quando scrivo”), il testuale con il metatestuale (il giovane Mircea che scrive il manoscritto si sovrappone all’autore adulto che compone il libro che stiamo leggendo e che spesso si rivolge direttamente al lettore in una sorta di dialogo extra-diegetico), l’infinitamente grande con l’infinitamente piccolo (si pensi al sogno in cui Mircea, rinchiuso in un autobus sovraffollato, si solleva fino a vedere dall’alto la città, e poi l’intero pianeta nella notte profonda piena di stelle, fino a perdersi in una miriade di mondi, e poi a quello opposto in cui il piccolo protagonista, guardando il muro della sua stanza con una risoluzione quasi infinita, penetra, come se fosse chino su un microscopio, nella struttura infinitesimale della materia, dagli acari dal corpo traslucido alle loro cellule, dai quark fino “ai granuli di spazio e alle perle di tempo che nemmeno la vista in assoluto più penetrante, quella degli embrioni, degli angeli e dei defunti, avrebbe mai potuto eviscerare”). In questo libro che sembra non avere un baricentro e che non a caso lo stesso autore definisce illeggibile, in questo testo dalla struttura frattalica (“ogni punto posto sopra l’immensa mappa concava era tutti i punti, ogni volto tutti i volti”), in questa opera contorta e tortuosa in cui il futuro non esiste se non come nostalgia e il passato è conoscibile solo attraverso il sogno o il delirio, il lettore rischia più volte di perdersi. Eppure, quando tutto sembra vorticare nel caos più totale, fino a far assomigliare “Abbacinante” a una sorta di Apocalisse giovannea, con una improbabile nascita di un Messia dal cervello-utero di Herman, con le statue animate di Bucarest a fare le stravaganti veci dei pastori della Natività, e gli abitanti della capitale distrutta assunti al cielo in una sorta di boschiano Giudizio Finale, alla fine Cartarescu riesce miracolosamente a dipanare tutti i fili dell’aggrovigliata matassa intrecciata nel corso dei tre tomi. Nel titanico Palazzo del Popolo tutti i simbolismi (le farfalle, le statue, i labirinti, gli specchi) trovano la loro ragion d’essere, tutte le antinomie (immanenza/trascendenza, scatologia/escatologia, oscurità/luce, cervello/sesso, sofferenza/estasi, peccato/purezza, uomo/donna) vengono condotte alla loro riconciliazione, così come tutti i personaggi della trilogia, quelli apparsi anche solo in una riga o dentro una parentesi, perfino il gemello perduto Victor, scorrono in rassegna in un modo che mi ha ricordato il pirotecnico finale del felliniano “8 e ½”. Quello che è indubitabilmente uno dei più originali capolavori della letteratura contemporanea si conclude in una spettacolare sarabanda che sancisce, a dispetto di ogni constatazione pessimistica (che il mondo è abietto e crudele, che la vita dura troppo poco, e così via), il miracolo dell’esistenza. Se è vero che l’uomo è un pigro animale che sembra aver dimenticato che il suo destino è quello di evadere dai rigidi confini in cui è intrappolata la propria esistenza per assurgere a quelle altezze trascendenti che vanno ben al di là delle tre dimensioni che i suoi sensi sono in grado di percepire, è altrettanto vero che ogni vita, anche la più transitoria, anche la più miserabile, è un prodigio ineguagliabile, e Cartarescu lo confessa in una maniera inaspettatamente commovente: “Eppure, che miracolo essere esistito! Come sarebbe stato se non fossi mai nato? O se fossi stato un verme in fondo all’oceano, un virus in una cellula infetta? Come sarebbe stato se non avessi potuto dire a te, che leggi ora queste righe: ho vissuto. E vivo ancora. Sono accanto a te, sono in te, sono nella tua mente e nel tuo cuore. Non posso vedere i raggi x e i raggi gamma, non posso sentire ciò che sentono i pipistrelli, non avverto il fremito vivo dell’universo, non comprendo la fragranza di rosa della mente, non posso far sì che la montagna si getti in mare. Posso però muovere le mie dita e posso vedere il blu e il verde, e posso udire il sussurro di certe labbra a me care. Non mi ricordo la faccia di Artaserse, ma non dimenticherò mai quella del vecchio Nicu B??. Non ho vissuto che un momento, ma abbastanza per potere dire: ho vissuto.”
Indicazioni utili
FANTASMI IN CERCA D'AUTORE
“Non hai imparato che la cosa che più vuoi dimenticare è l’unica che non ti abbandonerà mai?”
“La fortezza” è uno strano ircocervo letterario: sospeso tra antico (il castello medievale, provvisto di torrioni, sotterranei e camere di tortura, che Howard vuole trasformare in un hotel di lusso; la quasi centenaria baronessa che abita in ostinata solitudine nel mastio, ultima erede di una nobile famiglia feudale) e moderno (l’ossessione del cugino di Howard, Danny, per le public relations, la connessione a Internet e la visibilità social, che lo costringe a portarsi appresso una parabola satellitare per scongiurare quel temibile fenomeno per cui “quando qualcuno usciva di scena era solo questione di giorni prima che sembrasse che sulla scena non ci fosse mai stato… e l’idea di scomparire così era peggio che morire”). L’anacronismo suggerito dall’antiquata e fatiscente dimora viene letteralmente incarnato da Howard, il quale intende, in antitesi con le idee del cugino, bandire completamente la tecnologia dal castello, al fine di recuperare la capacità di immaginare le cose, di far volare la fantasia, proprio come gli uomini del Medioevo, che “pensavano che Cristo fosse seduto a cena con loro, e che gli angeli e i diavoli svolazzassero in giro”. Una lugubre location senza cellulari ed elettricità fa venire subito in mente un romanzo gotico, e difatti, proprio come se ci trovassimo nella tenuta di Bly del “Giro di vite” jamesiano, le allucinazioni e i fantasmi non tardano a palesarsi: la vecchissima baronessa da lontano appare a Danny come una giovane e bionda ragazza, e tale torna ad essere, come in un ebbro incantesimo, dopo aver scolato un’intera bottiglia di vino quasi altrettanto annosa.; i due piccoli gemelli raffigurati nel quadro sembrano spostarsi impercettibilmente non appena si allontana lo sguardo da loro; gli stessi bambini, morti annegati molti decenni prima, appaiono sul bordo della piscina durante il delirio notturno di Danny. Jennifer Egan non disdegna affatto di sfruttare i cliché delle storie sul soprannaturale (del resto ampiamente utilizzati nei due secoli precedenti anche da autori colti come Poe o Lovecraft), come se sapesse bene che la presenza di un castello legittima l’aspettativa di botole che si chiudono all’improvviso e di sussurri che trapelano tra le spesse mura, ma la sua storia, ambientata nel XXI secolo, resta tuttavia ben radicata nei territori del reale. Più che i fantasmi che ossessionano Danny, probabile proiezione di un animo esacerbato dai suoi atavici sensi di colpa e dalla paranoia (da lui chiamata “il verme”, in quanto come un verme si insinua subdolamente dentro le persone e comincia a mangiare, fintantoché crolla tutto quanto), più che questi fantasmi – dicevo – ci interessano altri spettri, vale a dire quelli che, in una accezione meta-letteraria, scaturiscono dalla penna dello scrittore, in quanto personaggi frutto della sua immaginazione (“Davis sventola le pagine che ho lasciato sul mio ripiano, sbatacchiandole nell’aria. Questa gente, dice. La vedo, la sento, la conosco, ma non è in questa stanza. […] Non è in questo carcere, né in questa città, né in questo paese, e nemmeno nello stesso mondo dove viviamo io e te. È da qualche altra parte. […] Sono fantasmi, fratello, dice. Non sono né morti né vivi. Sono una via di mezzo”). La stessa tecnologia (chattare in rete, guardare i reality in TV, ecc.) produce a nostra insaputa fantasmi, come sostiene Howard (“Ma cos’è reale, Danny? […] Con chi stai parlando al cellulare? In definitiva non ne hai la più pallida idea, cazzo. Danny, noi viviamo in un mondo soprannaturale. Siamo circondati dai fantasmi”). Si viene in tal modo a creare nel romanzo una situazione per così dire pirandelliana, dove i piani della storia si duplicano (a quello “fittizio”, ambientato nella fortezza del titolo, si affianca il contesto “reale”, quello in cui Ray, all’interno del carcere in cui è detenuto e in cui sta seguendo un corso di scrittura creativa, crea i personaggi e le vicende del plot principale) e procedono in maniera (apparentemente) autonoma, come le traiettorie asintotiche della finzione e della realtà. Ciò consente alla Egan di fare alcune interessanti riflessioni sulla creazione letteraria, e più in generale artistica: essa è, in prima istanza, quella “porta che potete aprire voi… che vi conduce dovunque vogliate andare”, come dice l’insegnante Holly alla sua classe di detenuti (per i quali aprire materialmente una semplice porta è, per ovvie ragioni, una chimera irrealizzabile), è un’”evasione” dal mondo reale per mezzo dell’immaginazione la quale, per sua natura, non ha limiti. Ma la scrittura è per Ray anche una dichiarazione d’amore, un modo per creare un ponte sentimentale con l’insegnante di cui è segretamente invaghito e che la realtà concentrazionaria giocoforza gli preclude; è anche un’opportunità per far venire alla luce ed elaborare un personale, gigantesco e autodistruttivo senso di colpa; ed è, infine, una possibilità per dar vita a un sofferto e laborioso progetto di espiazione e di redenzione.
Quanto detto sopra non deve trarre in inganno. “La fortezza” non è solo un raffinato esercizio di meta-letteratura, ma è anche un romanzo che, con i suoi misteri e le sue ambiguità, avvince il lettore dalla prima all’ultima pagina, e anzi è addirittura in grado di prenderlo alla sprovvista e sorprenderlo con un clamoroso colpo di scena finale, per nulla inferiore a quello che ci si aspetterebbe da un giallo di classe. Proprio come il già citato James di “Giro di vite”, la Egan manda a gambe all’aria quell’autentico totem che è l’attendibilità del narratore, ribaltando all’improvviso il ruolo ci colui che il lettore pensava fino a quel momento fosse il personaggio della storia in cui si nascondeva l’io dell’autore (anche se un campanello d’allarme lo aveva già fatto suonare Tom-Tom, quando aveva chiesto a Ray, al termine della lettura in classe: “Quale di questi pagliacci sei tu?”). Jennifer Egan gioca sapientemente con le aspettative del lettore e con i generi (affiorano persino echi di tragedie infantili e tradimenti coniugali, di oscure congiure ed intermezzi da commedia), smitizza il ruolo dell’autore come deus ex machina e moltiplica personaggi e piani narrativi (del resto la sua abilità nel far convivere e amalgamare nello stesso libro epoche cronologiche, ambienti e personaggi estremamente eterogenei può essere considerato il suo inconfondibile marchio di fabbrica). La sua capacità di tirare alla fine i numerosi fili e di trovare la quadra, anche emotiva, della storia (la terza parte, affidata al personaggio fino a quel momento secondario di Holly, oltre a sfondare a sorpresa il muro che separa il reale dal virtuale, è deliziosamente emozionante) è la dote innegabile di una scrittrice di razza, che sembra prefigurare in questa sua opera terza quell’autentico capolavoro che di lì a pochi anni sarebbe diventato “Il tempo è un bastardo”.
Indicazioni utili
Giuseppe in Egitto
“Giacché noi camminiamo su orme, e tutta la vita non è che un riempire di presente le forme del mito”
“Giuseppe in Egitto” è un libro ricco di rimandi e di allusioni, di corsi e di ricorsi. Giuseppe, venduto dai fratelli a una tribù di mercanti ismaeliti in viaggio verso la terra dei Faraoni, rivive infatti l’esperienza dell’esilio dalla terra dei padri che molti anni prima aveva già sperimentato Giacobbe, quando, per sottrarsi all’ira di Esaù dopo il “furto” della primogenitura, egli era fuggito presso suo zio Labano, al cui servizio aveva poi trascorso ben 25 anni. Ma l’esilio di Giuseppe è, a ben vedere, anche quello dello stesso Thomas Mann, il quale, durante la stesura del terzo libro della tetralogia, aveva deciso di trasferirsi in Svizzera, presso Zurigo, in quanto la sua aperta critica nei confronti del nazismo, che proprio in quegli anni si stava affermando in Germania, lo aveva reso un facile bersaglio del regime hitleriano. Il ciclo di “Giuseppe e i suoi fratelli”, nato probabilmente per mere motivazioni intellettuali, inizia pertanto ad assumere un sorprendente carattere autobiografico, con Giuseppe, il profetico interprete dei sogni, l’impareggiabile narratore di storie, il quale possiede una natura pseudo-artistica (in cui si compenetrano dimensione vitale e dimensione spirituale, fede e pensiero), che diventa quasi l’alter ego dello scrittore di Lubecca. L’impatto del giovane protagonista con la raffinatissima cultura egizia, nei confronti della quale egli esprime un misto di ammirazione e di beffardo scetticismo, sembra addirittura prefigurare quelle che devono essere state le impressioni di Mann quando, alla fine degli anni ’30, egli si trovò a vivere negli Stati Uniti d’America, i cui grattacieli probabilmente dovettero apparirgli come a Giuseppe le piramidi di Giza, e la affluente società americana come la ricca corte del Faraone, nonostante che la cultura europea, così come la religione monoteista di Abramo e di Isacco, rimanevano pur sempre largamente superiori a quelle in auge nei nuovi paesi di adozione dello scrittore e del suo personaggio.
Dopo le pagine cruente e drammatiche con cui si era chiuso il tomo precedente, “Giuseppe in Egitto” (conformemente all’alternanza di registri che caratterizza il ciclo biblico manniano, capace di passare dalle riflessioni filosofiche alle pagine avventurose, dalle atmosfere frivole a quelle tragiche) torna ad adottare un tono sereno e rilassato, misurato e scorrevole, con una prima parte, quella in cui la carovana di mercanti risale il Nilo (dando a Mann l’occasione di descrivere con appassionato gusto enciclopedico le città e le genti egizie incontrate lungo il tragitto), che sembra quasi un documentario geografico di duemila anni fa (così come qualche capitolo più avanti le feste religiose e le apparizioni pubbliche del Faraone a Tebe sembrano estrapolate da un trattato etnografico su quell’epoca lontana). Lungi dall’essere spaventato per il fatto di trovarsi catapultato in una terra sconosciuta, di cui non conosce né la lingua né i costumi, Giuseppe si lascia guidare dalla sua innata sete di conoscenza e osserva tutto quello che gli passa davanti agli occhi con estrema attenzione, “per accogliere profondamente dentro sé, nello spirito e nei sensi, il paese e la vita del paese, badando sempre che la sua curiosità non degenerasse in confusione e ottundimento fuori luogo, ma si mantenesse sempre all’erta e desta in onore dei padri”. Il suo obiettivo segreto è quello di diventare un giorno “il primo tra la gente di quei luoghi”, in ossequio con quello che egli ritiene essere il suo destino voluto da Dio e rivelatogli nei sogni dei suoi anni giovanili. Il fatto che il suo percorso sia in qualche modo già segnato, e debba solo palesarsi poco alla volta, a tempo debito, dà a “Giuseppe in Egitto” l’andamento del più classico romanzo di formazione, con l’eroe che da una posizione inizialmente infima si eleva fino al successo e alla gloria, con personaggi emblematici (come quello del fedele sovrintendente Mont-kaw, che accoglie Giuseppe, dopo che gli ismaeliti lo hanno venduto al ricco cortigiano Potifar, come un figlio, designandolo in breve tempo come suo successore, o quelli dei due nani Dudu e Teodoro, il primo che cerca in tutti i modi di mettere in cattiva luce Giuseppe e provocarne la rovina, e il secondo invece di favorirlo e proteggerlo) ed episodi cruciali (come il colloquio tra i due anziani genitori di Potifar, a cui Giuseppe assiste casualmente e che gli permette di venire a conoscenza dei segreti più intimi della vita del suo potente padrone, o ancora il fatidico dialogo tra Giuseppe e Potifar, con cui il giovane schiavo, interrogato mentre è al lavoro nel giardino delle palme, conquista con la sua facondia l’ammirazione e la fiducia del secondo, segnando così l’inizio della sua fortuna nella nuova casa).
Mann riempie con dovizia e intelligenza i tanti vuoti lasciati da una storia originariamente narrata in modo fin troppo conciso e succinto. Non bisogna però cadere nell’equivoco: lo scrittore tedesco mostra un grande rispetto, se non addirittura una sorta di venerazione, per la Bibbia, un libro che è stato da lui definito come un “monumento, il più singolare e grandioso della letteratura universale”, “ il libro par excellence, … proprietà del cuore, inalienabile”. Consapevole che intelletto e cuore, razionalità e sentimento possono seguire strade diverse, e addirittura contraddittorie, Mann non si vergogna di rivestire una storia che si è dimostrata nei secoli “intangibile da parte di qualsiasi critica intellettuale” di una nuova veste, più seducente nella forma e soprattutto più credibile nelle dinamiche psicologiche che la sottendono. “Ci sgomenta – afferma lo scrittore in “Giuseppe in Egitto” – la concisione sommaria di una narrazione che rende tanto poco giustizia alla amara minuziosità della vita”. E’ per questo che, nel già accennato dialogo di Giuseppe con Potifar, Mann si prodiga per rendere psicologicamente realistico, e in tal modo tanto più verosimile, il laconico verso “Giuseppe trovò grazia agli occhi di lui”. Ciò si comprende ancora meglio nella seconda parte del romanzo, quella in cui viene raccontata l’infatuazione di Mut-em-enet per Giuseppe. Se il libro sacro accenna semplicemente che “la moglie del padrone di Giuseppe gli mise gli occhi addosso e gli disse: «unisciti a me»”, Mann impiega centinaia di pagine di raffinato erotismo per descrivere l’infatuazione della sposa di Potifar per il giovane servo del marito. E’ proprio questa seconda parte che rappresenta, a mio avviso, il principale motivo di interesse del libro: nell’esporre il lento ma inesorabile precipitare della ricca e venerata signora nei gorghi della passione, che le fa mettere da parte ogni remora dettata dalla vergogna e dall’onore per ricorrere ad ogni mezzo, finanche il sortilegio di una negromante, pur di accaparrarsi le grazie dell’essere concupito, Mann realizza una straordinaria, profondissima indagine fenomenologica del desiderio amoroso, facendo di Mut-em-enet una tragica eroina dell’amour fou, che non sfigura affatto al cospetto di più celebri ed emblematici personaggi come Madame Bovary o Anna Karenina.
Con la sua consueta, apollinea perfezione (solo in parte appesantita da dialoghi a tratti un po’ troppo ampollosi e pedanteschi), Mann trasforma quello che potrebbe a prima vista sembrare un semplice racconto di appendice, una storia d’amore dagli insoliti (conoscendo l’autore) risvolti pruriginosi, in un’opera di grande valore filosofico e meta-letterario. Ad esempio, Mann ci offre una profonda riflessione sull’opportunità dell’autore di essere dentro la storia narrata, di diventare un tutt’uno con essa, oppure di porsi anche al di fuori della storia, come una voce critica, che la analizza e ci ragiona sopra. Mann cioè affronta di petto quella che è la fondamentale differenza tra il narratore classico, ottocentesco (quello che lui stesso era al tempo dei Buddenbrook) e lo scrittore moderno, il quale non è più disposto a calarsi anonimamente nella storia, ad accontentarsi di essere un semplice registratore di ciò che in qualche modo è accaduto o accadrebbe anche senza di lui. Con il suo continuo sillogizzare ed elucubrare sui molteplici aspetti diegetici ed extra-diegetici della vicenda raccontata, Mann, ovviamente, tende a essere ben presente nella sua costruzione, attraverso un duplice percorso di demitizzazione ed umanizzazione da una parte, e di riflessione critica dall’altra, come quando ragiona sugli anni trascorsi da Giuseppe nella casa di Potifar cercando di conciliare verità storica e verosimiglianza con un metodo che, sottoponendo ogni fatto narrato a una solida controprova logica, si può quasi definire scientifico. Mann sancisce in tal modo l’importanza in letteratura del metodo a supporto dell’ispirazione poetica, affermando: “Può forse il sentimento, se vuole attuarsi, se vuole suscitare per esempio un senso di benessere pieno di fiducia, far questo senza calcolo e sapiente tecnica?”. Lo stesso Giuseppe, che già abbiamo detto in apertura essere quasi un alter ego dello scrittore, utilizza scientemente la letteratura, sia come valente lettore, sia come fine esegeta, per conquistare Potifar e rendersi a lui indispensabile, diventando in breve tempo il più influente tra i lavoratori della casa. Quello della relazione tra arte e vita e dell’importanza del metodo nell’arte non è che uno dei motivi di interesse del libro, il quale nelle sue oltre settecento pagine (che lo rendono il più lungo dell’intera tetralogia) riflette su una miriade di argomenti, come il rapporto tra presente e passato, tra tradizione e progresso o tra identità nazionale e cosmopolitismo, tematiche che trascendono l’epoca della storia narrata per entrare prepotentemente nell’attualità. Uno dei tanti motivi di pregio del libro è anche la simmetria che assume il racconto di Giuseppe giunto al suo terzo atto. “Giuseppe in Egitto” infatti ripercorre con nuove sfumature l’intera parabola narrata nel libro precedente: la benedizione in punto di morte di Mont-kaw riecheggia quella impartita da Giacobbe, e simili sono le tentazioni di Giuseppe (là la veste istoriata di Rachele, qui la profferta amorosa di Mut-em-enet) e l’invidia che muove i suoi antagonisti (con il subdolo nano Dudu che prende il posto dei fratelli di Giuseppe). Identico infine è il destino di Giuseppe: la fossa, ossia la caduta in disgrazia, la (apparente) sconfitta. Letto così, “Giuseppe in Egitto” ci appare come una sorta di splendida sonata musicale, in cui il mirabile tema principale, dopo la sua esposizione e il suo sviluppo, viene ripreso e arricchito con piccole ma decisive modifiche, prima che la coda finale (cioè il quarto e ultimo libro) possa finalmente condurci a una definitiva e liberatoria conclusione.
Indicazioni utili
NON E' PIU' IL TEMPO DEGLI DEI
“Ho dimestichezza con l’odore della morte.”
Colm Toibin è l’autore di alcune interessanti biografie romanzate (una per tutte, forse la più notevole, “The Master” su Henry James), l’ultima delle quali, “Il Mago”, mi piace ricordare in apertura di questa recensione perché Thomas Mann (il Mago, appunto, come veniva chiamato per scherzo dai figli) ha secondo me segretamente influenzato “La casa dei nomi”. Leggendo il romanzo di Toibin, ispirato alle ben note, mitiche vicende di Agamennone e Clitennestra, di Oreste ed Elettra, non ho potuto infatti non pensare alla tetralogia di “Giuseppe e i suoi fratelli”. A parte una chiara, anche se forse involontaria, citazione (Clitennestra viene seppellita per un giorno intero in una fossa per toglierla di torno durante il sacrificio della figlia Ifigenia, allo stesso modo in cui Giuseppe viene gettato dai fratelli in una cisterna abbandonata), analogo è il modo di prendere una storia antichissima, patrimonio indiscusso dell’immaginario collettivo, spogliarla della sua aura mitica, del suo afflato leggendario, e riscriverla con una sensibilità affatto moderna. Se già l’Orestea di Eschilo presentava di per sé indubbi elementi di modernità (basti pensare, nelle “Eumenidi”, al tribunale chiamato a giudicare l’atto contro natura di Oreste, il quale può essere considerato il primo processo della storia), Toibin vi aggiunge uno psicologismo che, mentre mette in primissimo piano le figure dei tre protagonisti principali, elimina definitivamente tutto il coté divino, così importante nelle tragedie di Eschilo, di Sofocle e di Euripide. Nelle “Coefore” di Eschilo, ad esempio, Oreste torna ad Argo per uccidere la madre ed Egisto su ordine di Apollo, mentre nelle “Eumenidi” è Atena ad assolverlo, respingendo le accuse delle Erinni. Ne “La casa dei nomi” invece l’epos è riportato a motivazioni esclusivamente umane e naturali, come la brama di potere, il desiderio di vendetta o la ragion di stato. Agamennone sacrifica sì la figlia primogenita per conciliarsi il favore degli dei, ma egli (un po’ come Labano, per tornare al paragone con “Giuseppe e i suoi fratelli”) è l’uomo vecchio, superato dai tempi e giustamente destinato a essere soppresso e dimenticato. La nuova mentalità è piuttosto l’ateismo ante litteram di Clitennestra, che non crede più nell’esistenza degli dei, o per meglio dire non crede nella loro influenza sui destini umani. “Gli dèi sono distanti, alle prese con altre cose. Si preoccupano dei desideri e delle buffonate umane come io mi preoccupo delle foglie di un albero. So che le foglie sono lí, che appassiscono, ricrescono e appassiscono, come le persone nascono, vivono e poi sono sostituite da altre come loro. Non posso fare niente per aiutarle o per impedire che appassiscano. I loro desideri non sono affar mio”. L’uomo moderno, in assenza di un dio a cui rivolgersi, è desolatamente solo e vive quella che Georges Bataille chiamava la “morte del sacro”, ossia l’angosciosa, “tremante consapevolezza che non è più tempo degli dei”. Fare affidamento agli dei è diventata una pura formalità, una mera convenzione esteriore. Se essi continuano ad essere invocati e pregati è solo per un’antica, inveterata abitudine, ma in fondo più nessuno crede veramente in loro, in quanto “le nostre suppliche agli dèi sono come le suppliche che una stella rivolge al cielo sopra di noi prima di cadere, un suono che non ci è dato sentire, un suono che, se pure lo sentissimo, ci lascerebbe del tutto indifferenti”.
La maledizione degli Atridi, quel “veleno nel sangue” che sembra condizionare l’esistenza dei personaggi de “La casa dei nomi è il punto di partenza canonico della storia, cui Toibin si guarda bene dal sottrarsi, ma poi il romanzo imbocca la strada di una tragedia elisabettiana, piena di congiure, cospirazioni, rivolte e lotte per il potere. Se lo scrittore irlandese mantiene tutto sommato intatta la cornice della storia, egli si prende tuttavia enormi libertà narrative, come si può vedere nel capitolo dedicato ad Oreste, di cui racconta l’adolescenza (da sempre trascurata dagli autori classici, come se fosse un misterioso buco nero lungo ben dieci anni) alla stregua di un coming of age dickensiano (con vaghi echi, mi è parso, anche di più recenti romanzi aventi come protagonisti delle figure di orfani, come la “Trilogia della città di K.” o “Il cardellino”). Ritornando ancora una volta all’esempio di partenza di “Giuseppe e i suoi fratelli”, è come se Toibin avesse voluto trasporre sulla pagina una propria versione, più verosimile e psicologicamente plausibile, della tragedia, spiegando – come diceva Mann – “come i fatti realmente si svolsero”. Così Egisto non viene ucciso da Oreste, ma è più prosaicamente risparmiato per poter sfruttare le sue conoscenze pregresse e le sue capacità di amministratore del regno, e Oreste stesso non impazzisce per il matricidio compiuto, ma viene tristemente relegato in una condizione di emarginazione e di solitudine, sposato a una donna che aspetta un figlio non suo. Una delle novità più considerevoli del romanzo è il continuo cambio di prospettiva, con i personaggi di Clitennestra, di Oreste e di Elettra che si alternano per raccontare la storia dal proprio punto di vista. Se nel caso di Oreste Toibin utilizza la terza persona, facendo prevalere un registro più aneddotico e narrativo, per Clitennestra ed Elettra egli sceglie la prima persona. Il tono si fa in questo caso più introspettivo, con un approfondimento psicologico dei personaggi che il flusso di coscienza rende estremamente interessante. L’autore ci consegna il sorprendente e affascinante ritratto di due donne che sono diventate, con il loro fatale antagonismo, un simbolo della moderna psicanalisi (il famoso complesso di Elettra), ma che alla fine si rivelano più simili che contrapposte: lo spiritualismo di Elettra (l’assidua frequentazione con i fantasmi del padre e della sorella) fa ben presto i conti con la ragion di stato e la donna che prima viveva nell’ombra, in “un rapporto intimo con il silenzio”, diventa una disinvolta e spregiudicata reggitrice del regno. Del resto le donne sono le autentiche protagoniste del romanzo, facendo dei lutti e delle ingiustizie patite il loro punto di forza (al prezzo però della inesorabile perdita della loro umanità), mentre gli uomini, di cui pure, a causa della struttura sociale che le penalizza, hanno bisogno per portare a termine i loro piani (così Egisto per Cassandra e Oreste per Elettra), gli uomini – dicevo – sono, nonostante il potere fallocratico che è nelle loro mani, poco più che fantocci, che si illudono di essere i motori della storia, mentre sono solo delle marionette in balia del destino.
La scrittura di Toibin è fluida, scorrevole, a tratti delicata e poetica, ma dietro le parole si nasconde una realtà sanguinosa e cruenta, con orrendi sacrifici umani, stragi raccapriccianti e bambini che vengono rapiti per intimidire e sottomettere le loro famiglie. E’ un mondo barbaro e violento, quello narrato da Toibin, che ha sullo sfondo un perenne stato di guerra. La guerra de “La casa dei nomi” non è quella di Omero, di Elena, di Menelao e di Achille, la quale tutt’al più è una favola da raccontarsi la sera intorno al focolare, ma è una guerra senza nome (“-Dove sono adesso? – chiede Oreste. – In guerra. – Quale guerra? – La guerra, disse lei – La guerra”), quasi uno stato ontologico dell’umanità, che lascia dietro di sé solo dolore e fatica, odio e povertà, carestia e disperazione, tutto il contrario di quello a cui l’epica antica, con l’orgoglio guerresco e l’eroismo elevato a massima virtù, ci aveva abituati. Qui c’è soltanto una volgarità di fondo, una mediocrità di valori e una falsità di intenzioni, che tutto svilisce e tutto riduce a macabra farsa. Resta, in fondo a tutto questo, una intensa nostalgia di amore, che il mondo non consente di esprimere e che solo nell’aldilà (come nel breve, bellissimo capitolo in cui Clitennestra parla in una sorta di bardo, in uno stadio cioè liminale tra vita e dissolvenza dell’io) è forse possibile sperimentare, al prezzo però della solitudine più agghiacciante e dell’oblio più profondo. Con questa lettura originale e seducente, Toibin firma un’opera più che dignitosa, capace di distinguersi per elevatezza di linguaggio e acutezza psicologica, e si pone a pieno titolo nel novero di quegli scrittori che, come Christa Wolf, Madeline Miller e Pat Barker, hanno riscritto negli ultimi decenni con sensibilità contemporanea i miti dell’antichità.
Indicazioni utili
AQUILE E COLOMBE
“Poiché sono vissuta tutti questi anni come se fossi morta, morirò, senza dubbio, come se fossi viva, e allora mi capiterà di essere come tu mi vuoi. Perciò vedi” concluse “non saprai mai a che punto mi trovo. Tranne quando me ne sarò andata, e allora saprai dove non mi trovo più.”
In un bel film uscito di recente al cinema, “Killers of the flower moon” di Martin Scorsese, il giovane e ingenuo protagonista viene spinto dallo zio, un uomo rispettato dalla comunità ma ambiguo e senza scrupoli, a sposare una ragazza della tribù indiana degli Osage (diventata enormemente ricca per via dei giacimenti di petrolio scoperti sotto la terra dell’Oklahoma in cui si era pochi decenni prima insediata) con il subdolo scopo di entrare in possesso della sua ingente eredità. Fatte le debite proporzioni tra storie e contesti quanto mai diversi tra loro (un western cinico e amorale da una parte, un romanzo intriso di torbido romanticismo dall’altra), il medesimo spunto narrativo lo si trova praticamente identico, quasi fosse un archetipo, ne “Le ali della colomba” di Henry James, dove il deuteragonista Merton Densher è indotto dalla sua astuta fidanzata a corteggiare la facoltosa ereditiera americana Milly Theale, fidando sul fatto che la esiziale malattia da cui la donna è afflitta le conceda poco tempo da vivere, e quindi che il suo patrimonio possa quanto prima e legittimamente passare alla coppia. Il paragone tra le due opere è curioso, e probabilmente anche opinabile e azzardato, ma è indubbio che il libro di James si allontani fin dalle prime pagine dagli stilemi della letteratura coeva per addentrarsi nei territori oscuri, impervi e ancora tutti da esplorare (siamo agli albori del Novecento) del modernismo. Certo, trattandosi dello scrittore newyorkese naturalizzato britannico, non mancano le atmosfere sublimi e raffinate, le conversazioni delicate da salotto, l’eleganza e il bon ton dei personaggi, gli arabeschi e i velluti damascati, eppure sotto questa impeccabile e immacolata superficie covano pulsioni molto poco nobili, a tratti anzi morbose e quasi diaboliche, degne dell’interesse di uno psicanalista non meno che di un romanziere. Non è un caso che fin dalle primissime pagine del romanzo i personaggi vengano considerati, prima ancora che persone, dei “valori” da sfruttare, degli atout da monetizzare (tale è sicuramente Kate, in virtù della predilezione manifestatale dalla zia Maud, per il padre e la sorella, così come più avanti lo sarà Milly per la corte che la accoglierà a Lancaster Gate). E’ come se James ci introducesse alle regole di un gioco di strategia complesso e imprevedibile, la cui posta è decisiva e richiede calcolo e astuzia, dissimulazione e tattica. Il “gran mondo” a cui il lettore si trova ad assistere è una specie di agone economico, in cui “era tutto un prendere e un dare, con le ruote del sistema meravigliosamente oliate” e la cui morale è cinicamente sintetizzata da lord Mark quando confessa che “qui nessuno fa nulla per nulla”. Il grande, modernissimo, motivo di interesse del romanzo è che apparentemente esso è un amabile ritratto della società aristocratica dell’era vittoriana, ma dietro le quinte, in una proliferazione di pulsioni ambigue e incontrollabili, si annida un “mostro” che – con le parole dell’autore – è in grado di produrre “un’estasi esagerata o… un orrore anche più sproporzionato”. Quando Milly Theale, con la fida amica Susan, giunge in Europa dagli Stati Uniti, “una giovinetta sottile sottile, sempre pallida, delicatamente sciupata, di una anormale e graziosa angolosità, dai capelli di un rosso troppo eccezionale perfino per essere vero, e dai vestiti troppo neri anche per un lutto”, dotata di una ricchezza e di una libertà praticamente sconfinate, si capisce subito che essa è destinata a diventare la vittima predestinata di un complotto spietato, ancorché mascherato di simpatia, di benevolenza e di premurosità. Lei è la colomba del titolo, essere fragile e innocente, ma le cui ali sono anche capaci di avvolgere e proteggere coloro che ama. Contrapposti a lei ci sono le aquile (James indulge spesso in questi paragoni ornitologici, chiamando espressamente così la zia Maud), coloro che per un motivo o un altro (Kate per riuscire a sposare Merton, giovane brillante ma privo di risorse, la zia Maud per allontanare lo stesso Merton dalla nipote, lord Mark per risollevare un blasone compromesso da troppi debiti, perfino la candida Susan per rendere il più possibile felice l’amica giunta al tramonto della sua breve esistenza) tramano alle sue spalle, trasformandola nella ignara pedina di un gioco che la sovrasta. Altrettanto strumentalizzato e passivo, letteralmente gettato tra le braccia della ragazza a dispetto di tutte le sue riserve morali, è Merton Densher, al quale viene però riservato nel finale dall’autore, in un clamoroso e inatteso colpo di scena, un gesto di nobile rinuncia, di disinteressato sacrificio, che è tanto una estrema dichiarazione d’amore quanto un atto di ribellione nei confronti di una società avida e calcolatrice.
Milly Theale è un personaggio che richiama altre famose eroine jamesiane, dalla Catherine di “Washington Square” alla Daisy Miller dell’omonimo racconto. Il suo alter ego più evidente è però l’Isabel Archer di “Ritratto di signora”. Come Isabel, Milly è giovane e intelligente, ricca e libera, in viaggio nel Vecchio Mondo dopo aver lasciato la natia America (vero e proprio “topos” della narrativa di Henry James). Vi sono però delle importanti differenze che è doveroso sottolineare. Innanzitutto, Milly non è più la sola protagonista del romanzo: al suo fianco si stagliano, con pari importanza diegetica, i personaggi di Kate Croy e, soprattutto di Merton Densher, tanto è vero che l’ereditiera americana entra in scena soltanto nel libro terzo. Inoltre Milly Theale è spesso descritta solo in modo indiretto, attraverso gli occhi di coloro che le gravitano intorno, o addirittura, in un capitolo tra i più belli del libro, per mezzo di un dipinto del Bronzino, che rivela con la nostra protagonista una misteriosa, ineffabile affinità. Per quanto riguarda la malattia, che quasi sempre James aveva riservato solo a personaggi secondari (si pensi al Ralph Touchett di “Ritratto di signora”), qui ha un ruolo fondamentale, investendo direttamente la protagonista e mettendola di fronte alla straziante contraddizione tra una voglia di vivere smisurata e una quantità di tempo a disposizione fatalmente ridotta. La stessa malattia, pur essendo costantemente in primo piano, è però trattata dallo scrittore in maniera sfuggente e sibillina. Milly, orgogliosamente, si rifiuta di prenderla in considerazione, e perfino il dottor Strett non la cita mai, invitando semplicemente la ragazza a godere quanto più possibile i piaceri della vita. Tutti i personaggi la danno per scontata nei loro discorsi e nei loro rapporti con la protagonista, ma la verità è che essa non è mai conclamata, è un argomento tabù, un minaccioso convitato di pietra relegato nei meandri più nascosti della coscienza. Paradossalmente, Milly è considerata da tutti una donna condannata, senza speranza, anche se nessuno ha mai esplicitamente pronunciato un verdetto medico, e la stessa ragazza prende coscienza della propria condizione soltanto davanti al già citato dipinto del Bronzino (che gli esperti hanno identificato nel ritratto di Lucrezia Panciatichi conservato negli Uffizi di Firenze), che tanto le assomiglia (“La donna in questione, con la sua leggera scriminatura michelangiolesca, i suoi occhi d’altri tempi, le sue labbra tumide, il suo lungo collo, i suoi famosi gioielli, i rossi sbiaditi dei suoi broccati, era un grandissimo personaggio, ma non l’accompagnava la gioia. Ed era morta, morta, morta”). Questa elusività risponde sicuramente all’intento dell’autore di non rendere melodrammatica la vicenda narrata, ma è altresì funzionale allo stile dell’autore, improntato all’ambiguità e al non detto, come si può notare anche nella lettera di Milly indirizzata a Merton, che l’uomo fa leggere a Kate ma di cui rifiuta di conoscere il contenuto, preferendo che venga bruciata nel fuoco del camino (espediente che viene ripreso da Cormac McCarthy ne “Il passeggero”, a dimostrazione della modernità psicologica del romanzo di James di oltre un secolo prima).
Lo stile di Henry James è, come sempre, di mirifica perfezione, con alcune scene di raffinatissima resa pittorica (come il ricevimento a palazzo Leporelli, che rimanda ai quadri del Veronese). L’abbagliante bellezza della scrittura jamesiana non deve però far pensare che quella de “Le ali della colomba” sia una lettura semplice e comoda, tutt’altro. Già da qualche anno, James stava collaudando un modo di scrivere più ricercato, quasi sperimentale, se paragonato ai suoi romanzi degli anni ’70 e ’80 dell’Ottocento. In questo romanzo tutto ciò si esprime in una forma quanto mai matura: la trama non è infatti mai scontata, non pare affatto rigida e predeterminata (anche se la lunga e interessantissima prefazione dello scrittore fa comprendere quale complesso lavoro progettuale vi sia dietro). Ogni situazione descritta presenta sempre svariate alternative, ogni circostanza legittima costantemente diverse interpretazioni, e perfino un semplice dialogo cela in ciascuna parola un significato potenzialmente equivoco (spesso perfino un banale pronome riesce a depistare l’interlocutore, e con lui il lettore, potendosi attribuire a un personaggio piuttosto che a un altro). Tutto questo offre al testo innumerevoli potenzialità narrative, nelle quali il lettore non ha mai il salvagente di un punto di vista demiurgico e assoluto, in quanto ne sa né più né meno che i personaggi del libro che sta leggendo. Ciò gli conferisce un ruolo quanto mai attivo, anche se in alcuni momenti tale ruolo può apparire indubbiamente ingrato e scomodo da sostenere. La ricompensa a questa fatica, una volta che si sia riusciti a portare a termine questa affascinante storia romantica e sentimentale raccontata alla stregua di un vero e proprio giallo psicologico, è però una soddisfazione rara, una beatitudine ineffabile, che pochissime altre opere e pochissimi altri autori (mi vengono per primi alla mente, per limitarmi alla prima metà del Novecento, Marcel Proust, Thomas Mann e Vladimir Nabokov) sono in grado di eguagliare.
Indicazioni utili
FLIRTED WITH YOU ALL MY LIFE
“Se non fosse diventata una matematica cosa le sarebbe piaciuto essere?
Morta.”
Il titolo di questa recensione allude a quello di una canzone di uno dei miei musicisti preferiti in assoluto, Vic Chesnutt, morto suicida a 45 anni, il giorno di Natale del 2009. Come nel brano di questo sfortunato e raffinatissimo cantautore, realizzato pochi mesi prima di morire, anche nelle pagine del dittico di Cormac McCarthy, composto da “Il passeggero” e da “Stella Maris”, aleggia costantemente, come un incombente convitato di pietra, la presenza della morte. “Il passeggero” si apre proprio con il ritrovamento, la mattina di Natale (che strana, atroce coincidenza!), del corpo di Alicia che penzola da un albero, “gli occhi gelidi e duri come pietre” e la fusciacca rossa che spicca sul bianco della neve. D’altra parte, “Stella Maris” fa subito riferimento al fratello di Alicia, pilota di Formula 2, che giace da settimane nel letto di un ospedale italiano, in un coma cerebrale apparentemente irreversibile (anche se noi sappiamo, a differenza della sorella, che poi Bobby è sopravvissuto all’incidente automobilistico, diventando il protagonista de “Il passeggero”). Di solito non mi piace sovrapporre la figura dei personaggi con quella del loro autore, ma qui è innegabile che McCarthy, giunto al capolinea della propria esistenza terrena (anche se l’opera di cui si parla era in realtà in gestazione da molti anni), abbia voluto fare di Alicia una proiezione di se stesso e della propria nichilistica concezione della vita, quasi che parlare così tanto della morte, pur essendoci così vicino, avesse un effetto per così dire palliativo, come se lo scrittore di Providence così facendo riuscisse in qualche modo a esorcizzarla. Nei sette colloqui con il dottor Cohen, registrati con l’asettica e imperturbabile freddezza di un verbale, Alicia sa che la clessidra dei suoi giorni si sta esaurendo e, dopo aver dato l’addio al Talidomide Kid (il congedo con questa bizzarra apparizione, che lungi dall’essere un troll maligno ha rappresentato una sorta di inconscio ed estremo tentativo di resistere alla tentazione dell’autoannientamento, è stato uno dei momenti più belli e strazianti del libro precedente), sta facendo altrettanto con il resto del (poco) mondo che le rimane. La ragazza non coltiva più alcuna speranza per il proprio futuro, e se è approdata alla Stella Maris, una rinomata clinica psichiatrica del Wisconsin, non è per farsi curare (ella nutre infatti una profonda sfiducia nei confronti degli psichiatri, i quali sembrano ignorare del tutto il mondo che sono chiamati a comprendere e che “percorrono i contorni della pazzia come il prete quelli del peccato…, a studiare con una smorfia una realtà che non sussiste”), ma perché “non avevo nessun altro posto dove andare”. Quella di Alicia è una solitudine assoluta, irrevocabile (“Forse è solo questione di non avere nessuno nella propria vita. Di rendersi conto che qualunque cosa sia quella a cui stai per dare addio non ricambierà l’addio”), e d’altro canto la sua interiorità è una fortezza inespugnabile, che non lascia intravedere, se non in modo ingannevole e fugace, varchi di sorta (“Quello che vuole sapere io non sono in grado di dirglielo. E anche se lo fossi probabilmente non glielo direi.”). Il dottor Cohen è un brav’uomo e un medico competente, le tenta tutte pur di essere in qualche modo di aiuto alla ragazza, di cui intuisce l’orrore agghiacciante da cui è attanagliata, ma paradossalmente l’unico suo contributo sarà quello di procurarle quel cappotto e quelle galosce che Alicia utilizzerà (come si può leggere ne “Il passeggero”) nella sua fuga dall’istituto per realizzare nei boschi limitrofi il suo piano suicida.
E’ soltanto parlando di musica, di matematica, di filosofia che Alicia riesce a stabilire un qualche simulacro di contatto umano. Il libro di McCarthy (ché di romanzo in senso proprio non si può veramente parlare, essendo costituito da soli dialoghi, senza nessuna descrizione esterna dell’autore, neppure le sporadiche indicazioni di scena di un testo teatrale) affronta così un dotto campionario di argomenti “elevati” (frutto presumibilmente degli interessi nutriti negli ultimi anni dallo scrittore, il quale ha assiduamente frequentato la comunità di scienziati del Santa Fe Institute nel New Mexico), e risulta pertanto in alcuni punti alquanto ostico per il lettore (lo stesso dottor Cohen, che è un uomo di cultura e di scienza, ammette più volte candidamente di non capire niente delle cose che la sua paziente dice). In “Stella Maris” si discetta di epistemologia, di topologia, di teoria dei giochi e di meccanica quantistica, si discute di come avviene il passaggio dalla mente al mondo o di cos’è la memoria, e si citano Grothendieck, Godel, Von Neumann, Wittgenstein, Russell, Husserl, Feynman e molti, molti altri matematici, fisici e filosofi. Non si tratta a mio avviso di una pura esibizione di erudizione enciclopedica, tutt’altro. Da una parte è infatti quasi ovvio che un personaggio così mostruosamente intelligente come Alicia, che da molto tempo non mantiene più alcun rapporto con la gente, abbia scelto di rifugiarsi nella scienza come unica possibilità per appagare il suo inguaribile solipsismo. Dall’altra, queste riflessioni scientifiche chiamano direttamente in causa le posizioni di McCarthy sulla propria arte. Si pensi ad esempio a tutto ciò che viene detto intorno al linguaggio. Quando Alicia afferma che “l’intelligenza sono i numeri. Non le parole. Le parole sono cose inventate. La matematica no”, viene asseverata l’impossibilità ontologica del linguaggio di addivenire a una qualche verità ultima, il che, se ci si pensa, è, per un uomo che di professione fa lo scrittore e vive quindi di parole, una vera e propria dichiarazione di poetica, ancorché in negativo. La matematica, così come la musica, non hanno veramente bisogno del linguaggio, in quanto i loro procedimenti si compongono in gran parte a un livello inconscio (in un suo saggio del 2017, “The Kekulé problem”, McCarthy aveva citato come esempio illuminante proprio il caso del chimico tedesco Kekulé, il quale aveva raccontato ai suoi amici e colleghi come la struttura molecolare esagonale del benzene, la cui definizione lo aveva reso famoso, gli fosse stata ispirata dal sogno di un serpente che si mordeva la coda). L’inconscio, per McCarthy, ha funzionato benissimo per milioni di anni, rispondendo perfettamente ai bisogni biologici dell’evoluzione, ma l’arrivo del linguaggio è stato come una sorta di invasione parassitaria, “un’epidemia folgorante”, che ha colonizzato gli esseri umani, a scapito proprio dell’inconscio, spingendoli ad anteporre al mondo la sua rappresentazione, a sostituire “la realtà con l’opinione”. Non mi sento di escludere che una parte considerevole del pensiero nichilista di McCarthy possa farsi discendere proprio da queste considerazioni. Se infatti, parafrasando ironicamente il famoso aforisma di Wittgenstein (“ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”), si arriva tautologicamente a dire in “Stella Maris” che “di ciò di cui qui non sappiamo niente non sappiamo niente”, allora, con lo stesso ragionamento, giungere a dimostrare l’assoluta inanità, la totale sterilità dei colloqui tra Alicia e il dottor Cohen è un passo davvero molto, molto breve da compiere.
In “Stella Maris” la scrittura di McCarthy è densa come piombo, scura come la notte profonda. Leggere questo libro è un po’ come un’estenuante immersione in apnea, in cui si sa oltretutto di avere solo pochi secondi per riemergere alla luce del sole e riprendere il fiato. McCarthy è arrivato, attraversando una no man’s land rarefatta e inesplorata, fino al limite estremo della letteratura (già sfiorato anni prima con “Sunset Limited”, opera per molti versi apparentabile a “Stella Maris”), e si è affacciato su un altro universo sconosciuto agli altri scrittori, un posto da cui, voltandosi, ha probabilmente potuto dare un ultimo sguardo al nostro mondo così distante dal nulla sconfinato in cui si trovava. Alcune sue pagine sono veramente agghiaccianti, come quelle in cui Alicia descrive nei più minuziosi dettagli fisiologici le varie fasi che portano alla morte per annegamento. Quello di Alicia è un personaggio “sovrumano”, nel senso che ha ormai varcato quelle colonne d’Ercole che per il resto dell’umanità, quella “normale”, costituiscono un confine invalicabile, e si è irrimediabilmente affacciata sull’orlo di un mondo spaventoso ed inquietante. Alicia ha guardato dritto negli occhi l’orrore: nel sogno kafkiano di Archatron che racconta al dottore, ella ha potuto intravedere quel demone tremendo che si annida sotto la superficie della realtà. “Il mondo non ha creato un solo essere vivente che non intenda distruggere”. Per lei, figlia di uno dei fisici che hanno lavorato al Progetto Manhattan, perfino la guerra nucleare è inevitabile (“Probabilmente è come per qualsiasi bancarotta. Più riesci a rimandarla e peggio sarà… La gente non combatte con le pietre quando ha dei fucili”). Se è possibile essere felici solo fino a un certo punto, il dolore sembra invece non avere limiti. Alicia e il dottor Cohen si soffermano persino sul perché i neonati piangano e sul perché, raggiunta una certa fase della loro crescita, smettano di farlo. Per la ragazza la risposta è inesorabile: piangendo i bambini esprimono la rabbia nei confronti di un mondo che è diverso da quello che avrebbe dovuto essere. Ma siccome a suscitare la rabbia sono solo le cose che possono essere riparate, a un certo punto essi capiscono che all’ingiustizia non c’è rimedio, e la rabbia si trasforma in dolore. La cosa peggiore di questo mondo spietato e crudele è però che esso ci ignora e ci ha sempre ignorati (“il mondo non sa che siamo qui”), per cui, come altrettanti condannati a morte, non ci resta che rifugiarsi in un ultimo, utopistico desiderio, non tanto di non esistere più, ma addirittura di non essere mai esistiti.
In questa opera di inaudita sofferenza, capace di toccare vette di inenarrabile pessimismo, è tuttavia ancora possibile scorgere, come fioche fiammelle che brillano in lontananza nell’oscurità circostante, alcuni barlumi di umanità, se non proprio di speranza. L’amore per la musica (la ragazza ha speso gran parte dell’eredità della nonna per acquistare un antico e prezioso violino) e, soprattutto, quello per il fratello (benché fosse sempre stata consapevole della natura incestuosa del suo desiderio, ella avrebbe voluto sposare Bobby, di cui era profondamente innamorata, e farlo “entrare in lei come in una cattedrale”) sono ancora in grado di far commuovere Alicia. Ma la verità, incontestabile e irreversibile, è che Alicia si sta congedando definitivamente dal mondo. Come una navicella spaziale che sta perdendo progressivamente il contatto con la base prima di smarrirsi nel vuoto cosmico, la cinica, scettica e intelligentissima Alicia, apparentemente ermetica come una corazza a prova di proiettile, lascia dietro di sé, prima di sparire definitivamente, soltanto flebili tracce che, come frammenti di una misteriosa meteora, forse nessuno sarà mai in grado di interpretare: la nostalgia per una fede che non solo non si è mai posseduta, ma che a stento è possibile concepire come una implausibile possibilità astratta, e soprattutto il desiderio di un calore che possa scaldare anche soltanto per pochi attimi un cuore ineluttabilmente ghiacciato, e che nelle ultime righe del libro si materializza in un’estrema, commovente e disperata richiesta di stabilire una forma, anche la più semplice, anche la più banale, di contatto umano.
“Credo che il nostro tempo sia scaduto.
Lo so. Mi tenga la mano.
Tenerle la mano?
Sì. Voglio che lo faccia.
D’accordo. Perché?
Perché è quello che fanno le persone quando aspettano la fine di qualcosa.”
Indicazioni utili
Cormac McCarthy: "Sunset Limited"
Nostalgia di infinito
“La mia vita è già vissuta e il mio libro è già scritto, giacché il passato è tutto e il futuro è niente.”
Ci sono alcuni autori che pervicacemente, maniacalmente, forse anche morbosamente, affrontano nelle loro opere sempre le stesse tematiche, parlano sempre delle proprie ossessioni, scrivono in fondo sempre il medesimo, identico, libro. Penso per esempio a Thomas Bernhard e, naturalmente, a Marcel Proust. Mircea Cartarescu fa parte a tutti gli effetti di questa ristretta schiera di scrittori, per i quali ogni scritto è in fin dei conti una sorta di variazione su un unico tema costante. Basta soltanto leggere le prime righe del secondo volume della trilogia “Abbacinante” per essere riportati di peso, quasi che nel frattempo non ci fosse stata alcuna cesura, alcuna soluzione di continuità, alle riflessioni sul passato del narratore, sull’”io” di oggi che contiene come altrettante matrioske i molteplici "io" di ieri; il piccolo protagonista continua inoltre a star seduto sulla cassapanca della sua camera da letto, con i piedi sul termosifone, a guardare con occhi affascinati Bucarest dalla finestra, ed entra ancora una volta nell’appartamento all’ottavo piano di Herman, il vagabondo-filosofo, e così via. Si capisce che il libro di Cartarescu è un pensiero fisso che non abbandona mai il suo autore, ma lo costringe ad aggirarsi sempre negli stessi territori, come se si trovasse di fronte a una mappa nel tentativo inesauribile di decifrarla, come se da ciò dipendesse la sua stessa vita, la sua stessa salvezza. Anche lo stile è sempre uguale (prodigiosamente uguale, va detto), con il lessico che spazia, come in uno spettro elettromagnetico smisurato, dalla fisiologia del cervello, con le sue sinapsi, i suoi assoni e dendriti, fino alla cosmologia ultima del Big Crunch, con i suoi innumerevoli simbolismi biblici e religiosi e le sue continue digressioni misticheggianti. Insomma, leggere Cartarescu è un po’ come ritrovare un amico che magari non vedi per anni, ma che quando poi lo rincontri per caso al bar puoi continuare con lui a parlare come se niente fosse, e proseguire con estrema naturalezza quei discorsi lasciati da tempo in sospeso.
Se comunque si volesse affrontare in modo serio e meticoloso l’esegesi del testo, si potrebbe dire che se nell’”Ala sinistra” Cartarescu era una specie di archeologo dei ricordi, e si sforzava di risalire, con tanta immaginazione, a quei proto-ricordi che riguardavano la remota, leggendaria vita dei suoi avi e dei suoi genitori prima della propria nascita, reminiscenze che erano state in qualche modo ereditate attraverso i geni familiari oppure apprese attraverso una sorta di misterioso procedimento onirico, nel secondo tomo della trilogia la prospettiva è maggiormente orientata verso Mircea bambino, il cui passato il narratore fa rivivere (dagli anni della prima infanzia, passati in stretta, indissolubile simbiosi con la madre, a quelli della scuola, con la progressiva scoperta del mondo esterno al nido domestico) con la vividezza, la minuziosità, la precisione anche topografica di qualcosa che si è profondamente e definitivamente fissato, impresso nel proprio corpo di uomo adulto in cerca di un senso alla propria esistenza. Anche quando, dopo la prima parte più filosofica e astratta, Cartarescu si abbandona all’aneddotica infantile pura e semplice (“credo sia giunta l’ora di accettare un briciolo di realtà”), come un McCourt qualsiasi, anche in queste pagine l’autore non rinuncia però alle sue improvvise, inopinate accensioni fantastiche: salendo le scale del bloc dove Mircea abita ci si può imbattere in mondi sorprendenti e insospettati o perdersi come in un labirinto; il gioco in cui il piccolo protagonista viene issato dai compagni dentro a un secchio per mezzo di una carrucola si trasforma in una specie di avventura soprannaturale; una casa al tramonto può abbandonare le sue fondamenta e mettersi a volare nel cielo crepuscolare di Bucarest; e così via dicendo. La visionarietà dello scrittore romeno è il sintomo di una “propensione mistica o poetica esagerata”, che segna e caratterizza inconfondibilmente tutta la sua opera. “E’ come se avessi non un certo numero di sensi, ma miliardi di sensi”, e ciò produce un vertiginoso moltiplicarsi di sensazioni, di riflessioni, di piani di lettura.
Il narratore, fin da giovane, si dedica a scrivere forsennatamente un manoscritto, accumulando pagine su pagine, come se fosse spinto da un irrefrenabile impulso, da un’irresistibile coazione. Il presupposto che lo muove è che ogni opera scritta deve “essere un Vangelo o non essere affatto”. “Non c’era ragione, per un libro, di essere un congegno per un bel sognare, la sua esistenza non si giustificava se non come una freccia rivolta verso la salvezza”. Da qui a considerare lo scrittore come una sorta di profeta, o addirittura di Messia, il passo è breve. La verità è appannaggio di un’unica anima eletta (così come, per converso, “ogni libro vero seleziona sempre un solo lettore”) e la salvezza è come il concepimento umano, dove un solo spermatozoo, tra milioni di altri spermatozoi, raggiunge e feconda l’ovulo. C’è una pagina magica ed esaltante (una di quelle che ogni scrittore vorrebbe scrivere almeno una volta nella vita, ma che pochissimi riescono effettivamente a realizzare nell’arco dell’intera carriera), in cui Cartarescu immagina la redenzione proprio come una eiaculazione di farfalle, che fuoriescono a fiotti, innumerevoli, dai crani umani per cercare di unirsi a una inafferrabile, iperbarica divinità, ma soltanto una di esse, dopo un viaggio periglioso e terribile, dopo essersi bruciata le ali, dopo essersi trascinata agonicamente, il ventre martirizzato, attraverso canali di carne e di fuoco, ridotta ormai a uno scheletro, riuscirà a fondersi nel prodigio meraviglioso, nella luce pura e abbagliante. Come un equilibrista in bilico tra il serio e il ridicolo, tra il sacro e il grottesco, lo scrittore romeno giunge a trasformare la sua autobiografia in una bizzarra ucronia, immaginando che il gemello Victor non sia morto di polmonite, poco dopo la nascita, in ospedale, ma sia stato rapito dalla fantomatica setta degli Illuminati, per far sì che Mircea, crescendo, non venisse distratto dalla sua vicinanza e dal suo affetto e potesse dedicarsi alla scrittura di quel libro fatidico e indispensabile per le sorti dell’umanità. Come nel primo volume si diceva che Dio è creato dall’uomo per poter essere da Lui a sua volta generato, così ne “Il corpo” i personaggi (gli Illuminati) “inventano” il loro autore, guidandolo in segreto alla elaborazione del suo libro. Questo coté spericolatamente meta-letterario è quanto mai congeniale alla visione dello scrittore romeno, secondo cui ogni mondo è il rovescio di un altro, come se le piante dei piedi di chi sta nel mondo di sopra corrispondessero a quelle, ribaltate, di coloro che vivono nel mondo di sotto (“viviamo in mondi sovrapposti, ciascuno sotto il ghiaccio spesso dell’altro… Siamo i cieli del mondo di sotto e le profondità maledette del benedetto regno di sopra”). L’universo di Cartarescu è in fondo come un nastro di Mobius, in cui le due facce del nastro sono costituite dalla realtà e dalla finzione, ma è impossibile capire quando una trapassa nell’altra. Chi conosce un poco Cartarescu sa fin troppo bene che per il romanziere di Bucarest il mondo in cui viviamo è un inganno, e che solo la limitatezza dei nostri sensi ci impedisce di elevarci dalle nostre tre dimensioni alla dimensione superiore, che è rappresentata dal tempo. Per una sorta di paralizzante, congenita agnosia, l’uomo è in grado soltanto di vedere il passato, mentre ignora completamente il futuro, benché questo venga a volte rivelato per mezzo della premonizione o della profezia. E il tempo non è probabilmente l’ultima, definitiva dimensione, perché forse altre molteplici, inesplicabili dimensioni sono comprensibili da esseri superiori, divini. Il mondo potrebbe allora apparire come quel foglio di carta appallottolato che i maestri dell’origami gettano nell’acqua e che pian piano comincia ad aprirsi rivelando un fantastico fiore di loto. E’ a queste superne, metafisiche dimensioni che lo scrittore deve tendere. E’ per questo che l’immagine della farfalla ricorre ossessivamente nel romanzo, simbolo, con la sua trasformazione da larva vagamente ripugnante a insetto leggiadro e variopinto, del passaggio graduale a stadi più evoluti dell’esistenza. Numerosi sono i simboli, spesso oscuri e difficilmente comprensibili, utilizzati da Cartarescu (il volo e la levitazione, gli ascensori, i tappeti), ma quella della farfalla rappresenta la metafora perfetta, al punto da venire incorporata nel titolo stesso della trilogia. Nei suoi “ricordi” primigeni, anteriori alla propria nascita, il narratore immagina la sua futura madre che ogni mattina si trasforma in farfalla e una volta, volando molto in alto sopra il villaggio natale, arriva perfino a vedere la figura di Dio Padre. La capacità di possedere ali dura però poco: il passaggio alla vita adulta tarpa questa aspirazione a “librarsi nell’aria”, e allontana definitivamente l’essere umano dalla naturale, inconscia condizione di perfezione insita nell’infanzia, quando si è ancora in grado di “vedere” pur senza saperlo. E quando non è la crescita, l’esiziale trascorrere del tempo, ci pensa la realtà, quella realtà che in “Solenoide” si dice che “ci schiaccia osso dopo osso nel suo abbraccio”, a distruggere l’umano sogno della rivelazione suprema. Come le farfalle che si bruciano volando troppo vicino alla luce della fiamma, così le farfalle di Cartarescu vengono costantemente distrutte, uccise o rese impotenti tagliando loro le ali, come fa la madre di Soile, che sacrifica l’insetto mutilato dandolo in pasto al grosso ragno che alleva in casa in un terrario. Fuor di metafora, il piccolo protagonista sperimenta la perdita irreparabile della sua capacità di vedere quando proprio davanti al bloc dove abita viene costruito un enorme falansterio, che gli toglie la vista a perdita d’occhio della città, che egli amava guardare per ore prima di addormentarsi.
Chi è arrivato a due terzi della trilogia di “Abbacinante” ha ormai preso confidenza con la prosa delirante di Cartarescu, in cui le storie si succedono vorticosamente e in modo apparentemente poco plausibile (si pensi all’avventuroso viaggio del piccolo Maarten verso il lontano, fantomatico vascello imprigionato dai ghiacci, attraverso lande immense e desolate percorse con infantile intrepidezza coi suoi pattini, viaggio che si trasforma in un’esperienza soprannaturale, in cui la sua esistenza trascorre nell’arco di poche ore fino ad approdare ad una sorta di mondo infero, dantesco, dove egli assiste alla propria morte e resurrezione; o ancora alla setta degli Illuminati, che di giorno si mimetizza nei tanti uomini-statua che attirano la curiosità dei turisti di Amsterdam). In questa vertigine, in cui una donna può entrare in una casa nella periferia di Bucarest ed uscirne nel pieno centro di Amsterdam, e in cui l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo si mescolano e si confondono (come quando l’”occhio” dello scrittore si allarga dal corpo senza vita di Vasile per innalzarsi, come un prodigioso dolly cinematografico, a inquadrare la stanza, il cortile, il quartiere, la città, e piano piano, in uno strepitoso movimento progressivo di allontanamento, i Balcani, l’Europa, il pianeta intero, e via via il sistema solare e le galassie, fino a mettere a fuoco una figura che assume infine i contorni della zampa pluriarticolata di un insetto!), in questa vertigine il lettore rimane stregato, irresistibilmente invischiato come una mosca in una ragnatela. “Il corpo” è sicuramente un libro interlocutorio: non c’è più la sconvolgente sorpresa provata al cospetto del primo volume della trilogia, che era qualcosa di inaudito, di mai letto prima; inoltre i tanti fili disseminati da Cartarescu non convergono ancora (sebbene alcuni personaggi, come il nero Cedric o la prostituta Coca, riemergano a sorpresa da “L’ala sinistra”, e nonostante l’episodio dell’uomo-serpente, in cui il piccolo Mircea, ipnotizzato dall’illusionista, rivive nel subconscio la propria nascita, sembri il perfetto contraltare della cerimonia iniziatica di Fra’ Armando con cui si era concluso il libro precedente), non convergono ancora – dicevo – verso una fine univoca e coerente, la quale ancora non si riesce a intravedere nella nebbia evanescente dei deliri e delle allucinazioni dell’autore; eppure non si può non riconoscere che si tratta pur sempre di un Cartarescu in purezza, un prezioso distillato che la sua sopraffina arte ha faticosamente secreto per consegnare alla letteratura (parafrasando la “Smisurata preghiera” di De André) “una goccia di splendore, di umanità, di verità”.
Indicazioni utili
IL FANTASTICO E COLORATO MONDO DI BRUNO SCHULZ
“Le visioni affluivano, si affollavano formando ingorghi”
Anni fa, al termine di uno spettacolo cui assistetti a Chiavari, Moni Ovadia consigliò al pubblico presente la lettura di un’opera che allora mi era completamente sconosciuta, “Le botteghe color cannella” di Bruno Schulz. All’inizio avevo pensato, lo confesso, che il suggerimento fosse dovuto soprattutto alla comune origine ebraica dei due artisti, magari rafforzato da un gusto affine per l’umorismo yiddish e per le storielle chassidiche. Quando tempo dopo ho preso finalmente in mano il libro di Schulz, il quale contiene in poche centinaia di pagine l’intera sua produzione sopravvissuta all’Olocausto, mi sono reso conto che mai raccomandazione fu più provvidenziale, perché mi ha consentito di essere messo a parte, come un adepto privilegiato, di uno dei segreti meglio custoditi della letteratura europea del Novecento. Nelle “Botteghe color cannella” si assiste infatti a un incantevole tripudio, a una sfrenata polluzione di immagini visionarie e fantastiche, che fioriscono sulle pagine grazie al lussureggiante e inesauribile rigoglio di una tra le più fervide e prodigiose immaginazioni che mi sia mai stato dato di conoscere. Affascinato da quel mistero imperscrutabile che è la vita, Schulz ne mostra “la ricchezza e complessità in migliaia di possibilità caleidoscopiche, ognuna delle quali portata a un limite paradossale, a un’esuberanza caratteristica”. Portavoce emblematico dell’autore è il padre del narratore, Jakub, una sorta di novello Prospero che, non si sa se più pazzo o uomo di genio, dedica tutto il tempo che la professione di commerciante di stoffe gli concede a progettare bislacchi esperimenti mesmerici e stravaganti creazioni demiurgiche, guardato con sufficienza e distacco dal resto della sua famiglia. In questo “incorreggibile improvvisatore”, in questo “prestigiatore metafisico”, in questo “maestro schermitore dell’immaginazione, difensore della causa persa della poesia”, si trova incarnato il messaggio più profondo e pregnante di Bruno Schulz, ossia l’inesausto e caparbio tentativo di superare la banalità del quotidiano per mezzo della forza giocosa e fanciullesca della fantasia. E’ così che egli trasforma letteralmente l’acquiescente zio Edward in un apparecchio elettrico collocato in una parete di casa, moltiplica piccioni come un illusionista da circo e, soprattutto, dà vita, dopo aver studiato per settimane polverosi e antiquati libri di ornitologia, a improbabili uccelli esotici facendo covare da enormi galline belghe le uova già fecondate fatte venire, con grande spreco di soldi e fatica, da lontani paesi stranieri, facendo sì che in breve tempo le stanze domestiche si riempiano di fantasiosi, colorati e cinguettanti pennuti che finiscono per annidarsi ovunque, dai bracci dei lampadari ai bastoni delle tende, dalle cime degli armadi alle cornici dei quadri. Nel “Trattato dei manichini, ovvero Secondo libro della Genesi” Jakub rivela esplicitamente il proprio afflato demiurgico e si arroga l’ambizioso privilegio del creatore, fidandosi ciecamente della docilità, della porosità, della mistica consistenza della materia. Si tratta però, se così si può dire, di una creazione di seconda mano, rozza e maldestra, in cui viene data “la preferenza alla paccottiglia”, “perché ci affascina, ci incanta il basso costo, la mediocrità, la volgarità del materiale”. E’ evidente il riferimento al mito del golem, la mostruosa creatura di argilla a cui, secondo le leggende ebraiche, gli iniziati ai misteri della cabala e ai poteri legati al nome di Dio sono in grado di dare la vita. Schulz declina questo mito in chiave burlesca, in quanto il progetto di demiurgia di Jakub si esprime nella volontà di creare una seconda volta l’uomo “a immagine e somiglianza di un manichino”. E’ curioso come nelle “Botteghe color cannella” le cose e gli oggetti si animino, si metamorfizzino (le tappezzerie sembrano pullulare nottetempo di presenze misteriose, i tappeti occhieggiano continuamente tra di loro, le stoffe si srotolano e scendono dagli scaffali nelle ore di pausa del negozio e nei solai si tengono vere e proprie assemblee di bottiglie, pentole e stoviglie), mentre al contrario gli esseri viventi si reifichino, trasformandosi in marionette, in maschere di cera, in uccelli impagliati e in altri ammennicoli del genere. L’universo di Schulz è pieno di affascinanti cianfrusaglie, di singolari mirabilia da bric-à-brac, che trovano il loro teatro nelle attraenti botteghe del titolo, aperte a tutte le ore, nelle quali “si potevano trovare bengala, scatole magiche, francobolli di paesi da tempo scomparsi, decalcomanie cinesi, indaco, colofonie di Malabar, uova di insetti esotici, di pappagallo, di tucano, salamandre vive e basilischi, radici di mandragola, giocattoli meccanici di Norimberga, homunculi in vaso, microscopi e binocoli, ma soprattutto libri rari e curiosi, vecchi infolio pieni di incisioni straordinarie e di storie sorprendenti”. A queste botteghe si contrappone nei racconti schulziani la “via dei coccodrilli”, in cui tutto è imitazione posticcia e fasulla della modernità, tutto è equivoco, grigio, impersonale, illusorio come le merci che vi vengono vendute, che titillano con astuzia i bassi istinti dell’uomo, creando desideri artificiali e fittizi destinati a bruciare e a spegnersi in un batter d’occhio, e in cui Schulz sembra prefigurare (come Kafka in “America”) una sorta di critica ante-litteram del consumismo contemporaneo, destinato a dilagare in maniera inarrestabile in tutti i paesi e a tutte le latitudini. La simpatia di Schulz va invece a tutto ciò che “può essere per la sua provenienza e per i suoi mezzi piccolo e povero, eppure, avvicinato all'occhio, può aprire nel suo interno una prospettiva infinita e radiosa”. Lo stesso Libro universale, contenente l’immensità del trascendente, che il padre compulsa con devozione e solennità, strofinando pazientemente le sue pagine con il dito bagnato di saliva, diventa per il piccolo narratore volta a volta un almanacco da fiera, una rivista con pacchiani annunci pubblicitari o un album di francobolli. Schulz eleva così il grossolano e il volgare al livello del sacro e del sublime, perché è in grado di scorgervi quella singolarità, quella eccentricità che sola può dare, a chi è capace di guardarla con occhi di fanciullo, sapore all’esistenza.
Il gusto schulziano per il bizzarro, per l’inusitato, coinvolge tutto, perfino le stagioni dell’anno. Nelle “Botteghe color cannella” si racconta di tredicesimi mesi, mesi falsi, apocrifi, soprannumerari, generati dalla “incontinenza senile dell’estate, nella sua libidinosa e tardiva vitalità”; di “pseudoautunni” che sono come dei miraggi malati, delle poetiche ma ingannevoli quinte teatrali; di primavere che non si accontentano di ardenti frenesie, di agitati eccessi, di fiorite estasi prima di venire meno alle loro aspettative ed essere assorbite dalla stagione successiva, primavere che hanno invece il coraggio di perseverare e mantenere tutte le loro promesse, di realizzare tutti i loro incantesimi; di estati torride, inebrianti, abbacinate, in cui nella selvatica, aggrovigliata vegetazione di un giardino abbandonato si può addirittura avere la ventura di sorprendere spaventati folletti in fuga precipitosa verso le fronde ombrose delle piante. Ho parlato di stagioni perché Bruno Schulz è un abilissimo descrittore degli eventi atmosferici, in grado ad esempio di cogliere miracolosamente tutte le più impercettibili sfumature, le più recondite suggestioni di una giornata primaverile in un parco cittadino, dall’alba al crepuscolo. E’ però nelle scene notturne, per una predilezione personale dovuta a una natura incline alla solitudine e alla contemplazione silenziosa del creato, che Schulz dà il meglio di sé. Nelle buie ore che seguono il tramonto è infatti possibile contemplare, in una sorta di cosmica sospensione, le metamorfosi della volta celeste, le ingegnose e infinite configurazioni delle stelle. Nell’omonimo racconto, ad esempio, lo scrittore polacco paragona la notte di luglio “al cuore di un'immensa rosa nera che ci ricopre con il sonno moltiplicato di mille petali vellutati”, oppure “al nero firmamento delle nostre palpebre chiuse, cosparso di pulviscolo vagante, di una bianca polvere di stelle, razzi e meteore”, o ancora “a un treno notturno lungo come il mondo, che corre in uno sconfinato tunnel nero” (“Attraversare la notte di luglio è passare a fatica da un vagone all'altro, in mezzo a viaggiatori sonnolenti, lungo corridoi affollati, fra scompartimenti soffocanti e correnti d'aria incrociate”). I personaggi di Schulz sono spesso sorpresi nell’atto di dormire, piuttosto che descritti nelle ore di veglia, avvinghiati al sonno come Giacobbe nella lotta con l’angelo, mentre intorno a loro succedono le cose più strane, come ad esempio che intere falangi di sbratti, di travi, di cavalletti di legno, di vecchie stoviglie abbandonino le soffitte per volare nella bufera sopra la città addormentata. L’intera opera di Schulz è in fondo, a volerla sintetizzare in breve, un perpetuo, originale esperimento con cui egli si propone di indagare l’altra dimensione, quella nascosta e normalmente trascurata dalla maggioranza degli altri scrittori, ossia il rovescio delle cose, gli avvenimenti che “tentano soltanto di accadere… e subito si ritraggono temendo di perdere la propria integrità in una realizzazione difettosa”, quelle ore in cui “nella penombra le strade si moltiplicano, si confondono e si scambiano l’una con l’altra” e “nel cuore della città si aprono, per così dire, strade doppie, strade sosia, strade ingannevoli e fallaci”, e tutto quel “mondo invisibile dei ripostigli oscuri, delle tane dei topi, dei vuoti spazi tarlati sotto il pavimento e delle gole dei camini” in cui ama scomparire Jakub per sfuggire all’asfissiante tedio dell’umanità meschina e priva di sogni.
Se “Le botteghe color cannella” è un libro rimarchevole il merito non è solo dell’originalità delle sue tematiche, ma anche del brillantissimo stile di Bruno Schulz. Nella sua opera abbondano le metafore e le similitudini (le giornate invernali “si indurivano di freddo e di noia, come tozzi di pane dell’anno passato”; le orecchie del padre che ascoltano le voci fuori del negozio si allungano e ramificano come “fantastico corallo, polipo rosso ondeggiante nelle torbide acque della notte”; l’aria della notte è un “nero Proteo che per divertimento forma addensamenti vellutati, scie di profumo al gelsomino, cascate d’ozono, vuoti d’aria improvvisi che sbocciano all’infinito come ampolle nere, mostruosi grappoli di oscurità, gonfi di nero succo”), gli ossimori (“il chiassoso silenzio mattutino”) e i neologismi (si possono agevolmente rintracciare termini come “giornigramigna”, “testesonagli”, “uominibatacchi”, “macchineragno”, “creaturedomanda”, “quadrienigma”). C’è un’esuberanza stilistica che asseconda alla perfezione il vorticoso mulinare della fantasia di Schulz e che trova pochi paragoni nella letteratura passata e coeva. Certo, vi sono numerosi riferimenti biblici (il Libro di cui già si è detto, o meglio ancora la scena, piena di citazioni veterotestamentarie, dell’assalto notturno dei clienti alla bottega di tessuti di Jakub, il quale come un collerico profeta assiste sdegnato alle brulicanti e confuse contrattazioni intorno alla sua mercanzia, imprecando contro quegli adoratori di Baal che profanano quella terra di Canaan fatta di stoffe, drappi e velluti che egli custodisce gelosamente come riserve accumulate in un granaio e da cui malvolentieri si separa, preferendo mantenerle intatte piuttosto che convertirle in denaro sonante), ma la Bibbia è citata in maniera caricaturale e buffonesca. Le trasformazioni di Jakub in scarafaggio, in gambero o in uccello fanno poi pensare, naturalmente, al Kafka de “La metamorfosi”, ma se il tono dello scrittore praghese è angoscioso e tragico, il metamorfismo del personaggio di Schulz ha sempre un’accezione faceta e scanzonata. Più pertinente semmai è l’accostamento con Gombrowicz, esplicitamente citato nel racconto in cui il pensionato si ritrova, dopo cinquant’anni, dietro i banchi di scuola, ma in Schulz, a dire il vero, non c’è traccia alcuna della irriverente satira sociale che caratterizza invece “Ferdydurke”. Se passiamo poi agli epigoni di Schulz, agli autori contemporanei influenzati dallo scrittore polacco, la scelta è forse ancora più ristretta, dal momento che mi vengono in mente solo Volodine (il sanatorio, con quelle fantasmatiche presenze che non si sa se siano più vive o morte, ricorda alla lontana il Bardo descritto in “Terminus radioso”), Cartarescu (per la commistione di realtà, sogno e allucinazione che caratterizza, sia pure con un differente approccio teorico, entrambi gli autori) e, spostandoci dalla letteratura al cinema, il regista e animatore ceco Jan Svankmajer (per lo sbrigliato surrealismo che lo contraddistingue). Il fatto è che Bruno Schulz è difficilmente assimilabile a mode, correnti e perfino epoche storiche; la sua estrosa ma allo stesso tempo delicata poetica risulta sempre assolutamente personale, inconfondibile e costituisce uno dei più ragguardevoli monumenti all’immaginazione creativa che l’arte abbia mai saputo concepire. Anche se i suoi racconti possono a prima vista apparire diseguali, poco omogenei, scarsamente organizzati e quasi incapaci di arginare con una coerente struttura narrativa l’incontrollabile furia dell’ispirazione, Schulz ci rammenta che “tutte le cose sono collegate, tutti i fili sboccano in un unico gomitolo. Avete notato che in mezzo ai versi di certi libri passano a volo stormi di rondini, interi versetti di rondini palpitanti, affusolate?” In questa lirica rivendicazione del primato della poesia sulla prosaicità del quotidiano risiede l’incontaminata essenza di un autore che ha attraversato il secolo scorso come una meteora, ma è riuscito nondimeno a lasciare al mondo una scia luminosa e imperitura.
Indicazioni utili
TRA LEGGENDA E PROFEZIA
“Il cielo e la terra pullulano di allusioni e presagi che si producono senza sosta.”
Confesso di essere sempre rimasto affascinato dall’idea che, in un periodo di crescente antisemitismo, culminato in Germania nell’avvento del nazismo e nelle ben note persecuzioni contro gli ebrei, uno scrittore come Thomas Mann, appena insignito del premio Nobel per la letteratura e apparentemente molto lontano, per origini e per cultura, dal mondo ebraico, abbia voluto cimentarsi con un’opera clamorosamente anacronistica, che indaga, attraverso il suo personaggio principale, le origini, affondate in un passato lontanissimo e leggendario, del popolo di Israele. Questa tetralogia, che occupò lo scrittore tedesco per una dozzina d’anni e che, iniziata in Germania e proseguita nel suo esilio svizzero, terminò solamente durante la sua permanenza negli Stati Uniti, è un’opera immensa, “settantamila righe che – secondo le parole del suo autore – scorrono placidamente rievocando eventi remotissimi della vita umana, amore e odio, benedizione e maledizione, dissidi tra fratelli e sofferenze paterne, superbia e penitenza, caduta ed elevazione, un canto venato d’umorismo che celebra l’umanità”. La Bibbia, o meglio la seconda sezione della Genesi, quella dedicata ai Patriarchi, è il riferimento ovvio e naturale di “Giuseppe e i suoi fratelli”, ma, come si può vedere soprattutto nel suo secondo tomo, quello di cui qui si parla, ossia “Il giovane Giuseppe”, essa costituisce un semplice punto di partenza, un mero canovaccio, un soggetto sulle cui esili fondamenta Mann costruisce un edificio letterario sorprendentemente originale. Un solo capitolo della Genesi, il 37 (che lo stesso Goethe definiva troppo breve), diventa così un testo complesso e articolato, in cui lo scrittore tedesco dimostra una ineguagliabile capacità di infondere eleganza poetica, ricchezza psicologica e vividezza di colori ai pochi versi, francamente anodini e oltremodo logorati da una millenaria tradizione, dell’Antico Testamento. Si narra che la correttrice di bozze che lesse per prima “Giuseppe e i suoi fratelli” si complimentò con lo scrittore perché “ora finalmente sappiamo come andarono veramente le cose”: affermazione paradossale per una vicenda che, ovviamente, non è mai accaduta, ma che viene da Mann scrostata da tutta la polvere depositatavi sopra dal tempo e rivestita di una sensibilità affatto moderna. I personaggi biblici vengono ad esempio descritti in maniera assai poco convenzionale: Giacobbe, come già visto nel libro precedente, è un uomo che si preoccupa solo delle proprie meditazioni spirituali e del proprio esclusivo rapporto con Dio, al punto da trascurare, giudicandole come una fastidiosa seccatura, tutte le questioni più quotidiane e prosaiche (dalla sorveglianza dei lavori agricoli sulle sue terre fino all’appianamento dei dissidi che avvelenano i rapporti dei suoi numerosi discendenti), al punto di non essere in grado, non solo di prevenire, ma anche solo di immaginare quali nefaste conseguenze sia destinata a provocare la sua manifesta predilezione per Giuseppe; e questi, a sua volta, è un giovinetto presuntuoso e viziato, talmente convinto della propria innata amabilità da risultare odioso persino per il lettore, il quale è portato, se non a parteggiare per i suoi invidiosi fratelli, sicuramente a concedere loro parecchie attenuanti e giustificazioni. Laddove nelle Sacre Scritture molti personaggi, come nel caso dei fratelli di Giuseppe, sono soltanto dei nomi, Mann conferisce loro una spiccata individualità, differenziandoli gli uni dagli altri per mezzo di attributi psicologici e caratteriali unici e distintivi. Quando si arriva così all’episodio clou del romanzo, quello in cui i fratelli aggrediscono Giuseppe, lo spogliano della preziosa tunica che il padre, in segno di benedizione, gli aveva regalato, e lo gettano in una cisterna vuota, la scena acquisisce da una parte una fisicità, una matericità inusitate (con i dieci fratelli che si gettano sopra allo sventurato Giuseppe come un branco di lupi affamati sulla preda, e Giuseppe che, quando finisce il pestaggio, ha il corpo coperto della loro bava, la polvere mescolata con il sangue, l’unico occhio ancora aperto che si chiude come per un istintivo riflesso di difesa contro nuove violenze), dall’altra dà modo di osservare le differenti reazioni dei fratelli, da Ruben che non ha il coraggio di opporsi alla violenza degli altri ma cerca senza darlo troppo a vedere di evitare l’irreparabile, di guadagnare tempo, di procrastinare il fratricidio, a Simeone e Levi, i gemelli sanguinari, che invece vorrebbero finire Giuseppe a colpi di bastone, “secondo il buon metodo di Caino”, fino a Giuda che si domanda quale vantaggio comporti ammazzare il fratello piuttosto che lasciarlo morire di fame e di sete dopo averlo calato ancora vivo in una fossa.
Un romanzo che inizia con squisite riflessioni sulla natura della bellezza finisce così per toccare vette di atroce bestialità (al punto che a un certo punto “caddero parole che non ripeteremo testualmente perché farebbero inorridire la sensibilità degli uomini d’oggi”), ma lo stile di Mann, nonostante ciò, rimane sempre apollineo e imperturbabilmente sublime. Non solo, si delinea qui una riflessione religiosa molto raffinata e moderna: i fratelli di Giuseppe si rivelano infatti meri strumenti del destino, un po’ come il Giuda dei Vangeli, eppure si illudono ingenuamente di poter vincere gli interdetti e le punizioni di Giacobbe e addirittura i disegni di Dio (le profezie insite nei sogni di Giuseppe, i quali preconizzano la sua supremazia familiare), mettendoli entrambi di fronte al fatto compiuto della morte del figlio di Rachele. E’ una religiosità ancora primitiva, in divenire, legata più alla forma esteriore del culto (i fratelli sono convinti, pur avendo fatto quello che hanno fatto, di essere uomini pii) che all’esercizio fattivo della virtù. Lo stesso Giacobbe, convinto che il figlio sia stato ucciso da una belva feroce, si lascia andare a una sorta di ribellione nei confronti di Dio, incapace com’è di accettare la realtà ineludibile del dolore. Egli, uomo profondamente religioso, non accetta la morte del figlio prediletto e si sente defraudato, ingannato, ritenendo che Dio abbia violato il patto con l’uomo. Regredendo a una concezione della religione arcaica, imbevuta di miti, Giacobbe vorrebbe scendere agli inferi per riportare Giuseppe nel mondo dei vivi, come nelle antiche leggende facevano le madri-spose, o addirittura sostituirsi alla divinità e ricreare il figlio con l’argilla, insufflandogli la vita nelle narici, proprio come nella favola del golem. Con ciò egli dimostra di essere ancora un uomo vecchio, al contrario di Giuseppe, il quale, con quella naturale “intelligenza di Dio” che lo contraddistingue, intuisce nei recessi più profondi del suo io che le sue vicissitudini devono far parte di un disegno divino che non comprende ma che è disposto, nonostante le sofferenze, ad assecondare. Se l’uomo evolve nel suo essere religioso (i contemporanei di Giuseppe vedono il sacrificio umano come un abominio, e la sua sostituzione rituale con il sangue di un agnello ne è la logica conseguenza, ma ricordiamo che ancora due generazioni prima, con Labano, l’uccisione del figlio primogenito per ingraziarsi la divinità era la norma), anche Dio fa lo stesso. C’è in Mann una curiosa concezione evoluzionistica di Dio: l’uomo ha bisogno di Dio, ma anche Dio ha bisogno dell’uomo, ha bisogno di venire da lui intuito, pensato e plasmato nei suoi concetti essenziali. E’ un Dio che procede con l’uomo, che cresce con lui e che solo nel Nuovo Testamento perderà del tutto i suoi connotati barbari e selvaggi. Di più, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Giuseppe è un dio che si è dovuto far largo tra una moltitudine di divinità concorrenti e che risente inevitabilmente delle loro influenze. “Giuseppe e i suoi fratelli” è un romanzo sospeso tra passato e futuro, tra leggenda e profezia. Si pensi a Giuseppe che giace per settantadue ore sul fondo della cisterna e viene poi riportato alla luce del sole, per così dire “resuscitato”, dalla carovana di mercanti ismaeliti che transitano casualmente in quei paraggi: l’episodio ricorda l’antico mito di Tammuz-Adonai, dilaniato da Ninib, sepolto e poi riemerso dal mondo degli inferi, a sua volta probabile elaborazione di altri miti che si perdono nella notte dei tempi; ma è anche la prefigurazione della morte di Cristo e della sua resurrezione dopo tre giorni. Mann da una parte attualizza, arricchendola di verità psicologica, la storia di Giuseppe, facendolo quasi diventare un nostro contemporaneo, dall’altra la fa rientrare nella dimensione a-temporale del mito. Non c’è qui una rappresentazione denigratoria o iconoclasta della religione, ma al contrario la constatazione del suo ruolo, fondamentalmente a-storico (in quanto presente in tutte le ere della storia), come spiegazione giocoforza leggendaria (perché non risolvibile razionalmente o scientificamente) di domande da sempre presenti nella mente e nel cuore degli uomini: chi siamo? da dove veniamo? cosa c’è dopo la morte? Mann sa bene che le storie dell’Antico Testamento non sono mai avvenute, che sono solo un mito che è servito a una comunità per fondare le proprie radici e proiettarsi nel futuro con la pretesa di essere un popolo eletto. Mann tutto questo lo sa, eppure racconta le vicissitudini di Giuseppe con la massima scrupolosità e verosimiglianza, attento ad ogni minimo dettaglio e richiamando anche il lettore a uno sforzo di immedesimazione (“A chi narra deve premere che l’ascoltatore si rappresenti al vivo la scena… Dobbiamo cercare in ogni modo che ciascuno si rappresenti nella viva realtà una condizione così dolorosa”). Così facendo Mann non solo rende verosimile una storia succinta e lacunosa, ma fa addirittura diventare vera una storia completamente inventata!
Indicazioni utili
UN MONDO DI GHIACCIO E DI CENERE
“Il male non ha un piano B. È semplicemente incapace di mettere in conto il fallimento.”
“Il passeggero” è stato probabilmente il romanzo più atteso degli ultimi decenni. Se ne parlava da così tanto tempo che a un certo punto avevo quasi temuto che non sarebbe mai riuscito ad essere pubblicato con il suo autore ancora in vita. Il fatto è che sedici anni da un romanzo meraviglioso, epocale come “La strada” sono davvero tanti, e in questo lasso di tempo lo scrittore di Providence era uscito dal suo silenzio artistico solamente con un dramma teatrale, “Sunset Limited”, e con la sceneggiatura cinematografica di un film di Ridley Scott, “Il procuratore”. Si capisce pertanto come l’attesa per questa nuova, forse ultima e definitiva, doppia opera (a ruota, nel giro di poche settimane, è uscito in America, completando una sorta di dittico ideale, anche “Stella Maris”) fosse spasmodica, con un forte rischio – come spesso accade in casi del genere – che l’entusiasmo si trasformasse in cocente delusione a causa dell’improbo paragone con gli smisurati capolavori che l’avevano preceduta e con cui fatalmente avrebbe dovuto essere confrontata. Quello che faccio di solito in questi frangenti è immaginare che il libro che ho sotto gli occhi sia stato scritto da uno scrittore esordiente e, spogliandolo in tal modo dell’aura carismatica ma anche un po’ ingombrante del romanziere celebre, verificare con imparzialità se esso sia in grado di eccellere per meriti suoi propri, e non solo grazie all’inconscia soggezione nei confronti di un autore ormai entrato nel mito e a cui si perdonerebbe probabilmente qualsiasi peccato, veniale o meno. Alla prova dei fatti, dopo una lettura insieme esaltante e faticosa, devo riconoscere che “Il passeggero” è riuscito a superare ogni più rosea aspettativa: è un McCarthy in purezza, potente, apocalittico, profetico, che l’età non ha per fortuna né addolcito e neppure fatto tentare dalle rischiose sirene della demagogia e del sentimentalismo; ma è anche un’opera che azzarda – come spiegherò più avanti – nuove soluzioni narrative, nuove prospettive, e non si accontenta delle confortevoli soluzioni del déjà vu, della maniera.
Il romanzo è la storia di Bobby Western, un personaggio che è fin troppo facile (nomen omen) interpretare come un simbolo, una sineddoche dell’intera società occidentale. Egli è una figura a prima vista abbastanza implausibile (è contemporaneamente un fisico teorico, un pilota di Formula 2 e un sommozzatore professionista!), eppure nel giro di poche pagine si rivela come uno dei personaggi più affascinanti mai ideati da McCarthy: uomo schivo, di poche parole, apparentemente impassibile di fronte ai colpi del destino, ma tormentato nel profondo da un’angoscia esistenzialista e dai sensi di colpa di un doloroso passato mai elaborato del tutto, Western mi ricorda vagamente il Suttree degli esordi. Deuteragonista del romanzo è Alicia, la sorella bellissima, geniale e schizofrenica di Bobby, morta dieci anni prima degli avvenimenti narrati, le cui allucinazioni si intercalano, scritte in carattere corsivo, nel corpo della storia, in apertura di ogni capitolo. La mente disturbata di Alicia dà vita a una serie di personaggi immaginari, che invadono il suo mondo reale, ma che invece di essere, come si potrebbe supporre, degli incubi, sono (in particolare lo squinternato, scurrile e focomelico Talidomide Kid) l’espressione di un disperato istinto di sopravvivenza, un estremo, solipsistico grido di aiuto destinato a soccombere di fronte a una orribile e annichilente forma di depressione suicida. La morte di Alicia è una sorta di punto di non ritorno per Bobby, il quale era perdutamente innamorato della sorella (il tema dell’incesto era tra l’altro già stato affrontato da McCarthy nel suo secondo romanzo, “Il buio fuori”) e che da quel momento si trascina, novello Sisifo, un insopportabile fardello di rimorsi per non essere riuscito a salvarla, condannandosi consapevolmente a una vita di irredimibile infelicità (come gli rimprovera l’amico Sheddan, “la sofferenza fa parte della condizione umana e bisogna sopportarla. Ma l’infelicità è una scelta”). Tutto questo genera un effetto curioso: dal momento che la fine è in qualche modo già avvenuta, il romanzo sembra curiosamente procedere a ritroso, anziché in avanti, in una sorta di falso movimento in cui il climax non è tanto rappresentato dalle vicissitudini del protagonista quanto dalla presenza di una lettera che Alicia ha scritto a Bobby prima di suicidarsi e che il fratello si ostina a non voler leggere, in un paradossale, infantile e commovente gesto di conservazione della memoria, ben sapendo che fin quando non l’avesse letta egli avrebbe potuto tenere viva l’illusione di nuove parole dell’amata sorella ancora in serbo per lui.
McCarthy ne “Il passeggero” gioca in maniera spregiudicata con le aspettative del lettore. Non solo il contenuto della lettera di Alicia non viene mai svelato, ma anche il plot che viene delineato nelle prime pagine (un passeggero misteriosamente scomparso dall’aereo precipitato al largo della costa della Louisiana) si rivela un mero pretesto. Come nel caso de “L’incanto del lotto 49” di Thomas Pynchon, la trama thriller viene soltanto abbozzata e poi inopinatamente abbandonata a se stessa. Ogni tanto compaiono come dal nulla – è vero – dei misteriosi funzionari, emissari di non si sa quale organizzazione (l’FBI?), che, kafkianamente, pretendono di interrogare Western, gli perquisiscono la casa in sua assenza, gli bloccano il conto corrente bancario e l’automobile, costringendolo a fuggire e a peregrinare come un vagabondo per gli Stati Uniti e l’Europa nel tentativo di far perdere le sue tracce, ma tutto rimane inspiegato, senza alcuna giustificazione logica, quasi fosse, più che il frutto di un’indagine poliziesca, la materializzazione di un’incommensurabile istanza metafisica. La fuga di Western è una fuga reale, attraverso paesaggi descritti con scabro realismo, ma è anche una fuga metaforica, dai propri rimorsi e sensi di colpa. A McCarthy non interessa titillare banalmente il lettore con ingegnosi intrecci gialli, scoperte sorprendenti e colpi di scena rivelatori, ma piuttosto affermare la propria visione tragica della vita. I tanti dialoghi di cui è intessuto il romanzo non vertono quasi mai sull’aereo precipitato, sul passeggero scomparso o sulla misteriosa morte del collega Oiler, quanto sul Vietnam, sulla bomba atomica di Hiroshima e Nagasaki, sull’omicidio del presidente Kennedy. Come le tante, drammatiche immagini che punteggiano “Mao II” di De Lillo e ne svelano la profonda riflessione sul ruolo delle masse nella civiltà contemporanea, così i dialoghi di McCarthy (secchi, incisivi, incalzanti, apodittici, come abbiamo imparato a riconoscerli leggendo le sue opere precedenti) sono perfettamente funzionali a palesare un mondo inospitale, freddo, cattivo. “La verità del mondo costituisce una visione raccapricciante al punto da far impallidire le profezie del piú funereo degli indovini che mai l’abbiano abitato. Non appena ne convieni, l’idea che un giorno tutto questo sarà ridotto in polvere e disperso nel nulla piú che una profezia diventa una promessa”. L’amore e l’amicizia, soprattutto l’amicizia (quel sentimento per cui “condividere la lettura anche solo di qualche decina di libri costituisce un vincolo ben più potente del sangue”) sono delle sporadiche oasi nel deserto di un’esistenza fatta di solitudine e di sofferenza (rovesciando paradossalmente l’incipit di “Anna Karenina”, lo scrittore americano afferma che “non esiste un terreno comune della gioia come esiste del dolore” e che “nella natura collettiva della sofferenza non possono esserci dubbi”). Amori e amicizie sono destinati a scomparire e a tornare solamente nella veste di sogni, di allucinazioni, di fantasmi (come John Sheddan nell’ultimo colloquio con Western nel silenzio di un teatro abbandonato), capaci solo di far risaltare per contrasto il vuoto di affetti e di sentimenti, la solitudine ontologica dell’uomo. “L’ultimo degli uomini è solo nell’universo che si oscura intorno a lui. Piange ogni cosa con un unico pianto. Nei resti pietosi ed esausti di quella che un tempo fu la sua anima non troverà niente da cui plasmare la benché minima cosa divina che lo guidi negli ultimi di questi giorni”. Il bene è destinato a soccombere (“Una disgrazia non può essere cancellata da nessun bene. Può solo essere cancellata da una disgrazia peggiore”) e il suicidio sembra quasi la soluzione inevitabile a questo male di vivere, per il quale la gente opterebbe in massa se solo non avesse paura della morte (“Credo che molta gente sceglierebbe di essere morta se non dovesse morire”). Il nichilismo di McCarthy approda a una desolante condizione di “non essere”, a un paralizzante desiderio di scomparire, di non essere mai esistito. Come un montaliano osso di seppia abbandonato dai flutti sulla spiaggia, l’uomo si ritrova deprivato e inaridito, in balia di una sorte indecifrabile e spietata. Alla luce di queste considerazioni, l’invito di Alicia a Bobby, “non avere paura”, risulta talmente paradossale da far sì che agli occhi del protagonista queste parole diventino le più spaventose che possano essere pronunciate.
L’altro grande tema del romanzo è l’inconoscibilità del mondo. Non solo il mondo è un inganno, una menzogna, ma non esiste nessuna verità, neppure una qualche verità controfattuale sulla quale mentire. La scienza, che ne “Il passeggero” assume un ruolo di primo piano (la matematica di Alicia, la fisica del padre di Western, il quale aveva collaborato anni prima al Progetto Manhattan di Los Alamos), è sì capace di descrivere il mondo, ma non di comprenderlo. Gli stessi sviluppi più recenti della fisica quantistica sono impotenti ad approdare a una qualche verità ultima; anzi, più ci si addentra nella conoscenza della materia, più ci si immerge nello studio di particelle di scala sempre più infinitesimale, e più questa verità sfugge (“Quando ti accosti a certe descrizioni matematiche della realtà non puoi evitare di perdere quel che viene descritto. Qualunque indagine soppianta ciò che indaga”). McCarthy, che già aveva giocato con il paradosso del gatto di Schrodinger in “Non è un paese per vecchi (intelligentemente i fratelli Coen, nella loro trasposizione cinematografica del romanzo, avevano lasciano in dubbio se Chighur avesse ucciso o meno Carla Jean, in quanto la macchina da presa rimaneva all’esterno della sua casa e non sapevamo con certezza quale fosse stato l’esito del lancio della moneta, se testa o croce), raggiunge conclusioni di un agghiacciante pessimismo (“In ultima analisi non c’è niente da sapere e nessuno per saperlo”) che né la religione né tantomeno l’arte sono in grado di alleviare. Con il suo stile spoglio, ruvido, essenziale, imbottito di paratassi, McCarthy sembra aver rinunciato definitivamente a qualsiasi ruolo ermeneutico della sua letteratura. Eppure nella sua opera più recente vi sono delle importanti novità che vale la pena di sottolineare. Se si riesce a superare il fastidio di qualche passaggio a vuoto (ad esempio, il faticoso e interminabile dialogo scientifico tra Western e Ashler sembra una sorta di bignami sulla storia della fisica del Novecento in forma di conversazione, in cui fanno capolino Bohr, Dirac, De Broglie e persino Einstein, e che ricorda un po’ ciò che “Il mondo di Sofia” aveva fatto con la storia della filosofia, solo molto più difficile; è probabile che McCarthy, come il Bellow de “Il dono di Humboldt” con l’antroposofia di Rudolf Steiner, abbia voluto mettere a frutto i tanti anni trascorsi al Santa Fe Institute in compagnia di eminenti scienziati), se si riesce – dicevo – a superare questo fastidio, si può godere della presenza di personaggi femminili che nelle opere precedenti non erano mai stati così incisivi e affascinanti (Alicia, Debussy), oltre che di una riflessione sulla paranoia nel mondo contemporaneo che lo avvicina ai grandi autori del postmodernismo americano (anche se sotto la maggior parte degli aspetti, lo stile in primis, egli è agli antipodi del postmodernismo). Si pensi ad esempio al dialogo tra Western e Kline sull’omicidio di JFK, che ci fa ricordare come la tragica sparatoria di Dallas e le teorie complottistiche cui ha dato origine siano state il soggetto di un famoso libro di Don De Lillo, “Libra”. Lo stesso Kline preconizza (“Il passeggero” è ambientato negli anni ’80 del secolo scorso) quelli che, con la diffusione di internet e della moneta elettronica, sono stati i recenti sviluppi della tecnologia e i loro influssi sulla libertà individuale (“La verità è che siamo tutti in arresto. O lo saremo presto. Non hanno bisogno di limitare i tuoi movimenti. Gli basta sapere dove sei”). McCarthy non è mai stato così lucido nel descrivere la deriva del mondo contemporaneo, ma in questo sforzo di attualizzazione è riuscito a conservare quella “gravitas” e quella intensità che sempre gli sono state riconosciute come suo marchio di fabbrica. “Il passeggero” ha infatti, pur nella sua apparente, algida freddezza, una carica emotiva fortissima, quasi insostenibile, che continua a risuonare come un’eco assordante anche molto tempo dopo aver chiuso l’ultima pagina del libro. Bobby Western, questo “uomo a pezzi sulla ruota della devozione”, questa “tragedia greca mancata”, questo “accumulatore di infelicità”, è l’alfiere perfetto del nichilismo mccarthyano: non è un’idea peregrina pensare che sia lui il vero passeggero del titolo, colui che si fa trasportare dalla vita passivamente, con impotente imperturbabilità, incapace di fare alcunché di fronte al dolore del mondo (il mulo punto da uno sciame di vespe, l’automobilista rimasto intrappolato nell’automobile uscita fuori strada), se non fuggire senza un progetto e senza una meta precisa di fronte ad esso. Non c’è allora nessuna speranza in questo romanzo senile, forse opera-testamento definitiva di McCarthy? Non è proprio così: nelle ripetute, ossessive domande che Western rivolge ai suoi interlocutori sulla presenza di un aldilà, di una vita dopo la morte, risuona la nostalgia di un qualcosa che possa trascendere l’atroce disperazione di “un mondo di sangue e massacri”. Forse, sembra suggerire McCarthy con riferimento all’amica trans di Bobby, Debussy, “la bontà divina appare in posti strani”, ossia dove meno la si aspetta. Il fuoco de “La strada”, che il protagonista si sforzava di tenere acceso, testardamente convinto che fosse la cosa più importante in un universo crudele e inabitabile, è qui diventato il ricordo degli occhi di Alicia, da preservare ad ogni costo contro l’incalzante ed impietoso lavorio della dimenticanza. E’ quindi, per tornare alla domanda di poc’anzi, ancora concepibile, nonostante tutte le evidenze contrarie, un residuo di speranza? La risposta la si può forse trovare nel ricordo di uno scambio di battute tra Bobby e Alicia: “Le aveva chiesto se credeva in una vita ultraterrena e lei aveva detto che non la escludeva. Che era possibile. Dubitava soltanto che fosse destinata a lei”. Questa frase, così triste ed accorata, mi ricorda tanto quel colloquio di Gustav Janouch con Franz Kafka, in cui lo scrittore praghese, alla domanda “Al di fuori di questo mondo che conosciamo, c’è ancora speranza?” rispondeva malinconicamente “Oh certo, molta speranza, infinita speranza, ma non per noi”.
“Sapeva che quando sarebbe morto avrebbe visto il suo volto e sperava di portare con sé quella bellezza nelle tenebre, ultimo pagano sulla terra, cantando piano sul suo giaciglio in una lingua sconosciuta.”
Indicazioni utili
PARANOIA ED ENTROPIA
“Comunque vada, la chiamano paranoia. Loro, la chiamano così. O senza l’aiuto dell’LSD e altri alcaloidi sei inciampata per caso nella ricchezza segreta e la densità nascosta di un sogno. […] O contro di te è stato montato un complotto, talmente caro e elaborato, […] una maniera così labirintica che deve superare i limiti dello scherzo. O tutta questa congiura te la immagini, nel qual caso, Oedipa, tu sei pazza da legare.”
Pare che Howard Hawks, dopo aver girato “Il grande sonno”, avesse candidamente confessato di averci capito poco o nulla, pur essendo il regista, dell’intricatissima storia tratta dal romanzo di Raymond Chandler. Il lettore de “L’incanto del lotto 49”, di fronte alla sua trama ingarbugliata e labirintica, si trova in una situazione del tutto analoga a quella del famoso regista, in quanto Pynchon sembra divertirsi a confondergli continuamente le idee, disseminando il romanzo di false piste (si pensi al mistero delle ossa trafugate per farne filtri per sigarette, il quale sembra fondamentale nel terzo capitolo, ed invece scompare del tutto nel prosieguo del libro) e di svolte narrative azzardate e inopinabili. Allo scrittore di Glen Clove infatti non interessa affatto la coerenza diegetica, quanto piuttosto portare avanti quello che, con lo scorrere delle pagine, diventa un vero e proprio leitmotiv, ovverossia l’inconoscibilità della realtà. L’universo pynchoniano è distorto, deformato come in un trip allucinogeno, è come una versione anamorfica del mondo che noi tutti conosciamo, e il lettore si trova disorientato di fronte a questa opera survoltata e psichedelica, in maniera non dissimile da come si sente la protagonista Oedipa quando riceve la lettera che la nomina esecutrice testamentaria del defunto Pierce Inverarity, un facoltoso uomo d’affari con cui aveva avuto una relazione anni prima, e non capisce come comportarsi, da che parte iniziare a guardare la faccenda. I tanti, imprevedibili avvenimenti che Oedipa si trova a fronteggiare nel corso del pur breve romanzo rimangono incomprensibili e non riescono mai ad apportare alcuna rivelazione, alcun incremento nella conoscenza della realtà, la quale resta oscura, indecifrabile, impossibile a vedersi nella sua nudità, così come il corpo che Oedipa cela sotto numerosissimi strati di indumenti quando decide di giocare a una sorta di gara di striptease con Metzger. Al centro della trama, dopo che altri potenziali motivi di interesse (come l’eredità di Inverarity) vengono senza alcuna motivazione accantonati da Pynchon, c’è l’enigma del Tristero, una sorta di presunta cospirazione, che attraversa secoli e continenti (dai tempi dei Thurn und Taxis in Europa fino ai più moderni Pony Express e Wells Fargo dall’altra parte dell’Oceano), legata a un servizio postale segreto, dissidente e alternativo rispetto a quello statale. Non è un caso che abbia citato in apertura “Il grande sonno”, perché Oedipa, come un detective privato, si mette a inseguire le labili tracce del complotto (alcuni strani versi in una commedia teatrale elisabettiana, il simbolo di un corno da caccia con la sordina disegnato in un bagno pubblico, un francobollo falsificato), fino a farsi completamente coinvolgere dalla cosa e dedicarle tutto il suo tempo e le sue energie. Oedipa, con il suo bizzarro ed emblematico nome, sembra essere la versione femminile del personaggio di Sofocle, ma mentre Edipo, messo di fronte all’enigma della Sfinge, riusciva brillantemente a risolverlo, la nostra protagonista fallisce clamorosamente la sua impresa. Le rivelazioni e gli indizi che si accumulano sempre più numerosi, infatti, anziché consentire di risolvere il mistero, lo infittiscono sempre di più. Non importa quante intuizioni Oedipa possa avere, quante epifanie le si possano manifestare, vi saranno sempre ulteriori strati, ulteriori livelli a coprire la verità ultima, e ogni mistero risolto aprirà solo altri sotto-misteri inesplicabili, in una frustrante catena di ermeneutica impossibilità. “L’incanto del lotto 49” diventa così una sottile satira dei romanzi gialli: mentre in questi ultimi gli indizi concorrono a svelare progressivamente il busillis, a sciogliere l’arcano, fino a un finale più o meno catartico, ne “L’incanto” ogni successivo indizio non fa che ispessire il mistero, anziché avvicinare la soluzione riporta solo al punto di partenza (come nel capitolo in cui, dopo una lunga serie di incontri rivelatori, premonizioni, congetture e pedinamenti, Oedipa si ritrova, in una sorta di loop temporale, davanti alla casa di Nefastis da cui si era accomiatata il giorno prima, come se le ultime ventiquattro ore vissute non fossero state davvero realtà, ma un’allucinazione frutto di una immaginazione psicotica). Con beffarda e preveggente lucidità Pynchon è così in grado di portare alla luce quelli che saranno, nei decenni a venire, i problemi legati agli strumenti di una comunicazione sempre più onnipresente e pervasiva, soprattutto nell’attuale era di Internet, Google e Wikipedia: ossia che a maggiori informazioni non corrisponde affatto una maggiore conoscenza.
Il mondo di Pynchon appare disgregato, frammentato, completamente in balia dell’entropia. Ad un certo punto del romanzo Oedipa si trova di fronte a una bizzarra invenzione, la macchina Nefastis, la quale permette, tramite una minuscola intelligenza nota come il “diavoletto di Maxwell”, di produrre energia dal nulla, violando così la seconda legge della termodinamica. L’invenzione si propone di mettere ordine, separando le molecole fredde da quelle calde, nel caos della realtà, ma ha bisogno, per funzionare, di un “sensitivo” capace di collegarsi telepaticamente al diavoletto. Oedipa si sottopone volontariamente a un test in grado di rivelare se lei possa essere una tale sensitiva, ma fallisce miseramente. Tale fallimento però può essere interpretato in due modi: o Oedipa non è una sensitiva o, più probabilmente, è la macchina stessa a essere niente di più che una ciarlataneria. Tutto il libro risponde in fondo proprio a questo dilemma: è Oedipa incapace di risolvere il mistero Tristero, oppure, più semplicemente, il mistero Tristero non esiste? In questa domanda si cela l’essenza stessa del romanzo e, più in generale, dell’intera letteratura postmoderna. L’eroina de “L’incanto” infatti, così come tutti gli altri anti-eroi di Pynchon, si sforza faticosamente di interpretare e dare un senso a un universo sconnesso e caotico (ad un certo punto si dice significativamente che Oedipa “voleva creare costellazioni”), senza capire, o capendolo troppo tardi, che un senso ormai non esiste più. L’entropia fatalmente prevale, come la vegetazione di una foresta vergine che invade e si impossessa delle rovine abbandonate di una civiltà estinta da tempo. Posto di fronte a questo infausto destino, l’individuo inevitabilmente si sfalda, si disintegra e diventa preda della paranoia. La paranoia circola un po’ dappertutto nelle pagine de “L’incanto”. Manny Di Presso si lamenta “Sempre qualcuno che ascolta, che spia; ti nascondono i microfoni in camera, ti intercettano le telefonate…”; il dottor Hilarius impazzisce e crede che emissari del governo israeliano vogliano ucciderlo a causa del suo passato nazista; il complesso di Miles e dei suoi amici si chiama addirittura “I paranoici”. Tutto ciò suggella in chiave parossistica e grottesca quella che, negli anni ’50 e ’60, era l’atmosfera tossica che si respirava in America, con la guerra fredda, la caccia alle streghe del senatore McCarthy e l’assassinio del presidente Kennedy. Anche Oedipa si trova a riconoscere “la logica con cui tutto si articolava perfettamente, quasi che (…) le rivelazioni si susseguissero a catena”, e si fa catturare dalla psicosi del complotto: le piste da lei seguite si intrecciano, gli indizi si ammassano esponenzialmente e ogni cosa sembra rimandare sempre e comunque (come tutti i corni da postiglione con la sordina che vede dappertutto, sotto forma di tatuaggi, spille, polsini da camicia o scarabocchi) al Tristero. Alla fine del romanzo Oedipa arriva persino a pensare di essere vittima di un gigantesco scherzo da parte di Inverarity, temendo che questi, lungi dall’essere morto, abbia assoldato attori, spiato i suoi movimenti, falsificato libri e documenti, per farle credere nell’esistenza di una cospirazione su vasta scala e prendersi in tal modo gioco di lei. Il finale de “L’incanto del lotto 49” è non a caso un finale aperto: c’è un uomo misterioso interessato all’acquisto della collezione di francobolli di Inverarity, ma non sapremo mai di chi si tratta perché il romanzo si interrompe prima, lasciando il lettore nell’amletico dubbio se Oedipa risolverà finalmente il rompicapo o, più probabilmente, si troverà di fronte a un enigma ancora più grande. In un romanzo stravagante e satirico, caratterizzato dalle consuete canzoncine pynchoniane, da imprevedibili giochi di parole e bizzarrie linguistiche (ad esempio, il nome della radio presso cui lavora Mucho, KCUF, assume, letto al contrario, un significato comicamente scurrile), dalla implausibile stramberia dei nomi dei suoi personaggi (il filatelico Genghis Cohen, lo psichiatra Hilarius, lo scienziato John Nefastis, il regista Randy Driblette), da curiose autocitazioni (il fantomatico concerto di Vivaldi per kazoo, ossessivamente cercato in “V.” dal musicologo Petard e che qui viene suonato del “Fort Wayne Settecento Ensemble”), da anacronistici episodi pseudo-storici (come quello della Guerra Civile americana in cui lo zar di Russia interviene a favore dell’Unione per sventare un attacco via mare a San Francisco da parte dei confederati, oppure quello che coinvolge la setta degli scurvamiti sotto il regno di Carlo I) e dalla feroce presa in giro delle sottoculture americane dell’epoca (dalla droga alla musica rock, dalla liberazione sessuale alle associazioni di sostegno contro le dipendenze più svariate), in un romanzo di questo tipo – dicevo – il tono del finale è paradossalmente di un pessimismo atroce. Al termine della storia infatti una Oedipa sconfortata e disillusa è costretta a riconoscere la propria sconfitta, timorosa persino di veder apparire suo malgrado davanti agli occhi nuove piste e inedite rivelazioni che possano ulteriormente disorientarla e ingolfarla. Il mistero del Tristero, irrisolto e irrisolvibile, la abbandona, come la risacca del mare con il relitto di un’imbarcazione naufragata, a una solitudine desolata e dolorosa, senza più nessuno dei suoi punti di riferimento (il marito Mucho rovinato dall’LSD, il dottor Hilarius impazzito, il regista teatrale Driblette morto suicida, l’amante Metzger scappato con una quindicenne lasciva) e con la propria vita completamente distrutta e senza scopo, in un cul-de-sac da cui, inesorabilmente, non è ormai più possibile riuscire a liberarsi per sperare di tornare alla tranquillità della routine iniziale.
Indicazioni utili
DIETRO LE QUINTE DEL TEMPO
“Da molto tempo siamo in cammino e la stazione ove fugacemente sostammo è ormai dietro di noi, l’abbiamo dimenticata; […] Dura da troppo tempo il viaggio? Nessuna meraviglia, perché questa volta si tratta di una discesa agli inferi! Si tratta di discendere, insieme a noi che impallidiamo, giù nel profondo, lontano dalla luce, nella voragine del pozzo del passato che nessuno ha mai scandagliato.”
Nel prologo de “Le storie di Giacobbe” Thomas Mann affronta, con un piglio esplicitamente filosofico, un tema che nei suoi romanzi gli è sempre stato molto a cuore, quello del tempo. Il passato, afferma lo scrittore di Lubecca, è imperscrutabile come la buia voragine di un pozzo profondissimo. In un libro, come la Bibbia, che si propone di raccontare la storia dell’intera umanità, personaggi come Adamo, Noè o Abramo, ed episodi come il diluvio universale, la costruzione della torre di Babele o la distruzione di Sodoma e Gomorra, hanno una evidente matrice leggendaria, mitologica, archetipica, che si perde nella notte dei tempi, tanto è vero che, come con una gran dovizia di riferimenti bibliografici lo stesso Mann rivela, in tutte le culture antiche gli stessi personaggi e gli stessi episodi ricorrono con impercettibili e poco significative differenze. Cosa fare allora se si vuole raccontare le origini della nostra civiltà? Mann decide, consapevole che è impossibile scandagliare le più remote profondità del tempo antico, di partire da un punto arbitrario della storia, e sceglie Giuseppe, figura forse non meno mitica dei suoi antenati, come scaturigine, come sorgente della sua ricerca storica e individuale. E delle poche pagine a lui dedicate nella Bibbia fa l’oggetto di una imponente, monumentale tetralogia, di cui “Le storie di Giacobbe” costituiscono soltanto il primo libro. Il ciclo di Giacobbe dell’Antico Testamento, che occupa approssimativamente i capitoli dal 25 al 35 della Genesi, è caratterizzato da un curioso tono da romanzo d’appendice: vi si rinvengono infatti episodi apparentemente poco “biblici”, come una primogenitura barattata con un piatto di lenticchie, una benedizione estorta con un inganno simile a quello ideato nell’Odissea da Ulisse ai danni di Polifemo, o ancora una sfida tra le due mogli (e le rispettive schiave) di Giacobbe per dare all’uomo più eredi possibili e acquisire così ai suoi occhi un maggiore prestigio. Forse è proprio questa storia così aneddotica e movimentata ad avere stimolato la fantasia di Mann, che ha voluto vedere in Giacobbe e Giuseppe, uomini dalle passioni e dagli istinti così simili ai nostri, dei pretesti ideali per narrare una vicenda antica e leggendaria con un piglio realistico e moderno. Ciò che fa Mann è relativizzare il mito, umanizzandolo, togliendogli ogni polverosa e stantia aura di sacralità e aggiungendoci anzi un tono a tratti umoristico, del tutto insolito nelle opere manniane. L’intendimento dello scrittore tedesco è di fornire non una versione autentica (la sua non è, in mancanza di documenti e testimonianze scritte, una ricostruzione storica) bensì una versione verosimile, psicologicamente plausibile, anche se egli non esita ad affermare senza mezzi termini che “ora spiegheremo come i fatti realmente si svolsero”. A Mann interessa lo studio degli animi di Giacobbe e di Giuseppe, e in base a questo assunto arricchisce, e in alcuni casi addirittura rovescia, i fatti sinteticamente narrati dalla Bibbia. Questi infatti non possono che essere esposti in maniera asettica e concisa, in quanto prevale nel Libro Sacro un intento pedagogico e simbolico. Mann invece fa letteratura, non esegesi religiosa, ed episodi su cui la Bibbia sorvola o a malapena fa un rapidissimo accenno per dovere di cronologia, diventano in Mann il fulcro stesso della narrazione. Ad esempio, in Genesi 29 si legge: “Così Giacobbe servì sette anni per Rachele: gli sembravano pochi giorni tanto era il suo amore per lei”, mentre Mann si guarda bene dal liquidare frettolosamente il periodo di attesa forzato di Giacobbe presso Labano, ma al contrario riflette a fondo sulle modalità e sul senso del trascorrere del tempo, le cui grandi unità passano alla fine come le piccole, a partire da ogni singolo giorno della nostra vita, che percorre anch’esso le sue stagioni costituite dal mattino, dal mezzogiorno, dal pomeriggio e dalla sera, fino ad arrivare a un periodo temporale così lungo. Gli anni di servizio di Giacobbe presso il futuro suocero vengono affrontati da Mann senza impazienza, diluendo il racconto in capitoli quasi privi di avvenimenti, eppure minuziosamente pieni di suggestioni di carattere etnografico, culturale o religioso, generando in tal modo uno stato, prendendo in prestito le parole di Schopenhauer, di “noia che incanta”. Allo stesso modo i personaggi dell’Antico Testamento acquistano miracolosamente vita, profondità psicologica, ricchezza di sentimenti ed emozioni, sfumature di carattere sorprendenti ed inattese, fino al punto che, senza che venga stravolto il senso biblico, le figure dei patriarchi vengono per così dire smitizzate, prosaicizzate, recependo realismo e tridimensionalità e assumendo quasi le sembianze di nostri contemporanei in carne e ossa. Così Giuseppe appare come un giovane amabile e soave, ma anche un po’ “scioccherello”, con un eccesso di sentimentalismo e una deleteria inclinazione alla delazione che lo rendono a tratti insopportabile e che ci fanno comprendere come i suoi fratellastri lo detestino visceralmente; e Giacobbe è sì una figura dignitosa e solenne, espressivamente potente e drammatica, con una vita interiore complessa e profonda, ma, pur essendo indubitabilmente retto ed onesto, è anche un uomo che oggi chiameremmo “fondamentalista” o “talebano”, con in più una tendenza ad autoassolversi da debolezze, vigliaccherie, e perfino da truffe, inganni e comportamenti al limite del moralmente riprovevole, purché perpetrati per adempiere a una presunta volontà del Signore. Grazie al realismo della narrazione, Giacobbe e Giuseppe diventano così (come ben evidenzia Fabrizio Cambi nella prefazione all’edizione Mondadori da me letta) il “soggetto” e non più l’”oggetto” del mito.
Alla luce di quanto detto sopra, alcuni episodi acquistano una luce completamente diversa da quella tramandata dalla tradizione. Si pensi alla benedizione di Giacobbe da parte di Isacco, estorta – come ben sappiamo – con un palese inganno. Per Mann la cecità del vecchio patriarca è quasi simbolica, è la cecità di chi non vuol vedere le cose che gli danno tormento, è un mettere la testa sotto la sabbia per far sì che accadano senza la propria responsabilità le cose che devono accadere. Egli diventa cieco perché deve venire ingannato insieme con Esaù, il quale a sua volta è conscio che tutto ciò che avviene è l’avverarsi di un destino, e così egli si adira sì per la beffa perpetrata a suo danno, ma in cuor suo sa che Giacobbe, il fratello minore, era il logico destinatario della benedizione paterna, secondo un prototipo affondato nel passato che ritorna incarnato nel presente. La storia di Israele, per Mann, è un avvicendarsi di archetipi (il sacrificio del figlio primogenito, la cacciata nel deserto del figlio “maledetto” in favore del figlio “vero”, ecc.) che devono giocoforza realizzarsi per rispettare una tradizione mitica affondata nel passato, dietro le quinte del tempo. E non vale neppure chiedersi se le cose tramandate siano veramente successe, perché l’io dei personaggi di Mann “uscendo da sé si perdeva all’indietro nella dimensione primordiale e prototipica, come in un mare”. Così, quando Isacco parla di un bambino sul punto di essere immolato è irrilevante domandarsi se quel bambino era effettivamente lui, “perché un altro bambino destinato al sacrificio non avrebbe potuto essere più estraneo alla sua vecchiaia, più esterno al suo io, del bambino che egli stesso era stato una volta”. L’io dei personaggi manniani è estremamente fluido, la loro identità personale è aperta e non circoscritta, di modo che la storia degli antichi patriarchi diventa l’esperienza individuale stessa dei loro discendenti: non è un caso che l’Eliezer schiavo di Giacobbe si attribuisca i fatti che erano stati appannaggio dell’Eliezer servo di Abramo; e che Giacobbe possa raccontare la storia del tentato sacrificio del proprio figlio Giuseppe come una ripetizione di quello di Isacco da parte di Abramo, in uno schema mitico che rafforza la tradizione da trasmettere ai posteri, la quale rappresenta a ben vedere il collante religioso, ideologico e culturale che da millenni tiene insieme il popolo di Israele. Allo stesso tempo questo schema permette di superare le incongruenze e le inverosimiglianze della narrazione biblica, di modo che Mann può permettersi di assumere come “reali” certi episodi senza dover preoccuparsi di accettare fino in fondo la loro effettiva e concreta realtà, in quanto, inverandosi nel presente, il mito si trasforma ineluttabilmente in storia.
“Le storie di Giacobbe” è un testo che descrive molto bene la nascita e lo sviluppo di una religione così esclusiva come l’ebraismo, cresciuto all’interno di una intricata moltitudine di culti mesopotamici, egizi e di altri territori limitrofi, una religione che all’inizio, in uno stadio primitivo, risente dell’influenza di altre divinità “concorrenti” e che piano piano abbandona i suoi tratti primitivi (ad esempio quelli più vendicativi e guerreschi, per non parlare di sentimenti come la gelosia, che porta Dio a punire l’eccessiva venerazione di Rachele da parte di Giacobbe con la sterilità della donna), per arricchirsi progressivamente di spiritualità e di santificazione. Ma non si deve credere che il libro di Mann sia solo il saggio erudito di uno studioso di religioni antiche, nonostante si intuisca nelle sue pagine un enorme e scrupoloso lavoro di documentazione. “Le storie di Giacobbe” è infatti soprattutto un romanzo in cui il lettore ha la possibilità di abbandonarsi con voluttà alle tante vicende che, come un eroe epico o picaresco, Giacobbe si trova ad affrontare nel corso della sua lunga esistenza. Concitati inseguimenti nel deserto e sanguinose carneficine, nascite esaltanti e tragiche morti, sogni inebrianti e loschi raggiri si susseguono senza tregua come in un feuilleton ottocentesco. Manniano fino al midollo per l’apollinea perfezione dello stile ma anche quanto di più diverso da ogni altra opera dell’autore tedesco, raffinato ed elegante fin quasi a sfiorare la maniera e al contempo popolare come un romanzo d’appendice, sapientemente enciclopedico e insieme gustosamente romanzesco, storicamente documentato e ciononostante fiabescamente fantastico, “Le storie di Giacobbe” è uno strano, affascinante ibrido letterario, un unicum nella storia della narrativa del Novecento, capace per tutte le sue 350 pagine di non far mai rimpiangere le vette toccate da Mann un decennio prima con “La montagna incantata”.
Indicazioni utili
LEZIONI PARADOSSALI DI ETICA POSTINDUSTRIALE
“Succedono cose davvero terribili. L’esistenza e la vita spezzano continuamente le persone in tutti i cazzo di modi possibili e immaginabili.”
Passare da quel libro-mondo immenso e smisurato che è “Infinite jest” al brevissimo racconto, della lunghezza di un aforisma o poco più, che apre la raccolta di “Brevi interviste con uomini schifosi” (e che rappresenta il primo brano di narrativa pubblicato da Wallace dopo il suo capolavoro del 1996), è un salto non indifferente, anzi addirittura spiazzante. Anche se in realtà non tutti i racconti sono altrettanto laconici e stringati del primo (anzi alcuni tra loro sfiorano le trenta pagine, oltretutto estremamente dense e difficili come dei piccoli trattati di psicologia o di semiotica), non si può infatti non evidenziare come essi siano scritti con uno stile nettamente differente l’uno dall’altro, tanto che “Brevi interviste” sembra quasi un’opera collettiva, parto della fantasia di un collettivo di scrittori: dalle interviste che danno il titolo al libro, in cui sono riportate solo le risposte e non ciò che viene detto dall’altro interlocutore, al brano “Mondo adulto (II), impostato come se fosse lo schema preparatorio buttato giù in brutta copia dall’autore stesso per agevolare la stesura definitiva, con tanto di abbreviazioni e suddivisioni della trama in scene numerate come in un testo teatrale o in una sceneggiatura cinematografica; dal racconto classico che inizia con “C’era una volta” al resoconto asettico e pedissequamente prolisso, con tanto di note a pie’ di pagina che sono quasi più lunghe del testo principale, di “Una persona depressa”, il risultato è tale da disorientare e mettere a dura prova quel lettore che avesse come principale aspettativa quella di ritrovare intatta la prosa di “Infinite jest”, muovendosi all’interno del libro come in uno spazio riconoscibile, familiare, e per ciò stesso tranquillizzante. Se all’inizio, con i primi racconti, prevale questo effetto straniante, come se ci si trovasse di fronte a un’opera incapace di coagularsi, di trasformarsi in qualcosa di coeso e unitario, piano piano inizia però a intravedersi, sia pure a fatica, un filo comune, un leitmotiv. Che non è, come molti hanno detto (e come lo stesso titolo lascerebbe supporre) la misoginia (alcuni dei personaggi “schifosi” che si incontrano sono infatti di sesso femminile), ma piuttosto la difficoltà, se non addirittura l’impossibilità di stabilire dei rapporti umani autentici. In quasi tutti i racconti di Wallace gli esseri umani sono o solipsisticamente ripiegati su se stessi, ossessivamente impegnati ad analizzare i propri tormenti interiori, le proprie fobie e i propri complessi, in modo da escludere il resto del mondo (ottenendo l’effetto che si verifica – suggerisce Wallace – quando vai ad una festa e, al ritorno a casa “all’improvviso ti rendi conto che per tutta la festa ti sei talmente preoccupato di capire se piacevi o no ai presenti che adesso non hai la minima idea se a te è piaciuto qualcuno di loro”), oppure apparentemente interessati agli altri, sinceri ed empatici, comprensivi e solidali, ma sotto sotto avendo l’unico scopo di manipolarli, di usarli per i propri subdoli fini, tanto più che per farsi apprezzare essi cercano di convincerli di essere del tutto onesti e di larghe vedute e di non manipolare mai nessuno. Si pensi per esempio alla persona depressa dell’omonimo racconto, tutta chiusa com’è in un’aridità spirituale tale da non accorgersi minimamente che intorno a lei gli altri a cui disperatamente si aggrappa e che vede in sua esclusiva funzione, soffrono come e magari più di lei (l’amica del gruppo di sostegno che tempesta di telefonate ad ogni ora del giorno e della notte è malata di un tumore in fase terminale e deve ascoltare gli sfoghi della persona depressa fra un conato di vomito e l’altro, la terapeuta muore suicida senza che i suoi pensieri smettano per un momento di concentrarsi sul proprio esclusivo dolore, sulla propria perdita personale, sul proprio privato abbandono); oppure ancora all’uomo che vuole scaricare una ragazza cercando di farle credere che farla soffrire è l’ultima cosa che vuole, che essere sinceri fino alla crudeltà è un modo di amarla e onorarla piuttosto che di sottrarsi agli impegni presi, dopo averla convinta a lasciare tutto e a trasferirsi da lui, e che dirle di essere un uomo che per le donne è meglio perdere che trovare è un atto di onestà che farà prima di tutto far stare male lui stesso, facendolo sentire una persona inaffidabile, vigliacca e cattiva, pur essendo l’ultimo in realtà a volerlo essere; o infine (è forse l’intervista più famosa) all’uomo che usa il suo braccio deforme come un’astuta strategia di seduzione, per far sentire le donne oscuramente in colpa, farsi compatire da loro e alla fine portarsele a letto senza scrupolo alcuno. Il mondo di Wallace è governato inesorabilmente dall’egoismo e dall’ipocrisia, dall’opportunismo e dal cinismo, e perfino l’autore (in quel capitolo meta-letterario di “Ottetto”, che è una sottile parodia della letteratura che riflette su se stessa, e che sarebbe sicuramente piaciuto a Italo Calvino) si chiede se non sia egli stesso colpevole (nel momento in cui si preoccupa di indovinare se al lettore la sua opera piacerà, pur sapendo che il solo fatto di chiederselo è semplicemente esiziale per l’onestà intellettuale della sua opera) di far uso di tecniche ambiguamente manipolatorie. Si deve allora concludere, dopo aver sostenuto tutto ciò, che Wallace sia uno scrittore cinico e nichilista? Io non metterei affatto la questione in questi termini. A mio avviso Wallace riesce nei suoi racconti a far intuire quanta sofferenza si nasconda dietro ogni mostruosità (magari l’”hideous man” è tale perché nella sua infanzia i genitori in procinto di divorziare si sono giocato l’affidamento del figlio a sorte, con il lancio di una moneta), e quanta “mostruosità” invece si nasconda dietro alla cosiddetta normalità (ad esempio, l’uomo che si vanta di essere migliore dei seduttori di professione, in quanto lui si preoccupa del piacere delle sue conquiste, in fondo non è così diverso da loro, in quanto la sua è una strategia differente per ottenere lo stesso identico scopo, quello di portare a letto più donne possibili; e il protagonista dell’ultima breve intervista è costretto a confessare che “se cambi l’ordine dei fattori e a stupro, assassinio e terrore sconvolgente sostituisci un rapporto sessuale intenso e un falso numero di telefono non immediatamente riconoscibile come tale per non sentirti a disagio ferendo senza motivo i sentimenti di qualcuno, la sostanza psicotica non cambia”). “Brevi interviste con uomini schifosi” esprime, sotto la sua ruvida superficie di cinismo, una sottile nostalgia di purezza, di compassione, di empatia, di autenticità, anche se è costretto a riconoscere che, nel mondo contemporaneo (postindustriale, avrebbe detto Wallace), c’è quasi una impossibilità ontologica di trasformare quelle monadi a cui si sono ridotti gli esseri umani in persone eticamente virtuose. Si pensi al brano “Il diavolo è un tipo impegnato”, in cui un personaggio fa una donazione in forma assolutamente anonima, al fine di non corrompere la motivazione della sua buona azione con il meschino desiderio di ricavarne riconoscenza ed affetto, ma alla fine ottiene l’effetto diametralmente opposto di apparire subdolo, ambiguo, se non addirittura malvagio, tutto il contrario di quella generosità disinteressata che, in buona fede, si proponeva di ottenere. Perché, si domanda Wallace, “i modi di «usare» qualcuno sono letteralmente un miliardo in piú rispetto a quelli di «stare con» loro onestamente”? La risposta è che c’è “un «prezzo» indefinibile ma inevitabile che prima o poi tutti gli esseri umani si ritrovano a dover pagare se vogliono davvero «stare con» un’altra persona e non soltanto usarla in qualche modo (come per esempio usare la persona semplicemente come pubblico, o strumento per i propri fini egoistici, o come una specie di attrezzo da ginnastica morale sul quale poter dimostrare il proprio carattere virtuoso (come per le persone che sono generose con gli altri solo perché vogliono essere considerate generose, e in realtà segretamente gli piace quando quelli che le circondano fanno bancarotta o finiscono nei guai, perché significa che cosí si possono precipitare generosamente e far vedere che li aiutano), un prezzo strambo e indefinibile ma a quanto pare ineluttabile che in effetti in certi casi può equivalere alla morte stessa”. E’ nell’evidenza delle cose, in quello che leggiamo sui giornali così come in ciò che sperimentiamo di persona, che l’uomo tale prezzo non sia disposto quasi mai a pagarlo. I “quiz a sorpresa” di “Ottetto” vorrebbero essere, nelle intenzioni del suo autore, altrettante domande che provocano la coscienza del lettore, chiedendogli di prendere una posizione di fronte ad alcuni spinosi dilemmi etici, ma falliscono miseramente al cospetto di una società in cui il senso morale sembra ormai definitivamente scomparso oppure viene piegato a fini biecamente utilitaristici. In fondo a tutto ciò rimane solo un profondo, irredimibile disagio, a malapena mascherato dall’ironia e dal sarcasmo. E’ come se il lettore venisse costretto a guardare dentro a uno specchio, e in questo specchio, in questi esseri psicotici, perversi, malati e misogini, vedesse anche se stesso, in qualche modo, con un inquietante e quasi subliminale senso di vergogna e di ribrezzo, vi si riconoscesse.
Lo stile di Wallace, pur cambiando sensibilmente – come detto poc’anzi – da un racconto all’altro, è fluviale e labirintico, vertiginoso e genialmente prolisso e, con le sue frasi piene di subordinate e di incidentali, di note a pie’ di pagina e di digressioni, riesce a esprimere alla perfezione i meandri tortuosi della psiche. Nei suoi racconti c’è una logica spesso contorta e aggrovigliata, che lui però è in grado di girare e rigirare fino a farla riflettere nella testa del lettore come una adamantina verità. E’ tutt’altro che raro imbattersi in frasi del tipo: “O in lei c’era davvero qualcosa che non andava, o in lei qualcosa non andava per via del timore irrazionale che qualcosa in lei non andasse”; oppure: “Certe donne molto attraenti, quando gli presti attenzione, cominciano immediatamente a posare, anche se la loro posa consiste nella disinvoltura ostentata che ostentano per dipingersi come persone che non posano”. Wallace si rivela un profondo conoscitore della natura umana, di cui è in grado di descrivere le molteplici sfumature e complessità. Il tono di fondo dell’opera è sarcastico, ma dietro a questa maschera è come se l’autore avesse voluto lanciare un messaggio palingenetico, quasi una sorta di SOS nella bottiglia. In questo mondo insensibile, indifferente e crudele – sembra dirci Wallace - c’è ancora, forse, una possibilità di salvezza, solo che bisogna essere disposti a pagare quel prezzo di cui parlavo prima, come nel “Quiz a sorpresa 4”, dove due drogati terminali sono seduti di notte al freddo e solo uno ha un cappotto. “Il drogato terminale col cappotto si tolse il cappotto in modo che li coprisse tutti e due e poi si rannicchiò un altro poco tanto da ritrovarsi schiacciato contro l’altro e lo circondò con un braccio e lasciò che si sentisse male sul suo braccio, e rimasero così insieme contro il muro per tutta la notte. D: Quale dei due è sopravvissuto?”. Non bisogna mai cadere nell’errore di confondere l’ironico understatement di Wallace con una mancanza di impegno civile. Wallace, con gli strumenti a sua disposizione, ossia la capacità quasi sovrumana di penetrare con la parola scritta, meglio di qualsiasi psicologo, all’interno dell’animo umano, ha senza dubbio lottato strenuamente per richiamare l’uomo contemporaneo alla necessità, all’inderogabilità di una vita etica, e, alla luce di questa improba lotta, la sua morte prematura e dolorosa ha finito per acquisire i simbolici connotati del sacrificio di un moderno cristo laico che si sia voluto immolare per riscattare i peccati del mondo.
Indicazioni utili
CHI RESTA SARA' SOPRAFFATTO
“Viviamo in una città che ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutte e due le cose insieme.”
“Ferito a morte” è a mio parere il romanzo definitivo di Napoli, capace com’è di restituire un ritratto spietatamente fedele della città negli anni del secondo dopoguerra (quelli del “laurismo”, tanto per intenderci), senza mai ricorrere agli stereotipi del folclore (tipo “pasta, pizza e mandolino”) e neppure sfruttare, al contrario delle commedie di Eduardo, dei racconti di Giuseppe Marotta o de “La pelle” di Curzio Malaparte, il suo côté più genuinamente popolare. In maniera piuttosto sorprendente, i personaggi dell’opera di La Capria appartengono invece tutti alla borghesia del dopoguerra, a quella classe un po’ decaduta di giovani ed ex giovani che ancora vive (o si illude di farlo) di antichi privilegi, e che passa oziosamente le sue giornate sul lungomare di Mergellina e di Posillipo, al Circolo Nautico o al bar Middleton, a prendere il sole, a millantare prodezze sessuali e conoscenze altolocate o a parlare di soldi, donne e feste mondane, in una vita superficiale, indolente, snobistica e annoiata che “diventa una parodia dell’adolescenza”, quella classe che pochi anni prima Federico Fellini aveva dipinto così bene nel film “I vitelloni”. A questa umanità, che sotto l’esibizione di una ricchezza spesso solo simulata nasconde, come un viso maldestramente truccato, una sostanziale cafonaggine, fanno da sfondo un’estate che sembra non avere mai fine e una natura esuberante e meravigliosa. Ma questa estate e questa natura nascondono, sotto la loro olimpica indifferenza, un effetto nefasto su cose e persone: come l’azzurro mare del golfo corrode col costante e invisibile lavorio delle sue onde le fondamenta degli antichi palazzi che vi si affacciano, così il sole, anziché scaldare, brucia, ottunde le coscienze e smorza ogni slancio vitale. La coscienza critica del romanzo è sicuramente Gaetano, l’intellettuale marxista andato a lavorare in un giornale di Milano, il quale incita Massimo, che nel libro è l’evidente alter ego dell’autore, a fare altrettanto, consapevole che l’unico modo per salvarsi è quello di lasciare definitivamente Napoli. E’ lui a coniare la felice definizione di Foresta Vergine: come la giungla tropicale invade e soffoca ogni cosa che trova sulla sua strada, l’ambiente napoletano domina, corrompe e sopraffà le persone che vi vivono, già per se stesse inadatte, a causa della loro innata tendenza a crogiolarsi nell’indulgenza e ad autoassolversi da ogni peccato in virtù della semplice appartenenza a una città leggendaria, inadatte – dicevo – a forgiare autonomamente carattere e indipendenza. Solo allontanandosi da Napoli, troncando il cordone ombelicale con quell’illusorio, ancorché allettante paradiso di confortevole vacuità, di paralizzante apatia, è possibile sfuggire a questa tara atavica, a questa indolenza, a questo immobilismo, e riappropriarsi della propria vita. Il romanzo è incentrato proprio sulle ore della vigilia della partenza di Massimo per Roma. A differenza di Gaetano, personaggio intransigente, privo di dubbi e di ripensamenti di sorta, Massimo è un uomo tragicamente lacerato, scisso, diviso com’è tra ripudio e attaccamento, tra disprezzo e nostalgia. Egli sa di non poter sprecare la propria vita tra ozi, goliardate e vaniloqui, ma è fatalmente legato, come un pesce alla lenza, ai ricordi della giovanile, platonica, storia d’amore con Carla, e la speranza di recuperare quel tempo perduto, di “ritrovare uno solo di quei giorni intatto com’era”, lo fa vacillare e tergiversare. Quando la decisione della partenza è finalmente presa, i pensieri di Massimo hanno la segreta commozione dell’”Addio ai monti” di manzoniana memoria: “E addio allora, dal momento che sai, addio al bell’oggi di prima che t’avvolgeva come l’acqua il pesce che nuota, le cose mute per te, mutate per sempre da quel momento, per sempre, e inutile è ostinarsi, mai piú, mai piú uno di quei giorni di prima, uno solo, ritroverai per caso una mattina.”
“Ferito a morte” è diviso in due parti nettamente distinte. Similmente a “Gita al faro”, il capolavoro di Virginia Woolf, a due terzi del libro c’è infatti una brusca frattura. Dopo sei anni, Massimo ritorna a Napoli, ormai definitivamente scettico e disilluso: “Sovversivo, dolcemente avverso all’azzurro che avvolge tenero le case, cammino disincantato per le strade della città materna, come vipera nel seno che l’accolse, invelenito da freddo amore, riscaldandomi al suo tepore.” Davanti ai suoi occhi scorrono gli incontri con i vecchi amici di gioventù, chi sposato con figli, chi diventato architetto, chi tornato senza più illusioni e speranze dall’America, tutti in qualche modo segnati dal tempo trascorso. E’ soprattutto Sasà a condensare, a riassumere la delusione provata da Massimo, la tristezza nello scoprire come gli anni abbiano irreparabilmente deturpato quella che sembrava essere un’età della vita destinata a durare per sempre. Sasà, che era un ragazzo eccezionale e carismatico, uno che “finisce dove gli altri cominciano”, ora è inopinatamente ridotto al ruolo di viveur appassito (“Aveva una faccia floscia e segnata, […] e gli venivano fuori quei tratti di giovane vecchio, di bel ragazzo che non è mai passato per i gradi degli anni, ma un giorno è saltato all’improvviso, senza nemmeno rendersene conto, dall’adolescenza all’età matura”), costretto a vivere di espedienti e cercando disperatamente di sfruttare gli ultimi rimasugli di un fascino ormai declinante, spodestato da altri Sasà più giovani e spregiudicati, come il fratello di Massimo, Ninì, destinato pure lui a rappresentare “per pochi anni un miraggio di felicità”. Negli ultimi tre capitoli riecheggia lo stesso tono elegiaco de “La luna e i falò”, ma qui non c’è nessun Nuto ad accogliere Massimo, costretto invece a rimanere solo con i suoi fantasmi, dentro a un’estate che ormai “è una noia, una festa in cui si ha la nostalgia di una vera festa.”
Dal punto di vista strutturale, la prima cosa che di “Ferito a morte” salta agli occhi è – come si è già accennato – la dimensione temporale. Oltre allo iato, alla cesura che separa i primi sette capitoli dagli ultimi tre, va sottolineato il fatto che la prima parte si svolge nell’arco di una sola giornata, ma grazie al meccanismo della memoria inconscia si allarga fino a comprendere episodi degli anni precedenti (ad esempio, la notte di Capodanno del ’49 a Positano con Carla o la gita in barca con Glauco e Ninì), e questa confusione di piani temporali, sebbene renda il romanzo (soprattutto nelle prime pagine) un po’ complicato da leggere e decifrare, conferisce al testo un ritmo sinuoso e avvolgente, davvero singolare. Ancora più particolare e caratteristica è la polifonia dell’opera. Diegesi e mimesi (ovverossia, semplificando, la narrazione da una parte e i pensieri e i dialoghi dall’altra) sono così fittamente intrecciate che si confonde facilmente quando la voce è quella di un personaggio e quando invece è l’autore a parlare. La terza persona del narratore si alterna infatti, in virtù dello stream of consciousness, alla prima persona di Massimo, il vero protagonista e – come già detto – alter ego di La Capria (un po’ come Moraldo lo era di Fellini ne “I vitelloni”) Si prenda come esempio la seguente frase, estrapolata tra le tante disponibili: “ E recita tutta la storia, ma deformata, modificata, accesa nei particolari, mentre nell’occhio dell’altro sale la considerazione, come mercurio in un termometro. – Recito davanti alla platea, nel nero, là, della sua pupilla… Io stesso occhio nel sogno.” A sua volta la prima persona di Massimo viene spesso sostituita, senza alcun ausilio della punteggiatura, con la prima persona di altri personaggi, di modo che il lettore deve districarsi nel non immediato tentativo di capire a chi quell’io si riferisca. E’ un procedimento molto utilizzato nelle opere di Mario Vargas Llosa, ad esempio “Conversazione nella Catedral”, e se si pensa che “Ferito a morte” precede cronologicamente i grandi capolavori dello scrittore peruviano, si può capire come La Capria possa essere considerato un artista all’avanguardia, in netto anticipo sui tempi. Capace di riflettere su temi profondi come il rapporto tra natura e storia, geniale nella descrizione, soprattutto attraverso dialoghi strepitosi, di un’umanità di “morti ambulanti”, che solo il dolore fisico (come il timpano rotto di Massimo) di quando in quando fa sentire vivi, “Ferito a morte” ha esercitato e continua ad esercitare una notevole influenza nel panorama della cultura italiana (è di queste settimane una versione teatrale portata in scena da Roberto Andò con la collaborazione di Emanuele Trevi), al punto che credo di poter affermare che senza il romanzo di La Capria probabilmente non ci sarebbe mai stata “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino, debitore dello scrittore napoletano di quella inconfondibile atmosfera sospesa tra satira grottesca e amara malinconia.
Indicazioni utili
TRA REALTA' SOGNO E VISIONE
“Forse nel cuore più profondo di questo libro non c’è nient’altro che un urlo giallo, abbacinante, apocalittico...”
Io ritengo che gli scrittori, o gli aspiranti tali, non leggano i libri di Mircea Cartarescu, anzi si guardino scrupolosamente dal farlo. Infatti, se lo facessero, il costante confronto con la prosa tersa e adamantina dello scrittore romeno, la cui bellezza l’aggettivo del titolo di quest’opera è incidentalmente in grado di descrivere alla perfezione, sarebbe così umiliante, così paralizzante, che il mestiere dei narratori, dei romanzieri e dei saggisti subirebbe probabilmente un esodo storico verso altre meno nobili professioni, e le case editrici avrebbero seri problemi a riempire i loro cataloghi, così come le librerie i loro scaffali. Se io dovessi mai accingermi a scrivere un romanzo o – peggio – un’autobiografia, credo che, dopo neppure una pagina, per quanto ambiziosa e stilisticamente raffinata cercasse di essere, scaglierei via la mia penna dalla rabbia, per l’incapacità di eguagliare anche solo per una centesima parte la perfezione ipnotica e visionaria di un qualsiasi periodo preso a caso nelle quasi 500 pagine di “Abbacinante. L’ala sinistra”, prima parte della più ampia trilogia che Cartarescu ha voluto dedicare alla storia della sua vita. Per fortuna io non sono uno scrittore, e gli scrittori – a quanto pare – non leggono Cartarescu… L’autore di Bucarest, la città che fa costantemente da sfondo ai suoi libri, terribilmente realistica eppure al tempo stesso magica e favolosa come la Macondo di Garcia Marquez, è, credo, uno dei segreti meglio custoditi della letteratura contemporanea, almeno in Italia, dove i suoi libri sono stati tradotti con inspiegabile ritardo e pubblicati da una piccolissima casa editrice come Voland. “Abbacinante” è senz’altro uno dei libri più belli e significativi che mi sia stato concesso di leggere negli ultimi anni, e forse solo un paragone quanto mai impegnativo, e a prima vista quasi inconcepibile, come quello con “Alla ricerca del tempo perduto” di Proust può dare l’idea di cosa un lettore è destinato a incontrare quando si accinge ad iniziare la trilogia. Infatti “Abbacinante” è prima di ogni altra cosa un romanzo (anche se parlare di romanzo in questo caso è allo stesso tempo fuorviante e riduttivo) sul tempo e sulla memoria, degno in tutto e per tutto di stare alla pari con la più famosa “Recherche”. Cartarescu si addentra nei ricordi della sua infanzia e della sua adolescenza (“voyeur della mia stessa vita”), e lo fa non tanto per risuscitarlo, come il suo precursore francese, ma al contrario come un necrofilo che perlustri la scena di un delitto, constatando e mettendo a referto soltanto morte e putrefazione. “Quando penso a me stesso in età diverse… è come se parlassi di una lunga serie ininterrotta di morti, di un tunnel di corpi che muoiono uno dentro l’altro”. Come tante matrioske ogni “io” è celato dentro un altro “io”, ognuno gravido di quello che lo ha preceduto, in un’interminabile sequenza che procede verso un nucleo sempre più denso, enigmatico e tenebroso. Cartarescu risale a ritroso gli anni come un salmone, in una fitta nebbia in grado di restituire solo allucinate presenze, immagini deformate che sconfinano sovente in quelle “catacombe dell’immaginario” che sono i sogni e le visioni. Lo scrittore romeno non ricostruisce infatti la propria vita e quella dei suoi genitori come in una classica autobiografia, ma le reinventa completamente, mescolando in maniera sorprendente leggenda e ritratto d’ambiente, delirio e cronaca familiare, mondo onirico e mondo reale (si veda, ad esempio, la descrizione dell’arrivo a Tantava del clan dei Badislav, dalla cui stirpe discende la madre, che nelle mani di Cartarescu diventa una favola pirotecnica, un mito colorato e bizzarro, in cui immagini veterotestamentarie di angeli e demoni si mescolano alla sfrenata e morbosa fantasia di un Bosch). Per Cartarescu sogni e allucinazioni non sono una realtà “altra”, una realtà parallela, in qualche modo alternativa a quella di cui facciamo quotidianamente esperienza con i nostri cinque sensi, ma sono integralmente parte di essa, anzi ne costituiscono l’aspetto più rilevante e significativo. Questa è la principale differenza con Proust, la cui fedele, minuziosa, certosina descrizione del “tempo perduto” aveva l’ambizione non già di mettere in discussione la realtà, ma di annullare ogni distanza tra l’ieri e l’oggi e realizzare, per il tramite dell’opera d’arte, una sorta di eternità, in cui passato, presente e futuro miracolosamente vengono a coincidere. Per Cartarescu invece “la realtà non è che un caso particolare dell’irreale, e noi tutti siamo, per quanto ci paia di sentirci concreti, solo la finzione di chissà quale altro mondo, che ci crea e ci contiene”. E’ verso quest’altro mondo, che intuiamo ma che si nega costantemente ai nostri sensi, che è proiettata la ricerca dell’autore romeno, in una sorta di slancio mistico che è ben diverso dalla “recherche” proustiana, ma anche dalla spiritualità delle religioni monoteistiche moderne. Non c’è nessuna “madeleine” qui ad aiutare Cartarescu (tutt’al più ne rinveniamo una versione deformata e grottesca laddove il protagonista “ricostruisce” sua madre contemplando la sua dentiera nella luce del tramonto), bensì una particolarissima forma di nostalgia, un sentimento indefinibile che “proietta nel passato ciò che intuisce essere il nostro destino e il nostro futuro”, che cerca disperatamente qualcosa senza sapere bene cosa, ma con la certezza che “deve” essere assolutamente trovato. Il passato è lo strumento, la mappa per venire a capo dell’enigma apparentemente insolubile del mondo. L’io non è il punto di arrivo, ma quello di partenza per poter sperare di evadere un giorno in un’altra, superiore dimensione, e ricongiungersi con quell’essere autentico, simile probabilmente a un angelo, che un giorno tutti noi eravamo, prima che il concepimento e la nascita tradissero irreparabilmente (e ci allontanassero definitivamente da) questa perfezione. Il passato è la chiave per giungere a questa rivelazione, e la propria vita trascorsa il libro tra le cui pagine cercare gli oscuri, labili indizi che possano portare a una verità ben più elevata di quella che sperimentiamo ogni giorno nel corso della nostra esistenza. Il punto da cui Cartarescu prende le mosse è forse l’aspetto che più lo avvicina al postmodernismo pynchoniano a cui molti lo hanno accostato. C’è infatti in tutto il romanzo una costante atmosfera di complotto, di cospirazione. La cospirazione però qui non è un escamotage narrativo, o una metafora dell’incomprensibilità, dell’ingovernabilità del mondo, ma è qualcosa di profondo, di ontologico oserei dire. Anche se tutto, dalla penna con cui scrivo queste righe al mal di testa con cui mi sono svegliato stamattina, dalla sveglia che mi ha strappato al sonno al sole che brilla fuori della finestra, cerca di convincerci “che l’esistenza davvero esiste, che il mondo è reale, che viviamo realmente in un mondo autentico”, la verità per Cartarescu è che tutto è clamorosamente falso, per il semplice motivo che noi non apparteniamo a questo mondo. “Il tuo regno non è qui. Devi andartene, trovare il tuo mondo, quello in cui stavi un tempo e del quale, senza saperlo, hai nostalgia. Devi cercare l’uscita, questo è lo scopo della tua vita, la regola del gioco al livello in cui ti trovi. E, in un certo senso, la ricerca è l’uscita.” Siccome non abbiamo bussole, non possediamo strumenti per questa decisiva ricerca, dai cui esiti dipende tutta la nostra vita, dobbiamo affidarci ai sogni, ai riti, alle psicosi, che soli sono in grado di farci intuire la verità, “per speculum in aenigmate”, usando quelle parole di San Paolo che ricorrono spesso nel libro. E’ per questo che sogni, allucinazioni e visioni abbondano in “Abbacinante”, conferendogli quell’inconfondibile carattere mistico e surreale insieme, a metà tra l’Apocalisse di Giovanni e un trip allucinogeno. Ciò spiega anche l’abbondanza di simboli, primo tra tutti quello della farfalla, che è il vero leitmotiv di “Abbacinante” (dalle farfalle giganti sotto al ghiaccio trasparente del Danubio invernale alla macchia a forma di farfalla sul fianco della madre, dalla farfalla che la donna rimasta rinchiusa nell’ascensore tiene in braccio quando Maria e Costel la ritrovano dopo dodici anni alle farfalle che escono dalle lingue delle vergini officianti il rito di fra’ Armando). Gli uomini sono infatti “esseri anfibi, tra cielo e terra”, e una simile condizione è descritta esemplarmente proprio da questo insetto, il quale da insignificante larva, da ripugnante bruco quale inizialmente è, è destinato a trasformarsi in una meravigliosa creatura alata. La memoria è legata a doppio filo a questa metafora, tanto è vero che Cartarescu la definisce “la metamorfosi della mia vita, l’insetto adulto di cui la mia vita è la larva”. Quello che lo scrittore romeno trova più spaventevole nel destino a cui l’uomo è chiamato non è tanto il non-essere, bensì “l’essere senza essere”, vivere cioè invano, senza scopo, senza neppure cercare la via d’uscita, lungi dal trasformarsi in farfalla ma rimanendo nella condizione di un acaro che vive inconsapevolmente sotto la pelle di Dio, ignaro dell’organismo che lo sta ospitando (sarà il tema di “Solenoide”, che sotto molti aspetti appare come una coerente prosecuzione delle tematiche di “Abbacinante”). Compito dello scrittore non è quindi quello di cercare individualmente, egoisticamente questa via d’uscita, ma di suggerire all’umanità qual è il suo destino, far scaturire in tutti la scintilla della nostalgia e disseminare il suo impervio percorso gnoseologico verso la verità, come nella celebre favola, di tante briciole che possano, nell’oscurità, aiutare chiunque a non smarrire la strada. Nella sua accesa e un po’ psicotica fantasia, Cartarescu fa un amplissimo uso di episodi dell’immaginario cristiano arrivando a immaginare la madre (che riveste un ruolo centrale in questa prima parte della trilogia) come una sorta di Madonna (Maria è, non a caso, il diminutivo di Miroara), a cui viene annunciato dalla fantasmatica donna dell’ascensore quel concepimento la cui febbrile e delirante descrizione occuperà l’ultimo capitolo, quello della cerimonia di fra’ Armando, esponente di quella setta di eletti e di predestinati chiamata gli Scienti. Cartarescu sembra dirci che lo scrittore è una sorta di nuovo Messia, e nonostante che nelle sue pagine non vi sia traccia di ironia, nonostante la sua filosofia sfiori continuamente il kitsch e il ridicolo, egli riesce ugualmente a far stare brillantemente in piedi una costruzione esagerata, grottesca e polimorfa e a far convivere insieme riflessione filosofica e spiritualità new age. La memoria è la “quintessenza del sacro”, e il suo vangelo è il libro stesso che l’autore descrive spesso nel suo faticoso farsi e che il lettore si trova ora tra le mani, quel libro che è contemporaneamente enigma e soluzione, medium e rivelazione, libro scritto sulla pelle, da decifrare come un misterioso tatuaggio (si veda il bellissimo episodio di Anka e del tatuaggio-messaggio cifrato che la ragazza ha sul cranio) o uno stereogramma apparentemente incomprensibile. Tutto nell’opera di Cartarescu è intriso di religiosità e misticismo (per inciso, trovo curioso ma nient’affatto casuale il fatto che un simile approccio irrazionalistico e anti-realista appartenga non solo allo scrittore romeno, ma anche a diversi tra i più importanti scrittori est-europei, come Volodine, francese ma di origine russa, o il bulgaro Gospodinov), in una visione sincretista in cui i Veda si mescolano alla Kabbalah, Krishna al Bardo Thodol, i koan ai mandala e i chakhra ai mantra; e poi ancora antroposofia, esoterismo, persino magia e riti voodoo (il simbolo di questo sincretismo è fra’ Armando, il sacerdote di tutte le religioni, che per tre giorni alla settimana fa il prete, per altri due giorni lo stregone, e il tempo restante presta i suoi uffici come imam in una comunità musulmana e come rabbino al tempio ebraico). Realtà fisica e dimensione spirituale sono due aspetti unitari, indistinguibili, che si compenetrano inestricabilmente tra loro, entrambi espressioni di una inafferrabile divinità che si svela e si nasconde in una quarta dimensione, che è il tempo, campo di esplorazione e terreno di ricerca che Cartarescu decide pervicacemente di scandagliare, consapevole che “l’intera nostra vita non è altro che l’ombra che il nostro corpo proietta sul tempo”.
“Abbacinante” è un- romanzo apparentemente disordinato e confuso (lo stesso Cartarescu ne parla, con finta seriosità, come di un “manoscritto senza capo né coda”, di un “libro illeggibile”), ma alla fine, miracolosamente tutto torna. Episodi che sembravano essere stati lasciati in sospeso vengono poi ripresi e portati alla loro naturale conclusione, e concetti che non si sa perché siano stati messi lì dall’autore trovano molte pagine più avanti la loro spiegazione (penso ad esempio al “tikitan”, il favoloso idioma parlato come per gioco, nell’ospedale in cui è ricoverato, dalle due piccole compagne di stanza di Mircea bambino, il quale ritorna nei versi barbarici e incomprensibili pronunciati da fra’ Armando nel corso della sua cerimonia iniziatica). Quello che di primo acchito può sconcertare in “Abbacinante”, oltre al suo surrealismo, è la sua costante mescolanza di reale e di virtuale, che dà origine a vertiginosi paradossi logici. Per Cartarescu, ad esempio, Dio non è Colui-che-è, ma Colui-che-sarà, perché è l’uomo a crearlo per poter essere da lui a sua volta generato. Dio non è morto, come affermava Nietzsche, bensì non è ancora nato. Ribaltando il consueto concetto di causa-effetto, Cartarescu può affermare che “tutti i mondi esistono per venire esistiti” e che “tutti i creatori (anche gli scrittori, aggiungo io) sono le creature delle loro creature [,…] formando una dualità inscindibile”. E’ questo perenne dualismo, che già abbiamo visto a proposito del destino dell’uomo, sospeso tra la condizione di farfalla e quella di acaro, a dare al romanzo un carattere ossimorico, in precario equilibrio tra sublime e volgare, tra sacro e blasfemo, tra paradiso e inferno, tra luce e tenebra, tra materialità e spiritualità. “Abbacinante” è un libro- visionario, psichedelico, anamorfico, eppure straordinariamente ipnotico e affascinante. Opera ambiziosissima, “bigger than life”, romanzo-mondo smisurato e a tratti addirittura eccessivo, a cui non si può non riconoscergli un coraggio titanico e quasi sconsiderato (cosa che lo rende a tratti di non facilissima lettura), “Abbacinante” è anche un testo, come ho già detto all’inizio di questa recensione, dallo stile raffinatissimo. Il suo lessico è quanto mai colto ed erudito, impreziosito dall’uso di termini specialistici (soprattutto scientifici) e sorprendentemente vario (se si potesse contare il numero di vocaboli diversi utilizzati dall’autore in “Abbacinante” verrebbe sicuramente fuori un numero strabiliante, difficilmente eguagliabile). La prosa di Cartarescu è labirintica, vertiginosa: leggere “Abbacinante” è come ammirare la bellezza di una rosa, stupirsi della perfezione dei suoi petali, seguirne le infinite circonvoluzioni fino a rimanerne ipnotizzati, fino a perdersi nel suo interno come dentro a una magia, a un sogno venato di irrealtà. Come ho già accennato più sopra, “Abbacinante” è ricchissimo di simbolismi e di metafore, così come di leitmotiv che chi ha già letto qualche libro di Cartarescu non faticherà a riconoscere. In primo luogo c’è Bucarest, “la mia città, il mio alter ego”, metropoli labirintica, fantasmatica, onirica (tutti gli edifici della città sembrano comunicare tra loro come i sogni, e non è inconsueto per il protagonista percorrere per un tempo indefinito i corridoi di un ospedale prima di trovare la stanza cercata, oppure aggirarsi di notte sulla terrazza di un edificio, a chilometri dalla propria abitazione, e subito dopo, scendendo a rotta di collo le rampe di scale per sfuggire ad una orribile visione, ritrovarsi dopo una decina di piani davanti alla porta di casa) e addirittura “organica” (Mircea la immagina, contemplandola nottetempo dalla finestra della sua stanza, come un impasto di carne e di pietra, di acciaio e di orina, di vertebre e di architravi). Enigmatiche sentinelle della città sono le sue inquietanti statue le quali, quasi fossero dei messaggeri ultraterreni, svelano in maniera iniziatica una realtà nascosta, una dimensione ctonia, in cui la mente umana rischia di perdersi (come nell’episodio in cui Ionel si trova a vagare, quasi levitando, nel mondo sotterraneo, popolato di conturbanti presenze, apertosi con sua somma sorpresa sotto il busto della statua di Puskin). La sfrenata fantasia di Cartarescu è nutrita di numerosi riferimenti culturali e artistici, da Kafka al realismo magico, dal surrealismo bretoniano alle esperienze pittoriche di Monsù Desiderio e di Piranesi, ma tutto è declinato in maniera estremamente originale e inconfondibile. “Abbacinante” è un libro unico, irripetibile, una pietra miliare della letteratura contemporanea in cui il suo autore ha cercato, con una ambizione, una caparbietà e una audacia tali da far restare a bocca aperta per l’ammirazione, “di tornare dove nessuno è mai tornato, di ricordare ciò che nessuno ricorda, di capire ciò che nessun essere umano può capire: chi sono, che cosa sono?”
Indicazioni utili
DI FOTOGRAFI, SCRITTORI E TERRORISTI
“Le storie non hanno senso se non assorbono il nostro terrore.”
Come il suo capolavoro “Underworld” (a mio avviso il vero Grande Romanzo Americano del XX secolo) anche “Mao II” inizia in uno stadio di baseball. In entrambi i casi si celebra un rito, la storica partita tra i New York Giants e i Brooklyn Dodgers dell’ottobre 1951 nel primo, e uno dei matrimoni di massa celebrati dal reverendo Moon verso la metà degli anni ’80 nel secondo. Nei romanzi di DeLillo i prologhi sono molto importanti, e allora vale la pena soffermarsi su questa bizzarra e anacronistica cerimonia, in cui migliaia di coppie vengono sposate contemporaneamente dal fondatore della Chiesa dell’Unificazione. Per lo scrittore newyorkese il mondo contemporaneo è ossessionato dalla rappresentazione, dalla messa in scena, favorendo in tal modo la proliferazione di realtà “altre”, di realtà per così dire di secondo livello, inverate per mezzo della ritualizzazione, della sacralizzazione, della mitizzazione. “Ogni cosa cerca la propria versione intensificata”, afferma il protagonista, lo scrittore Bill Gray, e ciò si realizza riducendo sempre più spesso la realtà a simulacro, a simbolo (“la natura ha ceduto il posto all’aura”). Il postmoderno di DeLillo interpreta il mondo attraverso le sue immagini, e la fotografia, in particolare, diventa una sineddoche della realtà. Mi viene in mente a questo proposito un episodio di un precedente libro di DeLillo, “Rumore bianco”, in cui due personaggi prendono la macchina e vanno a visitare il fienile più fotografato d’America, riflettendo sul fatto che esso non è tanto fotografato perché famoso, ma è famoso proprio perché fotografato, e in questa logica nessuno vede più realmente il fienile (“Non siamo qui per catturare una immagine. Siamo qui per mantenerne una – dice Murray all’amico -. Essere qui è una specie di resa spirituale. Vediamo solo ciò che vedono gli altri… Abbiamo accettato di essere parte di una percezione collettiva… In un certo senso è un’esperienza religiosa… Fanno fotografie del fare fotografie”). Siamo appena nel 1985 e in queste parole c’è già, in anticipo di trent’anni, tutto il mondo dei social network, di Facebook e di Instagram, dei like e dei selfie. I romanzi di DeLillo sanciscono la prevalenza dell’immagine sul segno, della superficie sull’essere, in una sorta di “iperrealismo letterario” sui generis: “Nel nostro mondo ospitiamo l’immagine, la mangiamo, le rivolgiamo le nostre preghiere e la indossiamo anche”. E’ così che l’immagine prende il posto della persona, la sostituisce, la enfatizza, la trasforma in icona, in materiale da consumo, a suo modo immortale (“Quando sarò morto davvero, loro mi penseranno vivo nella tua fotografia”). E’ una situazione che ha molte implicazioni profonde, a volte paradossali, direi quasi pirandelliane (“Ho conosciuto un editore che era stato mandato in prigione dopo che la sua rivista aveva pubblicato delle caricature del generale Pinochet. L’accusa era di assassinare l’immagine del generale”; e del resto, nell’ultimo capitolo del libro, “A Beirut”, si racconta che i soldati delle opposte fazioni sparano ciascuno ai ritratti del leader dell’altra, crivellandoli di colpi, per poi rimpiazzarli e ricominciare da capo).
La storia di “Mao II” origina proprio da una fotografia, ovverossia dalla decisione di Bill Gray, uno scrittore famoso che aveva deciso molto tempo prima, dopo la pubblicazione dei suoi primi due libri, di ritirarsi dalla scena pubblica per andare a vivere in provincia nel più totale anonimato (un po’ come hanno fatto, nella realtà, J.D. Salinger o Thomas Pynchon), di farsi ritrarre da Brita, una professionista free-lance specializzata nelle fotografie di scrittori. Bill è consapevole che il suo isolamento e la sua vita da anacoreta lo hanno trasformato in una leggenda, in una sorta di “deus absconditus”, ma questa vita tutta dedita al lavoro ormai gli sta stretta. Farsi fotografare è un gesto di ribellione contro una fama che viene alimentata proprio dalla sua volontaria reclusione dal mondo e che, paradossalmente, aumenta proporzionalmente al numero di anni passati senza pubblicare nulla di nuovo (“Bill ha conquistato la celebrità proprio non facendo niente… Bill diventa più grande a mano a mano che aumenta la sua distanza dalla scena). Ma Bill è altresì abbastanza intelligente da capire che l’immagine che entrerà nell’immaginario collettivo, emblema del mito dello scrittore, sostituirà i suoi libri, la superficie prevalendo in maniera definitiva sull’essenza, cosa che del resto è il segno distintivo del postmodernismo, così come postulato nelle opere di Andy Warhol. Se Walter Benjamin, nel suo saggio del 1936 “L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica”, sosteneva che la fine dell’unicità, dell’originalità, della “irriproducibilità” dell’opera d’arte avrebbe necessariamente comportato il venir meno della sua aura, Warhol ha dimostrato proprio il contrario: con l’iterazione ossessiva delle immagini (oltre alle serigrafie di Mao Tse Tung che danno il titolo al romanzo, si pensi a quelle, probabilmente più conosciute dal grande pubblico, di Marilyn Monroe) egli ha sancito la trasformazione dell’individuo in un’icona astratta, intangibile e immortale, ma anche, nello stesso tempo, spersonalizzata e ridotta a materiale di consumo. “Niente succede finchè non viene consumato”: le immagini di Mao Tse Tung e Marilyn Monroe, nel momento stesso in cui trionfano nell’immaginario pubblico, sanciscono la fine dell’individuo. E’ così che la riflessione sul culto dell’immagine nella società contemporanea si salda con l’affermazione che chiude il prologo (“Il futuro appartiene alle masse”): il consumismo occidentale, così come la setta del reverendo Moon e la rivoluzione culturale cinese di Mao, disumanizzano le persone, le trasformano volontariamente in massa anonima, sazia e soddisfatta o fanatica e idolatrante, in una collettività che esclude la libertà di scelta e di pensiero, proprio come aveva preconizzato il Grande Inquisitore di Dostojevskij.
Bill Gray capisce che, nel momento stesso in cui viene trasformato in effige famosa, i suoi libri perdono il potere di formare ed influenzare le coscienze. Il posto degli scrittori è stato ormai preso dai fabbricanti di notizie (“Stiamo cedendo il passo al terrore, ai notiziari del terrore, a registratori e telecamere, alla radio, alle bombe nascoste nelle radio”). Se “le notizie dei disastri sono l’unica narrativa di cui la gente ha bisogno”, allora appare chiaro che gli scrittori sono destinati a perdere la battaglia nei confronti dei nuovi protagonisti della società, i terroristi. “In società ridotte allo sperpero e alla sovrabbondanza, il terrore è l’unica azione significativa”. Bill capisce perfettamente tutto ciò e, per sfuggire alla sua progressiva irrilevanza, oltre che a un lavoro che lo perseguita e lo tiene prigioniero in una stretta soffocante (“Continuo a vedere il mio libro che va in giro per i corridoi. Eccola lì la cosa, che striscia debolmente, una creatura nuda e ingobbita coi genitali penduli, solo ancor peggio, perché ha la testa ingrossata in cima, e c’è una lingua a grondone che sporge a un angolo della bocca e poi dei piedi veramente terribili. Cerca di attaccarmisi, di toccarmi e restare aggrappato. Un cretinoide, uno storpio. Gonfio d’acqua, bavoso, incontinente”), per sfuggire a tutto ciò, decide di uscire dopo decenni dalla sua torre d’avorio e, con il pretesto di aiutare grazie alla sua notorietà un poeta catturato come ostaggio e tenuto prigioniero a Beirut da un gruppo di combattenti maoisti, di provare a realizzare ciò che i suoi libri non sono più in grado di fare: ossia, influenzare la realtà. Non dirò qui, per non rovinare il piacere della lettura, come DeLillo decida di risolvere narrativamente il dissidio tra artista “eremita” e artista “engagé”, ma il fatto che sia la fotografa Brita l’unica a giungere alla fine del romanzo ad avere un colloquio vis-à-vis con il carismatico leader terrorista Abu Rashid è, una volta di più, la beffarda e provocatoria conferma della supremazia dell’immagine sulla parola scritta nella società odierna.
“Mao II” è un romanzo in cui appare più evidente che mai la presenza costante di un sottotesto al di là della trama pura e semplice; è un’opera-iceberg in cui bisogna osservare attentamente sotto la sua superficie per scoprire le infinite ramificazioni del pensiero dell’autore. Sebbene non sia ancora il romanzo-totale, il romanzo-mondo che sarà “Underworld”, “Mao II” è sicuramente il lavoro più filosofico di DeLillo. I suoi meravigliosi dialoghi affrontano con arguzia e profondità una miriade di argomentazioni di carattere artistico, sociologico e politico, ma è forse quando decide di abbandonare le parole per far posto alle immagini che DeLillo rivela in maniera inoppugnabile la sua proverbiale originalità ed ampiezza di vedute. Le immagini delle manifestazioni di massa che gli schermi dei televisori diffondono lungo tutto il romanzo (dalla tragedia dell’Heysel alla rivoluzione di piazza Tienanmen e ai funerali di Khomeini) contrappuntano e danno ulteriori sfumature di significato a quella già citata del prologo, mentre inedite connessioni vengono create tra il mondo occidentale e quello, apparentemente lontanissimo, del Medio Oriente (gli accampamenti degli homeless a Tomkins Square fanno apparire alcuni angoli di New York in maniera non troppo dissimile dalla Beirut sconvolta dalle bombe e dagli scontri armati). Inoltre, le riflessioni sul terrorismo e sul potere dei terroristi di condizionare l’immaginario collettivo (“Beckett è l’ultimo scrittore che abbia formato il nostro modo di pensare e di vedere. Dopo di lui, le opere principali comportano esplosioni a mezz’aria e crolli di edifici. Questa è la nuova letteratura tragica”) hanno qualcosa di veramente profetico (non è un caso che le Twin Towers abbiano qui, ben dieci anni prima dell’attentato che ha segnato così profondamente la storia americana, un ruolo non marginale). David Foster Wallace, a proposito di DeLillo, parlava di “preveggenza oracolare”: in effetti è incontestabile che in “Mao II”, così come nella maggior parte delle sue opere, lo scrittore di New York dimostri una capacità di anticipare le trasformazioni epocali dell’America e del mondo che nessun altro autore contemporaneo è stato mai in grado di eguagliare.
Indicazioni utili
QUANDO LA PATRIA CHIAMA
“Non avrei mai pensato che il servizio militare si insinuasse nella mia esistenza scrostando piacevolmente immagini ed emozioni del tutto dimenticate e che riviste oggi appaiono così perdute da ricercarle con passione e accanimento, da studiarle, rivederle, riassorbirle. Tutto in me si muove come se questa del soldato e della sua partenza fosse una storia antichissima e remota incisa nel D.N.A., un codice collettivo che quando scatta decifra e informa tutto il tuo self. Non l'avrei creduto. Avevo terrore di tante situazioni e invece anche questi attimi mi appagano. […] Ora so che c'è qualcosa che vibra anche dentro di me e che riannoda il senso mio con quello circostante. Non so dire precisamente di cosa si tratti, ma è qualcosa che non mi separa e soprattutto non mi divide.”
Ricordo che quando, verso la metà degli anni ’80, poco più che ventenne, prestai il servizio militare come artigliere, “Pao Pao” di Pier Vittorio Tondelli, uscito da non più di tre anni, era un libro abbastanza popolare nelle caserme. In effetti, il mondo della naja, pur essendo all’epoca un passaggio obbligato nella vita di ogni giovane maschio italiano, non aveva, per quanto mi risulta, mai avuto prima di allora diritto di cittadinanza nella letteratura nazionale contemporanea. Inoltre, in quei fatidici anni Ottanta in cui in ogni campo artistico (dalla musica al cinema) le giovani generazioni stavano cercando di soppiantare le vecchie, Tondelli si era proposto come l’alfiere di una nuova narrativa che cercava di svecchiare, tanto nelle tematiche quanto nel pubblico di riferimento, le forme letterarie tradizionali (in una tavola rotonda di circa 35 anni fa, contrapposto a scrittori più anziani, aveva detto: “Per me è giovane scrittore chi ha a che fare con l’universo dei comportamenti giovanili, fatto di determinate riviste, di musica rock, di originali esperienze culturali e di vita… Se scrivi di giovani e li rappresenti, sei un giovane scrittore”). Ho fatto questa lunga premessa per dire che, all’epoca, mi pentii non poco di non aver letto il romanzo di Tondelli, in quanto avrei potuto ritrovare nelle sue pagine tutte quelle particolarissime esperienze e sensazioni, non sempre positive, che la naja era in grado di offrire (il vago ma costante senso di assurdità della vita di caserma, la promiscuità, il nonnismo, le notti intere passate a fare la guardia a polveriere letteralmente sperdute in mezzo al nulla, il freddo d’inverno e le zanzare d’estate, la nostalgia di casa, la babele linguistica di commilitoni provenienti da ogni parte d’Italia, gli appelli e i contrappelli, le marce e i picchetti). Ho voluto recuperare questo breve libretto a distanza di tanti anni un po’ per tornare con la memoria ai ricordi lontani della mia giovinezza, ma anche come un atto di tardivo (anzi postumo, dal momento che Tondelli è scomparso, giovanissimo, all’inizio degli anni Novanta) riconoscimento nei confronti di uno scrittore coraggioso e anticonformista. Non vi ho trovato, come avevo pensato, un racconto di formazione vero e proprio (la naja come un rito di passaggio, nel bene e nel male, dall’adolescenza alla maturità) e neppure il ritratto corale di una generazione (anche la descrizione della vita del militare di leva non ha, a dire il vero, una parte preponderante, nonostante il titolo e la sinossi in copertina), ma piuttosto un’elegia molto sui generis di quell’età magica che, pur tra alti e bassi (leggi: droga), è innervata da una sfrenata vitalità che nessuna regola e nessun sistema può imbrigliare. “Pao Pao” è un libro felicemente anarchico che parla di tutte quelle esperienze e di tutti quegli incontri, unici e irripetibili (quelle “occasioni della vita”, per dirla con le parole dello scrittore emiliano, che “si schiudono ogni tanto a dar sollievo a questo nostro pauroso vagare per sentieri che non conosciamo”), che l’anno di militare, bizzarra e financo grottesca parentesi della vita, incuneata tra la scuola e il lavoro, garantiva ai ragazzi del secolo scorso.
Lo stile di Tondelli merita qualche parola a parte. Egli sa dare alle sue frasi una straordinaria impressione di freschezza, di spontaneità, di vita vissuta, pur senza ricorrere quasi mai alle facili scorciatoie del vernacolo o dello slang giovanilistico. I suoi periodi spesso partono per così dire in minore e progressivamente crescono e si gonfiano in una spassosissima, inarrestabile, logorroica successione di invenzioni linguistiche, in cui la ridondanza non è mai tautologia ma libero e felice estro lessicale. Tondelli ammaestra le parole e, come un domatore con delle belve feroci, le riconduce a una stupefacente docilità. Fatte le debite e ovvie proporzioni, a me ha ricordato alla lontana lo stile di un altro outsider della letteratura del secolo scorso, J. D. Salinger.
Peccato che, al di là di queste invenzioni linguistiche, “Pao Pao” si perda alla lunga in una successione un po’ caotica e dispersiva di serate goliardiche passate, tra un’osteria e l’altra, a ubriacarsi e sballarsi di canne e, soprattutto, di amori (rigorosamente omosessuali) tanto folgoranti e sublimi quanto strazianti e disperati, nonostante che Tondelli cerchi in ogni modo di saldare la frammentarietà delle tante storie e dei tanti personaggi in un unico percorso esistenziale (“e allora, nonostante i dolori e le precarietà dei nostri anni giovanili la vita sembra rivelarsi come una misteriosa e armonica frequenza che schiude il senso e fa capire”). Probabilmente “Pao Pao” non è il lavoro più significativo della produzione, purtroppo esigua (interrotta com’è stata dalla morte prematura di AIDS) di Pier Vittorio Tondelli, probabilmente è da “Altri libertini” e “Camere separate” che bisognerebbe partire per affrontare al meglio il suo universo, ma questo romanzo si fa ugualmente leggere ed apprezzare ancora oggi per le sue doti di esuberanza narrativa e di originalità stilistica.
REQUIEM PER IL SOGNO AMERICANO
“- Gente come noi, che lavora nei ranches. è la gente più abbandonata del mondo. Non hanno famiglia. Non sono di nessun paese. Arrivano nel ranch, raccolgono una paga, poi vanno in città e gettano via la paga, e l'indomani sono già in cammino alla ricerca di lavoro e d'un altro ranch. Non hanno niente da pensare per l’indomani […]
Lennie interruppe, - Noi invece è diverso! E perché? Perché... perché ci sei tu che pensi a me e ci sono io che penso a te, ecco perché.”
George e Lennie sono due braccianti che girano in cerca di lavoro nella California degli anni ’30, disposti a trasportare sacchi d’orzo per undici ore al giorno in cambio di una paga da fame e di un alloggio di fortuna. I due formano una coppia davvero strana, perché Lennie è un gigante dalla forza erculea, ma con l’animo e la testa di un bambino. In un mondo individualista, cinico e spietato, George e Lennie stanno insieme come un’entità anomala e bizzarra ma indissolubile, che il tempo ha cementato come un’inveterata abitudine. George si prende cura di Lennie in quanto questi non è in grado di badare a se stesso, ma nel contempo Lennie, con il suo contagioso e infantile entusiasmo, attizza nel compagno la flebile ma inestinguibile fiammella del sogno di un pezzo di terra tutto per loro, un posto da poter chiamare casa e senza più padroni da cui dipendere. Anche se Lennie ha il brutto vizio, nonostante il suo candore di fondo, di cacciarsi nei guai, a causa della sua incapacità di controllare le proprie emozioni (a me ha ricordato vagamente la creatura del “Frankenstein” di James Whale, nella scena in cui uccide senza volerlo la bambina con cui sta innocentemente giocando in riva al fiume), egli è tuttavia l’unico antidoto contro quella solitudine e quell’isolamento che rappresentano il vero male di vivere nell’universo steinbeckiano. Che sia un vecchio cane quasi cieco o un povero mentecatto, tutto serve per non affrontare da soli il desolato cammino della vita negli anni della Grande Depressione. Ma, come ben sa chi conosce un poco Steinbeck, il destino è costantemente in agguato per cercare di spezzare i legami di fraternità e di amicizia ed affossare ogni velleitaria utopia.
“Uomini e topi” è, più che un romanzo, una sorta di racconto lungo, genere a cui peraltro Steinbeck è ricorso più volte nel corso della sua carriera (si pensi al celebre “La perla”). Lo spirito e l’ambientazione sono gli stessi di “Furore”, il capolavoro che lo scrittore americano pubblicherà solamente due anni più tardi, ma qui l’umanesimo steinbeckiano è viziato, a dire il vero, da un didascalismo troppo programmatico e da una sorta di fastidiosa prevedibilità, che l’esiguo numero di pagine non aiuta certo a dissipare. L’invito di George a Lennie a venire a nascondersi presso la solitaria pozza d’acqua in caso di guai, la presenza di una “femme fatale” e di un marito collerico e prepotente, e persino l’esistenza di una pistola che un ranchero tiene nascosta sotto la branda (ricordate che Cechov aveva scritto che “se in un racconto compare una pistola, bisogna che prima o poi spari”?), sono tutti segnali indicatori di una tragedia in divenire, ipostasi di un ineluttabile precipitare degli eventi verso un finale troppo facilmente intuibile. Fatta la tara di questi difetti, e detto che la traduzione alquanto invecchiata di Cesare Pavese dell’edizione da me letta non è stata certo d’aiuto, non va comunque sottaciuto il fascino arcano di due personaggi originali e difficilmente dimenticabili, oltre che il profondo realismo nella descrizione di una realtà sociale di ingiustizia e di sofferenza, che fa di Steinbeck uno dei più autentici e sinceri cantori di un’umanità reietta e perseguitata da un fato avverso, e della inesorabile falsità dell’”american dream”.
Indicazioni utili
IN CHE MOMENTO SI ERA FOTTUTO IL PERU'?
“Non era forse un grande casino questo paese, signorino, non era un rompicapo madornale il Perù?”
“La città e i cani”, “La Casa Verde”, “Conversazione nella ‘Catedral’”: a soli trentatré anni, con i suoi primi tre formidabili romanzi, Mario Vargas Llosa è riuscito a rivoluzionare la storia della letteratura mondiale, innestando nella narrativa latino-americana una spregiudicatezza stilistica capace di andare al di là degli esperimenti avanguardistici della Lispector, di Lezama Lima e di Cortazar, e una consapevolezza formale memore del modernismo di Faulkner. Delle tre opere citate, “Conversazione nella ‘Catedral’” risulta, se non esteticamente la migliore, sicuramente quella più emblematica e significativa da un punto di vista esegetico, il romanzo in cui davvero forma e contenuto, stile e racconto diventano un unicum inseparabile e indistinguibile. E' forse per questo che “Conversazione nella ‘Catedral’” non soffre mai del cerebralismo tipico di altri lavori coevi, in quanto le tecniche utilizzate (ad esempio lo “stream of consciousness”) non prevaricano mai sulla trama, che rimane sempre densa di avvenimenti, di epifanie e di colpi di scena, e l’intellettualismo non arriva mai a soffocare le emozioni che la attraversano. Sarebbe scorretto far credere che “Conversazione nella ‘Catedral’” non sia un romanzo ostico: chi conosce un po’ Vargas Llosa (almeno non quello dei romanzi più facili, come “La zia Julia e lo scribacchino” e “Le avventure della ragazza cattiva”) sa che dietro al velo apparentemente prosaico e innocuo del presente si nasconde sempre, dissimulato e misterioso, un passato doloroso e inquietante. Questo passato non si concede facilmente al lettore, il quale se lo deve conquistare con fatica, pezzo dopo pezzo, facendosi largo tra dissimulazioni e occultamenti, e anche così facendo rimane sempre un piccolo iato, un non detto, un non spiegato. Proprio in questo scarto risiede però a mio avviso l’ipnotico e tenebroso fascino della prosa dello scrittore peruviano, perennemente in bilico tra limpidezza sintattica e ambiguità diegetica.
Il casuale e apparentemente insignificante incontro tra il protagonista Santiago Zavala e lo zambo Ambrosio fa scattare un elaborato meccanismo in grado di far riemergere “le immagini abiette della memoria”, un torbido passato che – si scoprirà – ha condizionato irrimediabilmente l’avvenire del primo così come, con una audace ma legittima operazione sineddotica, dell’intero Perù (nel folgorante incipit Santiago pensa: “Lui era come il Perù, a un certo punto si era fottuto… Il Perù fottuto, pensa, Carlitos fottuto, tutti fottuti”). Storie individuali e Storia collettiva, privato (o addirittura autobiografia, dal momento che il personaggio di Santiago è modellato sulle esperienze giovanili dello scrittore) e pubblico, passato e presente si intrecciano, si mescolano, si confondono, con un procedimento espressivo estremamente originale e innovativo. Le conversazioni (ebbene sì, a dispetto del titolo non c’è una sola conversazione) sono strutturate in un modo che un critico sudamericano ha brillantemente definito “dialoghi telescopici”: in pratica Vargas Llosa fa confluire in un unico, ininterrotto colloquio due o tre dialoghi, che avvengono tra persone diverse o in tempi differenti, in uno spericolato montaggio alternato simil-cinematografico che ingenera nel lettore un effetto di comprensione ritardata su come sono andate veramente le cose. Si prenda, per limitarsi a un solo esempio (forse neanche il più eclatante) estrapolato dai capitoli iniziali, alla scena in cui Santiago e Popeye organizzano uno scherzo ai danni della domestica di famiglia Amalia per farle bere la “iohimbina” a sua insaputa e divertirsi alle sue spalle, mentre contemporaneamente (ma in realtà diverse settimane dopo) gli stessi personaggi si recano all’abitazione di Amalia, che nel frattempo è stata cacciata dal lavoro, per regalarle dei soldi, dal momento che Santiago si sente responsabile del suo licenziamento. I due dialoghi si alternano in continuazione, senza preavvisi di sorta, in una maniera che all’inizio spiazza e disorienta il lettore, ma alla fine, grazie all’effetto di comprensione posticipata che genera, riesce a rendere molto più avvincente e misteriosa la narrazione, che con una successione cronologica tradizionale perderebbe quasi tutto il suo pathos. La composizione procede pertanto con incessanti sfasamenti temporali e, per così dire, a cerchi concentrici: la conversazione del presente ingloba, senza soluzione di continuità, altre conversazioni avvenute nel passato, e se a ciò si aggiunge il fatto che il flusso di coscienza si intreccia, nella stessa frase, alla descrizione della realtà esterna (ad esempio, “Un torrente di camion, di autobus e di automobili attraversa il Puente del Ejército, che faccia avrebbe fatto se? nella nebbiolina l'ammasso terroso di casupole di Fray Martín de Porres, se la sarebbe data a gambe?, si intravede come in sogno”), oppure che, sempre nello stesso periodo, si passa repentinamente dalla prima alla terza persona (“Non poteva essere e fumavi, Zavalita, doveva trattarsi di una calunnia e bevevi un sorso e ti soffocavi, e gli mancava la voce e ripeteva sempre non poteva essere”), o ancora che gli interlocutori non vengono mai espressamente citati e ad essi si risale solamente grazie all’intuizione del lettore o al frequente intercalare di termini come “don” o “signorino”, si riesce a capire come “Conversazione nella ‘Catedral’” possa essere considerata un’opera audace e sfrenatamente originale, pur mantenendo una comprensibilità di fondo che non la trasforma mai in un’impresa riservata ai soli iniziati. Al contrario, Vargas Llosa costruisce personaggi potenti (su tutti, il viscido e amorale don Cayo, di cui si dice “il vizio è l’unica cosa che rispetti nelle persone”) ed episodi memorabili (l’assalto di un gruppo di scagnozzi del regime al teatro di Arequipa per mandare all’aria un comizio dell’opposizione), e inserisce addirittura una trama vagamente thriller, con tanto di omicidio violento il cui colpevole rimane impunito fino alla fine del libro; inoltre, grazie ad essa veniamo a familiarizzare con un pezzo di storia del Perù (la dittatura di Odria, uno dei tanti caudilli sudamericani, che ha governato il paese dal 1948 al 1956) che a noi europei è quasi del tutto sconosciuta. L’incontestabile riuscita del romanzo, uno dei capolavori della letteratura – non solo ispano-americana – del Novecento, che mi piace pensare (anche se è una mia personalissima opinione) possa avere influenzato persino alcuni esponenti del postmodernismo statunitense (il secondo capitolo della terza parte, fatto solo di dialoghi ininterrotti, legati insieme da una profusione di ellissi, mi ha ricordato moltissimo il Gaddis di “JR”), deve avere del resto colpito profondamente lo stesso scrittore di Arequipa, il quale da allora è tornato spesso (“La guerra della fine del mondo”, “La festa del caprone”, “Tempi duri”) a questa forma di romanzo storico sui generis, originale commistione di vicende individuali e storia collettiva, che nel corso degli anni ha saputo, meglio di qualsiasi analisi politica o sociologica, trasformarsi in un prezioso e insostituibile affresco del continente centro e sud-americano, atavicamente dominato da soprusi, corruzione, ruberie e violenza, e costretto per ciò stesso a una frustrante paralisi sociale e a un inarrestabile degrado morale.
Indicazioni utili
"Luce d'agosto" di William Faulkner
L'ATTRAZIONE FAUSTIANA DELLA COSCIENZA CONDIVISA
“Mai fidarsi di una casa di marzapane!”
Nell’ultimo capitolo de “Il tempo è un bastardo” Jennifer Egan immaginava che il protagonista di quel racconto, Alex, cercasse di portare alla memoria Sasha, la ragazza insieme alla quale aveva trascorso una notte molti anni prima, ma alla fine era costretto a riconoscere di non ricordare praticamente nulla di quell’incontro, né come lei si chiamasse, né che aspetto avesse, e persino che cosa avessero fatto insieme. Quei dettagli erano stati completamente cancellati dal tempo, e questa sensazione era frustrante, “come quando cerchi di ricordare una canzone che ti ha fatto sentire in un certo modo, ma senza disporre di un titolo, del nome dell’artista, o anche solo di qualche accordo per richiamarla alla memoria”. Nello stesso libro, lo studente informatico Bix Bouton si trovava di notte con gli amici Rob e Drew davanti all’East River, prima di lasciarli alla loro tragica nuotata nel fiume, e all’auspicio di Drew (“Ricordiamoci di questo giorno, anche quando non ci conosceremo più”) aveva risposto: “Oh, ma noi ci conosceremo sempre. I tempi in cui ci si perdeva di vista sono quasi finiti […] Ci ritroveremo in un luogo diverso. Tutti quelli che abbiamo perduto, li ritroveremo. O saranno loro a ritrovare noi”. L’episodio era ambientato all’inizio degli anni ’90, e l’affermazione di Bix preconizzava l’avvento di Facebook e dei social media, che all’epoca di pubblicazione del romanzo, il 2011, si era ormai trasformato da anni in un fenomeno pervasivo e inarrestabile. Jennifer Egan deve essere rimasta affascinata dalle potenzialità narrative della nuova tecnologia digitale e della sua indissolubile interazione con la nostra vita di tutti i giorni, negli anni successivi affrontata con successo anche da altri autori, come Dave Eggers ne “Il Cerchio” o Richard Powers in “Smarrimento”, e nel suo nuovo romanzo, “La casa di marzapane”, ha voluto spingersi, con quel coraggio e quella capacità visionaria che da sempre la contraddistinguono, fino a immaginare un futuro in cui non solo è possibile condividere con chiunque canzoni, fotografie e informazioni (come normalmente facciamo con Youtube, Instagram e Whatsapp), ma addirittura i ricordi e le sensazioni private dell’intera esistenza. “Riprenditi l’inconscio” viene inventato proprio dal già citato Bix Bouton, nel frattempo diventato un guru del mondo digitale, e la scintilla all’origine di tutto è, guarda caso, l’episodio con Rob e Drew di quasi vent’anni prima, che si rivela sfuggente ed elusivo in maniera sconfortante (“Dov’era rimasto nascosto quel ricordo, fino a quel momento? E dov’era il resto: la voce di Rob, e quella di Drew, e tutto quello che avevano detto e fatto in quell’ultima mattina della vita di Rob? […] Sentì il mistero del proprio inconscio simile a una balena che fluttuava invisibile al di sotto di un minuscolo nuotatore. Se non era capace di consultare o di recuperare o di vedere il suo passato, allora quel passato non era veramente suo: era perduto”). La nuova tecnologia di Bix sembra fin da subito una sorta di incantesimo, di bacchetta magica capace di esaudire i nostri più reconditi desideri. In fondo, chi non vorrebbe rivivere il giorno in cui si è innamorato, ha scalato una vetta himalayana o ha imparato per la prima volta ad andare in bicicletta? Senza parlare della possibilità di rivedere in maniera vivida amici perduti o familiari scomparsi. Esternalizzando il contenuto della propria coscienza in un hard disk apposito, il Cubo della Coscienza, tutto questo diventa possibile. Ma non è tutto. Caricando la memoria su un collettivo condiviso, una sorta di “cloud”, si ha la possibilità di accedere ai pensieri anonimi e ai ricordi di tutte le persone che hanno accettato di fare altrettanto: come dire che diventa possibile sperimentare il raduno di Woodstock o la caduta del muro di Berlino attraverso gli occhi di chi quel giorno c’era! E’ una cosa apparentemente meravigliosa, allettante oltre ogni più audace speranza, e difatti la Egan immagina che l’invenzione di Bix abbia un successo enorme, planetario, al punto che diventa abituale regalare il Cubo della Coscienza a tutti i neo-ventunenni come regalo per festeggiare l’entrata, oltre che nella maggiore età, anche in una nuova, incommensurabilmente più ampia dimensione esistenziale. Ma, ovviamente, c’è un grosso “ma”. Come abbiamo imparato con l’avvento di Internet, nulla è davvero gratis. Napster e i suoi emuli, ad esempio, ci hanno permesso di condividere una moltitudine enorme di canzoni, ma questo ha giocoforza comportato una grave crisi dell’industria discografica, e lo stesso può dirsi di quella cinematografica e, in una certa misura, anche dell’editoria. Il più grave danno, quello forse meno percepibile a prima vista, ma evidentissimo nelle sue conseguenze a lungo termine, è la rinuncia alla propria privacy. Se qualcuno si chiedesse come sia possibile accedere illimitatamente a video, immagini e informazioni nella rete, e dove i vari Facebook, Twitter e Whatsapp traggano i loro guadagni, la risposta non potrebbe che risiedere nella mole di dati personali che ogni giorno accettiamo di cedere, acconsentendo senza pensarci troppo ai cookie che ci vengono proposti. Non c’è nulla di orwelliano in questo, la rinuncia alla privacy è accettata volontariamente, anzi a cuor leggero, a fronte di una contropartita in apparenza molto più remunerativa e gratificante. Anche “Riprenditi l’Inconscio” funziona così, anzi il suo fascino è un irresistibile canto delle sirene cui non è possibile resistere, una droga che crea una fatale dipendenza, e non è un caso che sia proprio la tossicodipendente Roxy a essere nel romanzo la più entusiastica fautrice del Cubo della Coscienza, il quale le offre l’illusoria e ingannevole impressione di poter finalmente “lasciare la sua impronta” nel mondo. E’ in questo problematico contesto che la Egan immagina che, a fronte della stragrande maggioranza che considera la nuova tecnologia alla stregua di un progresso enorme, epocale per l’umanità, una invenzione da cui non si può prescindere senza dover rinunciare a una parte essenziale della propria personalità, vi siano invece persone le quali, avendo subodorato i pericoli ad essa connessi (la rinuncia alla propria intimità, perché se è vero che tu sai tutto di tutti, è altrettanto vero che tutti sanno tutto di te; l’impoverimento della vita sociale, dal momento che i rapporti finiscono per esaurirsi in una narcisistica e fondamentalmente inautentica esibizione del proprio ego; il ripiegamento nel passato, che diventa, con la possibilità di riviverlo senza più amnesie, fin nei minimi dettagli, molto più interessante del futuro), cercano di eludere la propria identità digitale, e delle organizzazioni “resistenti” (che mi hanno ricordato un po’ gli esuli guidati da Granger di “Fahrenheit 451”) che li aiutano in questa opera, al fine di boicottare la creazione di Bouton.
“La casa di marzapane”, alla luce di quanto detto finora, sembra il libro ideale per un gruppo di discussione che si proponga di analizzare i pro e i contro delle nuove tecnologie digitali. Jennifer Egan è chiaramente consapevole di questo aspetto, ma fa di tutto per non ridurre la sua opera al rango di un facile pamphlet. Il suo atteggiamento non è sfacciatamente partigiano, perché se da una parte mette in risalto i rischi di “Riprenditi l’Inconscio”, dall’altra non nasconde i suoi risvolti positivi: “la giusta sanzione per decine di migliaia di delitti rimasti impuniti; lo sradicamento totale della pornografia infantile; la riduzione netta dei casi di Alzheimer e demenza senile mediante re-infusione di coscienza integra precedentemente salvata; la conservazione e la rinascita di lingue quasi morte; il ritrovamento di schiere di persone scomparse”. Quello che per la Egan è il vero aspetto dirimente della questione, al di là di tutti i vantaggi e i rischi finora considerati, è soprattutto questo: “Riprenditi l’Inconscio”, con la possibilità che dà a chiunque di rendere consultabili in forma anonima le coscienze di tutti, genera un eccesso di informazioni da cui si rischia di venire sommersi. Sapere tutto è in fondo la stessa cosa di non sapere nulla. E siccome “non tutte le storie meritano di essere raccontate”, il risultato finale di questa pletora di informazioni sarebbe la morte delle storie, la fine dell’immaginazione. Pensiamo per un attimo alla sorte della “Recherche” di Proust se all’epoca ci fosse stato il Cubo della Coscienza: non ci sarebbe stato bisogno di alcuna madeleine per riesumare miracolosamente il passato, e al posto del selciato sconnesso di palazzo Guermantes sarebbe stato sufficiente un anonimo hardware dove esternalizzare la propria coscienza e un banale visore per far risorgere dall’oblio, senza alcuna fatica, Swann e Odette, madame Verdurin e il barone di Charlus. Il prezzo che il mondo avrebbe pagato per l’irrisoria facilità di accesso al proprio passato sarebbe stato la perdita di un insostituibile capolavoro della cultura, e la precisione delle informazioni ottenute sarebbe inevitabilmente andata a detrimento della poesia. “La casa di marzapane” può essere quindi letto come una sorta di inno all’immaginazione, alla capacità della letteratura di creare e condividere storie in maniera migliore di quanto la tecnologia digitale, con le sue sterili e anodine funzionalità, è in grado di garantire. Per fare una similitudine molto approssimativa ma efficace, l’arte starebbe alla tecnologia come l’erotismo alla pornografia. Il personaggio che meglio incarna questa posizione è sicuramente quello del figlio minore di Bix Bouton, Gregory, l’aspirante scrittore che al termine del romanzo ritrova la vena creativa perduta: “Gregory fissava, folgorato, la neve che gli cadeva addosso come detriti spaziali, disordinati stormi di uccelli; come se l’universo volesse svuotarsi. Capì subito il senso di quella visione: le vite umane, passate e presenti, intorno a lui, dentro di lui. […] Una galassia di vite umane che precipitavano verso la sua curiosità. In lontananza, sfumavano nell’uniformità, ma si muovevano, ognuna spinta da una forza singolare e inesauribile. Il collettivo. Riusciva a sentire il collettivo senza bisogno di macchinari. E le storie di questo collettivo, infinite e particolari, sarebbe toccato a lui raccontarle.”
Nonostante tutto quello che si è detto finora, si cadrebbe in un imperdonabile errore se si pensasse che l’invenzione di Bix Bouton è sempre, ossessivamente al centro del romanzo, monopolizzando ed esaurendo le sue potenzialità narrative. Al contrario, “Riprenditi l’Inconscio” fa da semplice, anche se costante, sfondo alle tante storie del libro, come una cosa che, per quanto rivoluzionaria, è stata ormai assimilata da tutti, e non c’è più bisogno di essere didascalicamente spiegata da ogni personaggio. Pensiamo, per fare un esempio, a Internet e a come la rivoluzione digitale ha cambiato la nostra esistenza: ebbene, nella normalità delle nostre giornate, non riflettiamo quasi mai sulla costante presenza degli smartphone, dei device digitali, delle piattaforme di condivisione e dei social media, dandoli praticamente per ovvi, per scontati, anche se grazie a essi le nostre abitudini di vita non sono più le stesse di qualche anno prima. Allo stesso modo, “Riprenditi l’Inconscio” di Bix è già presente come una realtà normale nella maggior parte dei capitoli, e il lettore si trova praticamente catapultato in media res, costretto a destreggiarsi per capire cosa siano i “gray grabs” e quale ruolo abbiano nel sistema i “contatori”, i “proxy” e gli “elusori”. L’impressione non è quindi quella di un romanzo distopico e fantascientifico, ma al contrario di un romanzo che racconta, se non proprio l’oggi, di certo un domani imminente, ormai alle porte, con l’ottica di chi ha proprio di fronte agli occhi, se solo si sforza di afferrarlo, il cambiamento nel momento stesso in cui si sta producendo. L’apparizione stessa nel romanzo dei personaggi già conosciuti ne “Il tempo è un bastardo” ha l’effetto di cucire insieme passato, presente e futuro, con il risultato di rendere tutto estremamente verosimile e naturale. Ne “La casa di marzapane” i personaggi del libro di undici anni prima ci sono praticamente tutti, come inattese e sorprendenti agnizioni, che la ispiratissima prosa della Egan riesce a orchestrare con un sapiente dosaggio lungo tutto il romanzo, il quale assume in un certo senso la forma di un complesso mosaico in cui ogni pezzo rimanda, con una sorta di inevitabile necessità, a un altro tassello vicino, e questo a un altro ancora, con un affascinante effetto domino il cui esito è un universo sì autoreferenziale, in cui però è estremamente naturale da parte del lettore rispecchiarsi. Tale era l’appeal di personaggi come Bennie, Sasha, Lou, Dolly o Bosco che deve essere sembrato naturale alla scrittrice di Chicago dar loro un ulteriore sviluppo, seguirli ancora un po’ nelle loro traiettorie esistenziali. A eliminare ogni effetto nostalgia è però il predominio diegetico acquistato dalle nuove generazioni, personaggi che non fanno rimpiangere, dal punto di vista narrativo, i loro progenitori. Alcuni di loro sono costruiti in maniera esemplare, con una poliedrica complessità e una affascinante problematicità (come Alfred, ossessionato dall’autenticità a tal punto da cercare di provocarla inducendo negli altri, con le sue immotivate urla in pubblico, reazioni di profondo disagio, o Molly, con il suo costante assillo di stare con gente “cool” e la paura adolescenziale di non venire accettata, di essere scartata) tali da renderli tra i più interessanti caratteri scaturiti dalla letteratura contemporanea.
Lo schema narrativo de “La casa di marzapane” è in fondo lo stesso de “Il tempo è un bastardo”: ogni capitolo è appannaggio di un personaggio diverso, normalmente apparso come figura secondaria in uno dei capitoli precedenti, con l’uso ora della prima ora della terza persona singolare (ma, nel brano riservato a Lulu, persino della seconda persona plurale), e i singoli capitoli, ambientati in epoche diverse (si va suppergiù dal 1965 al 2035, con un fugace accenno addirittura al 2070), potrebbero anche essere letti come racconti a se stanti, senza per questo perdere nulla del loro fascino. Oltre alla cronologia e al punto di vista, a differenziare le varie parti del romanzo è poi lo stile, che cambia a seconda dei personaggi: nel capitolo dedicato a Chris, il suo lavoro di programmatore fa sì che ogni situazione che si trova a vivere venga inconsciamente trasformata in una formula algebrica, in un algoritmo; la storia spionistica di Lulu è scritta interamente come una serie di messaggi e di istruzioni operative della lunghezza di un “tweet”; “Vedi sotto” è invece composto di sole e-mail, una sorta di rivisitazione contemporanea del romanzo epistolare di una volta. A distinguere maggiormente “La casa di marzapane” dal suo illustre predecessore è invece la sua atmosfera. Se “Il tempo è un bastardo” era una profonda e originale riflessione sul tempo e sul fatto che il trascorrere degli anni tende a far emergere impietosamente lo scarto nei confronti dei sogni e delle aspettative della propria giovinezza, l’ultima opera della Egan è in apparenza meno pessimistica (alla fine Lulu si riconcilia con il padre famoso che era scomparso precocemente dalla sua vita, Gregory supera il suo paralizzante blocco dello scrittore, Lincoln sposa, nonostante il suo autismo, la ragazza di cui si è innamorato, Miles, dopo aver perfino tentato il suicidio, si lancia con successo nella carriera politica), ma dietro a tutte le sue storie di caduta e di redenzione c’è il sottile, subdolo sospetto che l’umanità abbia dovuto accettare una sorta di patto faustiano per riuscire a realizzare la propria felicità, ed in questo diabolico accordo abbia perso irrimediabilmente la propria anima.
A conclusione di queste riflessioni, ritengo di poter affermare che, per tutti coloro che hanno amato “Il tempo è un bastardo”, “La casa di marzapane” sia un libro davvero imprescindibile: pur essendo bandita ogni vieta nostalgia, pur non essendoci alcun facile ricorso alla serialità oggi così tanto di moda, la presenza di personaggi a cui ci si era affezionati garantisce un effetto di confortevole familiarità. Per quelli che invece quell’opera non l’hanno mai letta, è l’occasione ideale per scoprire un talento narrativo genuino e anticonvenzionale, una scrittura in grado di riportare in auge un genere che mi verrebbe da definire “postmodernismo 2.0”, uno stile che a tratti (il capitolo “i, il Protagonista”, ad esempio ) mi ha ricordato il miglior Wallace, pur essendo profondamente personale, e una visione che, benché proiettata nel futuro, non si crogiola mai nella distopia, ma propone, senza bisogno di parallelismi e di metafore, una efficace chiave di lettura per interpretare il nostro complicato e confuso tempo presente.
Indicazioni utili
L'ILIADE DI GROSSMAN
“Era il momento più triste della sua vita, quello, il momento in cui nel silenzio sonnolento che precede l’alba sentì, non con la mente né col pensiero, ma con gli occhi, la pelle e le ossa, tutta la forza malvagia di un gorgo crudele cui nulla importava di lui, di ciò che amava e voleva. Provò l’orrore che deve provare un pezzo di legno quando di colpo capisce che non sta scivolando lungo rive più o meno alte e frondose per sua volontà, ma perché spinto dalla forza impetuosa e inarginabile dell’acqua.”
Forse non tutti sano che “Vita e destino”, uno dei più grandi capolavori della letteratura del Novecento, è solo la seconda parte di un dittico. Chi ha amato e trepidato per i personaggi di Strum, della famiglia Saposnikov, di Krymov e di Novikov, può infatti ritrovarli tutti quanti in “Stalingrado” e seguire le loro peripezie prima e durante la famosa battaglia che ha deciso le sorti della Seconda Guerra Mondiale. E’ abbastanza curioso che “Stalingrado” sia apparso, almeno in Italia, con così forte ritardo rispetto alla sua prima pubblicazione ufficiale. La ragione è che, mentre “Vita e destino”, pur bandito e sequestrato dal regime staliniano, è giunto clandestinamente in Occidente nella sua forma definitiva, “Stalingrado” è stato originariamente edito in una versione fortemente rimaneggiata dai tagli della censura, ed è stato pertanto difficile ricomporre il libro secondo quelle che erano state le intenzioni dell’autore. Va detto subito che, anche nella sua versione “director’s cut” (per dirla con una terminologia ampiamente in uso nella settima arte), “Stalingrado” non è qualitativamente allo stesso livello di “Vita e destino”, mancando in esso quelle sfumature, quelle ambiguità, quelle riflessioni filosofiche che hanno reso il suo successore un’opera di rara profondità intellettuale e di incomparabile complessità etica. Non vi si ritrova ad esempio l’ardito parallelismo tra nazismo e stalinismo (ad esempio, nell’illuminante colloquio tra Liss e Mostovskoj, in cui l’ufficiale tedesco, direttore del lager dove è rinchiuso il secondo, si paragona al bolscevico), aspetto che, insieme alla descrizione dei gulag, delle purghe di partito e del soffocante clima di conformismo ideologico dell’epoca, ha contribuito a far cadere in disgrazia lo scrittore sovietico, il quale per di più era ebreo in un periodo in cui, nel dopoguerra, si stava affermando in Russia una campagna subdolamente antisemita. In “Stalingrado” non c’è quasi nulla di tutto ciò: il nazi-fascismo è dichiaratamente, inoppugnabilmente, il male e lo stalinismo è la forza che gli si è opposta, il baluardo della libertà in Europa. Stalin e Hitler non sono perciò due facce della stessa medaglia, due espressioni della medesima politica autocratica e illiberale, ma il leader dell’Unione Sovietica è ancora visto come il simbolo del coraggio, della tenacia e della pazienza del popolo russo. “Stalingrado” è purtroppo impregnato di una retorica talvolta fastidiosa (non è difficile trovarvi frasi come “Nelle ore fatali in cui l’enorme città moriva… la Russia non si fece schiava né morì; fra la cenere ardente e il fumo, la forza dell’uomo sovietico, il suo amore, la sua dedizione alla libertà resistettero ostinatamente, indistruttibili, e fu proprio quella forza indistruttibile a trionfare sulla violenza mostruosa, ma vana, di chi voleva renderla schiava”), e l’ingenua fiducia nella rivoluzione comunista è solo in minima parte incrinata dalla descrizione onesta di quelle crepe che già stavano delineandosi nella società del tempo e che ben presto si sarebbero trasformate in enormi, irrisolvibili contraddizioni, che la censura non avrebbe più consentito di far emergere. Grossman è qui ancora permeato di una tiepida fede nella ideologia staliniana e nella genuinità della sua lotta antifascista (dimenticando colpevolmente il patto di non belligeranza che vigeva tra i due paesi prima dell’invasione del giugno 1941). In fondo, chi ha attentato per primo alla pace si ritrova automaticamente dalla parte del torto, e nell’urgenza della dura guerra di resistenza la natura reazionaria del regime sovietico è giocoforza passata in secondo piano, e tra due mali il male minore è diventato il bene, in quanto si è trovato a combattere, anche se magari obtorto collo, “per una giusta causa” (questo era non a caso il titolo originario del romanzo).
Scritto secondo i dettami del realismo socialista, “Stalingrado” se ne allontana in realtà abbastanza nettamente per la sua profonda sensibilità umanistica. Tra ideologia e individuo, Grossman non ha mai dubbi e sceglie sempre il secondo. Quando ad esempio il commissario del distretto chiede a Vavilov perché ha dato ospitalità a un fuggiasco, l’uomo risponde: “Per compassione… era un essere umano”. Grossman mostra una profonda simpatia per i suoi personaggi, trascinati dalla forza della Storia che, come “un gorgo crudele”, li strappa agli affetti e alla loro vita semplice, operosa e tranquilla. In “Stalingrado” i personaggi lottano, soffrono, si tormentano, ma sono anche capaci di emozionarsi di fronte alla bellezza della vita (“Che emozione, che presentimento fortissimo! – si trova a pensare Strum – Non di una felicità imminente, no; era una sensazione ancora più grande: era la vita”), di godere dei piaceri della natura, del cibo o dell’amicizia, di amare e di innamorarsi, pur tra le privazioni e la fame, tra le fughe e i bombardamenti. Il romanzo abbonda di momenti di lirica sospensione, di quei frangenti in cui al sibilo lacerante delle sirene e al fragore terribile e incessante delle bombe si sostituisce il magico silenzio di un’alba o l’incommensurabile purezza di un cielo stellato, attimi di epifania cosmica che conferiscono un nuovo, incontaminato senso all’esistenza e rendono, per contrasto, ancora più odiosa e bestiale la realtà della guerra. La descrizione dei colori, degli odori e dei suoni della steppa, oppure l’ultima notte di pace che Novikov rimembra, soffermandosi sulle sfumature del cielo, sul contorno degli alberi, sul chiaro di luna che trasforma la pietra in marmo (concludendo che “tanta bellezza… ci dice una cosa soltanto: vivere è bello”), sono pagine struggenti che elevano il romanzo dalla prosaicità della cronaca bellica. Grossman riesce a restituire la bellezza del mondo e dell’esistenza, ma ancor di più le profondità più nascoste e autentiche degli esseri umani, profondità cui è dato accedere solo nei momenti più gravi e tremendi della vita, in quei “tempi in cui l’anima ha i calli della sofferenza”. C’è nelle pagine di “Stalingrado” un profondo senso della sacralità della vita umana, della sua unicità e irripetibilità, e il biasimo più grande nei confronti della guerra lo si trova non tanto nelle immagini crudeli della devastazione della natura o della distruzione delle città, quanto nella descrizione della morte di un bambino di sei anni schiacciato da una trave di ferro durante un bombardamento, “perché se esiste una forza capace di risollevare dalla polvere città enormi, non c’è forza al mondo in grado di risollevare le palpebre dagli occhi di un bambino morto”. Al nazismo che, con la sua folle presunzione di assoggettare il mondo alla propria megalomane volontà di potenza, ha creduto di poter annientare interi popoli, Grossman, da fervido umanista qual è, replica che l’energia spirituale di un popolo è indistruttibile, è eterna e, come l’energia del sole che “attraversa deserti di buio e riprende vita tra le foglie di un pioppo, nella linfa di una betulla”, è sempre capace di riemergere dai periodi più oscuri e drammatici della Storia. E che non la si possa distruggere, questa energia spirituale, “lo si capisce dal fatto che i leader della crudeltà e della violenza fascista cercano sempre di convincere i rispettivi popoli di essere i paladini della giustizia e del bene sociale. Li commettono in segreto, i loro crimini peggiori, perché sanno per esperienza che il male non porta solo altro male, ma può anche generare il bene, oltre a schiacciarlo” (quanto queste parole risuonano preveggenti in questi giorni, anzi proprio in queste ore – mentre scrivo queste righe, lunedì 9 maggio, che per una curiosa coincidenza è il giorno della ricorrenza della vittoria russa contro il nazismo, probabilmente nella Piazza Rossa di Mosca si sta dispiegando la falsa propaganda patriottica di un leader che pretende di far passare una guerra di aggressione per una lotta democratica volta a scongiurare l’oppressione e il genocidio “nazisti”!).
In “Stalingrado” la guerra ha, ovviamente, una parte preponderante, oltre a occupare l’intera terza parte del libro. Quella del romanzo di Grossman è una costruzione implacabile, avvincente che l’autore sa restituire in maniera prodigiosamente realistica, destreggiandosi con grande abilità nel vorticoso, caotico succedersi degli avvenimenti bellici, tra attacchi nemici, ritirate e contrattacchi, bombardamenti e incursioni aeree, in cui vengono messe a fuoco le emozioni di un generale di Stato maggiore così come quelle di un insignificante fante che combatte in prima linea, quelle di un abitante di Stalingrado così come di un contadino della sterminata campagna russa, di uno scienziato oppure di un minatore o di un operaio di un’acciaieria. Le parole di Grossman sanno incontestabilmente di vita vissuta, e questo non è, una volta tanto, un semplice modo di dire, perché Grossman ha davvero visto con i suoi occhi le cose di cui parla nel suo libro, in quanto dal 1941 al 1945 ha operato al fronte come corrispondente di guerra. Anche se egli è stato testimone degli avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale, la sua sintesi è comunque straordinaria, dal momento che quando si è calati nel vivo delle cose spesso si tende a percepirne solo i dettagli ma non il quadro generale. In “Stalingrado” ci sono invece tanto gli aneddoti di vita militare più minuscoli quanto la visione più ampia e oggettiva della Storia. Come si era già detto recensendo “Vita e destino”, “Stalingrado” ha anche una incontestabile ispirazione tolstojana. Di questo Grossman era sicuramente consapevole, tanto è vero che nel romanzo c’è un omaggio esplicito a Tolstoj, quando Krymov, durante i suoi spostamenti militari, si reca a visitare la casa-museo di Jasnaja Poljana e si rende conto che “il presente si fondeva con quanto Tolstoj aveva descritto nel suo libro con una forza e una verità tali da far diventare realtà per antonomasia una guerra combattuta centotrent’anni prima” (“Quando poi, con un cappottino sulle spalle, dalla casa era uscita Sofja Andreevna, la nipote di Tolstoj,… Krymov aveva faticato a capire chi fosse – se la principessina Marja che scendeva per l’ultima volta in giardino prima che i francesi arrivassero a Lysye Gory, oppure la nipote del conte Tolstoj”). Le pagine epiche dell’assedio di Stalingrado non hanno nulla da invidiare a quelle di “Guerra e pace” e riscattano il romanzo da qualche inevitabile debolezza retorica. A mio parere “Stalingrado” sta a “Vita e destino” come l’Iliade sta all’Odissea. E se la mia preferenza va senz’altro al poema che ha ispirato il XXVI canto dell’Inferno di Dante e la poesia “Itaca” di Kavafis, pure non riesco a non rimanere affascinato di fronte ai versi immortali della guerra di Troia. Allo stesso modo, pur consapevole di non trovarsi di fronte a un capolavoro perfetto, il lettore viene fatalmente rapito dalle gesta dei personaggi di “Stalingrado”, avvinto dalla sua sapiente e monumentale (ma per nulla disagevole) costruzione narrativa, letteralmente incollato dalla prima fino all’ultima, emozionante pagina, spettatore attonito e muto del furioso imperversare di quel mostro sanguinario il quale, come purtroppo la cronaca odierna insegna, è sempre in grado di risorgere dalle proprie ceneri e di esigere, crudele e implacabile, la sua moltitudine di vittime sacrificali.
Indicazioni utili
"Guerra e pace" di Lev Tolstoj
L'IMPOSSIBILITA' DI ESSERE NESSUNO
“Accidenti, - disse, - ce ne sono di cose belle al mondo. E quando dico belle intendo belle. Siamo degli idioti a svicolare sempre dalle cose. Sempre, sempre, sempre lì ad annotare tutti gli accidenti che capitano al nostro piccolo e schifoso io.”
“Franny e Zooey” non è un vero e proprio romanzo, bensì un dittico di racconti, cronologicamente sequenziali e collegati tra loro dalla presenza in entrambi del personaggio di Franny Glass. Al centro della breve opera di Salinger c’è la famiglia Glass, che già aveva fatto la sua apparizione in un paio di novelle di “Nove racconti” e alla quale lo scrittore statunitense ha anche voluto interamente dedicare la sua (peraltro esigua) produzione successiva: una famiglia eccentrica composta da due genitori ex stelle del music hall e da sette figli incredibilmente intelligenti (tutti quanti hanno partecipato per anni, durante la loro infanzia, come ospiti fissi allo show radiofonico “Ecco un bambino eccezionale”), ma minati nel profondo da un micidiale mix di misantropia, cinismo e depressione, con la morte (quelle di Seymour, l’indimenticabile protagonista suicida di “Un giorno ideale per i pescibanana”, e di Walt) ad aleggiare costantemente in sottofondo. Appare evidente da queste poche note l’affetto che l’autore ha riversato su questi personaggi (uno dei quali, lo scrittore Buddy, è anche un’evidente proiezione autobiografica di Salinger stesso), i quali, nonostante le loro indubbie doti innate, faticano a trovare un loro posto nel mondo e, per le loro caratteristiche, paiono perfettamente idonei per portare avanti la riflessione, che già era centrale nel “Giovane Holden”, sul disagio giovanile nella società americana contemporanea. L’acuta sensibilità e la profonda intelligenza, di cui la natura è stata prodiga con i fratelli Glass, più che essere una fortuna, un atout da spendere sul tavolo da gioco della vita, costituiscono paradossalmente un handicap (“non capisco proprio a cosa serva – esclama a un certo punto Bess, la madre – sapere tante cose ed essere tanto intelligenti e così via, se non riuscite a essere felici”), in quanto li rendono incapaci di adeguarsi a un mondo ipocrita, ottuso e conformista. In “Franny e Zooey” è la piccola della famiglia a soffrire di più di questa consapevolezza, la quale degenera in un vero e proprio esaurimento nervoso. Problematica e insoddisfatta, sempre pervasa da sensi di colpa, Franny si sente circondata da gente tutta uguale, meschina, egocentrica e interessata solo ad arrivare da qualche parte, a fare colpo, ad avere successo. “Tutto quello che la gente fa è […] così insignificante, così minuscolo, così… deprimente. E il peggio è che se ti metti a fare il bohémien o qualche altra stranezza del genere, sei conformista lo stesso, come tutti gli altri, solo in modo diverso”. Di qui l’aspirazione ad annullare il proprio ego, ad “essere nessuno e basta”, un’inclinazione che, sotto l’apparente vitalismo adolescenziale, nasconde un animo che vuole solo staccare la spina e fuggire dalla realtà. Il ricorso al misticismo, a quella preghiera continua a Gesù che la ossessiona, non è altro in fondo che l’espressione ipostatica di questo atteggiamento di ripiegamento in se stesso e di chiusura al mondo esterno.
E’ il fratello Zooey, cinico ma affettuoso, incline all’apatia (“Certe volte potrei stendermi beatamente per terra ad attendere la morte”) eppure capace di assumersi le sgradevoli responsabilità familiari, a offrire una grande lezione di saggezza, spronando la sorella a uscire dal proprio solipsismo (anche il vittimismo e la critica al mondo sono in fondo un atto di superbia, di egocentrismo), a fare bene il proprio lavoro (senza attaccarsi troppo ai suoi frutti, senza l’ansia del risultato a tutti i costi) e a trovare Gesù non solo, o non tanto, nella preghiera (che puzza troppo di devozione) ma nel prossimo (la geniale immagine della Signora Grassa, che simboleggia gli altri con cui, nonostante la tendenza a escludersi, a isolarsi, è necessario misurarsi per dare un senso alla propria esistenza). Per la prima volta in Salinger diventa centrale la prospettiva religiosa, che già aveva fatto capolino nell’ultimo dei “Nove racconti”. La cosa non deve stupire, in quanto Salinger era – sebbene spesso lo si tenda a passare in secondo piano – un seguace entusiasta del buddhismo e dell’induismo. La personale deriva mistica dell’autore si riflette nel sincretismo religioso che permea le pagine di “Franny e Zooey”, in cui la preghiera assomiglia a un mantra, la figura di Gesù è affiancata da quelle dei bodhisattva e degli arhat, e il cristianesimo sfuma nella filosofia zen. Al mondo consumistico e materialista Salinger oppone l’imperturbabilità, la calma interiore, la costanza, il piacere del lavoro per il lavoro come valori a cui ancorarsi. E’ una tesi che sembra preannunciare quelle istanze spiritualiste e pseudo-religiose che hanno caratterizzato la controcultura americana degli anni ’60, e che quindi parrebbe identificare Salinger come scrittore antisistema. In realtà Salinger, più che un artista affine alla beat generation, e nonostante alcune folgoranti pagine di critica al sistema universitario americano, assomiglia a un esponente suo malgrado dell’esistenzialismo, con questi personaggi fragili e innocenti, sempre sull’orlo dell’assurdo, per i quali il ricorso compulsivo al fumo (sono sicuro che, se chi ha calcolato il numero record di “fuck” in Wolf of Wall Street” facesse altrettanto con il numero di sigarette o di sigari fumati dai personaggi di “Franny e Zooey”, uscirebbe fuori una cifra strabiliante, probabilmente superiore al numero di punti interrogativi utilizzati dallo scrittore nei due racconti) è un’espressione del loro disperato bisogno di appigliarsi a qualcosa, a qualsiasi cosa pur di non cedere alla tentazione del vuoto e della mancanza di senso della vita. In virtù di queste considerazioni, si può pertanto affermare che l’opera di Salinger oscilla costantemente tra la negazione e l’idealismo, facendo “eternamente la spola tra l’angoscia e la gioia sublime”.
“Franny e Zooey” non ha una vera e propria storia, se si prova a farne una sinossi si scopre che non esiste neppure una trama, in quanto le sue poche pagine sono composte quasi esclusivamente di dialoghi e di gesti. Sono loro, gesti e parole, a definire i personaggi, e non la descrizione delle loro psicologie. Si pensi a una figura secondaria come quella di Bess, che è magnificamente caratterizzata solo dal suo kimono, nelle cui tasche smisurate e tintinnanti prendono posto sigarette, fiammiferi, martelli, cacciaviti, chiodi e coltelli da boy-scout, e dalla sua continua e inopportuna offerta ai figli di rigeneranti tazze di brodo di pollo. Salinger non spiega e non dimostra, non è in alcun modo didascalico, non si atteggia minimamente a maestro, pur avendo i titoli per farlo; egli si limita a mostrare e a lasciare al lettore l’interpretazione del senso della vicenda. Espressione squisita e raffinatissima di un disimpegnato understatement, la sua scrittura è lessicalmente ricca eppure essenziale, fin quasi a sfiorare il minimalismo, colloquiale ma mai vietamente teatrale, minuziosa ed accurata senza mai cadere in uno sterile virtuosismo. Lo stile di Salinger è inconfondibile, ineguagliabile, eppure devo confessare che “Franny e Zooey” mi ha lasciato un retrogusto amarognolo, in quanto mi ha fatto assaporare quello che poteva essere un delizioso antipasto, ossia l’esordio di una promettente saga familiare, ma poi non ha fatto seguire il resto del pranzo, lasciando la storia dei Glass penosamente in sospeso, incompiuta (a parte tre successivi, brevi racconti, uno dei quali mai neppure pubblicato in Italia). E’ un po’ come trovarsi di fronte a un grandioso affresco, di strabiliante bellezza, e avere la possibilità di esaminarne in maniera dettagliata solo un limitato e trascurabile particolare, affascinante sì ma troppo esiguo. Ho il sospetto che se non ci fosse il carismatico nome di Salinger in copertina, “Franny e Zooey”, piccolo e delicato gioiello, pregiato a dispetto della sua levità e della sua inconsistenza (o forse, paradossalmente, proprio grazie ad esse), correrebbe il serio rischio di cadere nell’insignificanza e nell’oblio.
Indicazioni utili
IL GRANDE MAHLKE
Ne “La vera vita di Sebastian Knight” Vladimir Nabokov immagina, con una bizzarra metafora (debitrice della famosa scena della morte di Polonio nell’Amleto shakespeariano), che il pomo d’Adamo di uno dei suoi personaggi si muova “come la sagoma protuberante di uno spione nascosto dietro un arazzo”. Venti anni dopo Gunther Grass fa del pomo d’Adamo del protagonista di “Gatto e topo” addirittura l’oggetto di una originale e bizzarra allegoria. Come ne “Il tamburo di latta”, primo capitolo di una trilogia di cui “Gatto e topo” costituisce il secondo atto, è infatti ancora una deformità ad essere il simbolo di una posizione antagonistica nei confronti della società tedesca negli anni oscuri del nazismo e della Seconda Guerra Mondiale: lì era il nanismo di Oskar (il tamburino che a tre anni ha deciso di non crescere più e che, pur non citato esplicitamente, fa qui due brevi apparizioni nei panni del bimbo che martella sul tamburo in spiaggia, “trasformando il pomeriggio in una fucina infernale”, e in quello che, nel parco di Oliva, Pilenz e Mahlke incontrano mentre, per aggirare i due e sempre con lo strumento rimbombante, “traccia un semicerchio che sapeva di magico”, oltre a essere citato di sfuggita come mascotte della “banda degli spolveratori”), mentre in “Gatto e topo” è il gigantesco gargarozzo di Mahlke, la sua “fatale golazza” che suggerisce “l’immagine di una filovia continuamente in movimento sopra il collo della camicia”, il suo “topone inquieto”, a essere il simbolo della contrapposizione tra individuo e massa, tra cittadino e società. Certo, Mahlke non ha la carica blasfema, iconoclasta e distruttiva di Oskar, in quanto Grass sceglie nella sua opera seconda di non utilizzare un registro esasperatamente grottesco. Anzi, egli è per molti aspetti agli antipodi della condizione di “freak”, di essere “border line” di Oskar, e, pur introverso e solitario, è apparentemente integrato nel gruppo di amici che trascorrono le estati sul dragamine semi-affondato al largo del porto di Danzica, al punto di essere persino oggetto di ammirazione e invidia (oltre che di un’attrazione un po’ morbosa, quasi omoerotica, da parte del narratore) per le sue spericolate immersioni nell’interno della nave da cui sempre riporta a galla qualche arrugginito cimelio. Quelle in cui lo scrittore tedesco descrive le torride giornate estive trascorse dal gruppo di coetanei sul ponte del dragamine, tra bagni di sole, cazzeggi e prime esperienze sessuali, sono tra le sue pagine più ispirate, facendo di “Gatto e topo” una sorta di anomalo romanzo di formazione, incentrato sul passaggio cruciale tra adolescenza e maturità, su quella linea d’ombra che lo scoppio del conflitto costringerà a varcare precipitosamente, obbligando un’intera generazione a fare i conti con la violenza e la brutalità del mondo adulto. La retorica patriottica e la propaganda bellica non lasciano scampo e, per non soccombere al conformismo imperante, al gatto famelico che cerca di mangiare il topo inerme, non restano che il boicottaggio, l’ostruzionismo e, in fin dei conti, la fuga. La decisione di disertare di Mahlke e quella di non crescere di Oskar sono in questo senso del tutto coincidenti, così come l’internamento nel manicomio del secondo non è dissimile dall’esilio del primo nella stanza del telegrafista sul dragamine affondato, entrambi – manicomio e stanza segreta nei meandri della nave – estremo rifugio per proteggersi dalla raccapricciante inumanità del mondo esterno.
In “Gatto e topo” vi sono evidenti echi di Alain-Fournier (il narratore, non a caso, chiama l’amico “il grande Mahlke”), ma quello di Grass è soprattutto un romanzo sotterraneamente anarchico e provocatoriamente polemico. Con una scrittura fantasiosamente sfrenata, costantemente divagante e centrifuga, ricca di originali neologismi (“slazzaronare”, sparolìo”, “immerdarsi”, “informaggito”, ecc.), Grass sembra sostenere che nella vita si può essere gatti o topi, carnefici o vittime; Mahlke, che nell’intimo è un diverso (persino la sua devozione per la Vergine Maria è esagerata e sfiora il fanatismo), un asociale (anche se da grande sogna di fare il clown), sceglie coerentemente di essere topo, anzi il campione dei topi, pur di non appassire nella desolazione dell’inautenticità. Simile a quella del Novecento di Baricco, la sua scomparsa nel ventre della nave è un malinconico ma fiero atto di ribellione per non cedere alla fascinazione di un mondo che non riconosce come proprio e per non essere complice della prepotenza e dell’orrore.
Indicazioni utili
VERITA' E MISTIFICAZIONE
“Teniamo fra le mani un libro morto. O ci sbagliamo? A volte […] sento che la «soluzione assoluta» è lì, da qualche parte, celata in qualche brano che ho scorso troppo in fretta, oppure che è intrecciata con altre parole il cui aspetto familiare mi ha tratto in inganno.”
E’ possibile raccontare con oggettiva fedeltà, con inconfutabile veridicità, la vita di un uomo, penetrare nell’ineffabile mistero della sua interiorità, carpire l’oscuro segreto della sua essenza? “La vera vita di Sebastian Knight” è un romanzo che si interroga costantemente sul tema dell’identità, ma non lo fa mai in termini filosofici e intellettualistici, bensì raccontando le tragicomiche vicissitudini di un personaggio che cerca, dopo l’improvvisa morte in giovane età del fratellastro Sebastian Knight, uno scrittore di dubbia fama, stravagante ed eclettico, di scriverne la biografia, nonostante non abbia più avuto contatti con lui da diversi anni. Il suo scopo è quello di preservarne la memoria, sottraendola all’arbitrio e alla discrezionalità di chi, come l’opportunista segretario personale Mr. Goodman, su cui si concentra la feroce satira di Nabokov nei confronti della categoria dei critici letterari, rischia di macchiarla indelebilmente con ritratti dozzinali, retorici e semplicistici, scritti esclusivamente a scopi commerciali (“Il suo libro si occupa solo di idee di cui sia ben collaudata la capacità di far presa su cervelli mediocri”). Se all’inizio si ha il sospetto che il narratore, di cui non viene mai svelato il nome completo ma solo l’iniziale V., sia un antesignano di Kinbote, lo psicotico e fraudolento millantatore di “Fuoco pallido”, ben presto si capisce che l’onestà dei suoi intenti e la sua buona fede sono autentiche, e il paragone letterario più appropriato è semmai con l’ingenuo e idealista Fedor Konstantinovic de “Il dono”. Come quest’ultimo, egli si lancia in un’improba impresa letteraria, aliena da ogni compromesso, cercando di riportare a galla con certosina pazienza e tenace abnegazione, un pezzo dopo l’altro, i molteplici frammenti della vita di Sebastian per poi ricomporli come in un puzzle al fine di dar loro un senso il più possibile autentico e definitivo. Il narratore si mette così alla ricerca di tutte quelle persone che hanno conosciuto Sebastian e che quindi possono essere in grado, raccontandogli gli episodi della vita di quest’ultimo di cui sono stati testimoni, di riempire quei vuoti e quelle lacune che la sua personale conoscenza del fratellastro, limitata ai pochi anni dell’infanzia e dell’adolescenza, inevitabilmente gli impedisce di fare in autonomia. Le cose non vanno però nel senso auspicato dal protagonista, in quanto le persone cercate fanno di tutto per occultarsi o si dimostrano reticenti, e le testimonianze si fanno sempre più ambigue e sfuggenti. Il romanzo assume quindi un andamento bizzarramente centrifugo, con la figura di Sebastian che rimane perennemente fuori fuoco, opaca e dai contorni indefiniti (un po’ come accade in certi quadri fiamminghi del ‘500 – “La salita al Calvario” di Bruegel per fare un solo esempio -, dove il soggetto principale viene ritratto sullo sfondo, quasi nascosto alla vista, mentre comparse marginali si mostrano in primo piano agli occhi dell’osservatore esterno), e la biografia dello scrittore si trasforma poco a poco, imprevedibilmente, nell’autobiografia del fratellastro, con la descrizione dei goffi e commoventi tentativi da lui intrapresi per trovare, persino con l’ausilio di un investigatore privato, le tracce smarrite di una esistenza incapace di concedersi se non nella forma di un irresolubile enigma. La ricerca del narratore assume così, gradualmente, le fattezze di un sogno, che usa la realtà per inseguire quelle che sembrano sempre di più delle mere fantasticherie. La verità promessa dal titolo sfugge infatti sempre in maniera irridente, non si dà mai, anche quando noi crediamo che sia lì, a portata di mano. E’ emblematico l’episodio in cui il narratore accorre, dopo un travagliato viaggio attraverso la Francia, al capezzale di Sebastian, ricoverato in un ospedale alla periferia di Parigi, lo veglia amorevolmente tutta la notte, ascoltandone il faticoso respiro e pregando per la sua guarigione, per poi accorgersi il mattino dopo che la stanza è occupata da uno sconosciuto e che il fratellastro è morto invece il giorno prima del suo arrivo; o quello, raccontato in un libro di Sebastian, in cui lo scrittore va a visitare la pensione di Roquebrune dove aveva vissuto la madre, si siede nel giardino per tentare di guardare le cose intorno con gli occhi che furono della donna, calandosi con devozione in un passato a lui precluso e solamente immaginato, ma alcuni mesi dopo scopre fortuitamente che la Roquebrune in cui la madre aveva abitato era un’altra, nel Var.
Al termine del romanzo riusciamo a sapere ben poco di Sebastian Knight, se non quello che è stato messo nero su bianco nei libri da lui pubblicati. Viene da chiedersi allora che rapporto ci sia tra i romanzi di Sebastian e la biografia scritta dal narratore. C’è un dettaglio che mi sembra importante mettere in evidenza, ancorché difficile da rilevare e in apparenza del tutto trascurabile. Alcuni dei personaggi che appaiono fugacemente nel corso della ricerca della misteriosa amante russa di Sebastian (il giocatore di scacchi, la persona con una ciocca di capelli grigi, la donna che mette inavvertitamente il piede in una pozzanghera) sono altrettante figure che troviamo anche nelle pagine de “L’asfodelo incerto”, l’ultimo suo romanzo scritto pochi mesi prima della morte. E’ una pura coincidenza, oppure dobbiamo dedurre che la biografia si ispira, anziché ai fatti reali, alla produzione letteraria dello scrittore defunto? Se la risposta è positiva, allora non resta che concludere che il resoconto del narratore non è del tutto realistico e veritiero, il che getta un’ombra ulteriore di ineliminabile ambiguità su tutto il romanzo. Magari, come “L’asfodelo incerto” (il cui tema è quello di un uomo che sta morendo) si ispira alla vita del suo autore (che in effetti, per colpa di gravi problemi cardiaci, sta vivendo gli ultimi anni della sua esistenza), così il libro del narratore (che – come già sottolineato – pare a tratti, più che una biografia, un testo incentrato sui tentativi del protagonista, fondamentalmente destinati all’insuccesso, di scrivere una biografia) non esita a ricorrere alle figure dei romanzi del fratellastro per riempire con l’immaginazione artistica altrui i vuoti inevitabili della realtà. In questo senso non ci sarebbe una “vita vera”, ma una vita soltanto verosimile. La falsificazione a fin di bene del narratore sarebbe pertanto più autentica della vita narrata da Mr. Goodman sulla base di esperienze e di testimonianze dirette, le quali, a causa della mediocrità del memorialista, non fanno che distorcere inesorabilmente la personalità del soggetto raccontato (si pensi agli aneddoti del suo passato che Sebastian ha raccontato a Mr. Goodman, e che altro non sono se non delle burle dietro alle quali si nascondono ironiche citazioni di Shakespeare, Cechov o Jerome K. Jerome), anche se rimane forte il rischio di cadere in un opposto travisamento della verità, non già (come nel caso di Mr. Goodman) per compiacere i lettori, bensì per compiacere il soggetto, ancorché defunto, del lavoro letterario (“Sto cercando di esprimere un’idea che forse gli sarebbe piaciuta”).
Alla fine la biografia di Sebastian Knight altro non è che un libro intorno ad altri libri: se la “vera vita”, intesa come somma degli avvenimenti (amori, lutti, esperienze) che la compongono, sfugge ad ogni possibilità di conoscenza, non resta che rivolgersi al testo scritto come a una sorta di specchio attraverso i cui riflessi poter afferrare almeno i contorni dell’esistenza del suo autore, alla stregua di un enigma la cui soluzione è forse celata nelle pieghe di qualche pagina letta senza la dovuta attenzione, di qualche parola fraintesa nella sua apparente semplicità. Non è secondo me un caso che gli estratti e le citazioni dei libri di Sebastian Knight disseminati lungo tutto il romanzo di Nabokov siano le cose che colpiscono di più il lettore, per la loro geniale originalità e la loro adamantina purezza. Le pagine di Sebastian Knight, che per tutta la sua vita artistica ha lottato con “il bisogno di colmare l’abisso tra espressione e pensiero”, per cui gli unici peccati che non lo lasciavano indifferente erano i solecismi e secondo il quale “nessuna vera idea può esistere veramente senza le parole tagliate su misura”, superano in stile quelle più dimesse del suo biografo, con ciò portando alla paradossale, pirandelliana conseguenza che Nabokov si sa fare più piccolo e più umile dell’autore a cui ha dato vita. I libri di Sebastian Knight lasciano trapelare delle intuizioni artistiche di folgorante bellezza, possibilità narrative che fanno quasi rimpiangere che Nabokov le abbia lasciate solo in forma di trama approssimativa, di abbozzo. Come nel caso di Italo Calvino in “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, le storie si Sebastian Knight schizzate da Nabokov si ramificano e germogliano all’interno del libro principale, conferendogli una struttura a scatole cinesi e una impronta inconfondibilmente meta-letteraria. “La vera vita di Sebastian Knight” è infatti un libro sulla scrittura di un libro che parla di uno scrittore attraverso i libri di quest’ultimo. Sarebbe troppo facile vedere nel narratore un doppio di Nabokov, nonostante la presenza di molti elementi autobiografici, come l’iniziale del nome, V., la morte violenta del padre, la condizione di esule e la difficoltà di scrivere in una lingua diversa da quella madre (“Una lingua è una cosa viva e concreta da cui non ci si libera tanto facilmente”). Non bisogna però cedere a questa tentazione, perché Nabokov è uno scrittore che ama depistare i suoi lettori e trarli in inganno, celandosi alla loro vista così come Sebastian Knight di fronte ai suoi biografi (non a caso “knight” è, negli scacchi, il nome inglese del cavallo, ossia il pezzo le cui mosse sono le più imprevedibili). Nabokov non fa approdare il suo romanzo nelle acque tranquille di un porto sicuro, ma lo lascia in alto mare, in balia della corrente, senza nessuna garanzia e senza alcuna certezza definitiva. “Io sono Sebastian e Sebastian è me – scrive nelle ultime pagine il narratore -, o forse siamo tutti e due qualcuno che né l’uno né l’altro conosce”. Come già aveva affermato Wittgenstein, ogni cosa può essere vera o falsa, e solo la verifica diretta può stabilire la verità. Ma di fronte alla morte, laddove ogni verifica non è più possibile, il passato rimane sconsolatamente muto e sigillato, come un antico sepolcro seppellito sotto la polvere del tempo, che nessuno può sperare di riportare alla luce del sole se non nella finzione dell’opera d’arte, ben sapendo però che la verità riceve sempre una certa forma da chi racconta, è rimodellata a sua volta da chi legge o ascolta, e chi l’ha davvero conosciuta non può più ormai né avallarla né impedirne le inevitabili deformazioni.
Indicazioni utili
L'UTOPIA DEL POSSIBILE
“La verità non è mai così esatta da non consentire una certa dose d'immaginazione.”
Pubblicato nel 1975, “Il quinto evangelio” di Mario Pomilio è una sorta di corpo estraneo, di entità aliena nel panorama letterario italiano del secondo Novecento, in quanto sfugge pervicacemente ad ogni tentativo di inquadramento, ad ogni sforzo di catalogazione. A metà tra romanzo epistolare e saggio filosofico-religioso, un po’ dramma teatrale e, se si vuole, perfino giallo sui generis, il libro è incentrato su una ipotesi quanto mai suggestiva, quella dell’esistenza di un vangelo inedito, diverso dai tanti comuni apocrifi, a cui il protagonista, un professore universitario americano, per giunta ateo, entrato per caso in contatto, quando era ufficiale di stanza in Germania durante la fine della Seconda Guerra Mondiale, con le enigmatiche carte appartenute a un prete che prima di lui aveva abitato la canonica assegnatagli come alloggiamento, finisce per dedicare tutta la vita nell’utopistico tentativo di rintracciarlo, con l’aiuto di una fedele squadra di giovani allievi. Per mezzo di pazienti e scrupolosissime ricerche presso antiche biblioteche e polverosi archivi, inseguendo labili indizi e impalpabili tracce, Peter Bergin, tale è il nome dello studioso, riesce a mettere insieme una nutrita serie di carte, lettere e manoscritti, di varia provenienza geografica e di diversa datazione storica, che citano più o meno esplicitamente il quinto vangelo, il quale finisce così per risultare, apparentemente accessibile e a portata di mano eppure alla fine sempre sfuggente, come quei fiumi carsici che affiorano a volte in superficie per poi tornare a sprofondarsi sotto terra e sparire per un lunghissimo tratto. Grazie a questo meccanismo narrativo, Pomilio mette in atto una complessa operazione di finta filologia, elencando carteggi epistolari, codici religiosi, annali storici e leggende, che altro non sono se non dei documenti inventati eppure perfettamente plausibili, intercalandoli con testi realmente esistenti (come la storia di fra’ Michele Minorita) ma utilizzati fuori dal loro abituale contesto. Viene spontaneo alla mente il riferimento a Jorge Luis Borges e ad alcuni suoi racconti (ad esempio “Tlon, Uqbar, Orbis Tertius” o “L’accostamento ad Almosatim”) contenuti nella memorabile raccolta “Finzioni” e zeppi di riferimenti a opere fittizie ma del tutto verosimili. Questo viaggio indietro nel tempo all’inseguimento di un vangelo che è una specie di meta che si sposta in continuazione, come un illusorio miraggio, dà la possibilità a Pomilio di esibire uno stile camaleontico, ora riproducendo la dotta scrittura ecclesiastica, piena di colte citazioni delle Scritture, ora i toni della narrazione popolare, ricca di ingenue e colorite esagerazioni agiografiche, ora un volgare erudito del primo millennio oppure ancora un linguaggio aristocratico del ‘600. E’ una quest non facile per il lettore, che deve destreggiarsi tra una mole non indifferente di materiale eterogeneo, unita dall’unico, labile filo conduttore di uno pseudo-documento religioso, eppure possiede innegabilmente un enigmatico fascino, che ha probabilmente influenzato altri scrittori più o meno coevi al Pomilio, primo fra tutti l’Umberto Eco de “Il nome della rosa” (purtroppo ci sono stati anche degli epigoni ben più mediocri, come il Dan Brown de “Il codice Da Vinci, su cui preferisco soprassedere).
Quella che in apparenza potrebbe sembrare un’operazione erudita ed elitaria, alla resa dei conti si rivela un libro per nulla calligrafico o estetizzante. Si prova sempre un gusto molto particolare (e quanto mai raro da sperimentare, ad essere sinceri, nei romanzi di oggi) quando ci si trova di fronte a frasi cesellate con cura meticolosa, ancorché vagamente arcaiche e démodé, frasi in cui ogni parola è messa al posto giusto, con l’esattezza (quell’esattezza esaltata da Calvino nelle sue “Lezioni americane”) di toni e sfumature, che non hanno mai una funzione esornativa, eleganti ma non manierate, sempre attente a cogliere le intime vibrazioni dell’anima eppure costantemente collegate alla realtà, mai perse in una astrazione sterile e fumosa. Quello che più colpisce ne “Il quinto evangelio” è soprattutto il modo in cui si innerva nell’opera una fortissima tensione spirituale, un’ansia religiosa che per la sua intensità ricorda Pascal e che non scade mai nel dogmatico o nel confessionale. Pomilio parla di fede, certo, ma con uno spirito che, pur non respingendo affatto la tradizione, l’ortodossia, rifugge da quella sorta di “conformità dell’assenso” così diffusa nell’ambiente della Chiesa. “Il quinto evangelio” risente indubbiamente del clima degli anni ’70, un periodo in cui una diffusa insofferenza per le rigide posizioni ufficiali della gerarchia ecclesiastica e un anelito rinnovatore alimentato dalle istanze del recente Concilio Vaticano II aveva dato origine a numerose comunità di base (come quella dell’Isolotto di don Enzo Mazzi a Firenze, o quella, meno conosciuta ma alla cui nascita, nonostante fossi un semplice bambino, ho avuto modo di assistere, della Comunità di Oregina di don Agostino Zerbinati a Genova), ben presto soffocate – come è facile immaginare – da espulsioni e sospensioni a divinis. Pomilio non è certo un contestatore, eppure nel suo “Quinto evangelio”, per i pochi frammenti che ci è dato di leggere, “ci sono tante cose ardite, e perfino troppo ardite, accenti chiari e umani, e perfino troppo umani, verità… che a male interpretarle diverrebbero temerarie”, ed è per questo che l’autore ipotizza, nella finzione del romanzo, che la Chiesa possa averlo scientemente fatto sparire dalla circolazione a causa dei suoi accenni al sacerdozio universale dei credenti o alla carità destinata a prendere il posto della Legge, e, più in generale, di un’interpretazione più terrena e meno teologica delle Scritture, che lo renderebbe un testo addirittura sedizioso. Il mito del quinto vangelo, il quale si manifesterebbe ogni volta che l’umanità ne sente l’assillante bisogno, rappresenta quella tensione cristiana perpetuamente in bilico tra la certezza di una verità definitiva, “già tutta scritta, tutta offerta in pienezza, tutta quanta testimoniata” dalle Scritture canoniche e la tendenza a considerare la verità un qualcosa che ancora attende di compiersi, di inverarsi in un nuovo libro che ogni generazione, tramite una sorta di delega della Parola, è chiamata non solo a cercare, ma contribuire addirittura a farsene autrice. Con la lucida intelligenza del suo pensiero, la quale, nonostante la serietà dei temi trattati, non ha paura di trasformarsi di quando in quando perfino in sarcasmo (il cavalier Du Breuil il quale, proprio quando entra in conflitto con il giansenismo cui aveva aderito in gioventù, viene arrestato dall’Inquisizione per la diffusione di idee gianseniste, oppure Giosué Bergogno, il quale vive la sua vita come un doppio del Cristo e paradossalmente, pirandellianamente quasi, sperimenta la sua personale passione proprio interpretando il Cristo in una sacra rappresentazione popolare), Pomilio procede, alla stregua del suo protagonista, come “un uomo che cerca Dio, ma non in veste di credente”, “in perpetuo equilibrio tra il dovere del dubbio e la vigilanza sul dubbio”. Egli fa del suo cercatore di vangeli sconosciuti un sognatore, “capace di ricavarsi un universo da un frammento o di veder riflesso un cielo in una goccia d’acqua”, facendoci quasi credere, o perlomeno sperare, nell’esistenza di questo inedito testo sacro. Ma l’importante non sta nel fatto che il quinto vangelo esista o meno, non sta cioè nell’effettivo raggiungimento dell’obiettivo della sua ricerca (che forse è una mera ipotesi, una chimera), ma in quel “viaggio che ha per meta l’infinito”, in quell’avventura mistica, che merita comunque di essere perseguita, anche se il rischio è, dopo tanto girare, quello di ritrovarsi a due passi da casa. Se anche è un’illusione, il quinto vangelo è una credibile illusione, una scommessa col mistero, da vivere comunque perché è bella di per sé, il che poi è, se ci si pensa bene, la definizione stessa della fede.
“Il quinto evangelio” è un romanzo necessario, che può leggere il credente più devoto ma anche il relativista più accanito, in quanto è sì profondamente cristiano, ma mai dogmatico o trascendente, bensì del tutto calato nella realtà storica del nostro tempo. Si pensi alla riflessione sulla libertà e sull’obbedienza alla legge, quando, in quello stupendo dramma sacro che conclude il libro e in cui si raggiungono vette altissime di speculazione etica e filosofica, viene affermato a chiare lettere quel sacro principio di disobbedienza civile ogni qual volta una legge dello Stato si dimostri ingiusta (non a caso la pièce è ambientata nella Germania del 1940) e tenti di asservire le coscienze per costringere gli uomini a comportarsi in maniera immorale. Pomilio rende quanto mai attuale il messaggio cristiano, sottolineandone la sostanziale iconoclastia, la irriducibile alterità alle leggi di questo mondo, e immaginando che un nuovo Gesù, magari nelle misteriose vesti di un quinto evangelista, possa subire la stessa sorte del suo predecessore di duemila anni fa. Visto in quest’ottica, il romanzo di Pomilio potrebbe apparire velleitario quanto si vuole, visionario quanto si vuole, ma, come il vangelo che lo sottende, risponde a un impellente bisogno, per nulla anacronistico ma radicato profondamente nelle nostre coscienze, quello di “rincorrere un’evidenza per incontrare una speranza”, di inseguire un messaggio per raggiungere la fede.
Indicazioni utili
ETERNITA' RADIOATTIVA
“Per mille anni, niente luna. […] Neanche un’infima luce, diciamo piuttosto lo spazio nero, una solitudine assoluta e un silenzio nero che nulla scalfisce. […] Mille anni nell’ambra, a deambulare in una tenebra nerissima, a camminare senza sosta sognando ben poco. […] A volte si arriva in una strada senza uscita, si va a sbattere da ogni lato contro muri che, per mancanza di immaginazione o per stanchezza, si ritiene siano fatti di mattoni come quelli dei forni, si suppone d’essere giunti all’interno di un forno, a giudicare dalle pareti roventi. […] All’improvviso non c’è più via d’uscita. Dappertutto ci sono barre che hanno raggiunto le massime temperature possibili della materia, ci sono pareti ermeticamente chiuse, che è doloroso avvicinare, e si è sommersi da ondate di un incendio nero, in mezzo a fiamme divoranti, untuosamente nere. A quel punto si urla di terrore, e gemendo o gracchiando si dicono poemi, improbabili biografie, brandelli slabbrati di vita o di ricordi. Poi, una volta assuefatti all’ennesima prigione, si fa come se nulla fosse, si fa buon viso a cattivo gioco, si fa del proprio meglio per non essere né vivi né morti, e dopo un altro mucchio di secoli, si fa silenzio.”
Da qualche anno si sente parlare sempre più spesso di post-esotismo, ed è stato di recente persino pubblicato un libro, “Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima”, che ne teorizza le caratteristiche ed i principi; eppure, molto difficilmente potrebbe capitare di imbattersi in questo termine leggendo una enciclopedia o un manuale di storia della letteratura. Infatti, Antoine Volodine, scrittore francese di origini russe, non solo è il fondatore e il teorico di questa corrente, ma ne è anche l’unico esponente, dal momento che tutti gli altri scrittori ad essa ascrivibili (Lutz Bassmann, Manuela Draeger, Elli Kronauer) altri non sono che Volodine stesso, eteronimi che (come usava fare Pessoa) egli ha utilizzato per firmare alcune sue opere. Si tratta senz’altro di un’operazione radicale, autoriferita e non poco megalomane, che mi ricorda, in campo cinematografico, il famoso Dogma di Lars Von Trier, però è indubbio che al di là dei suoi rigidi vincoli di carattere formale, come l’ossessione per il numero 7 (“Terminus radioso” è composto ad esempio da 49 capitoli, cioè 7 al quadrato, 343 sotto-capitoli, cioè 7x7x7, e – almeno nella versione francese, che non mi sono ovviamente preso la briga di verificare – da 777.777 caratteri), al di là di questi vincoli – dicevo - si nasconde un corpus di opere davvero unico, irriducibile e non apparentabile ad altri generi o sotto-generi letterari. In “Terminus radioso”, il suo romanzo più conosciuto, c’è sì un po’ di post-modernismo (più il John Barth di “Giles ragazzo-capra” che Thomas Pynchon, a dire il vero) e una spruzzata di realismo magico, un pizzico di steampunk distopico e qualche rimando a Shakespeare, Rulfo e soprattutto Beckett, però Volodine trascende tutte queste influenze, le stravolge drasticamente e le trasforma in un universo narrativo spericolatamente altro, sospeso tra realtà, sogno e visione, dove la steppa e la taiga in cui la storia è ambientata sono un mondo inquietante e alieno, senza più alcun riferimento realistico, una waste land post-apocalittica percorsa da un incessante e ferale vento radioattivo e in cui un’umanità stremata e patibolare, che una serie di incidenti nucleari a catena ha portato sull’orlo dell’estinzione, ha lasciato il posto a una natura selvaggia e primordiale, fatta di erbe mutanti che la sfrenata fantasia e la mania classificatrice dell’autore si perita di enumerare con doviziosa meticolosità (“la titilegna, la torfiliana, la malegrassa, la solforosa, la gozzincarna, la vangirella, la vulvaiana, l’acetosella grama, l’urfonga, la stupiterna, la rocchetta dei fossati, la tartavergine”, e centinaia di altre ancora). In questa sorta di terra di nessuno, inospitale e desolata, Volodine crea una stravagante oasi di apparente normalità, il kolchoz Terminus radioso. A capo del kolchoz vi è Soloviei, una sorta di dispotico sciamano che traffica con la magia nera ed entra a suo piacimento nel mondo dei sogni altrui, così come in universi paralleli di cui solo lui ha la chiave e da cui riporta persone defunte da tempo per manovrarle poi come burattini e sfruttarle secondo il suo capriccio e la sua volontà. Come il Prospero della Tempesta shakespeariana, egli manipola la realtà, alterandone le sue leggi fondamentali, ed è per questa sua stregonesca capacità creatrice che egli può essere visto, nonostante la connotazione fortemente negativa con cui viene descritto (Kronauer lo definisce “negromante delle steppe, riciclatore di cadaveri, ruffiano da kolchoz, ombra maligna, vampiro fatto kulako, ipnotizzatore senza patria e senza Dio, mostro di chissà quale fetida categoria”), come una specie di alter ego dell’autore. Al suo fianco c’è Nonna Udgul, che i neutroni impazziti della centrale nucleare in avaria del kolchoz, anziché ucciderla, hanno reso paradossalmente immortale e che intrattiene con la pila atomica sprofondata in un pozzo un rapporto di devozione quasi religiosa, come una sacerdotessa con il suo dio implacabile ma giusto, a cui affida le sue confidenze e le sue preghiere e a cui concede periodicamente dei sacrifici rituali, gettandogli in pasto gli oggetti contaminati dalle radiazioni e accumulati nell’hangar in cui vive. Intorno a loro si muove una galleria di personaggi che, come zombi dalla vitalità intorpidita e ridotta, sopravvivono senza neppure sapere se sono vivi oppure morti, e in cui i lontani echi della collettivizzazione sovietica sopravvivono in forma attutita, come un ancestrale riflesso condizionato (ad esempio, nel sogno di alcuni di essi di trovare un campo di lavoro dove essere accolti e concludere la propria esistenza).
Come si può vedere, per leggere “Terminus radioso” bisogna accettare una massiccia dose di sospensione dell’incredulità e la rinuncia alle più ovvie leggi spazio-temporali (ubiquità dei personaggi, policronia, labilità del confine tra vita e morte, inopinati salti temporali nella narrazione). In certi passaggi Volodine mi ha ricordato Escher e le sue costruzioni impossibili, come quando il treno che procede senza sosta, da tempo immemorabile, nella steppa sterminata, senza aver miracolosamente bisogno né di riparazioni alla motrice né di rifornimenti di gasolio, si ritrova al punto di partenza, per poi continuare come in un incubo dove tutto si ripete all’infinito. Se all’inizio la storia di “Terminus radioso” appare abbastanza normale, con il terzetto di reduci che vagano nella landa desertica, ormai allo stremo delle forze, senza più acqua né cibo e con il fisico distrutto dalle radiazioni, fino a che il più in salute dei tre, Kronauer, si allontana per cercare soccorsi e si imbatte nel solitario kolchoz circondato dalla foresta, progressivamente il tempo e lo spazio perdono ogni significato e tutto assume l’ineffabile aspetto di un sogno o di una allucinazione. La realtà si sfalda, si sdoppia, si fa inconsistente, è “un biascichio di realtà, un tumore del presente, un coma esaltato, un ciclo delirante, un incubo tenebroso”. Ogni cosa perde colore e si fa funerea, fino a quando i personaggi, che già assistevano perplessi alle tante incongruenze che si palesavano di fronte a loro, si rivelano per quello che veramente sono, dei morti che non sanno di esserlo. Volodine è stato chiaramente influenzato dal “Bardo Thodol”, da noi noto come “Libro tibetano dei morti”, secondo cui dopo la morte c’è un intervallo di tempo (della durata massima di 49 giorni) che precede la reincarnazione e in cui l’anima del defunto vaga in un limbo dove vive una serie di esperienze psichiche. Volodine va oltre le sette settimane del libro buddista, e costringe (o per meglio dire, condanna) i suoi personaggi a errare in una sorta di eternità angosciante, oscura, silenziosa e disperatamente solitaria. Con una delle più sorprendenti ellissi della storia della letteratura (“Dopodiché, volenti o nolenti, un buco di sette secoli”), i protagonisti di “Terminus radioso” si ritrovano in uno spazio dove non c’è più né luogo né tempo, e in cui l’umanità si è come dissolta nel nulla. E’ un presente indifferenziato, che non inizia né finisce mai, senza più speranza nel futuro, il quale non lascia intravedere nessuna via d’uscita, e neppure consolazione nel passato, dal momento che la fatale perdita della memoria fa scomparire ogni immagine del tempo che fu (Kronauer, ad esempio, non ricorda neppure più il nome della donna che aveva follemente amato in gioventù) e rende inaccessibili i ricordi, che affiorano soltanto in incoerenti e confusi brandelli. Il solitario pellegrinaggio è interrotto solo di quando in quando da rari e afasici incontri con altre anime vaganti, come quando Kronauer e Schulhoff si ritrovano nella taiga sconfinata e procedono insieme, quasi per forza d’inerzia, comunicando solo con poche, faticose parole, una coppia che mi ha ricordato Vladimir ed Estragon di “Aspettando Godot”, ma in una versione depressa e per così dire terminale, in cui i due personaggi possono solo far finta di continuare a vivere non potendo veramente morire, e in questo amaro autoinganno illudersi non tanto che possa arrivare un Godot a salvarli, ma soltanto una lontanissima e improbabile estinzione che li riesca a liberare da quel supplizio senza fine.
In “Terminus radioso” l’autore non ha mai la pretesa di lanciare un messaggio al lettore. Se all’inizio si può pensare di star leggendo un romanzo sulla falsariga de “La strada” di Cormac McCarthy, che possa magari essere anche un atto di denuncia contro i rischi di una dissennata gestione dell’energia nucleare (qui praticamente ogni azienda agricola od ogni locanda ha la sua piccola centrale atomica indipendente) o eventualmente un’allegoria della fine di una Seconda Unione Sovietica così simile alla prima nella sua vuota retorica egualitarista e anticapitalistica (il che dà vita ai pochi sprazzi di umorismo del libro, con le occhiute autorità che guardano con sospetto Nonna Udgul, ritenendo che la sua immortalità costituisca un insulto al proletariato e accusandola di “deviazionismo organico”), ben presto si capisce che a Volodine interessa tutt’altro, per esempio la dimensione metanarrativa dell’opera. I deliranti poemi di Soloviei, che compaiono ripetutamente come una sorta di farneticante controcanto alla storia principale (e che costituiscono, dal punto di vista stilistico, un vero e proprio tour de force, con le loro lunghe, avvolgenti frasi ermetiche dalle forti connotazioni oniriche e visionarie), e i romanzi che Hannko Vogulian riscrive mentalmente, partendo dai vaghi ricordi dei libri letti in un lontano passato nella biblioteca del kolchoz, fanno infatti sorgere il sospetto che quello che stiamo leggendo sia solo il parto di una invenzione artistica, vuoi para-teatrale (i morti che Soloviei richiama dall’aldilà e che, come i sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, in forza di questo atto creativo acquistano una loro autonoma realtà) vuoi letteraria (Hannko Vogulian che sostituisce ai personaggi dei romanzi letti in gioventù le figure delle sorelle che da tantissimo tempo ha perso di vista). Ciò arricchisce di ulteriore ambiguità un’opera già di per sé molto poco lineare, giacché non si sa mai con certezza se quello a cui si sta assistendo sia la realtà, oppure (viste le numerose incongruenze logiche e i poteri da onirista di Soloviei) un sogno, o invece un universo parallelo, una terra di mezzo, una sorta di sub-vita o di sopra-morte quasi indistinguibile dal mondo principale, oppure ancora una mera finzione, un prodotto dell’immaginazione di un autore il quale – ovviamente – rimanda all’autore primigenio, Volodine stesso. Fatto sta che, in quest’ultima ottica, “Terminus radioso” può essere interpretato come un singolare, bizzarro inno alla letteratura e alla sua capacità di generare storie ed emozioni, anche se, considerato il contesto del romanzo, si tratta di una letteratura senza più libri né lettori, un puro atto di resistenza contro il tempo che cancella inesorabilmente ogni memoria del passato (i frammenti dell’epopea che Schulhoff canta nel finale, riportandola faticosamente in vita dal suo remoto repertorio di musico girovago).
Nonostante i suoi innegabili aspetti di romanzo sperimentale, come l’uso alternato della prima persona (singolare o plurale) e della terza persona (“Io o Lui, poco importa. In effetti non sono molto sensibile all’uso di un pronome rispetto a un altro, visto che sono comunque sempre io a parlare”) e le frasi vertiginosamente fluenti, che a volte durano pagine intere (anche se non si arriva all’impresa del suo recente “Streghe fraterne”, la cui terza parte è composta da un unico periodo lungo cento pagine), nonostante ciò – dicevo – “Terminus radioso” ha anche connotazioni più classiche, come la presentazione dettagliata della vita di ciascun personaggio, che segue immancabilmente la sua prima apparizione, oppure l’intreccio di tanti personaggi e di tante storie, che rimanda all’”entralacement” di ariostesca memoria. Più di ogni considerazione stilistica, a rimanere impressa nel lettore di questa originalissima ucronia, è la rappresentazione più sconvolgente dell’oltretomba che mai uno scrittore sia riuscito a concepire, un sogno senza via d’uscita e senza tempo dove “l’infinito fluire della fine” prende alla gola come un incubo tafofobico. Se, come mi è capitato di osservare, Volodine è un autore respingente, che o si ama o si odia, nel mio caso posso affermare che leggere “Terminus radioso” è stata un’esperienza bruciante, che mi ha segnato nel profondo. “Terminus radioso” è un incredibile viaggio alla fine della storia, alla fine del tempo, alla fine persino dell’usuale concetto di letteratura. Volodine ha varcato delle colonne d’Ercole che pochi autori hanno anche solo immaginato di poter attraversare. Oltre alla taiga radioattiva, oltre al Bardo crepuscolare e infinito, oltre ai deliri onirici di “Terminus radioso”, è, onestamente, davvero molto difficile proseguire.
“Il corvo che li aveva ascoltati fino a quel momento sbatté le ali e il becco e atterrò sulla parte alta del fossato, proprio accanto a Aldolai Schulhoff e questi ebbe la vaga sensazione che gli grattasse via qualcosa proprio sotto la fronte.
Trascorse alcune ore, il corvo si alzò in volo e poi scomparve.
Adesso Schulhoff e Kronauer aspettavano la sera, o l’inverno. Ma né la sera né l’inverno sopraggiungevano.
«T’ha cavato un occhio» disse Kronauer.
«Ma chi?».
«Il corvo» disse Kronauer.
«Ah, era lui» fece Schulhoff. «Pensavo fossi tu».
«Ah no» negò Kronauer.
La sua voce era malferma. Non sapeva bene. Bofonchiò un altro diniego.
«Tu o lui, poco importa» disse Schulhoff. «Al punto in cui siamo».
«Mi seccherebbe se pensassi che sono stato io» disse Kronauer.
«Non penso niente» disse Schulhoff. «Aspetto la fine».”
Indicazioni utili
HIGH SOCIETY
“Se non fosse così ridicolo sarebbe assolutamente comico”
In un famoso film del 1962, “L’angelo sterminatore”, Luis Bunuel immaginava che un gruppo di altolocati borghesi non riuscissero in alcun modo ad uscire dalla casa in cui erano stati ospiti per una cena, intrappolati da una sorta di misterioso ed inspiegabile maleficio. Una situazione del genere viene vissuta anche dai personaggi di “Partenza in gruppo”: qui lo spunto è meno surreale, è la fitta nebbia londinese a costringere le ferrovie a cancellare la partenza di tutti i treni del pomeriggio, fatto sta che la comitiva che baldanzosamente si stava apprestando, con bagagli e servitori al seguito, a partire per una vacanza nel sud della Francia, è costretta ad asserragliarsi per diverse ore nell’albergo della stazione, mentre migliaia di pendolari si accalcano all’esterno in balia del freddo e dell’oscurità. Green divide in due l’umanità del suo romanzo, chi sta dentro al caldo e al sicuro, vittima al massimo della noia e dell’incertezza sugli sviluppi dell’emergenza, e chi è invece costretto a stare fuori, in preda alla frustrazione e al malcontento. Senza darlo troppo a vedere, con la grazia e lo humour tipicamente britannici di un Waugh, Green fa un’opera sottilmente, implacabilmente politica. Il gruppo di privilegiati di “Partenza in gruppo” si ostina pervicacemente a mettere in scena un raffinato gioco di società, in cui la posta in palio è l’affermazione del proprio ruolo, la conferma del proprio status sociale, da perseguire tramite sottili seduzioni, stratagemmi per accendere gelosie, alleanze che si formano e si sciolgono a seconda delle convenienze. A trionfare è il vaniloquio, il chiacchiericcio, il futile spettegolare (uno dei leitmotiv è la reiterata conversazione, assolutamente frivola e insignificante, su Richard il console e sul fatto che egli si sia pubblicamente scusato per non aver potuto partecipare a un ricevimento dell’ambasciatore al quale non era stato neppure invitato). Concentrati sulle loro tresche amorose, sui vestiti da mettere in valigia, sui bagagli lasciati forzatamente incustoditi nelle banchine, essi sono snobisticamente indifferenti alla sorte di chi è rimasto fuori (“chi se ne importa dell’uomo della strada e di quello che pensa”, “quelli stavano in basso e dovevano restarci”), ma una serie di inquietanti segni premonitori (ad esempio, l’uccello morto che cade ai piedi della signora Fellowes all’inizio del romanzo e che la donna, dopo averlo lavato, porta inspiegabilmente con sé chiuso in un sacchetto di carta) e la mal dissimulata atmosfera di paura che progressivamente, subdolamente, si insinua nelle lussuose stanze dell’hotel, finisce per generare un clima di insicurezza, di angoscia e di paralisi. La malattia della signora Fellowes, che sembra sia lì lì per morire anche se - probabilmente – è solo ubriaca, e la calca di gente assiepata fuori dell’albergo, che si dice stia tentando di forzare i cancelli sprangati per dare l’assalto ai suoi ospiti, sono i segnali che minacciano di mandare a gambe all’aria lo status quo e di far precipitare i nostri fatui personaggi dal piedistallo delle loro apparentemente incontestabili prerogative.
Henry Green dissemina il romanzo di numerose, insistite allusioni funebri: Alex vede se stesso come “un fantasma che attraversa le strade dei vivi”, Julia pensa alla gente nella hall dell’albergo come se “fossero tutti morti e in attesa davanti ai cancelli”, mentre le pile di bagagli sono come “un cimitero esagerato” e la vista della gente ammassata nella stazione, il cui brusio si stende tutt’intorno come “un funebre drappo”, è come una veduta dal patibolo. Lo scrittore inglese vuole ovviamente sottolineare il fatto che i facoltosi borghesi del suo romanzo sono una classe sociale in via di dissoluzione, e la torre d’avorio in cui si rifugiano, assediati da una simbolica nebbia che tutto oscura e tutto paralizza, è una metafora fin troppo facile, ma nondimeno estremamente efficace, per rappresentare questa situazione. Green non è comunque un Bunuel, non intende “épater le bourgeois”, e “Partenza in gruppo”, accanto alle sue sulfuree intuizioni, conserva la grazia di un elegante marivaudage, con le continue, frenetiche entrate e uscite di scena dei personaggi che sembrano preannunciare le commedie di Michael Frayn. A me questo romanzo ha ricordato per molti versi anche le opere di un autore come William Gaddis, con la prevalenza di brillanti dialoghi che solo di rado vengono interrotti da scene descrittive e il progressivo precipitare degli eventi che conduce a esiti grotteschi. Certo, non si assiste qui, come invece in Gaddis, all’inesorabile trionfo dell’entropia ma, nonostante l’happy end (la situazione alla fine si sblocca e i treni possono ripartire), rimane forte nel lettore il retrogusto di una impietosa critica sociale e il senso ineluttabile della condanna di una classe rinchiusa nel proprio narcisistico isolamento, soffocata dalla propria albagia e condannata a vivere nella paura di venire estromessa dai propri privilegi.
Indicazioni utili
IL LATO OSCURO DELLA CIVILTA'
“Il dolore è verità; tutto il resto è soggetto al dubbio.”
“Non c'è nessuna nobiltà consolatoria in questa storia”, “niente di nobile nelle mie sofferenze”, confessa l’io narrante di “Aspettando i barbari”, ossia il magistrato che da molti anni amministra la giustizia in una cittadina ai confini dell’Impero. Il romanzo che Coetzee ha scritto nel 1980, all’inizio della sua carriera letteraria, non si propone quindi – a detta del suo protagonista – come un esemplare apologo morale, anche se, a ben pensarci, avrebbe potuto facilmente diventarlo: la storia di questo anonimo funzionario di frontiera, libertino e amante della vita pacifica (“non ho chiesto altro che una vita tranquilla in tempi tranquilli”), che vede turbare la propria confortevole routine, fatta di solitarie battute di caccia e piccoli scavi archeologici, dall’arrivo di un manipolo di feroci militari inviati dalla lontana capitale per prevenire e reprimere una possibile invasione barbarica, e si trova obtorto collo messo di fronte alla scelta di cosa fare rispetto alle ingiustizie e alle violenze da essi metodicamente perpetrate, e cioè se mettere la testa sotto la sabbia e far finta di nulla oppure scuotersi dall’apatia e reagire, questa storia – dicevo – può fare infatti apparentemente pensare a un’opera edificante ed impegnata come ad esempio “Sostiene Pereira” di Antonio Tabucchi. Se Tabucchi scrive una appassionata denuncia del fascismo e una commovente parabola sulla capacità dell’uomo comune di ribellarsi ai soprusi della dittatura, Coetzee fa però una operazione molto più ambigua e sfaccettata, per niente convenzionale e scontata. Certo, a un primo livello si può leggere “Aspettando i barbari” come una esplicita esecrazione dei guasti prodotti nella storia dalla bieca oppressione dell’uomo sull’uomo, e più in particolare dal colonialismo e perfino, vista l’origine dello scrittore, dall’apartheid. Uno dei punti di forza del romanzo sta in fondo proprio nella sua atemporalità, nella sua indeterminatezza storica e geografica, che fa sì che ogni riferimento storico sia plausibile: la Terza Divisione che arriva dalla capitale ricorda così le SS, gli interrogatori del famigerato colonnello Joll e dei suoi scagnozzi riportano alla memoria i processi-farsa staliniani, e le torture a cui vengono sottoposti i prigionieri l’Inquisizione spagnola, e l’immaginazione del lettore può parimenti andare, senza tema di finire fuori strada, tanto agli ebrei dei lager nazisti quanto agli herero massacrati dalle forze coloniali tedesche nell’Africa del Sud-Ovest. “Aspettando i barbari” è tuttavia – come accennavo – anche un saggio lucidissimo e spietato sulle pulsioni più animalesche e brutali che allignano nell’animo umano, a stento tenute a freno e camuffate dall’evoluzione della civiltà e dai rituali della vita sociale, e sui meccanismi insinuanti e diabolici che il Potere esercita per ottenere e conservare il consenso della maggioranza, alimentando scientemente le paure della gente e solleticando il suo mai del tutto sopito lato sadico. Viene in mente il famoso saggio di Elias Canetti, “Massa e potere”, in cui il grande autore mitteleuropeo studia i meccanismi psicologici della violenza delle masse, riconducendola ai due istinti elementari dell’esistenza animale, l’aggressività e la paura: queste pulsioni fanno sì che un gruppo di “brave persone” possa arrivare a commettere crimini terribili (si pensi ai linciaggi del Ku Klux Klan, perpetrati da normali padri di famiglia e devoti cittadini) senza sentirsi in colpa (in quanto la colpa condivisa non è più colpa, ma viene in qualche modo purificata), purché avvengano nei confronti di una vittima, di un capro espiatorio, che assuma in sé lo stigma della “diversità”. Nel romanzo di Coetzee le orribili scene di fustigazione pubblica dei prigionieri barbari catturati dalla spedizione del colonnello Joll rispecchiano perfettamente queste caratteristiche. Nelle facce della gente che assiste alla macabra cerimonia “non c’è odio, né sete di sangue, ma una curiosità così intensa che sembra prosciugare i corpi, lasciando vivi solo gli occhi, organi di un nuovo, sconvolgente appetito”. Il magistrato potrebbe in fondo comportarsi come i suoi concittadini, i quali vengono addirittura invitati dai soldati, come se si trattasse di un gioco innocente, a frustare i prigionieri in loro vece, ma in lui scatta qualcosa di imprevedibile: la conoscenza del diverso. E’ possibile ignorare la sofferenza di chi non si conosce, di chi viene irrimediabilmente confinato nella sua alterità, ma se solo gli si consente di avvicinarsi al nostro mondo, la sua umanità emergerà prepotentemente, facendo crollare la nostra stolida presunzione di innocenza, la nostra egoistica convinzione che “queste cose non ci riguardano”. E’ l’inevitabile meccanismo dell’empatia, della compassione, che trasforma l’ignavia in vergogna, che fa sì che il magistrato, una volta resosi personalmente conto delle sevizie cui vengono crudelmente sottoposti i prigionieri del colonnello, non possa più vivere senza un costante disagio: “Non avrei mai dovuto prendere quella lanterna per andare a vedere cosa succedeva nella baracca vicino al granaio. D'altra parte era impossibile, una volta presa quella lanterna, metterla giù. Il nodo si stringe da solo, e non ne trovo il capo”. Spinto da questo sentimento, il magistrato inizia a prendersi cura di una donna barbara, resa storpia e quasi cieca dalle torture, invitandola prima a dormire sotto il suo tetto, incurante delle malevole allusioni e delle dicerie della gente, e organizzando poi una pericolosa spedizione nel deserto per riconsegnarla alla sua tribù. Sarebbe fin troppo facile vedere in questa figura di magistrato, che pur di non tradire la propria umanità non esita violare i tabù sociali e trasgredire le imposizioni dell’autorità, incurante delle conseguenze delle proprie azioni, una sorta di parabola cristologica. Dal rito quotidiano della lavanda dei piedi della donna barbara fino al vero e proprio calvario cui va consapevolmente incontro, quasi a voler prendere sulle sue spalle i peccati commessi dai suoi concittadini, tutto sembra deporre a favore di questa identificazione. In realtà, nel comportamento del magistrato gli aspetti più nobili ed eroici si alternano, in consonanza con la complessità dostojevskijana del romanzo, con quelli più ambigui ed enigmatici. Il magistrato non è innamorato della ragazza che accoglie nel suo letto, e neppure prova per lei un vero desiderio erotico; ancora meno è in grado di instaurare un autentico rapporto di amicizia e di conoscenza. Prevale forse in lui una sorta di paternalistica preoccupazione, quasi che accudire la ragazza fosse l’unico modo per non sentirsi più in colpa, per riparare da “uomo di legge” ai misfatti della sua gente nei confronti di una popolazione inoffensiva e pacifica, e purtuttavia perseguitata ingiustamente. Una sorta di carità pelosa, insomma, che non lascia esente da rimorsi l’uomo, il quale sospetta di essere mosso dagli stessi desideri oscuri dei torturatori, ossia di cercare il segreto, qualunque esso sia, per introdursi nell’animo della ragazza (nei sui sogni ella gli appare non a caso con una faccia vuota, senza tratti, impenetrabile). Il magistrato rispetta la ragazza barbara, la tratta civilmente e con equanimità, ma in fondo non riesce mai ad arrivare a capirla veramente; alla fine può solo restituirla alla sua gente come estremo atto di riparazione e condannarsi a un futuro di nostalgia e di rimpianti. Il tentativo, sia pur destinato all’insuccesso, di un rapporto con lo “straniero”, con il “nemico”, mette paradossalmente il magistrato in una situazione di contrapposizione e di alterità sia rispetto ai suoi concittadini sia nei confronti dei “barbari”. Il suo atroce supplizio, la sua progressiva, infamante discesa alla condizione di paria, espulso dalle sue funzioni, dai suoi privilegi e per ultimo dallo stesso consesso sociale, è il logico, inevitabile destino riservato a questo memorabile personaggio che ha scelto – per dirla con le parole di Alvaro Mutis – di andare “in direzione ostinata e contraria”.
“Aspettando i barbari” ricorda, per la sua ambientazione ai margini del deserto e per la beckettiana attesa di una invasione che non si concretizza mai, “Il deserto dei tartari”. La cittadina di frontiera è un po’ come la Fortezza Bastiani di Dino Buzzati, un avamposto isolato dalla civiltà, immerso in una natura ostile, impervia, pericolosa, ma a suo modo affascinante. Le somiglianze con “Il deserto dei tartari” si limitano però a queste poche suggestioni. Più profonda è invece la consonanza con il racconto di Kafka “Nella colonia penale”, a partire dalla fanatica convinzione che alla rivelazione della verità si possa arrivare solamente con la sofferenza fisica fino ad arrivare alla macabra cerimonia di fustigazione, in cui i prigionieri vengono frustati fino a quando il sangue ed il sudore non hanno cancellato la parola “nemico” scritta con la polvere sulle loro schiene (laddove nel racconto kafkiano il comando trasgredito veniva inciso dalla diabolica macchina, con una serie di aghi, direttamente sul corpo del condannato). “Aspettando i barbari” non eccede però mai nel citazionismo fine a se stesso. Pur con uno stile che procede cronachistico, scarno, quasi dimesso, esso è capace di accendersi improvvisamente in fiammate di puro orrore. Non credo di esagerare se affermo che il romanzo di Coetzee sia uno dei più sconvolgenti che abbia mai letto, più ancora dei libri più scuri e demoniaci di Cormac McCarthy. La discesa dal magistrato nei gironi infernali della degradazione più oscena e repellente è raccontata dallo scrittore sudafricano senza addolcimenti, senza eufemismi, in una escalation di torture e di umiliazioni che sono dei veri e propri pugni nello stomaco del lettore, il quale solo di rado trova il soccorso di una qualche pietosa ellissi. I metodi del colonnello Joll e del suo braccio destro Mandel si propongono sistematicamente di far emergere l’impietosa debolezza del corpo umano, che spogliato di ogni diritto, di ogni dignità, di ogni decenza, diventa pura materia, mera carne, esposto implacabilmente alle necessità fisiologiche e alla paura del dolore e della morte (“L'unica cosa importante per loro era dimostrarmi cosa voglia dire vivere in un corpo in quanto corpo, un corpo che può coltivare delle idee a proposito della giustizia fintanto che è intero e in buona salute, ma che se ne dimentica subito, appena gli acchiappano la testa e gli ficcano dentro un tubo, per riempirlo di acqua salata finché comincia a tossire e a vomitare e a svuotarsi”). Come nei libri di primo Levi, non è prevista alcuna salvezza, alcuna palingenesi. In “Aspettando i barbari” c’è invece una continua alternanza di sogno e di realtà, ma la realtà, ghignante e infernale come un quadro di Bosch, è ancora più visionaria e insostenibile del più raccapricciante degli incubi. A differenza degli allucinati dipinti del pittore fiammingo, il romanzo di Coetzee conferisce tuttavia al lettore l’ingrato privilegio di potervisi specchiare e, a fatica, con impudica sincerità, decifrare, come in un ritratto deformato e grottesco, una morale per nulla consolatoria: i veri barbari da temere non sono fuori delle nostre mura, ma – ahimé – sono dentro di noi.
Indicazioni utili
"Il deserto dei tartari" di Dino Buzzati
IS THERE LIFE ON MARS?
“La vita è una cosa che dobbiamo smettere di correggere”
Un adolescente affetto da sindrome di Asperger scopre una passione viscerale per la natura, inizia a sostenere la causa ambientalista e diventa in breve tempo una celebrità della rete: questo succinto identikit vi fa forse venire in mente qualcuno in particolare? Se, come credo, la risposta è positiva e il pensiero è andato automaticamente alla bionda e minuta ragazzina svedese di “Fridays for future”, sappiate che, ripreso quasi alla lettera dalla sinossi sul risvolto di copertina, esso descrive invece il piccolo protagonista di “Smarrimento”, l’ultimo lavoro di Richard Powers. Dopo averlo visto diventare uno dei guru indiscussi della narrativa ecologista con “Il sussurro del mondo” (in una recente visita al Festival della Scienza di Genova ho trovato il suo “Overstory” citato, all’interno della mostra “Lessico e nuvole. Linguaggio, comunicazione e percezione della crisi climatica”, come uno dei romanzi fondamentali, insieme a quelli di Amitav Gosh, Margaret Atwood ed altri ancora, di quello che ormai è diventato un vero e proprio genere letterario), non sono affatto sorpreso di questa scelta. In effetti, “Smarrimento” riprende proprio là dove “Il sussurro del mondo” si era concluso, in un paesaggio edenico, stupefacente e incomparabile come quello della foresta vergine delle Smoky Mountains, il parco naturale dove lo scrittore dell’Illinois ha scelto recentemente di andare a vivere. Il timore di trovarmi di fronte a una sorta di copia conforme, di seguito meno ispirato del suo grande successo, scritto magari per sfruttare l’inattesa popolarità garantitagli dalla vittoria dl Pulitzer e cavalcare la moda di un argomento che (per fortuna!) sta entrando sempre più spesso, sull’onda emotiva dei drammatici cambiamenti climatici del pianeta, nelle pagine dei giornali e nei talk show televisivi, si è per fortuna dissolto dopo le prime pagine. E’ vero che, come in tutti i libri di Powers, il messaggio che emerge dal testo è chiaro e inequivocabile: il nostro pianeta è in pericolo e il tempo per salvarlo sta per scadere, l’habitat di piante e animali viene sempre più spesso messo a repentaglio dal dissennato comportamento dell’uomo, il riscaldamento globale e gli altri cambiamenti del clima sono, se non ignorati, colpevolmente sottovalutati dalla maggioranza della gente, politici compresi. Se queste tematiche costituiscono, in linea con la sensibilità dell’autore, una sorta di leitmotiv, di costante accompagnamento, di basso continuo, in “Smarrimento” c’è però molto di più, a partire dallo straordinario rapporto esistente tra i due protagonisti del romanzo, un padre rimasto recentemente vedovo e il proprio figlio “diverso” (nel libro viene affettuosamente appellato come un “alieno”, una “persona di un altro mondo”). In questa complicata ma dolcissima relazione traspare tutto il dolore per l’assenza della figura coniugale e materna che è venuta tragicamente a mancare, la difficoltà, la solitudine e spesso l’inadeguatezza di essere un genitore single e di dover portare avanti, a volte contro le stesse istituzioni, l’educazione di un figlio problematico, ma anche l’affetto ineguagliabile e incondizionato tra due figure che non rinunciano mai ad attraversare la vita con gli occhi pieni di reciproco rispetto e di stupore per le meraviglie del creato. Scopriamo una tenerezza insolita, pudica e delicata, in un autore che finora, anche quando parlava di amore, era sempre stato un po’ algido, emotivamente distaccato, come se guardasse tutto da una prospettiva superiore, quasi “sub specie aeternitatis”, e questo nuovo sguardo fa risaltare vividamente la coppia nei confronti dei personaggi sullo sfondo, trasformandola in una sorta di emblematica fiammella di ostinazione e di speranza che si fa strada, pur impotente a vincere il buio, nell’impenetrabile oscurità di una notte smisurata e paurosa. Theo e suo figlio Robin vengono a un certo punto definiti come “gli ultimi componenti dell’equipaggio di una navicella spaziale generazionale che era giunta alla fine delle sue possibilità molto prima di aver raggiunto la sua nuova casa”, e questo senso di essere dei superstiti, gli ultimi esemplari sopravvissuti di un’impresa pionieristica senza possibilità di successo ma necessaria, si respira fino alla fine del libro. Questa metafora “spaziale” non è affatto peregrina, perché Theo è un astrobiologo, il quale dedica il proprio lavoro a cercare prove della presenza di forme di vita in altri pianeti, da qualche parte nell’immensità del cosmo, per mezzo di simulazioni basate sui pochi dati che gli strumenti astronomici sono in grado di mettergli a disposizione. L’importanza della sua “quest” va ben oltre le concrete (invero scarse) possibilità di realizzazione, in quanto essa è, forse inconsciamente, mossa da una salutare messa in discussione dell’antropocentrismo di cui è stolidamente imbevuta la cultura umana. Aleggia costantemente nel romanzo il famoso paradigma di Fermi (perché, dato l’enorme numero di stelle nell’universo, non si è mai avuta notizia di una civiltà extraterrestre?), e le storie su fantasiosi pianeti viventi che Theo racconta ogni notte al figlio prima di addormentarsi, vere e proprie favole fantascientifiche, sono obiettivamente tra le sue pagine più ispirate. In fondo, scrive Powers, “condividono tante cose, l’astronomia e l’infanzia. Entrambe sono viaggi lungo enormi distanze. Entrambe cercano fatti ben oltre la loro capacità di comprensione. Entrambe teorizzano enormemente e lasciano che le possibilità si moltiplichino senza limiti.” Ed è proprio il piccolo Robin, affascinato dalla possibilità che la vita abbia potuto, nei miliardi di anni di vita dell’universo, dispiegarsi in innumerevoli, eccentriche forme (“gli eventi unici erano ovunque, a ogni passo della storia”), a dare una sua personale spiegazione al paradosso del fisico italiano, ipotizzando che gli alieni si nascondano ai terrestri, a causa della profonda sfiducia nella razza umana, giacché troppi esempi del passato, in cui l’approccio tra la cultura dominante sulla Terra e le popolazioni indigene dei nuovi continenti scoperti si è concluso con immani catastrofi umanitarie, l’hanno irrimediabilmente screditata. A differenza del padre, il cui lavoro è la naturale prosecuzione del suo amore giovanile per la fantascienza, di cui le sue fantasie sono impregnate, la passione di Robin si concentra su qualcosa di molto più terrestre, ossia gli animali a rischio di estinzione, che egli prima osserva e disegna con infaticabile zelo, e poi decide di aiutare con la sua ingenua ma incrollabile attività pubblica di denuncia. E’ curioso come in questa famiglia, divisa tra telescopi e microscopi, conviva una doppia dimensione, il qui e ora, tangibile e concreto, di Robin, e il non dimostrabile, il potenzialmente possibile ma incommensurabilmente lontano, di Theo. In realtà padre e figlio sono due facce della stessa medaglia, ed il geniale strabismo di Powers fa sì che entrambi, a loro modo e da due angolazioni differenti, mettano alla berlina l’insopportabile e perniciosa hybris con cui gli uomini, nel corso della storia, hanno preteso di trasformarsi, citando il titolo del libro di Yuval Noah Harari, “da animali a dèi”, quando invece, strappata dalla sua apparentemente privilegiata posizione al centro dell’universo, la Terra, ossia “Sol 3, quel puntino blu, aveva molto da offrire, se si riusciva ad allontanarsi dalle specie dominanti abbastanza a lungo da schiarirsi le idee”.
Theo appartiene a quella folta schiera di scienziati (fisici quantistici, programmatori, genetisti, chimici, esperti di realtà virtuale, botanici) che popola tutti i romanzi di Powers. Come il fisico de “Il tempo di una canzone”, che studia disperatamente le curve temporali nella speranza di dimostrare che il tempo non esiste e “gli eventi possono muoversi continuamente verso il proprio futuro intanto che si riavvitano nel proprio passato” (nella inconfessata speranza di poter ritornare dalla moglie morta anni prima), così l’astrobiologo di “Smarrimento” si affida alla scienza nell’illusione di poter far “rivivere” in Theo la compagna perduta. Robin viene infatti inserito, al fine di superare le sue crisi di rabbia e i suoi problemi di autocontrollo, in un esperimento di modifica del comportamento e di controllo delle emozioni, il neurofeedback decodificato, tramite il quale viene accompagnato ad adattare gradualmente la propria attività spontanea al modello cerebrale della madre registrato e archiviato anni prima. Imparando ad adeguarsi agli stati emozionali della madre, è come se Robin la facesse rivivere, realizzando così una sorta di immaginaria, ma non meno potente, sopravvivenza post mortem. Questa utopia, che ambisce ad abolire la dimensione cronologica del tempo, facendo sì che non ci sia più il divenire, ma passato, presente e futuro convivano invece nella stessa dimensione, è uno dei più persistenti leitmotiv dell’opera di Powers, che già trent’anni fa immaginava che un personaggio morto da diversi mesi tornasse a parlare alla protagonista, tramite un virus informatico, dall’altoparlante di una postazione bancomat. E’ forse possibile, per Powers, non solo una persistenza dei ricordi, ma una vera e propria, ben più autentica, immortalità emozionale, che faccia sì che tutta la bellezza e la speranza di una persona possano non scomparire nel nulla ma perpetuarsi nel tempo, tramandandosi letteralmente, come una eredità psichica, alle generazioni successive. Utopia? Probabilmente sì, ma la scienza, scriveva Powers in “Canone del desiderio”, deve poter “coltivare un’eterna condizione di stupore davanti a qualcosa che diventa sempre più ricco e ingegnoso delle nostre ultime teorie su di esso […] Lo scopo della scienza è quello di perderci nel desiderio del mondo”. Questa “scienza della meraviglia” deve però fare i conti con la realtà, e nel mondo descritto in “Smarrimento”, ambientato sì in un futuro prossimo venturo ma lo stesso perfettamente riconoscibile (dietro l’attivista Inga Alder che ispira Robin con i suoi video c’è ovviamente Greta Thunberg, mentre il Presidente che non riconosce i risultati delle elezioni e boicotta la ricerca scientifica è altrettanto chiaramente Donald Trump), l’utopia si trasforma fatalmente in distopia, e quindi in tragedia. Ecologia ed economia hanno la stessa radice etimologica, ma vanno purtroppo in direzione contraria, come dimostrano i tanti accordi mondiali fino ad oggi falliti per l’incapacità delle grandi potenze di mettersi d’accordo sulla ripartizione degli ingenti costi da sostenere per l’adozione di una energia pulita e per la riduzione dei gas serra. La realtà è che la scienza viene riconosciuta e sovvenzionata solo se è in grado di garantire profitti a breve termine, altrimenti rischia, come i progetti del neurofeedback con cui viene curato Robin o il telescopio da inviare nello spazio che Theo attende da tanti anni per dare un impulso decisivo alle sue ricerche, di essere messa da parte, se non addirittura sabotata. C’è un famoso racconto di fantascienza degli anni ’60, “Fiori per Algernon”, che parla di un procedimento sperimentale per aumentare l’intelligenza, cui si sottopone come cavia il protagonista con ritardi mentali, e che è la neanche troppo dissimulata fonte ispiratrice di “Smarrimento”. La figura di Robin, con la sua tristissima parabola esistenziale, riecheggia infatti in maniera inequivocabile, quella del topo del titolo, conducendo il romanzo verso gli inattesi esiti di un commovente melodramma.
Lo stile di Powers, che ai suoi esordi era raffinatissimo, ma fin troppo erudito, ampolloso, quasi iniziatico, qui raggiunge una laconica asciuttezza, una epigrafica concisione, come le sue frasi secche e stringate, scevre da ogni inutile orpello, volessero dimostrare ad ogni pagina che, come non c’è più tempo da perdere per salvare il pianeta, non c’è neppure bisogno di troppe parole per affermare il proprio messaggio. La prosa scarna e prosciugata di “Smarrimento” mi ha ricordato molto quella de “La strada” di Cormac McCarthy, e non è forse un caso che entrambi i libri abbiano come protagonisti un padre e un figlio in un contesto futuristico (mi auguro solo che “Smarrimento” non sia, come è avvenuto per McCarthy, il canto del cigno di Powers!). Paradossalmente questa rinuncia al plateale virtuosismo, che ancora caratterizzava, almeno nella sua elaboratissima struttura, “Il sussurro del mondo, ha portato in dote a “Smarrimento” una inedita poeticità, una toccante umanità. Non nego che “Smarrimento” sia tra le opere di Powers, non tanto la più riuscita, quanto la più emozionante, la più empatica, la più coinvolgente. Certo, non mancano i consueti, abbondantissimi riferimenti culturali, dal già citato libro di Daniel Keys ai paradossi di Fermi e di Olbers (“se ci sono stelle ovunque, perché il cielo notturno non è pieno di luce?”), da “Il costruttore di stelle” di Olaf Stapledon (“Tutto il cosmo era infinitamente più piccolo di tutto l’essere umano”) e dai racconti della rivista “Amazing stories” alle avveniristiche tecniche psicoterapeutiche o astronomiche, estremamente plausibili da un punto di vista scientifico. “Smarrimento” oscilla costantemente tra la concretezza della realtà e del passato e l’immaginifica, vertiginosa libertà di una storia ai limiti della fantascienza, per concludere che in fondo la vita non ha nulla da invidiare alle più sorprendenti riviste di science fiction e che “non c’è nessun luogo più strano” del nostro pianeta. Siccome “l’esistenza si presenta in una delle tre varietà: nessuna, una, infinita”, Powers si culla a lungo, dolcemente, nell’immaginazione che altri mondi siano possibili, anche se poi, ben più pragmaticamente, incita con veemente coerenza a impegnarsi, come il piccolo Robin, per la nostra povera Terra, a scuotersi da quel torpore che ci fa accettare e abituarci a qualsiasi cosa, ad aprire gli occhi, perché “tutti sanno quello che sta succedendo. Ma tutti distolgono lo sguardo”.
Indicazioni utili
"La strada" di Cormac McCarthy
LA LINGUA MESCIDATA DI CAMILLERI
I singolari avvenimenti che danno materia a questa cronaca si sono verificati nel 187.. a Vigata, il paese immaginario creato da Andrea Camilleri e diventato popolare con le avventure del commissario Montalbano. Ho voluto iniziare questa recensione come lo scrittore siciliano ha aperto ogni singolo capitolo de “Il birraio di Preston”, ossia con una frase che è la citazione dell’incipit di un famoso romanzo del passato. Quello che è il mio esordio molti lo avranno riconosciuto, essendo costituito dalle prime parole di uno dei capolavori dell’esistenzialismo francese; quelli di Camilleri sono tratti invece da opere di Melville, Mann, Dostojevskij, Garcia Marquez, Gadda e molti altri, tra cui, ironicamente, anche Snoopy (ricordate la famosa strip in cui Snoopy trascina la macchina da scrivere sul tetto della cuccia e inizia a scrivere “Era una notte buia e tempestosa”?). Questa vocazione metaletteraria (che ricorda un po’ il Calvino di “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, tra l’altro anche lui omaggiato insieme agli altri scrittori sopra elencati) è una delle caratteristiche principali de “Il birraio di Preston”, insieme a un gusto quasi gogoliano nella descrizione dei personaggi e a una capacità di analisi della situazione sociale e politica che mi ha ricordato il miglior Sciascia, e per esperienza pluridecennale di lettore posso assicurare che quando divertimento, riflessione e sperimentazione vengono a trovarsi insieme, come in una rara congiunzione astrale, quasi sempre ci veniamo a trovare di fronte a un capolavoro. “Il birrario di Preston” è infatti un’opera di grandissimo valore letterario, caratterizzato da quello che è il vero e proprio marchio di fabbrica del suo autore, ovverossia l’utilizzo della lingua “mescidata”, ossia un insolito miscuglio di italiano e di dialetto siculo il quale, se all’inizio può disorientare il lettore (che si trova davanti a termini come trasire, nesciri, taliare, susìrisi, acchianare, e così via, o a espressioni vernacolari come “metterci picca e nenti”, “essere uno scecco gessaro”, “farla pagare col palmo e la gnutticatura”), alla lunga – e i lettori affezionati del maestro di Porto Empedocle lo sanno benissimo – conferisce alla storia un ritmo e una naturalezza ineguagliabili. Ne “Il birraio di Preston”, titolo che si riferisce a un’opera lirica di Luigi Ricci che il prefetto di Montelusa vuole mettere in scena in occasione dell’inaugurazione del nuovo teatro di Vigata e che invece la cittadinanza vuole boicottare per protesta contro quella che è interpretata come una delle tante imposizioni del neocostituito Stato Italiano in una terra percorsa, allora come oggi, da fermenti autonomisti e antistatalisti, ne “Il birraio di Preston” – dicevo – non si parla comunque solo siciliano, ma anche toscano, romanesco, piemontese, milanese e tedesco, e questa vera e propria babele linguistica, retaggio di un’unificazione alquanto abborracciata, provoca equivoci, incomprensioni e fraintendimenti dall’irresistibile effetto umoristico: si pensi all’episodio in cui il “kalt” dell’ingegnere alemanno viene interpretato dai suoi aiutanti come “caldo” e fa sì che venga girata improvvidamente la manopola della pressione e sparata acqua bollente anziché fredda sull’incendio divampato dietro il teatro, rischiando così di far saltare in aria il carro dei soccorsi; oppure la scena in cui il termine “abusato” genera un curioso quiproquo, in quanto in toscano, la lingua in cui si esprime il prefetto Bortuzzi, esso significa “disorientato”, mentre viene interpretato in senso letterale dal suo interlocutore don Memé, il quale a sua volta, con la metafora dei “comerdioni”, ossia gli aquiloni, trova l’incomprensione del prefetto. Se a questo si aggiunge il particolare modo di parlare dei siciliani, “latino” o “spartano” a seconda di ciò che si vuole far intendere («Da noi, in Sicilia, parlare latino signifìca parlare chiaro». «E quando volete parlate oscuro?». «Parliamo in siciliano, Eccellenza». […] «Eccellenza, posso parlare spartano?». «O che vuol dire?». «Spartano vuol dire parlare con parole vastase.»), si può capire come l’incomunicabilità tra i personaggi del romanzo, provenienti da varie regioni geografiche, regni sovrana. Non so davvero come l’opera di Camilleri possa essere tradotta in altre lingue, fatto sta che per trovare una analoga destrutturazione della lingua e un simile sfruttamento della forza del parlato si deve risalire nientemeno che al Gadda del “Pasticciaccio”, e questo accostamento non può che fare onore a Camilleri. La prosa di Camilleri inoltre si adegua magistralmente ai vari personaggi in scena, e può passare dal burocratese delle missive dei pubblici funzionari alle metafore marinaresche utilizzate in abbondanza nel capitolo della vedova Concetta Riguccio (ad esempio, il membro dell’amante che all’inizio è un cavo d’ormeggio, poi poco a poco diventa un rigido bompresso per trasformarsi alla fine in un maestoso albero di maestra).
Anche la struttura con cui è costruito “Il birraio di Preston” è affatto notevole: la successione dei capitoli disposta dall’autore non segue infatti un ordine cronologico e, come in un puzzle, il disegno complessivo va delineandosi poco alla volta, attraverso l’avvicendamento di episodi trasversali e personaggi marginali che spesso hanno poco o nulla a che fare con la rappresentazione teatrale, ma che poi vengono tutti per qualche motivo a intrecciarsi intorno al fatidico nucleo drammaturgico centrale. Alla fine dell’indice Camilleri afferma addirittura che la successione dei capitoli non è che una semplice proposta e che il lettore può, se lo vuole, stabilire una sua personale sequenza, un po’ come in “Rayuela” o “Componibile 62” di Cortazar. La storia raccontata non è comunque né cervellotica né complicata, almeno per chi è abituato alle “storie semplici” di Sciascia, con i casi insabbiati, i depistaggi delle indagini, la connivenza tra la mafia e i rappresentanti dello Stato, la negligenza delle istituzioni, e così via dicendo. Camilleri prende spunto da un fatto realmente accaduto, ripreso da un’inchiesta parlamentare sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia del 1875, in cui viene citata la rappresentazione, duramente contestata dalla cittadinanza, del “Birraio di Preston” nel nuovo teatro di Caltanissetta, per impartirci, alla sua maniera, ossia con garbo e leggerezza, una inimitabile lezione di storia siciliana, che permette al lettore di questa vicenda dai risvolti tragicomici, apparentemente anacronistica (essendo ambientata oltre un secolo fa), di rendersi conto di cosa ci sia veramente alle radici della odierna situazione di arretratezza e di degrado in cui versa l’isola, molto più e molto meglio che se leggesse un trattato di storia contemporanea.
Indicazioni utili
"Una storia semplice" di Leonardo Sciascia
L'AMORE CASTO
“Il disegno del piviere” è il seguito che Kawabata ha voluto dare, a un anno di distanza, al suo romanzo di successo “Mille gru” e – va detto subito – presuppone nel lettore la conoscenza del predecessore, pena l’incomprensibilità di alcuni passaggi narrativi. I personaggi de “Il disegno del piviere” sono infatti gli stessi di “Mille gru”, anche se la storia è posteriore di circa un anno e mezzo, lasso di tempo nel corso del quale sono avvenuti ben due colpi di scena. Da una parte, Fumiko, che si poteva sospettare essersi suicidata (dal momento che si era congedata da Kikuji con la frase sibillina “la morte attende ai miei piedi”), è in realtà partita per un viaggio in un paese lontano, facendo perdere le sue tracce e ricomparendo nella vita di Kikuji solo in forma epistolare. Dall’altra, Yukiko, che la diabolica Chikako aveva detto, alla fine del libro precedente, essersi già maritata con un altro pretendente, all’inizio del nuovo romanzo è invece appena diventata la signora Mitani, ossia la moglie di Kikuji. Durante la luna di miele, Kikuji, che in “Mille gru” era diventato l’amante della madre di Fumiko e – per una notte – della stessa Fumiko, non riesce a consumare il matrimonio, ossessionato dalla vergogna e dai sensi di colpa per le sue precedenti avventure erotiche, quasi che esse potessero profanare la purezza di Yukiko, per la quale egli prova un profondo senso di tenerezza e di gratitudine. Il romanzo sarebbe in fondo tutto qui, con in più la comparsa fugace di Chikako, vero e proprio “diabolus” ex machina, nei momenti più imbarazzanti della vita coniugale dei novelli sposi, ed i genitori della ragazza che sospettano (ma forse è solo la cattiva coscienza di Kikuji a farglielo vedere) l’infelicità della figlia, se non fosse che il capitolo centrale è dedicato alle lettere scritte da Fumiko a Kikuji. Se da un lato questa parte appare abbastanza pleonastica e ridondante, poiché rivela nei minimi dettagli ciò che era accaduto nel libro precedente e che era rimasto ammantato da un suggestivo alone di reticenza e di mistero, dall’altra va riconosciuto che la forma epistolare (come in molte altre opere che, da quando è nata la letteratura, hanno usato questo espediente) è quanto mai congeniale per entrare nella psicologia del personaggio di Fumiko, permettendo di rompere, in una sorta di autoanalisi priva di remore e di inibizioni, quel muro di riserbo che i rapporti formali, soprattutto in una cultura cerimoniale e formalistica come quella nipponica, avrebbero giocoforza innalzato. Grazie alle lettere, Fumiko si mostra al lettore senza filtri, per quello che realmente è, una donna sofferente e innamorata che sceglie – quasi per espiare la vergognosa colpa per il suicidio della madre e il cocente rimorso per essersi concessa, in un obnubilante momento di abbandono erotico, all’uomo che segretamente ama, ma che della madre era anche stato l’amante – di fuggire lontano, senza dare preavvisi e spiegazioni, in quello che ufficialmente è un viaggio per visitare per la prima volta il remoto paese natale del padre, ma che in realtà è un vero e proprio esilio (dall’amore e dalla vita) autoinflitto per tacitare una coscienza esacerbata.
Nonostante il matrimonio, Kikuji – che, lo ricordo, è un personaggio estremamente abulico e passivo, una sorta di versione giapponese dell’inetto a vivere sveviano, oscilla inconsciamente tra le due donne della sua vita, non riuscendo a liberarsi del ricordo della prima (che era “come una farfalla fantasma che volteggiasse nella sua mente. Gli sembrava di sentire sempre il palpitare di quelle ali nelle profondità oscure dei suoi pensieri”) né a concedersi pienamente alla seconda. “Era come se le figure delle due giovani si fossero fuse in un’unica creatura irraggiungibile”, e questo chimerico ircocervo sentimentale strazia Kikuji, inducendolo al tormentoso pensiero su “che senso avesse in fin dei conti essersi sposato”. Nella apparentemente idilliaca vita di coppia trapelano pertanto, sempre più minacciosi e frequenti, dei lampi di ambiguità, di impalpabile disperazione, i quali si materializzano nelle navi da guerra americane che svegliano in piena notte i due coniugi con l’assordante rumore delle loro esercitazioni notturne. Il romanzo ha un finale aperto e inconcluso il quale, a pensarci bene, avrebbe anche potuto legittimare un ulteriore seguito, cosa che per fortuna non è avvenuta, dal momento che lo stesso “Disegno del piviere”, pur impreziosito da un raffinato simbolismo (ad esempio, la bambina caduta dal ponte, e salvatasi perché il suo corpicino è finito proprio in mezzo a tre rocce, fa ottimisticamente pensare a Fumiko che ci sia sempre una opportunità di salvezza, anche tra le pietre del peccato e della corruzione) e dalle consuete immagini di oggetti tradizionali (tazze e vasi per la cerimonia del tè) che richiamano metaforicamente concetti di bellezza e di armonia i quali, come l’amore, sono costantemente minacciati dalla mediocrità e dalla volgarità dei tempi moderni, lo stesso “Disegno del piviere” – dicevo - non aggiunge in fondo molto di più a quello che Kawabata ci aveva già generosamente elargito in “Mille gru”.
Indicazioni utili
L'AMORE SACRIFICATO
In uno dei più bei film della storia del cinema, “In the mood for love”, girato all’inizio del nuovo millennio dal regista hongkonghese Wong Kar-wai, i due protagonisti sono un uomo e una donna, vicini di casa, i quali, traditi dai rispettivi consorti, intessono una delicata e struggente relazione platonica, fatta di sentimenti inespressi, emozioni trattenute e segreti taciuti. Questi due indimenticabili personaggi cinematografici mi hanno ricordato il rapporto, per molti versi analogo, intessuto da Kikuji e Fumiko nel corso del breve romanzo di Yasunari Kawabata “Mille gru”. Qui non ci sono dei coniugi fedifraghi a condizionare la relazione, ma due genitori che in passato sono stati amanti e che, pur morti entrambi, continuano a far sentire i loro influssi sui due discendenti, trasformandoli in simboli delle occasioni mancate e dell’amore procrastinato. La persistenza del ricordo dei morti nella vita dei vivi, la quale crea un paradosso tale che questi ultimi sono figure più sbiadite e passive di coloro che, pur non essendoci più, purtuttavia fanno sentire la loro ingombrante presenza, così come l’ineliminabile permanenza del passato nelle cose (l’ombra del rossetto della signora Ota sulla tazza da tè), mentre la fisionomia delle persone fatalmente svanisce col tempo (Kikuji ricorda di Yukiko il fazzoletto che indossava il giorno in cui l’ha conosciuta, ma non riesce più a rammentare il suo viso), sono solo due dei temi di quest’opera caratterizzata da un’algida (e molto nipponica) eleganza formale e da una semplicità sintattica capace di nascondere sotto la sua cristallina superficie una apprezzabile profondità tematica. “Mille gru” è un romanzo che, pur nella sua apparente astrazione, mette in primo piano, assai più che le persone, gli oggetti (il fazzoletto col disegno bianco delle gru al collo di Yukiko, il vaso cilindrico con l’omaggio funebre in onore della signora Ota, ecc.), i quali da una parte hanno un forte significato simbolico, come nel capitolo conclusivo in cui la scomparsa di Fumiko viene anticipata dalla rottura della coppa Shino, dall’altra si elevano dalla loro materica concretezza per farsi ipostasi di concetti come la bellezza e l’armonia, valori di un mondo in cui la forma sublima le imperfezioni della vita, assorbendo paure, meschinità e sensi di colpa. Pace, compostezza e serenità spirituale trapelano così dalle tante cerimonie del tè cui assistiamo nel corso dell’opera, in cui l’accostamento dei colori di tazze, bricchi e teiere e la giusta corrispondenza di fiori e disegni con la stagione in corso assumono un’importanza tale da poter essere compresa solo da un pubblico iniziato e sensibile alle filosofie orientali e alla disciplina zen. E’ forse per questo che “Mille gru” è visto da molti come l’archetipo di una “giapponesità” ideale e fuori dal tempo, fatta di variopinti kimoni tradizionali, eleganti padiglioni del tè e compunti maestri di cerimonia. In realtà lo sguardo di Kawabata è tutto tranne che artefatto e manierato, come questa visione lascerebbe presumere. Basti pensare al fatto che la cerimonia del tè, con la sua ritualità quasi religiosa e la sua raffinatezza di gesti e suppellettili, è appannaggio nel libro di un personaggio negativo come Chikaku, sgradevole e ripugnante come la voglia che porta sul seno, donna insinuante, furba e intrigante, una mezzana falsa e calcolatrice che, con la ipocrita pretesa di aiutare Kikuji a trovar moglie, persegue solo i propri meschini obiettivi. D’altro canto Kikuji e Fumiko non hanno alcun interesse a coltivare questa tradizione, da loro considerata come un retaggio del passato. Si insinua pertanto nella prosa di Kawabata, al di là della sua apparente perfezione formale, una notevole ambiguità tematica: da una parte la cerimonia del tè rappresenta infatti i valori di un mondo che, come i genitori morti, è ormai scomparso ed è visto con una sorta di idealizzata nostalgia, dall’altra essa rivela i limiti di un formalismo che intralcia l’avvento dei tempi nuovi (si veda il bricco Shino che Kikuji tenta inutilmente di convertire in vaso da fiori), Nella cerimonia del tè Kawabata delinea quindi il dissidio interiore di una nazione sospesa tra tradizione e modernità, tra rimpianto dei bei tempi andati e l’affermazione inesorabile dei modelli di vita occidentali. Kikuji, uomo debole, irresoluto e senza volontà, goffo e spesso interdetto nel corso dei dialoghi con le donne (più simile in questo ai personaggi di Tanizaki, come il Kaname de “Gli insetti preferiscono le ortiche”, che a quelli di Mishima), un inetto a vivere irretito e manipolato in una spregiudicata partita di scacchi in cui lui è, pur ignorandolo, una semplice pedina e le due giovani “candidate”, Yukiko e Fumiko, la posta in gioco, Kikuji – dicevo – sta in mezzo a tutto ciò, incapace di scegliere quello che gli suggerisce il cuore e di adeguarsi tanto al passato e al suo lascito emotivo e materiale (la casa di famiglia e gli oggetti ereditati della cerimonia del tè che dice più volte di voler vendere) quanto al futuro di una vita matrimoniale desiderabile e non imposta dall’esterno. “Mille gru”, in cui i cinque capitoli sono quasi dei racconti perfettamente compiuti e autosufficienti, ha un finale aperto, triste e malinconico, che ha reso possibile, a distanza di un solo anno, un suo seguito, “Il disegno del piviere”.
Indicazioni utili
ACARI E DEI, CROCI, MEZZELUNE E RUOTE DENTATE
“Il delirio non è una scoria della realtà, ma è parte di essa, e a volte la sua parte più preziosa.”
“E all’improvviso […] mi ha colto un terrore che nemmeno nei miei sogni più spaventosi ho mai provato; non di morte, né di sofferenza, né di orribili malattie, né dello spegnimento dei soli; il terrore al pensiero che non capirò, che la mia vita non è stata sufficientemente lunga e la mia mente sufficientemente abile per capire. Che mi sono stati dati tutti gli indizi e non ho saputo leggerli. Che marcirò anch’io per niente, nei miei peccati e nella mia stupidaggine e nella mia ignoranza, mentre il fitto, intricato, pressante enigma del mondo perdurerà, limpido, naturale come il respiro, semplice come l’amore e che sfocerà nel nulla, immacolato e insoluto.”
In “Netocka Nezvanova”, un romanzo giovanile di Fedor Dostojevskij rimasto incompiuto, e perciò sconosciuto ai più, il patrigno della protagonista, Efimov, è un violinista di provincia dal grande, smisurato talento, ma, incapace com’è di applicarsi e di studiare come l’arte musicale richiederebbe, rimane inesorabilmente un dilettante, una promessa non mantenuta, un artistucolo il cui brillante futuro si sgonfia di fronte alla cruda legge della realtà, in cui la sregolatezza soffoca il genio e il fallimento uccide i sogni di gloria. Efimov, questo uomo “per sempre morto all’arte”, è uno dei tanti uomini del sottosuolo dostojevskijano, ma paradossalmente ha trovato un suo emulo contemporaneo nel narratore di “Solenoide”, il quale altri non è se non Cartarescu stesso, ma non il Cartarescu scrittore di fama, idolatrato da una folta e affezionata schiera di estimatori, bensì una sorta di suo doppio sfortunato il quale, nonostante la sua divorante passione per la poesia, semplicemente non ce l’ha fatta ad affermarsi ed è stato costretto a mettere le sue ambizioni artistiche in un cassetto e a guadagnarsi il pane svolgendo l’umile, routinario e malpagato mestiere di professore in una fatiscente scuola della periferia di Bucarest. Come il Borges de “Il giardino dei sentieri che si biforcano” o l’Auster di “4 3 2 1”, Cartarescu immagina che la presentazione a un reading letterario di un suo poema giovanile, nel quale riponeva enormi aspettative, si sia rivelata, a differenza di quanto effettivamente avvenuto nella sua biografia reale, un fiasco clamoroso e che questo trauma, e l’incapacità di superarlo, lo abbia fatto desistere dall’intraprendere la carriera di scrittore. Come una moneta lanciata in alto e caduta sul lato sbagliato, la sua esistenza ha preso perciò di colpo una piega differente, lasciando l’altra possibile vita (insieme alle infinite altre vite che non si sono realizzate, perché “sbatto ora le palpebre e la vita mi si ramifica, perché avrei potuto non battere gli occhi e allora sarei stato un altro, sempre più lontano da colui che li ha battuti, come le vie che si dipartono da un’angusta piazza”) una mera virtualità (ad un certo punto il narratore si diverte a immaginare il se stesso fallito che, in coda per farsi autografare la copia dell’ultimo libro pubblicato, incontra il “gemello” diventato uno scrittore affermato, in un paradosso che ricorda certi controintuitivi esperimenti della fisica quantistica, come quello, famoso, del gatto di Schroedinger).
Il narratore di “Solenoide” non rinuncia del tutto a scrivere, ma confina la sua passione di grafomane alla redazione di un anonimo manoscritto in cui registra scrupolosamente gli avvenimenti della sua vita, e soprattutto gli strani sogni che lo ossessionano fin dalla adolescenza. Addirittura egli arriva a giudicare in maniera estremamente negativa tutti quei romanzi che, celebrati da critici e lettori, affollano l’ideale museo della letteratura, i quali non fanno altro che dipingere sulle sue pareti, in trompe-l’oeil, porte ritratte meravigliosamente, con una minuziosità e un preziosismo ammirevoli, ma che in fin dei conti non si aprono da nessuna parte, e che quindi “eludono l’unica ragione di essere che la scrittura abbia mai avuto: quella di comprendere te stesso fino in fondo”. “Un libro, perché significhi qualcosa – sostiene Cartarescu –, deve indicare una direzione […], deve essere un segnale […], deve richiedere una risposta”, ed è per questo che gli unici testi che andrebbero letti sono quelli non artistici e non letterari, “quelli che i loro autori hanno avuto la follia di scrivere, ma che sono scaturiti dalla loro demenza, tristezza e disperazione come delle sorgenti di acqua viva” e “che hanno scritto su ogni pagina l’unica parola che conta: io”. I libri devono essere messaggi, vangeli, piani di fuga per evadere da quella ripugnante e desolata prigione che è il nostro mondo, ma questi libri i professionisti interessati solo a festival, premi, autografi e interviste, e alla perenne ricerca di un posto d’onore nella storia della letteratura, non sono in grado di scriverli.
Ora, tralasciando il fatto che Cartarescu, autore – non dimentichiamolo – in odore di Nobel, possa sinceramente invidiare il destino di un suo doppio fallito, che è un po’ come se un miliardario rimpiangesse la vita libera e senza preoccupazioni di un nullatenente, è assai interessante soffermarsi sulla filosofia che sta dietro le pagine di “Solenoide”. La posizione di Cartarescu si potrebbe definire, con qualche approssimazione, esistenzialista. Il mondo è spaventoso, crudele e senza significato, “ci schiaccia osso dopo osso nel suo abbraccio”, e l’uomo, nella sua breve esistenza, sperimenta la disperazione più profonda, quella di essere solo e impotente, sostanzialmente privo di libero arbitrio, “rinchiuso nella goccia d’ambra del suo destino”, come in una tomba in cui è condannato a marcire da vivo, sconvolto dal terrore (“La realtà è soltanto paura allo stato puro, paura rappresa. Vivo nella paura, respiro paura, deglutisco paura, verrò seppellito nella paura”), L’uomo, o perlomeno colui che è in qualche modo un eletto, un predestinato (e “Solenoide” è pieno di queste persone, da Charles Howard Hinton, il creatore del tesseratto, un ipercubo quadridimensionale, a Nicolae Minovici, che disegnava le visioni avute durante le sue sedute di impiccagione controllata, da Nicolas Vaschide, l’onirista, lo studioso dei sogni, a Nikola Tesla, un cui discepolo dissemina di solenoidi, in corrispondenza di misteriosi nodi di energia, il sottosuolo di Bucarest), intuisce però che la realtà non si esaurisce in ciò che è percepito dai suoi sensi limitati, che c’è qualcos’altro, un oltre enigmatico e inconcepibile verso cui tendere, se solo fosse in grado di riconoscere i segni, interpretare le chiavi, decifrare le croci, gli asterischi e le ruote dentate di cui è composto quel gigantesco crittogramma che è la sua esistenza. Come una figura che vive in un foglio bidimensionale non può oltrepassare i suoi margini se non capisce che l’unica uscita è perpendicolare al foglio, nell’inconcepibile terza dimensione, così noi che viviamo nella terza dimensione dovremmo cercare di intuire e di trovare la pagina cubica in cui è scolpita la realtà superiore, e così respirare l’aria pura che ci permette di non morire soffocati nell’angusta cella della nostra vita così sconsolatamente limitata. La vita è perciò come un gioco di abilità, un test di perspicacia, un puzzle a due facce di cui non conosciamo la figura complessiva, un complicatissimo cubo di Rubik da ricomporre con tutte le facce dello stesso colore, e il romanzo stesso diventa quel gioco, quel test, col protagonista che, scavando nel suo passato così come nel suo inconscio, e sceverando i segni fatidici dalle mere coincidenze, tenta di dare una spiegazione a tutte quelle anomalie (bizzarre levitazioni, visite notturne di personaggi misteriosi, sogni stranissimi eppure di una concretezza straordinaria) di cui è costellata la sua esistenza. Al pari del narratore, il lettore stesso è chiamato, come se si trattasse di un giallo metafisico, a riconoscere i segnali, gli enigmi, le allegorie sparsi nelle mille pagine del libro per cercare di addivenire, come se avesse davanti agli occhi un autostereogramma, alla visione fatale della quarta dimensione.
Cos’è, venendo al dunque, la quarta dimensione per Cartarescu? Ricordo che un giorno mi imbattei in un’opera di C.S. Lewis (“Il cristianesimo così com’è”), in cui Dio era paragonato a uno scrittore che vive fuori dal tempo interno del racconto (quello per cui un personaggio deve lasciarsi alle spalle A prima di arrivare a B e non può raggiungere C senza abbandonare B) e che può pertanto contenere in un unico pensiero tutta la storia dei suoi personaggi, dall’inizio alla fine. Analogamente, gli abitanti (dei, angeli, demoni?) di un mondo a quattro dimensioni sapranno sempre su quale lato, testa o croce, cade la moneta nel nostro mondo, e conosceranno il futuro altrettanto bene che il passato. Di fronte a loro, inattingibili e inafferrabili, noi siamo come degli acari che scavano inconsapevolmente delle gallerie nella loro pelle, ignorando del tutto quali possano essere i loro trascendenti pensieri e i loro straordinari poteri, così come un acaro che vive nella mia epidermide non riuscirà mai a raggiungere la profondità delle mie percezioni e dei miei ragionamenti logici. A un certo punto del romanzo, Cartarescu porta alle estreme conseguenze la sua fantasmagorica metafisica, immaginando, con un vertiginoso sforzo mentale che sembra avere più a che fare con gli effetti visionari di un trip allucinogeno che con le ponderate elucubrazioni di una dissertazione filosofica, la presenza di più universi, di più dimensioni, di più spire, differenti per dimensione, ordini e livelli di complessità, ma tutti ugualmente permeabili tra loro, se solo ci si sforza di non accontentarsi del proprio mondo, della propria contingente realtà, ma si cerca di interpretare ed accogliere i segnali provenienti dal misterioso aldilà. Se un foglio di carta, piegato cinquanta volte, può arrivare fino alla luna, è allora ipotizzabile che non solo vi sia una divinità nei cui confronti siamo come degli acari, ma che a sua volta questa divinità sia senza saperlo su un vetrino tenuto fra le dita di un dio ancora più elevato, e così all’infinito. In una pagina geniale che non teme di apparire blasfema, Cartarescu immagina addirittura una sorta di bizzarra transustanziazione, di grottesca incarnazione, in cui il narratore viene inviato dal bibliotecario-demiurgo Palamar a diffondere, in una colonia di acari da quest’ultimo allevati sulla propria epidermide e lui stesso trasformato in acaro, un paradossale messaggio di salvezza, in uno spericolato parallelo zoomorfo con la vicenda raccontata dai Vangeli.
Affrontando il romanzo di Cartarescu, il lettore deve sospendere spesso e volentieri l’incredulità. “Solenoide” è infatti un’opera che introduce nel suo impianto sostanzialmente realistico, similmente a un autore come Murakami, massicce dosi di fantastico. Ho già accennato alle levitazioni e ai visitatori notturni, ma in “Solenoide” c’è molto di più: un’enorme statua in bronzo che prende vita come un moderno golem, sorveglianti di un sanatorio per bambini tubercolotici che si rivelano essere degli automi, cortocircuiti temporali (la moglie del narratore che, attraverso la fessura di una finestra, guarda inopinatamente negli occhi lo stesso narratore bambino, e questi si ricorda di come moltissimi anni prima, dall’altra parte di questa finestra, aveva visto la donna che un giorno sarebbe diventata la sua compagna), fino ad arrivare alla scena miyazakiana della città di Bucarest che, sospinta dai solenoidi, si solleva dalla terraferma e inizia a galleggiare nell’aria. Il surrealismo allucinatorio di Cartarescu, influenzato dai meccanismi psichici dell’attività onirica (fondamentale nell’economia del romanzo, al punto che lunghe pagine sono dedicate alla descrizione dei sogni del protagonista), mi ha ricordato molto un pittore come Salvador Dalì (penso a dipinti come il “Sogno causato dal volo di un’ape” o a “La tentazione di Sant’Antonio”, tra l’altro citato espressamente nel testo), ma anche uno scrittore come Kafka (che, tra l’altro, annotava meticolosamente i suoi sogni nei diari), soprattutto in quelle pagine in cui la casa a forma di nave in cui vive il protagonista (come il palazzo imperiale di “Un messaggio dell’imperatore”) pare a volte essere sconfinata, ed egli vi si aggira per ore, percorrendo chilometri di corridoi, attraversando infinite stanze, ritrovandosi in saloni non solo sconosciuti ma anche lontani nel tempo e nel ricordo, prima di giungere alla propria camera da letto. Sono immersioni vertiginose nei meandri labirintici della propria psiche e del proprio inconscio, come quando il narratore bambino, una notte, trovando l’ascensore guasto, scende per ore le scale dell’edificio in cui vive con la famiglia, senza riuscire a trovare l’uscita ed entrando invece in un mondo fantastico pieno di caverne misteriose e creature inquietanti. “L’intera mia vita è onirica”, afferma Cartarescu, e con questo intende non tanto, o non solo, che tutto accade in sogno, ma che i sogni e le altre manifestazioni dell’inconscio penetrano all’interno del mondo diurno fino a determinarlo e a diventare parti essenziali, insopprimibili, di esso, così come l’infanzia influenza profondamente l’età adulta e più in generale l’interiorità, lo spirito condizionano la realtà fino a farla identificare con essi (Cartarescu si definisce un “agrimensore e cartografo, esploratore delle protuberanze e dei sotterranei, delle botole e delle carceri della mia mente”). Alla luce di quanto detto, il lettore deve aspettarsi letteralmente di tutto, a partire dall’ambientazione stessa, una Bucarest indimenticabile, nel bene e nel male, e che, così come il protagonista è un doppio virtuale dell’autore, sembra essere una copia fantasmatica della reale capitale romena, definita da Cartarescu come la città “più triste del mondo”, progettata e costruita fin dal principio come una città già in rovina (“questo oceano di tetti bizzarri e di figurine di gesso sbeccate, di muri ciechi e di lucernai con i vetri rotti”), ma al tempo stesso – paradossalmente – l’unica davvero autentica. Bucarest è “un grande museo a cielo aperto, museo della malinconia e del decadimento di ogni cosa”, ma lo scrittore non si stanca mai di descriverla con un affetto che traspare da ogni riga.
Non so se la mia lettura sarà condivisa da tutti, ma a me “Solenoide”, tra le innumerevoli interpretazioni che gli si possono affibbiare, è parso anche una intelligente metafora del comunismo, con l’evasione dal nostro mondo verso la quarta dimensione che diventa la fuga dal regime di Ceausescu alla volta di un Occidente enigmatico e incomprensibile, ma incontestabilmente più libero e democratico (non è un caso che le vicende del romanzo si collochino nei premi anni ’80). Lascio a chi leggerà queste righe la confutazione della mia ipotesi, fatto sta che la decisione finale del protagonista, ovverossia la scelta dell’amore terreno per la propria famiglia e per i propri simili (e quindi, parlando fuor di metafora, del proprio paese, della propria terra) a scapito di una conoscenza superiore e di una verità trascendente a lungo agognate (l’esilio), collima con la biografia dell’autore, come se, in una sorta di tardiva resipiscenza, di posticcio happy end, egli avesse deciso di riunire le traiettorie divergenti dei suoi antitetici io, come binari di un treno che dapprima si allargano e si allontanano per poi invertire la direzione e rincontrarsi definitivamente. Finale a parte, non nego che qualche perplessità “Solenoide” me l’ha lasciata. Partendo, come già accennato in apertura, da una posizione esistenzialista (il mondo è orribile e senza senso, e la fuga da esso, come la rivolta di Camus, è l’unica strada praticabile per strappare un significato all’assurdità della condizione umana), e passando attraverso il nichilismo del connazionale Cioran (il “mistico senza Dio” che sostiene che l’uomo è sì consapevole di essere libero ma al tempo stesso è prigioniero nell’angusta cella dell’universo, e può salvarsi solo in forza di se stesso, attraverso la disperata negazione del valore positivo del mondo), Cartarescu approda alla fine a uno gnosticismo (la fuga dal mondo materiale per abbracciare una realtà superiore, trascendente, spirituale) che assomiglia molto più a Gurdjieff (la sua “quarta via” richiama inevitabilmente la quarta dimensione di “Solenoide”) o a Madame Blavatsky, se non addirittura all’esoterismo o alla new age, che a Sartre o a Cioran. Del resto Cartarescu osa consapevolmente il kitsch più deteriore (penso alla setta dei manifestanti, che protestano davanti a cimiteri, ospedali e obitori contro la morte e la sofferenza, contro il destino e la tirannia della caducità, con cartelli su cui sono scritti slogan tipo “Boicottate l’agonia!”, “Abbasso la leucemia!”, “Stop agli ictus!”), ma va comunque apprezzato per il suo inesausto tentativo, durato quasi mille pagine, di “esprimere l’inesprimibile, percepire l’impercettibile, intuire ciò che non è intuitivo”, pur conscio che ci vorrebbe un numero molto superiore di sensi, al di là dei cinque, modesti e limitati, a disposizione dell’uomo per riuscirci.
Cos’è quindi, alla fine dei conti, “Solenoide”? Parlare di “romanzo-mondo” appare quasi riduttivo, tanto grandi sono i territori che, forse avventatamente, pretende di esplorare, non sempre riuscendo a tenerli insieme in una struttura omogenea e coesa. Forse sarebbe più facile provare a dire cosa “Solenoide” non è. Usando le parole stesse di Cartarescu, le storie di “Solenoide” “non sono romanzo e nemmeno poema, poiché esse non sono finzione (o non del tutto), né studio oggettivo, dal momento che molte delle mie vicende sono singolarità che non si lasciano riprodurre nemmeno nei laboratori della mia mente. […] Le storie del mio resoconto saranno fantomatiche e trasparenti, ma sono così i mondi in cui viviamo simultaneamente”. Indipendentemente da ogni definizione, “Solenoide” è un libro scritto meravigliosamente bene, e di fronte a tale sfoggio quasi esagerato di bravura il lettore non può che rimanere abbagliato, irrimediabilmente conquistato da uno stile sintatticamente ricco e variegato, lessicalmente prezioso e ricercato, barocco senza mai essere ridondante, immaginifico ma sempre con un occhio alla realtà, complesso senza mai essere arzigogolato, sempre pienamente comprensibile anche nelle sue pagine più astruse. Ritengo che pochi scrittori al mondo sarebbero in grado di definire il battito delle palpebre come “una brezza petaloidea”, o le minuscole finestre di una casa come “simili ai pori di una friabile madrepora”, o ancora i ricordi dell’infanzia e gli altri reperti di un’intera vita che il narratore colleziona compulsivamente come “quisquilie eterotopiche”, per fare solo alcuni esempi pescati tra innumerevoli altri. Del resto, Cartarescu è straordinariamente abile a scrivere pagine memorabili anche su avvenimenti semplici o addirittura prosaici, come le abluzioni in una vasca da bagno o perfino l’atto quotidiano della minzione. Se il tono dell’opera è profondo ed elevato, non mancano però le pagine argute e spiritose, normalmente riservate alla vita scolastica del protagonista, come il premio scolastico dell’ateo migliore, per aggiudicarsi il quale gli studenti si prodigano in una gara di sputi per colpire l’icona sacra della professoressa Radulescu, oppure la tragicomica raccolta obbligatoria da parte degli studenti di bottiglie vuote e di cartastraccia. In un romanzo dalla innegabile impronta autobiografica (soprattutto nelle pagine dei ricordi dell’infanzia del protagonista), a sorprendere di più sono però le geniali metafore che Cartarescu dissemina con doviziosa generosità. Cartarescu ad esempio paragona l’umanità, che produce indefessamente e incurante della propria caducità le poesie e i quadri, i monumenti e le chiese, le idee e gli ideali destinati a sopravviverle, a una chiocciola, verme molle e appiccicoso, la quale secerne con fatica, trasformando la bava in madreperla, la meraviglia geometrica della sua conchiglia a spirale, “icona immortale nel mondo platonico della mente”. E, qualche pagina dopo, definisce coloro che sognano come dei pescatori di perle, che scendono nottetempo nelle acque profonde della mente e riemergono, quasi asfissiati, stringendo tra le dita (ma più spesso tornando a mani vuote, perché i sogni si sono dissolti al risveglio) le perle preziose costituite dai “piccoli frammenti della nostra interiorità vellutata”. Parlando di metafore mi viene giocoforza in mente il nome di Marcel Proust, uno scrittore che maneggiava queste figure retoriche in maniera altrettanto sapiente. Il paragone con l’autore francese non è del tutto peregrino, perché sia Proust che Cartarescu cercano nelle loro opere, ostinatamente, di recuperare il tempo perduto dell’infanzia. Se però il tentativo di Proust è destinato al successo e il miracolo della resurrezione del passato riesce epifanicamente a realizzarsi, per Cartarescu i dentini da latte, le treccine infantili, le foto in bianco e nero di quando era piccolo che il narratore conserva in una scatola come il lascito prezioso di un’epoca d’oro non si trasformano mai nelle madeleine e nelle irregolarità del macadam della “Recherche” e rimangono inesorabilmente “prigionieri di una bolla d’aria fatta del cristallo enigmatico del ricordo”, prove semmai dell’irrealtà del tempo, segni tangibili di un “universo privo di confini e privo di senso”. Anziché il recupero del tempo perduto, assistiamo qui a un’allucinante moltiplicazione, per nulla confortante, del passato, con la inquietante coesistenza di tutti quei miliardi di io, ognuno più giovane dell’altro di qualche secondo, che il narratore, crescendo, si è lasciato dietro come la muta di un insetto e che nel finale egli addirittura vede, come in un allucinante film in 3D, stesi, uno accanto all’altro, sui tavoli dell’obitorio. I ricordi sono solo proiezioni illusorie delle ombre del passato nel nostro cervello, ma non sono in grado di farci riconoscere alcunché. Eppure, nonostante la chimerica fallacia della letteratura, di cui parlavo all’inizio di questa recensione (“la letteratura è un museo chiuso ermeticamente, un museo delle porte illusorie, […] una macchina che produce dapprima felicità, poi delusione”), e l’impotenza dello scrittore a riportare in vita il passato, a essermi rimasta alla fine maggiormente impressa, gemma minuscola e quasi invisibile all’interno di un libro ciclopico, è proprio una breve pagina che descrive la meraviglia provata dal narratore bambino al cospetto del suo primo libro: “Il mio mondo sparisce e, come negli alambicchi contorti del sogno, appare all’improvviso un altro mondo, un altro spazio visivo e mentale, nel quale mi dissolvo con uno stupore solenne. […] Leggevo, sull’altalena verde, questa prima pagina di un grande libro, bianco, e non riuscivo a credere, non che qualcuno l’avesse potuto scrivere, ma che io fossi capace di riceverlo, di decifrarlo, di trasporlo dalla logica di un’altra mente alla logica della mia mente, che rivestissi il suo scheletro con articolazioni fini e simmetriche, con ossa agili del testo con la carnagione della mia stessa vita, dei miei diretti ricordi. […] Un uomo morto da tanto aveva impiantato, nel mio cervello, un innesto, uno spicchio del suo cervello. […] L’autore era il lettore, il lettore era l’autore, come alle due estremità di un ponte su cui circolano le allucinazioni. Ero in lui, e lui, benché morto da tanto, viveva in me.” Una magia che tutti coloro che sono amanti dei libri, devoti sacerdoti di quella strana, totalizzante, e per molti incomprensibile, religione che è la lettura, avranno sicuramente riconosciuta, avendola sperimentata in maniera altrettanto stupefacente, in un tempo ormai lontano ma indelebilmente impresso per sempre, come un marchio di ferro rovente, nella propria memoria.
Indicazioni utili
LA SPOON RIVER DI RULFO
“Quelle ore sono piene di spiriti. Se lei vedesse la quantità di anime che se ne va in giro per le strade. Quando fa buio cominciano ad uscire. […] Un puro vagabondare di gente che è morta senza perdono e che non l’otterrà in nessun modo”
Se si volesse riassumere in due parole la storia di “Pedro Paramo” si potrebbe dire che è il viaggio di un figlio alla ricerca di un padre che non ha mai conosciuto, oppure la descrizione dell’ascesa e della caduta di un uomo che, partendo dal nulla, riesce a diventare, grazie al suo cinismo e alla sua spregiudicatezza, l’uomo più ricco e potente della regione; se si volesse sintetizzare in siffatta maniera questo libricino di poco più di cento pagine si finirebbe però per non cogliere affatto il senso della straordinaria operazione realizzata da Juan Rulfo, misconosciuto autore di due soli libri (e come tale citato da Vila-Matas nel suo “Bartleby e compagnia”), il quale ha composto un’opera enigmatica, inafferrabile, caleidoscopica e sfrangiata, ambientata in un tempo immobile e sospeso nel quale il protagonista (apparente) Juan Preciado, recatosi a Comala per rispettare le ultime volontà della madre morente e, rintracciando l’uomo che dà il titolo al romanzo, “fargli pagare caro l’oblio in cui ci ha lasciati”, finisce per smarrirsi come in un sogno, perdendo progressivamente, oltre alla capacità di distinguere reale e irreale, presente e passato, anche il suo stesso ruolo di narratore. Una moltitudine di personaggi emerge implausibilmente dalle nebbie di una storia antica, fragili, ectoplasmatiche presenze che si affacciano alle soglie della vita spinte dall’impellente bisogno di far rivivere i loro tristi e dolorosi ricordi, come se la sofferenza non potesse mai avere veramente fine e si perpetuasse in un’eco infinita, incapace di dissolversi nella quiete del tempo (come le urla dell’uomo impiccato anni prima che risuonano nella stessa stanza dove Juan Preciado sta cercando inutilmente di prendere sonno). Juan è come un Enea che si inoltra nell’Ade (fino a confondersi con i fantasmi incontrati per strada e svanire nella loro stessa irrealtà), ma l’Ade è proprio questo piccolo paesino che “sta sulle braci della terra, proprio nella bocca dell’inferno”, un villaggio “unto dalla sventura”, una terra di mezzo tra la vita e la morte, tra l’aldiqua e l’aldilà, in cui sembrano definitivamente abolite le normali leggi fisiche e temporali, e dove i morti vagano senza la consapevolezza dell’avvenuto trapasso, non tanto perché la morte appare come un continuum indistinguibile dalla vita, quanto perché è la vita stessa, nel suo doloroso e fatalistico avvicendarsi, ad avere le tragiche sembianze della morte, in un mondo in cui è preclusa ogni speranza di riscatto e “che ci stringe da tutti i lati, che sparge manciate della nostra polvere qua e là, facendoci in pezzi come se spruzzasse la terra con il nostro sangue”. Pian piano i sussurri, i mormorii che affiorano dalle umide e soffocanti notti di Comala si intrecciano e si fondono, fino a formare, come in un arazzo intessuto di fili di sangue, la sciagurata storia di Pedro Paramo, un “rancore vivente”, venuto su dal nulla “come un’erbaccia”, uno dei tanti cacicchi centro-americani che si son fatti largo nella vita a forza di soprusi e di violenze, calpestando con tracotante senso di impunità i diritti dei più deboli (alla madre venuta a piangere l’uccisione del figlio per mano di Miguel Paramo l’amministratore Fulgor Sedano offre come risarcimento 50 chili di mais, e quando racconta a Pedro Paramo il dignitoso rifiuto della donna, questi risponde sdegnosamente: “Non hai di che preoccuparti, Fulgor. Quella gente non esiste”), e piegando il potere della Chiesa (il donabbondiesco padre Renteria, che rifiuta l’assoluzione a una povera donna o una preghiera di suffragio a una suicida, ma non nega il perdono divino a chi, pur macchiatosi di crimini orrendi, elargisce laute elemosine) o della legge (il notaio connivente che falsifica gli atti di proprietà delle terre della Media Luna) ai propri loschi interessi. Anche Pedro Paramo ha però il suo punto debole, l’amore puro e incondizionato per Susana San Juan, donna bellissima ma debole di mente, la quale è un po’ come la Rosebud di “Quarto potere” (in quanto lo riporta agli anni dell’infanzia pieni di sogni e di passioni incontaminate) e la cui morte prematura (“Non esiste nessun ricordo, per intenso che sia, che non si spenga”) lo induce a ritirarsi dal mondo e a lasciarsi morire di tristezza.
“Pedro Paramo” è una sorta di Spoon River ispano-americana, in cui sulla malinconia del ricordo prevale l’irrequietezza del rimorso e del rimpianto, e in cui il coté surreale, con i suoi defunti che si affollano per narrare, ognuno a suo modo, le loro piccole, insignificanti storie, non pregiudica affatto né la descrizione lirica e potente di una natura fatta di cieli in cui piovono stelle cadenti, di nuvole che si lanciano sulla terra sconvolgendola e cambiandone i colori, di tramonti infuocati e di torrenziali acquazzoni che annegano la terra, né - soprattutto - la rappresentazione cruda e antiretorica, in qualche modo anche storica (ad un certo punto del libro si affaccia persino la rivoluzione messicana) di un mondo rurale popolato di contadini poveri e oppressi e di infelici donne in gramaglie che si trascinano tra messe e funerali, quasi che la circolarità del tempo del romanzo, in cui ciò che accade è in realtà già accaduto, fosse la metafora di un continente schiacciato da secoli di sopraffazione, di angherie e di corruzione, e condannato per questo alla marginalità e al sottosviluppo. Se di realismo magico si è tanto parlato, e giustamente, a proposito di Gabriel Garcia Marquez o di Isabel Allende, non bisogna dimenticare che la sua origine risiede proprio in questa esile ma originalissima e imprescindibile opera seminale, che si staglia come un diamante grezzo ma luminosissimo nel panorama della letteratura latino-americana moderna.
Indicazioni utili
ONANISMO DELLA DISPERAZIONE
“Per tutta la vita non ho visto che pazzi e ammalati. Dovunque io guardi, vedo soltanto dei moribondi, gente che va alla deriva e si guarda indietro per l'ultima volta.”
Di Thomas Bernhard avevo finora letto, lo confesso, solo i suoi ultimi testi letterari e teatrali, “Antichi maestri”, “Estinzione” e “Piazza degli eroi”. Non conoscendo pertanto il primo Bernhard ho trovato quanto mai sorprendente scoprire come lo scrittore austriaco sia sempre stato, nelle varie fasi della sua carriera, monoliticamente identico a se stesso, prefigurando già a trent’anni quella maniacalmente coerente, monotematica e intransigente costruzione artistica costituita dal corpus delle sue opere. “Perturbamento”, nonostante i due decenni che li dividono, non è infatti poi molto dissimile da “Estinzione”, entrambi essendo due variazioni ossessive, nichilistiche e terrificanti sul male di vivere contemporaneo. In questo che è, all’interno di una bibliografia assai consistente, solo il terzo romanzo dell’autore una differenza sostanziale, a dire il vero, c’è, ossia la presenza di un io narrante diverso da quello del protagonista principale (ciò non vale però per “Antichi maestri”, che ha una analoga struttura narrativa). La storia è vista infatti attraverso gli occhi di un giovane studente che accompagna il padre, medico condotto, durante un suo normale giorno di visite, percorrendo in lungo e in largo la regione della Stiria. Anche se il narratore si presenta come una persona equilibrata, un individuo che, grazie alla sua forza di volontà e al suo raziocinio, è in grado, a suo dire, di liberarsi dalla fatale attrazione dell’angoscia (“Dove prevale il raziocinio, la disperazione è impossibile”), fin dalle prime righe del romanzo fanno però capolino la morte, la malattia, la brutalità e la follia (“Lui era abituato, ormai, a essere vittima di una popolazione malata fino al midollo, portata alla violenza e anche alla pazzia”). L’episodio della morte della moglie dell’oste di Gradenberg, uccisa selvaggiamente, senza alcun motivo, da un minatore ubriaco, è fin troppo emblematico, ma proseguendo nel corso della giornata, intervallata da riflessioni sulla situazione non propriamente idilliaca della propria famiglia (la madre scomparsa da poco, la sorella che passa ininterrottamente dai pensieri di suicidio ai tentativi di suicidio, il padre con cui non riesce a comunicare), il ragazzo è costretto ad addentrarsi sempre più profondamente in un mondo in cui “tutto è malato e triste”, un universo dominato dall’ottusità, dalla degenerazione, dalla violenza e dalla volgarità: dalla signora Ebenhof, una malata terminale con il cruccio di un fratello omicida, suicidatosi appena uscito dal carcere, e di un figlio debole di mente, circuito dalla moglie, all’industriale, che vive segregato in uno sperduto padiglione di caccia, nel più totale isolamento dal mondo con il pretesto di un lavoro filosofico che continua maniacalmente a scrivere per poi distruggerlo e riprenderlo ogni volta da capo, e che per eliminare ogni fonte di distrazione fa abbattere tutti gli animali selvatici che vivono nei boschi circostanti; dal maestro che, in preda a un mortale ebetismo a causa della vita da miserabile che conduce, si dedica compulsivamente a disegnare “un mondo che annienta se stesso, con uccelli straziati, lingue umane lacerate, mani con otto dita, teste in frantumi”, al giovane Krainer, storpio e demente, che deturpa con scritte deliranti le preziose incisioni di famosi musicisti del passato appese nella sua stanza; attraverso questi disgraziati incontri padre e figlio sperimentano un orrore sempre più irredimibile, fino ad arrivare all’apice del raccapriccio nell’episodio degli uccelli esotici strangolati uno dopo l’altro dai figli del mugnaio, per far cessare le loro ininterrotte, insopportabili strida che stanno conducendo tutta la famiglia alla pazzia. Sembrerà un’eresia, ma a me “Perturbamento” ha ricordato la struttura narrativa di “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad: come Marlowe risaliva il fiume Congo, in un viaggio metaforico negli abissi più imperscrutabili dell’animo umano, così il narratore si addentra nelle valli sempre più anguste, buie, fredde e ostili della Stiria, in una discesa irreversibile nei gironi dell’insania e dell’abiezione; e come nel capolavoro conradiano al termine del viaggio c’era Kurtz, qui c’è un personaggio non meno titanico e memorabile: il principe Saurau.
La seconda parte del libro è un interminabile, delirante monologo in cui il peripatetico principe, accompagnando i due ospiti in una passeggiata ossessiva e senza soste lungo le mura del suo castello, dà sfogo alla sua “micidiale tendenza al soliloquio”. E’ una lettura che lascia storditi, senza fiato, in cui Bernhard penetra via via sempre più a fondo negli oscuri meandri di una mente irreparabilmente ottenebrata dalla pazzia. Vittima di estenuanti, masochistiche discussioni con se stesso, rinchiuso in una segregazione sempre più feroce, cui lo conduce un profondo disgusto, una inguaribile ripugnanza per il mondo intero ma anche e soprattutto verso se stesso, Saurau è un personaggio sommamente tragico, probabilmente sull’orlo di quel suicidio che grava come una macabra fatalità sui membri della famiglia che da secoli vive a Hochgobernitz. La sua solitudine è tale che “l’unica frequentazione possibile è quella del proprio cervello”, ma il suo cervello è ormai una macchina impazzita, in cui ogni pensiero deve inglobare tutte le possibilità e le alternative possibili, trasformando ogni semplice decisione in una faccenda complicatissima, irrisolvibile, e in cui il principe, trinceratosi come in un ermetico e impenetrabile rifugio, purtuttavia si sente continuamente assediato dalla realtà esterna (simboleggiata dall’invadente e importuno Moser) e invaso da un senso di catastrofe imminente (“Ho l’impressione che sia naturale che il mondo possa andare a pezzi da un momento all’altro”), che si materializza negli agghiaccianti rumori nella testa che lo ossessionano senza tregua. Gli ingranaggi mentali lavorano vorticosamente per riempire tutti gli spazi possibili e immaginabili del pensiero, in una estenuante coazione a rimuginare temi e concetti che ormai non hanno più confini né appigli con la realtà, e in cui l’io è continuamente consapevole di ogni cosa ma con orrore scopre che, per essere sempre tutto, alla fine non è più assolutamente, sconsolatamente nulla. Il folle e vorticoso sillogizzare del principe Saurau (che addirittura si sdoppia quando riferisce il sogno in cui il figlio che vive a Londra scrive, dopo il suo immaginario suicidio, una lunga lettera in cui si propone di distruggere metodicamente tutto ciò che aveva faticosamente costruito il padre) assomiglia non poco a quell’inesausta e paranoica attività mentale che caratterizza certi racconti kafkiani. Si prenda ad esempio questo brano: “Per un istante rivedo tutte le strade di accesso ai miei terreni, strade che io ho sbarrato piazzando dappertutto dei cartelli con la scritta Vietato l'accesso. […] Qui, sui miei terreni, l'accesso è vietato per tutti, per tutti e per tutto! […] Adesso mi rivedo a scavare fossati attraverso le strade d'accesso, a farci cadere dentro tronchi d'albero, a stendere centinaia e centinaia di metri di filo spinato…”. Non sembra proprio il modo di ragionare dell’animale protagonista de “La tana”? Inoltre nel sogno in cui il principe deve recarsi all’udienza più importante della sua vita attraversando una sala così sterminata che risulta impossibile non solo arrivare in tempo all’udienza ma neppure sapere chi l’ha concessa, c’è la stessa atmosfera delle parabole kafkiane “Davanti alla legge” e “Un messaggio dell’imperatore”. In preda alla follia, ma anche a una estrema, esasperata e chiaroveggente lucidità, Saurau fa precipitare i due quasi ipnotizzati ospiti, e con loro il lettore, in una spirale impazzita di nichilistici aforismi che finiscono per diventare un enorme buco nero che tutto inghiotte e tutto annichilisce, e in cui fatalmente la ragione umana collassa. Hochgobernitz diventa così la metafora di una condizione ontologica dell’esistenza, di un male assoluto e ineliminabile. Il castello di Saurau è un po’ come la casa paterna di Wolfsegg in “Estinzione”. Se lì il protagonista Murau, dopo la morte dei suoi detestati genitori, saliva alla volta del maniero avito per liquidarlo definitivamente, possiamo immaginare che anche il figlio del principe, vera spina nel fianco dell’anziano uomo (a dimostrazione del fatto che per Bernhard la famiglia è sempre “una incessante e infame amputazione dello spirito”), un giorno, alla sua morte, si comporterà in maniera non dissimile, quale unica soluzione per troncare quella che è una vera e propria maledizione familiare, come il protagonista prefigura nei suoi angosciosi e preveggenti sogni, a testimonianza che alla fine non ci può che essere l’estinzione di tutto, la morte irrevocabile: “il mondo è la scuola della morte”, è “un immenso obitorio”.
Indicazioni utili
LA SINDROME DEL MINOTAURO
“Papà, cos’è il Minotauro?, gli avevo chiesto. Papà fece finta di non avermi sentito. […] Il giorno dopo mi portò una vecchia edizione di tutti i miti della Grecia antica che aveva trovato da qualche parte. Non mi sono mai separato da quel libro. Sono penetrato allora dentro il Minotauro e non ricordo di esserne mai uscito. Lui era io. Un bambino che trascorreva lunghi giorni e lunghe notti nel pianterreno di un castello, mentre i suoi genitori lavoravano come re o andavano a letto con tori. Non importa se il libro dice che è un mostro. Sono stato in lui e conosco tutta la storia. C’è alla base un grande peccato e una calunnia, una straordinaria ingiustizia. Io sono il Minotauro e non sono assetato di sangue, non voglio divorare sette giovani e sette fanciulle ogni volta, non so perché sono rinchiuso, non ho alcuna colpa… E ho una paura bestiale del buio.”
Il protagonista di “Fisica della malinconia”, che poi è lo stesso Georgi Gospodinov, racconta che durante la sua infanzia egli era in grado di entrare, a volte anche indipendentemente dalla propria volontà, nei ricordi degli altri, di penetrare attraverso quelle fessure e quei corridoi lasciati aperti dai loro dolori e dai loro rimpianti, di immedesimarsi totalmente in loro, fossero essi uomini, animali o perfino cose (“mi ricordo di esser nato come rovo di rosa canina, pernice, ginkgo biloba, lumaca, nuvola di giugno (il ricordo è assai breve), fiore autunnale turchino di croco intorno a Halensee, ciliegio precoce gelato da una tarda neve d’aprile, come neve che ha gelato l’ingannato albero di ciliegie”). Questa condizione, che un amico medico aveva definito, non si sa quanto scientificamente, come empatia patologica o sindrome ossessiva empatico-somatica, provocava una sorta di incontrollabile transfert che gli faceva “abitare” corpi, luoghi ed epoche a lui sconosciuti, permettendogli di vivere contemporaneamente in tempi diversi (essere suo nonno a tre anni abbandonato dalla madre presso uno sperduto mulino, o magari suo padre durante la Seconda Guerra Mondiale, mentre si innamora di una ragazza ungherese), oppure, vedendo un giorno il nonno ingoiare una lumaca viva per curare l’ulcera allo stomaco, di immaginare le sensazioni che l’animale prova mentre si addentra nelle oscure profondità dell’organismo che lo ha fagocitato, o ancora, dopo aver scoperto che fare un cerchio col dito intorno a una formica la confonde fino a farle perdere l’orientamento, di sognare che un dito gigantesco e puzzolente faccia lo stesso con lui, terrorizzandolo. Consequenzialmente al bizzarro stato clinico del protagonista, la narrazione fin dalle prime pagine si sfaccetta, si sdoppia, si frammenta, la prima persona si mescola alla terza (“Mi rendo conto di quell’incerta prima persona, che con facilità si ripara nella terza e poi di nuovo torna alla prima. Ma chi può dire con sicurezza che quel bambino di 40 anni fa ero io, e quel corpo è lo stesso che ho ora qui?”), i sintagmi si fanno sempre più contraddittori (“sono sempre stato nato”, “io siamo”, “lui era io”, “io sono libri”) e le storie si confondono e si contorcono come un labirinto (“Una storia con corridoi ciechi, fili che si spezzano, luoghi sordi e scuri e evidenti incongruenze. Quanto più sembra inverosimile, tanto più sei portato a crederci”). Durante uno di questi andirivieni temporali il narratore fa l’incontro con la figura più improbabile di tutte, il Minotauro, che egli crede di aver individuato in un bambino dalla testa taurina esibito in una fiera paesana, piena di maghi, giocolieri e imbonitori, che il nonno aveva visitato per la prima volta da bambino. Da quel momento questo personaggio ossessiona l’autore, che vi intravede il segno lampante di una giustizia ontologica, la quale trascorre attraverso i millenni e arriva fino ai giorni nostri, nei tanti labirinti della società moderna: le città (dove si può vagare per ore solitari “come una nuvola”), i manicomi, gli scantinati dove una moltitudine di bambini abbandonati a loro stessi vive la sua triste ed isolata fanciullezza. Consapevole che il Minotauro è sempre stato trattato dai testi classici (Ovidio, Seneca, Virgilio, lo stesso Dante) come un mostro, un aborto di natura, il frutto maledetto di un rapporto sessuale abominevole, Gospodinov (seguendo in ciò l’esempio di Jorge Luis Borges e di Friedrich Durrenmatt, che nei racconti “La casa di Asterione” e “Il Minotauro” lo avevano già trasformato in un simbolo della tragicità dell’esistenza) si impone di riscattarne l’umanità calpestata e vilipesa, immedesimandovisi a tal punto da immaginare come proprio il suo nostalgico desiderio di rivedere il volto della madre che lo ha abbandonato o il suo infantile terrore della notte senza fine a cui è stato condannato, con la morte come unica, malinconica aspirazione cui tendere per liberarsi dalla propria inguaribile sofferenza. Egli si identifica così intensamente con il Minotauro che, quando diventa per la prima volta padre, crede che la figlia appena nata, attaccata al filo d’Arianna del cordone ombelicale, sia il Teseo venuto edipicamente al mondo per ucciderlo.
Una volta divenuto adulto, l’autore ha perso, a suo dire, questa empatia (“Prima potevo abitare tutti i corpi del mondo, adesso sono contento se riesco a passare da una stanza all’altra nella casa del mio stesso corpo”) e, per compensare almeno in parte questa mancanza, è diventato un compulsivo collezionatore di storie. Nello scantinato, una volta adibito a rifugio antiaereo, dove trasloca per lavorare in completa solitudine e tranquillità, egli inizia a raccogliere oggetti, ritagli di giornale e ricordi di svariata natura, in grado di riportare in qualche modo alla luce il passato, e soprattutto quel paradiso perduto che è l’infanzia. “Fisica della malinconia” diventa così una sorta di “Ricerca del tempo perduto”, uno stravagante “amarcord” in cui emergono dalla propria e altrui memoria teneri personaggi (come Giulietta la pazza, che tutti i giorni aspetta davanti al cinema che Alain Delon la venga a prendere per portarla con sé in Francia) o scene di grigia eppur vitalistica quotidianità negli anni più bui del comunismo (le ricette di un libro di cucina lette avidamente con la fidanzata come surrogato all’endemica mancanza di cibo, la predisposizione da parte dell’autore bambino, nell’eventualità di una imminente fine del mondo, di un kit di sopravvivenza contenente un foglio di istruzioni, una automobilina, una scatola di fiammiferi e qualche medicina). Novello Sherazade, Gospodinov inventaria storie e reperti con la meticolosità di un archeologo, allestendo una specie di Arca di Noè in grado di far sopravvivere (o addirittura di far rivivere) il passato, rendendolo reale come il presente, un testamento per i posteri fatto di tutti “i giorni passati che ci stanno davanti”, un campionario in cui ci sia di tutto, specialmente “quello che non sta in primo piano, non dura, scompare”, tutte quelle piccole storie trascurabili, innominate, effimere, insignificanti, “che vengono dal nulla e nel nulla tornano”, ma che sole forse meritano di essere tramandate.
Come conseguenza di questo approccio, “Fisica della malinconia” ha un andamento aneddotico, aforistico, con frequenti digressioni e cambi di prospettiva (“Non sono in grado di proporre un racconto lineare, perché nessun labirinto e nessuna storia è lineare”), che a me ha ricordato un’altra opera recente della letteratura est-europea, “I vagabondi” della polacca Olga Tokarczuk. Facendo riferimento addirittura alla fisica quantistica, Gospodinov immagina un libro che rifugga il più possibile dal racconto classico, perché il racconto classico, rigoroso, coerente e consequenziale, è un annullamento delle diverse, infinite possibilità che ogni storia, prima di essere narrata, possiede. Lo scrittore bulgaro privilegia al contrario l’indeterminatezza, la vaghezza, la molteplicità, proprio per lasciare aperti gli spiragli, i corridoi paralleli, le biforcazioni che altrimenti verrebbero inesorabilmente soppressi. “Fisica della malinconia” sarebbe sicuramente piaciuto a Borges (“Il giardino dei sentieri che si biforcano”, “Funes, o della memoria”), per il tentativo utopistico, e fatalmente condannato al fallimento, di far rientrare tutta una vita, o almeno un anno di essa, nei suoi più minimi dettagli e impalpabili sfumature, dentro un unico libro. Sarebbe, ugualmente, piaciuto a Italo Calvino per la sua leggerezza, la sua natura eterea e inafferrabile, e probabilmente anche a Fernando Pessoa, per la sua malinconia, il suo sottile struggimento per ciò che non è avvenuto, per ciò che non si è avverato. E’ un libro esile e delicato come una farfalla, pieno di “epifanie istantanee che si diradano un attimo dopo”: in esso Gospodinov sperimenta la sua personalissima poetica dell’effimero, raccontando “una Storia generale di ciò che non è accaduto”; non quindi i momenti eccezionali, indimenticabili e solenni, ma le cose secondarie, insignificanti e minute, dove si annida davvero la vita, quelle piccole rivelazioni del quotidiano capaci di stagliarsi implausibilmente nella memoria e che è così difficile descrivere (“Bisogna conservare solo ciò che è mortale, effimero, fragile, piagnucoloso e che accende fiammiferi nel buio”). “Fisica della malinconia” è in definitiva uno strano ircocervo letterario, un po’ romanzo, un po’ autobiografia, un po’ raccolta di racconti, un po’ saggio filosofico, un po’ trattato sociologico (“I generi puri non mi interessano – afferma Gospodinov - Il romanzo non è ariano”), un’opera spuria, intertestuale, che non disdegna di utilizzare fotografie, disegni, riproduzioni di articoli di giornale o di pitture dell’antichità (un po’ come avveniva in “Austerlitz” di Sebald). E’ un libro sicuramente frammentario e non perfettamente compiuto (anche se si chiude, con una perfetta circolarità, da dove era partito), ma, pur non essendo completamente nelle mie corde per la sua intenzionale, inevitabile discontinuità, confesso di essere rimasto affascinato da questo approccio coraggioso, radicale, anticonformistico e antiantropocentrico, che se non proprio negli esiti artistici (qui la perfezione, il memorabile, l’imperituro non sono, come già detto, di casa) è ampiamente condivisibile nel metodo e soprattutto nelle intenzioni di una poetica la quale, nel suo tentativo di ritrovare il passato, si commuove non con le “madeleine” proustiane, ma piuttosto con una semplice, ben più prosaica merda di bufalo incontrata lungo la strada, “ritta come una cattedrale in miniatura”, con le mosche che vi volteggiano intorno come angeli, a testimonianza che il sublime è ovunque lo si voglia vedere.
Indicazioni utili
"L'Aleph" di Jorge Luis Borges
"Il Minotauro" di Friedrich Durrenmatt
L'ECLISSI DELLA RAGIONE
“L’ordine delle abitudini non era più indiscutibile, la confusione avanzava inesorabilmente in tutte le direzioni sconvolgendo la normale quotidianità, il futuro appariva insidioso, il passato lontano e dimenticato, mentre il normale corso delle giornate era talmente imprevedibile che la gente si era arresa […] Raccapezzarsi tra gli eventi insoliti, sempre più frequenti e spaventosi negli ultimi mesi, era ormai impossibile, […] le notizie in sé […] sembravano tanti segni premonitori di un’imminente – come si diceva sempre più spesso – “catastrofe”.”
Ho conosciuto per la prima volta Krasznahorkai come sceneggiatore di fiducia di Bela Tarr, uno dei più grandi registi cinematografici di tutti i tempi e idolo indiscusso di una fedele e affezionata, anche se non numerosissima, schiera di cinephiles. Anche chi, come me, è rimasto affascinato dalle ipnotiche immagini in bianco e nero, dagli interminabili piani sequenza e dalla straniata recitazione di film come “Satantango” o “Le armonie di Werckmeister”, non deve dimenticare che all’origine di queste opere ci sono altrettanti, straordinari, romanzi di questo scrittore magiaro dal nome impronunciabile. “Melancolia della resistenza”, dalla cui seconda parte è stato appunto tratto nel 2000 “Le armonie di Werckmeister”, è il beffardo e lucidissimo apologo di una società invasa dalla paura, dalla sfiducia e dalla perdita di ideali, la quale diventa facile preda di una dilagante barbarie e di una violenza brutale e immotivata. La grande trovata di Krasznahorkai sta nel non appiattire la storia su un registro banalmente realistico, ma nel costruire una atmosfera via via più angosciosa e inquietante, pervasa di sinistri presagi (la torre dell’acquedotto che inizia ad oscillare, le lancette di orologi fermi da tempo immemorabile che tornano a muoversi, alberi secolari che crollano all’improvviso senza causa apparente), a tratti surreale come un’opera di Kafka (a me ha fatto venire in mente anche alcuni film di Bergman, come “Il silenzio” o “La vergogna”), che viene ipostatizzata da figure fortemente simboliche come la gigantesca balena esibita come principale attrazione del circo itinerante che fa tappa nell’anonimo paese in cui è ambientata la vicenda o il misterioso principe (di cui si dice che abbia tre occhi e pesi non più di dieci chili) che aizza alla distruzione e alla rivolta una losca torma di seguaci che lo venerano come un funesto profeta. Nella abulica e impaurita comunità che assiste sgomenta e impotente ai fatti narrati, trincerandosi come la signora Pflaum nella precaria e illusoria sicurezza di un appartamento pieno zeppo di “buone cose di pessimo gusto”, si distinguono soltanto due memorabili personaggi (in realtà sono tre, ma del terzo parlerò più avanti): Valuska e Eszter. Valuska è la “presenza angelica tra le forze distruttrici della decadenza”, un Candido volteriano che, con uno stupore e un’indifferenza alle cose del mondo tipicamente infantili, “girovaga indisturbato nella vita, simile a un minuscolo pianeta che non vuole scoprire le forze gravitazionali che lo comandano, ma si accontenta colmo di gioia di far parte, anche con un minuscolo palpito, di un tutto razionale e inalterabile” e vive “nell’invulnerabilità di un istante eterno, come in una bolla di sapone che non sarebbe mai scoppiata”; un tenero e peripatetico svitato innamorato dell’”immensa libertà del cosmo”, che gli alticci avventori della taverna invitano ogni sera a dar loro una dimostrazione figurata del movimento degli astri e dell’eclissi di sole, un po’ per divertirsi alle sue spalle, un po’ come pretesto per far ritardare di qualche minuto la chiusura del locale. Se Valuska incarna una religiosità panica intrisa della “gioia magnifica di far parte di un tutto, di funzionare insieme al resto”, Eszter è invece lo studioso, l’intellettuale, rinchiuso in una torre d’avorio, la cui lucidità di pensiero, la cui perspicacia, il cui pessimismo sono assolutamente incapaci di incidere sulla realtà. Egli è consapevole della situazione di crisi della società contemporanea, ma non sa andare oltre la vittimistica constatazione del fallimento dell’umanità, non è in grado cioè di proporre soluzioni o rimedi, preoccupato solo che nessuno possa disturbare i suoi studi teorici e astratti e il suo confortevole isolamento. La sua posizione conservatrice e passatista si riflette sui suoi studi musicali: Eszter si oppone strenuamente ai tentativi della musica moderna di ricreare ingannevolmente l’armonia che appartiene alle sfere celesti, nascondendo in questo modo (proprio come fa la fede) la realtà di un mondo che “ha troppo rumore dentro, suoni sordi, gracchianti, martellanti di lotta e di fatica”; egli si rifugia invece nelle teorie del suono puro e dell’”accordatura naturale” degli antichi greci, elaborate in un’epoca mitica e felice in cui l’uomo non conosceva il tormento del dubbio e non pretendeva di sostituirsi prometeicamente agli dei, ma quando alla fine si decide ad accordare “naturalmente” il suo pianoforte e a suonare il suo amato Bach, lo strumento produce solamente uno stridio fastidioso e insopportabile. Se il mondo contemporaneo è grossolano, volgare e abietto, il tentativo dell’uomo di pensiero di opporvi uno sdegnoso e superbo rifiuto e di ritirarsi sull’Aventino di una fantomatica Arcadia sono pateticamente destinati al fallimento, sancendo la sostanziale inutilità e superfluità del suo ruolo, che al limite può essere solo esornativo e ornamentale, o peggio strumentalizzato a proprio vantaggio dal potere. Allora è quasi preferibile rinunciare alla contrapposizione, alla resistenza, anche alla stessa speranza in un futuro miglioramento, rinunciare persino alla ragione e al pensiero indipendente, e sprofondare nella rinuncia, nel silenzio, in una parola nel nichilismo (l’amara ammissione che il mondo è totalmente sprovvisto di una ragione equilibratrice, privo di un ordine se non quello del caos, a suo modo “eternamente perfetto” e quindi invincibile). Un’analoga regressione coinvolge anche Valuska, la cui stolida convinzione di vivere “nel migliore dei mondi possibili” è destinata a venire spazzata via dalla esposizione diretta e sconvolgente a un orrore agghiacciante e insostenibile, che lo porterà – anima troppo pura per accettare la violenza e la malvagità dei suoi simili, “fragile farfalla smarrita che vola in una foresta in fiamme” – alla follia e all’internamento in un manicomio. La morale del romanzo è di una sconfortante tristezza. Di fronte alla inciviltà e alla violenza anarchica e distruttiva, chi come Eszter si era cullato nell’illusione dell’arte e della cultura come antidoto all’oscurantismo, o chi come Valuska viveva nella fanciullesca utopia di un’armonia trascendente, di una idealizzata bellezza superiore, di un supremo ordine regolatore cui abbandonarsi, è costretto crudelmente a farsi da parte e a rifugiarsi nel nichilismo o nella pazzia. L’unica risposta possibile è, purtroppo, quella della signora Eszter (ecco il terzo personaggio-chiave del romanzo), la ex moglie del professore, che accoglie spregiudicatamente i segnali premonitori dell’imminente fine del vecchio mondo come un’opportunità per fare piazza pulita di tutto e ripartire da zero, e che cavalca opportunisticamente la paura dei concittadini e la violenza senza freni dei ribelli per prendere il potere e imporre misure autoritarie con il pretesto dell’eccezionalità delle circostanze, consapevole con cinica lucidità che ad ogni azione corrisponde necessariamente una reazione, ad ogni rivoluzione una restaurazione, e che le forze del caos e della distruzione, implacabili ma cieche, possono diventare, se le si sa imbrigliare, proprie involontarie alleate (come il facinoroso teppista che, pur avendo partecipato bestialmente agli scontri, viene assunto dalla donna, una volta diventata presidente della comunità, come membro delle forze di polizia).
“Melancolia della resistenza” non è solo un romanzo dalla trama avvincente e suggestiva, ricco oltretutto di momenti che inducono a profonde riflessioni, ma è anche un’opera scritta con uno stile estremamente originale e innovativo. Le sue pagine sono caratterizzate da periodi molto lunghi ed elaborati, con innumerevoli proposizioni coordinate e subordinate che si susseguono alla principale e frequenti incisi parentetici, eppure riescono ad essere estremamente scorrevoli, per nulla involute o contorte. Si prenda ad esempio questa frase, che ho estrapolato a caso dalle 350 pagine del libro (qualsiasi altra sarebbe andata però altrettanto bene): “La consapevolezza di aver rotto solo qualche uovo nel paniere, ma di non essere riusciti a distruggere tutto come avevano cominciato a fare ubbidendo a un semplice cenno del loro Principe, sembrava d’improvviso un peso insostenibile, e quando si allontanarono, dopo quella confusa esitazione davanti al portone dell’ospedale, iniziarono a pensare che se era finita semplicemente così, allora la furia crudele non aveva più senso, e forse non ne aveva mai avuto, non riuscivano più a riprendere la cadenza uniforme dei loro passi, la loro unione si era dissolta, non era più una marcia, il micidiale squadrone organizzato si era trasformato in un’orda pietosa, di quel plotone guidato da un irrefrenabile disgusto restavano venti-trenta individui che si trascinavano piegati su se stessi, e non solo sospettavano, ma sapevano con certezza, anche se a loro non importava, ciò che sarebbe successo nell’immediato, perché erano entrati in un campo vuoto, infinitamente vuoto, dal quale non sarebbero più riusciti a liberarsi, o non avrebbero trovato neppure la volontà di farlo.” Si può notare il periodare fluente, ritmico, cadenzato, che sembra indurre a una lettura ad alta voce per assaporarne, come nelle migliori opere di Saramago, la pregnanza e la musicalità. Un’altra caratteristica che mi piace sottolineare è che il passaggio, all’interno del romanzo, dal punto di vista di un personaggio a quello di un altro avviene con un curioso “effetto domino”, ossia tramite la ripresa, all’inizio di ogni paragrafo, delle identiche parole con cui si era chiuso il paragrafo precedente. Non manca nel romanzo di Krasznahorkai una illustrazione di personaggi e ambienti che, nella minuziosa attenzione ai minimi dettagli psicologici e descrittivi, richiama la narrativa classica (la presentazione di Eszter e della sua stanza sembra ad esempio uscita dalla penna di un Goncarov), ma di contro c’è una predilezione per le atmosfere allucinate e surreali e un gusto per l’allegoria che sono affatto moderni. Basti pensare allo strepitoso capitolo finale, che descrive con scientifica pedanteria la decomposizione del cadavere della signora Pflaum, con gli “operai della distruzione”, i quali aggrediscono implacabilmente l’organismo senza più vita, che possono essere visti come una azzeccata metafora delle forze della rivoluzione e del caos che, nel mondo contemporaneo, disgregano dall’interno una società irreparabilmente marcia e agonizzante, e che possono essere tenute sotto controllo dal potere solo per breve tempo, perché all’orizzonte c’è, inderogabile, il crollo fatale, l’estinzione senza appello. L’ispiratissima prosa dello scrittore ungherese, seppure incline a un amaro nichilismo, è un lascito prezioso, un accorato monito volto a mettere in guardia contro il subdolo fascino che la violenza, fomentata dalla demagogia e dal populismo, esercita da sempre sulle masse: il “poderoso fragore di stivali e scarponi trascinati sull’asfalto” della folla anonima e muta, che mette nottetempo a ferro e fuoco la città e che dà sfogo con una ferocia immotivata a un disgusto e a una disperazione cui non riesce a dare un nome, è un’immagine stupenda dell’irresistibile tendenza a quel conformismo fanatico e cieco che, come nella favola del pifferaio di Hamelin, rischia di portare l’umanità, soggiogata dalla seducente e pericolosa retorica dei tanti principi di turno e dall’infido e spietato cinismo delle signore Eszter cui la storia, purtroppo anche a noi vicina, ci ha abituati, sull’orlo del baratro, se non addirittura all’autodistruzione, e che pochi scrittori (come Canetti e Grossman, giusto per fare due nomi) hanno saputo descrivere con la chiaroveggenza di Krasznahorkai, disincantato e acuto testimone di un mondo in cui, fatalmente, “il sonno della ragione genera mostri”.
Indicazioni utili
LA MALEDIZIONE DEL SANGUE
“Alle volte ho pensato come il diavolo l’avesse avuta vinta su Iddio.”
Jorge Luis Borges, uno che di letteratura se ne intendeva, diceva di conoscere due tipi di scrittori, quelli la cui principale preoccupazione sono i procedimenti verbali, la tecnica formale, in una parola lo stile, e quelli invece interessati prioritariamente alla storia e al carattere dei personaggi, e che solo pochissimi tra i grandi romanzieri del passato erano in grado di esaltare nelle loro opere entrambi gli aspetti contemporaneamente: tra questi riteneva che il più eminente e il più bravo fosse senza dubbio William Faulkner. Non posso che condividere appieno l’autorevole giudizio del grande autore argentino, ma mi piace altresì evidenziare, da appassionato lettore delle opere di Faulkner, un’ulteriore caratteristica che lo contraddistingue e lo rende un esempio forse più unico che raro nel panorama della letteratura moderna, il fatto cioè che il suo stile non si riproponga mai identico da un romanzo all’altro. Egli passa infatti dallo spericolato stream of consciousness de “L’urlo e il furore” (reso ancor più impervio dal fatto che nella prima parte ad esprimerlo sia un ritardato mentale) alla prosa barocca e spiraleggiante di “Assalonne, Assalonne!” (tutta frasi lunghissime, incisi su incisi, subordinate dentro subordinate, e parentesi che si aprono e sembrano non dover chiudersi mai), senza rinnegare, in “Santuario” e in “Luce d’agosto”, la maniera più classica e tradizionale, quella con il narratore onnisciente in terza persona. Faulkner è come quegli allenatori di calcio in grado di variare la disposizione tattica della propria squadra in base all’avversario che affrontano (passando dal 4-3-3 al 3-5-2 o magari al 4-3-1-2). Fuor di metafora, lo scrittore del Mississippi è capace di adottare in ogni suo libro lo stile di scrittura che meglio si adatta alle vicende raccontate; e, sebbene la mia personale preferenza vada pur sempre al Faulkner più inventivo e sperimentale, debbo riconoscere che quella di “Luce d’agosto”, fatta di atavismo e di ossessione, di fatalismo e di follia, di fanatismo e di violenza, è una storia narrata in modo meraviglioso e indimenticabile.
Numerosi sono i personaggi di “Luce d’agosto”, tutti in qualche modo randagi, forestieri, stranieri mai del tutto assimilati a quella comunità diffidente, ostile e bigotta che è la città di Jefferson (nella contea di Yoknapatawpha in cui Faulkner ha ambientato la maggior parte dei suoi romanzi): c’è Lena Grove, una ragazza in avanzato stato di gravidanza giunta a piedi dall’Alabama per cercare Lucas Burch, il padre del bambino che porta in grembo, il quale aveva mesi prima lasciato il paese natale alla ricerca di una sistemazione stabile per la coppia, ma che da allora non ha più dato notizie di sé; c’è Byron Bunch, uno “di quel genere di uomini che mai si riesce a vedere alla prima occhiata”, timido e commovente buon samaritano che prende a cuore la situazione della partoriente, sostituendosi per amore e per compassione, pur senza riporre nella donna e nel nascituro eccessive aspettative personali, alla figura vigliacca e fedifraga del di lei compagno; c’è il reverendo Hightower, un prete spretato e umiliato dalla comunità dopo lo scandalo della moglie adultera e suicida; c’è Joanna Burden, l’ultima erede di una famiglia di abolizionisti del New England, che vive sola in una grossa villa alla periferia della città, emarginata e malvista dalla gente del posto in quanto considerata “amica dei negri”. La figura cardine del romanzo, l’autentico motore della storia che ne determina gli esiti nefasti e fatali, è però Joe Christmas, personaggio irrequieto e ombroso, taciturno e sfuggente, dall’imperscrutabile “faccia nebbiosa”, il quale non è soltanto, come gli altri, estraneo alla comunità che lo ha accolto tre anni prima, ma lo è perfino nei confronti di se stesso. Egli è un personaggio profondamente, autenticamente tragico, perché, essendo stato abbandonato alla nascita e in seguito adottato da una rigida famiglia calvinista, soffre la sua condizione di ignoranza delle proprie origini. Pur essendo di carnagione chiara, egli cova da sempre il sospetto di avere dentro di sé una parte di sangue nero (in una terra e in un periodo storico – gli inizi del secolo scorso – in cui, ricordiamolo, essere di colore era un’onta irreparabile: basti pensare – per rimanere a Faulkner – ad “Assalonne, Assalonne!”, nel quale Henry Sutpen uccide il fidanzato-fratellastro della sorella, non tanto per impedirgli di commettere un incesto, quanto per la sua non evidente ma “colpevole” negritudine), ma quel che è peggio non ha la possibilità di stabilirlo con certezza. Questa indeterminatezza lo porta a non riuscire a considerarsi né bianco né nero, e a finire per odiare se stesso proprio come un bianco odierebbe, per atavico condizionamento, un suo simile dalla pelle più scura. La solitaria e selvatica scontrosità che lo contraddistingue si accende all’improvviso in fiammate di furiosa violenza, in cui Christmas sembra voler punire negli altri quel peccato originale che subodora in se stesso (e così, adolescente, picchia la prostituta nera nel corso del suo primo convegno carnale, oppure sfida provocatoriamente gli altri, confessando di essere un negro, a fare altrettanto con lui). Christmas è un personaggio dolorosamente scisso, incapace di mettere radici, febbrilmente autodistruttivo. Meglio sarebbe stato per lui avere la certezza di essere di colore, in questo modo almeno riuscirebbe ad essere qualcuno; invece così, in questa fatidica indefinitezza, egli non è nessuno, né bianco tra i bianchi, né nero tra i neri, un individuo sconsolatamente privo di identità, che colora con chiaroscuri violentemente drammatici il romanzo e che Faulkner esplora, scavando ostinatamente nei suoi più minuti e inconfessabili meandri psicanalitici, in una maniera straordinariamente contemporanea. C’è una grandiosità dostojevskijana in questa figura che si consegna fatalisticamente, con un omicidio assurdo e una ancor più assurda fuga, al profondo disprezzo e alla reazione parossisticamente violenta della collettività. C’è anche, più sotterraneamente ma in maniera a mio avviso non meno evidente, una dimensione per così dire cristologica. Le iniziali di Christmas (J. C.) rimandano infatti al nome di Gesù, così come l’età (30 anni) in cui giunge, dopo una anonima esistenza all’interno della famiglia adottiva, a Jefferson, la città in cui vive i fatidici tre anni che si concludono con il “calvario” del linciaggio; il “discepolo” Brown (alias Lucas Burch), che egli accoglie nel suo casotto facendone il socio in affari, lo tradisce inoltre proprio come Giuda, al fine di intascare la taglia di 1.000 dollari messa sul suo capo, mentre addirittura il nonno naturale di Christmas, Doc Hines, un fanatico religioso che nelle sue paranoiche allucinazioni parla a Dio del nipote, si sente da Lui rispondere: “Per ora l’ho segnato col mio marchio, poi lo farò conoscere”. Insomma, “Luce d’agosto” sembra una versione stravolta e sovvertita del Vangelo, dove all’immolazione dell’agnello sacrificale non segue alcuna redenzione, se non quella di una nascita beneaugurale (in un casotto di negri che è un po’ come la stalla dell’evangelica natività) e di una insolita “sacra famiglia” che, nelle pagine conclusive, si incammina verso il futuro senza mezzi e senza meta, ma fiduciosa nell’aiuto di una qualche provvidenza,
Con questo libro Faulkner non firma, probabilmente, il suo opus magnum, ma “Luce d’agosto” rimane lo stesso uno dei suoi romanzi più torbidamente e ambiguamente affascinanti: temi come il sangue, l’ereditarietà familiare, la corruzione morale, la hybris, la violenza, i pregiudizi sociali e razziali sono qui affrontati in maniera lucida e coraggiosamente anticonvenzionale, all’interno di un intreccio enigmatico, contorto e tumultuoso che si disvela lentamente, senza fretta, e poco alla volta, inesorabilmente, avvolge come un sudario i suoi personaggi, tutti quanti mossi da sentimenti, da colpe o da passioni archetipici ed assoluti, come se ci trovassimo di fronte non già a una storia ambientata un secolo fa nel profondo Sud degli Stati Uniti, ma a una tragedia greca o a un dramma elisabettiano.
Indicazioni utili
L'INFELICE ERRARE DEL GABBIERE
“E’ doveroso lanciarsi alla scoperta di nuove città. Ci attendono razze generose. I pigmei meticolosi. I grassocci e imberbi indiani della selva, asessuati e bianchi come i serpenti delle paludi. Gli abitanti delle piane più alte del mondo, stupiti dinanzi al fremito della neve. I deboli abitanti delle distese ghiacciate. Le guide delle greggi. Coloro che vivono in mezzo al mare da tanti secoli e che nessuno conosce perché viaggiano sempre in direzione ostinata e contraria alla nostra. Da loro dipende l’ultima goccia di splendore.
Restano ancora da scoprire luoghi importanti della Terra: i grandi condotti da cui respira l’oceano, le spiagge dove muoiono i fiumi che non vanno da nessuna parte, i boschi dove nasce il legno di cui è fatta la gola dei grilli, il posto dove vanno a morire le farfalle scure dalle grandi ali lanute con il colore acre dell’erba secca del peccato.
Bisogna cercare e inventare di nuovo. Resta ancora il tempo. Ben poco, è vero, ma è doveroso approfittarne.” (“I viaggi”)
Il personaggio di Maqroll il Gabbiere, vero e proprio alter ego di Alvaro Mutis, è uno strano Proteo letterario, che si transustanzia nelle più disparate opere del suo autore, poesie, racconti e romanzi, sia in prima che in terza persona, ma è forse con “La Neve dell’Ammiraglio” che questa figura di ostinato “cercatore di assoluto”, di insaziabile viaggiatore, di sfortunato eroe del fallimento e delle sfide perse in partenza, esso viene più magistralmente definito. In questo diario, nel quale Maqroll registra tutto il suo viaggio alla volta delle fantomatiche segherie ai piedi della Cordigliera, dagli enigmatici sogni notturni agli incidenti di percorso, dal carattere dei compagni che navigano con lui sulla barca al paesaggio che gli sfila davanti mentre risale per più di tre mesi la corrente dello Xurandò, troviamo tutte quelle caratteristiche che lo rendono uno dei personaggi più originali ed emblematici della letteratura del Novecento: l’amaro disincanto, la resilienza di fronte alle prove del destino, l’”ardente vocazione di felicità costantemente tradita, quotidianamente smarrita”, il senso di straniamento nei confronti di una realtà a lui fatalmente irriducibile. Mutis ha coniato per il Gabbiere un termine stupendo, “disperanza”, che non deve essere confuso – come si potrebbe fare di primo acchito – con quello di “disperazione”. “La prima condizione della disperanza - leggiamo nella postfazione di "Storie della disperanza" - è la lucidità. L'una e l'altra si completano, tra di loro si creano e si affermano. A maggiore lucidità maggiore disperanza, e a maggiore disperanza maggiore possibilità di essere lucidi. […] La seconda condizione della disperanza è l’incomunicabilità. [...] La disperanza s’intuisce, si vive interiormente finché diventa materia stessa dell’essere, sostanza che definisce le manifestazioni, gli impulsi e le azioni della persona, ma che gli altri interpreteranno sempre come indifferenza, alienazione o semplice follia. La terza caratteristica di chi vive nella disperanza è la solitudine. Solitudine nata da una parte dall’incomunicabilità e, dall’altra, dalla difficoltà di stare accanto a chi vive, ama, crea e gode senza speranza. [...] La quarta condizione della disperanza è il suo rapporto ravvicinato con la morte. [...] Infine il nostro eroe non è privo di speranza, o almeno di ciò che in essa si confonde con il breve entusiasmo per il godimento di effimere, probabili gioie; anzi, in questo modo egli ritrova quelle sottili ragioni per continuare a vivere.” Ne “La Neve dell’Ammiraglio” tutti questi aspetti possono facilmente essere rintracciati: dalla lucidità che emerge dalle implacabili riflessioni, dai corrosivi aforismi, dal continuo sillogizzare sulla propria esistenza, alla incomunicabilità che emerge da una lingua “usata più per nascondere che per comunicare” o dai radi dialoghi con il Capitano, che celano sempre qualcosa di enigmatico e di imperscrutabile; dalla solitudine, laddove i rari amici, uomini veri che “sanno andare per il mondo tra il maligno e balordo drappello dei loro simili”, sono lontani e irraggiungibili oppure si riconoscono, come nel caso di quell’anima gemella che è il Capitano, quando ormai è troppo tardi, alla presenza costante della morte, quella con cui bisogna convivere ad ogni istante del proprio viaggio, non solo assistendo impotenti a quella degli altri (la morte del soldato sulla barca, il suicidio del Capitano), ma imparando a “percepire con la pienezza della nostra coscienza e dei nostri sensi la prossimità immediata e irrefutabile del proprio perire”, “a costruirla dentro di sé con passo irrimediabile”, “la nostra stessa morte, quella che ci appartiene davvero, che aspetta che sappiamo riconoscerla e adottarla”. Ma è soprattutto l’assenza di rassegnazione che connota maggiormente la disperanza di Maqroll e che, a mio avviso, lo rende molto simili ai personaggi esistenzialisti di Camus, e in particolar modo a quel Sisifo mai domo di fronte all’assurdo della vita. Maqroll è intimamente consapevole che il suo viaggio all’interno della selva verso le segherie, per comprare legname da rivendere a prezzi più alti nelle città della costa, sarà un fallimento o, peggio, un’impresa “di una stupidità clamorosa”, ma ciononostante vi si abbandona, con una fatalistica accettazione del proprio destino, con una autolesionistica imperturbabilità, intuendo che è l’unico modo per cercare di sconfiggere il “tedium vitae” e di “salvarsi dal supplizio di morire con la certezza di aver abitato un limbo, alle spalle del superbo spettacolo dei vivi”.
C’è un profondo dissidio nel Gabbiere tra l’aspirazione alla felicità, rappresentata dalla Neve dell’Ammiraglio, un emporio sull’altopiano dove ha vissuto un breve ma intenso interludio di tranquillità e di amore con Flor Estevez, una donna focosa e sensuale “che scuote la vita per le spalle sino ad obbligarla a restituire ciò che le chiede”, e la compulsiva e masochistica inclinazione per le cause votate irrevocabilmente alla sconfitta. La Neve dell’Ammiraglio e la Cordigliera rappresentano in un certo senso l’Eden perduto, da cui Maqroll si è volontariamente esiliato (e a cui non può che ripensare con dolorosa e struggente nostalgia), per dannarsi nell’inferno della selva (“un molle inferno in decomposizione”, che provoca danni irreparabili nel fisico e nello spirito degli esseri umani che vi si avventurano). Il peccato originale del Gabbiere, la sua hybris, che lo condanna a vagare incessantemente per il mondo come l’Ebreo errante, è quello di aver preteso “di sfidare il caso, di sondarne i limiti”, con inane testardaggine e cieca ingenuità, alla stregua di un Ulisse sempre più stanco e disilluso, senza più alcuna Penelope ad attenderlo alla fine del viaggio. A Maqroll non resta che accontentarsi degli avanzi di effimeri piaceri e cercare ossessivamente nel proprio passato quegli impercettibili momenti che hanno cambiato a sua insaputa, come beffarde sliding doors, il proprio destino. C’è un bellissimo passo nel romanzo in cui Maqroll si rende conto che in tutti gli anni passati è andata scorrendo al suo fianco un’altra vita, una sorta di borgesiana vita parallela fatta di tutte le svolte del cammino che ha rifiutato, di tutte le vie d’uscita che non ha preso, di tutte le occasioni che ha dilapidato, e conclude pensando che nell’ora della morte “sarà quell’altra vita a scorre davanti agli occhi con il dolore di qualcosa che si è perso e sprecato del tutto e non questa, quella reale e compiuta”. Non c’è mai però un vero e proprio rimpianto in Maqroll, mai un’autentica nostalgia, perché in lui prevale in fondo la coscienza che, per quante sorprese e per quanti sconvolgimenti possa riservare la vita, alla fine “tutto ciò che ci accade ha lo stesso sembiante, identica origine”.
La monotonia, l’abulia, l’inerzia (“la mia consuetudine con il nulla”) prendono ben presto il sopravvento sulla vita del Gabbiere, conscio nel proprio costante e inesorabile disinganno di stare inseguendo un vano miraggio e che quindi “la cosa migliore è lasciare che tutto accada come deve essere”, e tutto ciò si riflette anche sulla trama del romanzo, il cui interesse non risiede tanto in un climax, in una progressione narrativa, che, anche nei momenti più avventurosi (come il superamento delle rapide), non si accende mai veramente, quanto in quelle pagine di incantata, sonnolenta e un po’ stordita sospensione (quando sembra anche al lettore di sentire solamente il vociare degli uccelli e il suono asmatico del motore) nelle quali l’indifferente superficie della realtà nasconde, dietro a un sottile e impalpabile velo, il mistero più insondabile, l’orrore più agghiacciante. Procedere in questo universo inquietante e indecifrabile, irrimediabilmente estraneo ad ogni umano tentativo di comprensione e di razionalizzazione, è per Maqroll una sfida davvero titanica da superare, soprattutto se si vuole arrivare alla meta “con tutti i tuoi sogni intatti” (come recita una bellissima poesia di Mutis). E’ per questo che, nonostante i debiti letterari con personaggi come il Marlow di “Cuore di tenebra” o il Bernardo Soares de “Il libro dell’inquietudine” (a cui aggiungerei anche il Larsen, alias Raccattacadaveri, di Onetti, per la comune, ineluttabile, tendenza a imbarcarsi- in progetti assurdi e senza alcuna possibilità di successo), quello del Gabbiere è destinato a stagliarsi nel panorama della letteratura moderna come l’emblema di un incoercibile anelito di libertà e di idealismo, molto più e molto meglio dei paladini della beat generation. “Lei è immortale, Gabbiere”, dice a un certo punto il Capitano a Maqroll, e con questa frase egli sembra vaticinare quella dimensione mitica che l’eroe di Mutis ha saputo acquisire con gli anni e che, nella fittizia proliferazione di testi che lo riguardano, ha saputo farsi addirittura beffe della cronologia (il romanzo seguente, “Ilona arriva con la pioggia”, racconta di un Maqroll più giovane di quello de “La Neve dell’Ammiraglio”, e in “Un bel morir” la morte del protagonista non preclude affatto che egli compaia nuovamente in racconti successivi), come quei poemi epici che nell’antichità venivano tramandati oralmente e che ponevano i loro memorabili personaggi al di fuori dell’azione corruttrice del tempo e della Storia, immortali appunto.
“Segui le navi. […] Non ti fermare. Evita persino il più umile ancoraggio. […] Rifiuta ogni sponda.”
Indicazioni utili
"Il cantiere" di Juan Carlos Onetti
LA STORIA SECONDO PYNCHON
“Non dovrebbe essere questa l’Età della Ragione?”
“A volte l’Invisibile apparirà tutto all’improvviso… a volte quello che vedete può non essere affatto.”
C’è una canzone di circa vent’anni fa che amo molto e che è cantata a due voci da Mark Knopfler e da James Taylor. “Sailing to Philadelphia” – questo il titolo del brano – racconta del viaggio dall’Inghilterra alla volta del Nuovo Mondo intrapreso nella seconda metà del XVIII secolo dall’astronomo Charles Mason e dall’agrimensore Jeremiah Dixon, e testimonia il ruolo rilevante ricoperto nell’immaginario collettivo anglo-americano da questi due personaggi, diventati famosi per aver tracciato la linea di demarcazione tra la Pennsylvania e il Maryland (quel confine che, oggi noto come “linea Mason-Dixon”, nel corso degli anni successivi è simbolicamente divenuto lo spartiacque tra il Nord liberista e il Sud schiavista). Ciò detto, viene naturale chiedersi, soprattutto da parte di chi conosce un poco la sua fantasmagorica e anarchicheggiante opera, cosa ci faccia Pynchon nella razionale e scientifica epoca dei Lumi, tra personaggi in giubba, parrucca e bicorno e un mondo ordinato di osservazioni celesti, misurazioni cartografiche e gradi di longitudine e latitudine. La risposta, a mio avviso, è molto semplice: Pynchon ha voluto fare, alla sua maniera – certo - ma in modo incontestabile, una vera e propria lezione di storia. Il reverendo Cherrycoke, il quale narra ai parenti riuniti, nel corso di una lunga notte d’inverno, le avventure di Mason e Dixon, avendo egli stesso partecipato anni prima alla loro spedizione, dice al riguardo una frase molto significativa: “Dovere dello Storico potrebb’essere di cercar la Verità, e nondimeno dover fare tutto ciò che è in suo potere per non svelarla”, la quale a sua volta mi richiama alla mente l’affermazione che il regista messicano Ruizpalacios fa dire alla voce narrante del film “Museo”: “Perché rovinare una bella storia con la verità?”. La storia deve essere sottratta una volta per tutte agli interessi di potere che la strumentalizzano e la piegano alle proprie ciniche e opportunistiche esigenze, ma deve essere appannaggio di chi, come i romanzieri, non hanno paura di reinventarla con la loro libera e indipendente immaginazione, e che proprio per questa attitudine sono in grado di fornire un nuovo senso e una nuova dimensione a ciò che è avvenuto in passato: quindi non arida cronologia ma affabulazione, non resoconto storiografico ma narrazione, non i fatti (“I Fatti non son che i balocchi dell’Azzeccagarbugli… Trottole e Cerchi sempre in rotazione”) bensì gli aneddoti. La verità – sostiene ancora il reverendo – “ha bisogno di essere accudita riguardosamente e amorosamente da fabulatori e contraffattori, Cantastorie ed Eccentrici d’ogni Latitudine, Maestri del Travestimento che la provvedano di Costume, Toletta e Portamento, e Scilinguagnolo abbastanza sciolto da tenerla di là dai Desideri, o anche dalle Curiosità, del Governo”. Quale stupenda dichiarazione di poetica, che dimostra come Pynchon, lungi dall’essere uno scrittore perso nelle sue solipsistiche e cervellotiche elucubrazioni mentali, come molti troppo semplicisticamente sostengono, è un autore molto politico il quale, con uno sguardo genialmente strabico, ci parla del mondo di oggi, della globalizzazione, della pericolosità dell’informazione in mano a pochi, del razzismo e della xenofobia, proprio mentre descrive le bislacche ed esotiche avventure di due gentlemen inglesi del Settecento alle prese con un mondo a loro ostile e sconosciuto. Non è tanto lo sguardo di chi, per cercar di descrivere e spiegare l’attualità del proprio Paese, si rivolge al mito originario della sua fondazione, quello della frontiera, dei pionieri, del west da colonizzare, quanto la lucida e disincantata constatazione da parte di un intellettuale da sempre ai margini del sistema che nulla in fondo è cambiato da due secoli a questa parte, e che la prevaricazione, la violenza, il sopruso, la discriminazione hanno sempre allignato in quella che forse troppo frettolosamente è stata definita la culla della democrazia. La stessa linea tracciata da Mason e Dixon, che per i nostri ignari e disinteressati eroi è uno spazio utopico, un’estensione ideale, un motore di energie e di speranze, non riesce a nascondere la sua natura di confine odioso e arbitrario (“Nulla produce Cattiva Storia in maniera più diretta, né più brutale, che il tracciare una Linea, segnatamente una Linea Retta, la veracissima Forma del Disdegno, nel bel mezzo d’un Popolo… così creando una Distinzione in esso… è il primo colpo. Tutto il resto seguirà come predestinato, fino alla Guerra e alla Devastazione”). Come nel finale de “Il pellegrino” di Chaplin, in cui uno disorientato Charlot camminava sul confine messicano, senza riuscire a decidersi tra il Nord e il Sud, tra le guardie in agguato da una parte e le sparatorie dall’altra, così Pynchon ci mostra i paradossali esiti cui può giungere una rigida e immotivata divisione (la Linea, ad esempio, ad un certo punto attraversa e taglia a metà una fattoria, la quale pertanto viene a trovarsi metà in Pennsylvania e metà nel Maryland, con la bizzarra conseguenza di essere soggetta contemporaneamente alle imposte fondiarie dell’uno e dell’altro Stato). Lo stesso sguardo iconoclasta e provocatorio è riservato anche ai personaggi illustri e ai padri fondatori di un’America alla vigilia della Guerra d’Indipendenza: da Benjamin Franklin (che si diletta a fare survoltati esperimenti con le scariche elettriche dei fulmini), a George Washington (che fuma marijuana e gioca a biliardo come un moderno figlio dei fiori), a Thomas Jefferson (che, conversando amenamente con Dixon in una taverna, chiede al nostro se può utilizzare in futuro la sua esclamazione di augurio “alla ricerca della felicità”, cosa che effettivamente farà nella sua famosa Dichiarazione di Indipendenza) e a molti altri ancora.
Coloro che amano il Pynchon più folle e psichedelico e temessero di trovarsi di fronte, in questo romanzo, a un autore in qualche modo imbrigliato dalla necessità di dover essere fedele alla storia di due personaggi realmente esistiti, con una biografia da rispettare nei suoi tratti essenziali, possono stare assolutamente tranquilli. In “Mason & Dixon”, dietro all’ingannevole fondale del secolo dei Lumi, ribolle lo stesso universo caotico, eccentrico e caleidoscopico degli altri romanzi pynchoniani. I nostri due astronomi incontrano lungo la strada cani parlanti, pitonesse, lupi (e addirittura castori) mannari, anitre meccaniche scappate dal loro inventore, golem fabbricati da fantomatiche tribù indigene e posti dove crescono ortaggi giganteschi. La fantasia di Pynchon è sfrenata più che mai, e lo sguardo asettico e scientifico di Mason e Dixon si scontra in continuazione con un irrazionalismo di fondo, che nel corso della narrazione aumenta sempre di più, dando la stura a innumerevoli situazioni umoristiche e divertenti, come se ci trovassimo di fronte a un film di Buster Keaton. Come in una matrioska, la storia principale si moltiplica in innumerevoli sotto-storie, che sfidano il senso comune in un hellzapoppin che è la quintessenza del bizzarro e dello stravagante: quella dell’Ottuplice di Gloucester, un formaggio gigante del peso di quattro tonnellate, il quale, trasportato in un enorme carro da bestiame per l’annuale festa casearia, scivola giù e, rotolando, immenso come una luna caduta sulla terra, travolge ogni cosa al suo passaggio; la leggenda del Vermo di Lambton, favola medievaleggiante di draghi e cavalieri; la storia di Hsi e Ho, astronomi di corte cinesi che, duemila anni prima di Cristo, mancano la previsione di un’eclissi di sole non per imperizia, ma perché erano ubriachi; e così via, fino ad arrivare al diavolo in persona, impelagato in una causa legale per una clausola contestata all’interno del contratto di compravendita di un’anima. Pynchon spiazza e disorienta il lettore, in quanto fa venire meno i normali riferimenti logici e spazio-temporali. Gli stessi protagonisti sono catapultati in esperienze ai limiti dell’assurdo: Mason ricorda quando nel 1752 l’Inghilterra aveva adottato il calendario gregoriano, passando in un colpo solo dal 2 al 14 settembre, ed egli si era ritrovato misteriosamente intrappolato nel 3 settembre, costretto ad aggirarsi da solo in un tempo surrealmente vuoto; e Dixon, dal canto suo, durante una spedizione nei paesi nordici, viene condotto da un misterioso personaggio, attraverso una concavità vicino al Polo Nord, all’interno della Terra, che si rivela cava e abitata da popolazioni che vivono aggrappate a testa in giù come pipistrelli. La scienza newtoniana ed euclidea viene costantemente irrisa da forze magiche e occulte (amok, magia indigena, apparizioni di fantasmi, caos ed entropia), che sembrano ironicamente alludere all’irrazionalismo e all’indeterminazione che sarebbero venuti in auge due secoli più tardi. Mason e Dixon si sentono spesso agiti da forze più grandi di loro (“come se fossimo pensionanti presso un fato d’altrui, pur trovandosi il nostro posto da tutt’altra parte”), che trascendono le loro possibilità di comprenderle, e tuttavia si lasciano trasportare passivamente da questa corrente, senza mai opporsi ad essa, per quanto strana e inconcepibile possa apparire loro, e grazie a questa forma di resilienza (comune del resto a quasi tutti i personaggi della letteratura pynchoniana) riescono a uscire indenni da tutte le disavventure, procedendo con un infantile stupore all’interno di una terra vuota, sconfinata, inimmaginabile (“chi potrebbe non ritrovarsi a credere in un Eterno Ponente?”), simile forse, per imperfetta approssimazione, ai dipinti “western” di un Thomas Moran o di un Albert Bierstadt, il cui tentativo di delimitarla e di cartografarla appare sempre più un’impresa assurda e quasi surreale, tanto l’America sembra assumere la forma di uno spazio infinito, di un “reame del dubbio” (“per un imprevedibile susseguirsi di Notti saran possesso di quest’Onda immane di Montagne coperte di Foreste, di questo sito d’antica Vendetta, e Animali Selvaggi a un passo dalla Luce del bivacco… il sole in questa sera particolare come un celeste Sigillo, riversandosi in Gloria, trasgredendo ogni Meta e Confine, colmando gli Alberi, illuminando gli Animali, i loro fianchi rivolti, inondati dalla Marea sopraggiungente, donando agli umani volti una definitezza ch’è contigua alla purificazione, sempre spronando ogni anima, ancora e ancora, verso l’Inferno dell’Eternità”). Intorno ai due protagonisti, sempre più simili a “piccoli principi” in un mondo fuor di sesto, i personaggi della spedizione assumono le fattezze di una umanità sempre più in preda alla follia (il capitano Shelby, il cinese Zhang, il cuoco Allègre, il taglialegna Stig) e alla paranoia. Nel romanzo, come del resto è tipico dell’intera opera di Pynchon, finisce per aleggiare in permanenza un’aura di cospirazione: che si tratti dei Gesuiti (che si comportano come implacabili agenti della CIA), della Compagnia delle Indie Orientali o dei Francesi, ogni passo della missione di Mason e Dixon sembra costantemente strumentalizzata e piegata al volere di forze oscure e imperscrutabili. Le stesse discussioni (siano esse filosofiche, religiose, politiche o scientifiche) avvengono sempre in implausibili taverne, avvolte dalla nebbia dei sigari e dal fumo delle candele, in cui non si sa mai se ad ascoltare sia un amichevole confidente o un nemico che – per chissà quale insondabile motivo – si cela acquattato nell’oscurità, e dove anche una semplice riunione di commissari governativi assomiglia a una sfilata di enigmatiche effigi, di inquietanti volti di cera, che scrutano con diffidenza Mason e lo fanno sentire come se fosse stato sorvegliato a sua insaputa fin dal giorno del suo sbarco in America. Il terreno in cui si muovono Mason e Dixon è sempre, in apparenza, infido e malagevole, terrorizzante ed enigmatico (Dixon, salpato dalla foce del fiume Tyne alla volta di Londra, si trova improvvisamente circondato da un’impenetrabile coltre di nebbia, e quando essa si dirada ha l’impressione di ritrovarsi inspiegabilmente già approdato sulle coste americane), ma tutto ben presto è destinato a rovesciarsi e tramutarsi in farsa stravagante e clownesca. “In verità – chiosa Pynchon - un’aura di bizzarria pervade l’intera storia […], quasi in scherzoso diniego di riconoscere che America, sotto qualche aspetto, possa esser cosa seria.”
“Mason & Dixon” è un romanzo fortemente innovativo. Pynchon adotta lo stesso stile di scrittura del Settecento, o perlomeno quello che, in un raffinato gioco di illusioni ottiche, noi lettori immaginiamo dovesse essere lo stile dell’epoca. Così, i sostantivi, come nei romanzi di Swift, vengono scritti spesso con l’iniziale maiuscola, i termini sono arcaici e desueti, i periodi ampollosi e magniloquenti, in un continuo sfoggio di mimetismo linguistico che ha del miracoloso. “Mason & Dixon” è anche un’opera di un’immensa, enciclopedica erudizione, che spazia in innumerevoli campi dello scibile, dall’astronomia alla storia americana delle origini, dalla geomanzia al deismo, dalle teorie della Terra cava alle abitudini alimentari del ‘700. Pynchon dimostra di poter scrivere su qualunque cosa nel modo in cui vuole, del tutto incurante delle aspettative del lettore, ma, nonostante ciò (o forse proprio grazie a ciò), donandogli ad ogni pagina un piacere raffinato e incomparabile. Nonostante non sia, per la sua mole (è lungo più di settecento pagine) e per la sua complessità, di facilissima lettura, “Mason & Dixon” è un libro estremamente divertente, in quanto la seriosità dei protagonisti, l’aulicismo dello stile e la stravaganza delle storie narrate creano un mix di irresistibile umorismo. Ma c’è di più: se “Mason & Dixon” è a tutti gli effetti un romanzo pynchoniano (ci sono – ovviamente – le canzoncine, ci sono il sesso e le gozzoviglie- - quanta birra bevono tutti quanti! “Mason & Dixon” è decisamente un libro ad alta gradazione alcolica – e c’è persino un marinaio, Settepance Bodine, che è fuor di ogni dubbio un antenato del Pig Bodine di “V” e de “L’arcobaleno della gravità”), esso introduce un elemento emozionale che non avevo mai riscontrato prima nelle opere dello scrittore di Glen Clove. Mason e Dixon sono due personalità diametralmente opposte (malinconico, suscettibile e misantropo il primo, socievole, scherzoso e gaudente il secondo), che hanno idee diverse su quasi tutto, bisticciano, faticano a stare insieme per lungo tempo, ma che in fondo non possono fare a meno l’uno dell’altro, come una strana coppia alla Walter Matthau e Jack Lemmon. Iniziata come una relazione esclusivamente professionale, vediamo il loro rapporto crescere poco alla volta e trasformarsi lentamente in una amicizia indissolubile, sia pure manifestata a fatica per timidezza, ritrosia e virile riserbo. Mai più avrei immaginato che Pynchon arrivasse a commuovermi con la malinconica immagine dei due uomini che, ormai invecchiati e quasi dimenticati dal mondo, passano le giornate a pescare silenziosamente l’uno accanto all’altro o a rimembrare i lontani tempi dell’avventura americana. Sebbene la coppia di protagonisti maschili sia un topos della letteratura di tutti i tempi (si pensi a Don Chisciotte e Sancho Panza, Bouvard e Pecuchet, più recentemente a Kavalier e Clay), raramente mi sono affezionato tanto come ai due eroi creati da Pynchon, capaci di illuminare con la loro esemplare e adamantina umanità un Paese ed un’epoca. Chissà che, dopo il tanto parlare che si è fatto in passato del Grande Romanzo Americano, il sogno che ogni scrittore statunitense continua imperterrito a inseguire, questo Grande Romanzo Americano sia in realtà già stato scritto alla fine dello scorso millennio, proprio da un autore che staziona ormai da tempo nei recessi più remoti e irraggiungibili della galassia della letteratura contemporanea. In fondo, leggere Pynchon – e segnatamente “Mason & Dixon” - è proprio come partire, con coraggio e anche un po’ di avventatezza, per un viaggio interstellare, senza nessun appiglio e nessun contatto con quanto si è letto prima di allora. Quando, alla fine di un “trip” di sconvolgente bellezza, ci si volta indietro, si scopre di essere ormai anni-luce lontani da dove si era partiti e forse, chissà, non si ha neppure più la voglia e l’interesse di intraprendere la via del rientro, di tornare verso i più confortevoli e rassicuranti libri cui ci si era abituati, e si vorrebbe cedere alla tentazione di rimanere sul pianeta Pynchon per tutto il resto della vita.
Indicazioni utili
FORME NUOVE DI ANTICHI MITI
“Mi ripugna la vita, mi disgusta la morte […] Se solo qualcuno conoscesse il dolore che provo.”
L’”Antigone” è, tra tutte le tragedie dell’età classica, quella che, per la feconda complessità delle questioni etiche che in essa vengono affrontate, ha forse più influenzato il teatro moderno. E’ per questo motivo che l’opera di Sofocle è stata fatta oggetto negli ultimi secoli di un numero insolitamente copioso di interpretazioni e rivisitazioni. L’eroina tebana che, per onorare il fratello morto e dargli una pietosa sepoltura, sfida l’editto del re e per questo viene condannata a morte, è stata vista, di volta in volta, in maniera più o meno legittima, più o meno condivisibile, come una ribelle che sfida il potere statale per sancire la supremazia della libertà dell’individuo, oppure come una rivoluzionaria che si oppone strenuamente alla tirannide, o ancora come una femminista ante litteram, o come un emblema delle giovani generazioni insofferenti alle tradizioni di quelle più anziane, e perfino (nella rilettura di Valeria Parrella) come una paladina dell’eutanasia. Non è un caso che George Steiner abbia intitolato il suo saggio, dedicato alle varie interpretazioni del mito che si sono succedute nel tempo, “Le Antigoni”, perché in effetti non c’è, non c’è mai stata, e probabilmente continuerà a non esserci in futuro, un’unica Antigone, monolitica e immutabile.
L’ultima e recentissima versione della tragedia sofoclea ci è stata presentata dal giovane Daniele Sannipoli, già autore dell’interessante “A sua immagine e dissomiglianza” e qui all’esordio in un lavoro teatrale. La sua, come suggerisce il titolo, è una vera e propria “riscrittura”, in quanto rivendica fin dalle prime battute (affidate a Tiresia, laddove nell’originale greco l’indovino cieco interveniva in scena quando ormai tutto era già stato praticamente deciso e non più reversibile) lo status di opera autonoma e innovativa. Se Carmelo Bene diceva che “si riscrive perché non si può più scrivere”, Sannipoli smentisce questa aprioristica affermazione nella maniera più esemplare possibile. La sua “Antigone” è infatti piena di idee, di grazia, di ritmo, e non solo non sfigura nel confronto con l’archetipo (di cui, ovviamente, conserva l’impalcatura essenziale e le tematiche per cui è diventato celebre), ma vi innerva una sensibilità affatto moderna. Sannipoli è meno interessato di Sofocle al dissidio ideologico-politico tra Creonte ed Antigone, riassumibile nel dualismo tra il diritto positivo del primo e il diritto naturale della seconda, ma è affascinato soprattutto dall’interiorità dei personaggi, dalla loro innegabile natura di esseri fatti di carne e di sangue, spesso in passato sacrificata alla ineludibile necessità di dover rivestire un ben determinato ruolo, di dover rappresentare un simbolo. Si pensi al personaggio di Creonte, che qui assurge a protagonista assoluto e il cui nome avrebbe forse meritato di stare nel titolo al fianco di quello di Antigone. In questo re che, pubblicamente, rivendica la supremazia del potere statale, degli interessi della patria e della collettività, in nome di un ordine superiore che non può permettersi di soffermarsi sulle istanze del singolo cittadino (non diversamente dall’originale sofocleo), ma che poi, in privato, si strugge e si macera per il disgusto che la vita gli provoca, respira un’anima profondamente esistenzialista. Come il Caligola di Camus, Creonte è un uomo solo, disorientato, nauseato, schiacciato dal dolore ma più ancora dalla consapevolezza che neppure la sofferenza è destinata a durare, che cerca di ribellarsi all’insensatezza della vita ponendosi al di fuori di essa, facendosi destino della vita degli altri, nemesi odiosa che semina la morte e il terrore in chi gli sta intorno per puro arbitrio, per sfuggire a un paralizzante taedium vitae. Creonte è un personaggio che, nel corso dell’opera, viene appellato come “smembrato” (dalla moglie Euridice), “sdoppiato” (da Antigone), “sfibrato, lacerato” (da Tiresia). Nella bellissima scena in cui compare per la prima volta, Creonte ha addirittura un “doppelganger” che gli parla attraverso uno specchio e lo qualifica, per mezzo di una geniale sovrapposizione tra io e suo riflesso, come un uomo dissociato, diviso in due, vittima di una perturbante crisi di identità foriera di nefasti sviluppi.
In contrapposizione a Creonte, Antigone è la deuteragonista che, in nome della irrinunciabile sacralità della vita, sceglie di sacrificare se stessa preferendo morire piuttosto che rinnegare i propri valori. I due personaggi, trincerati ognuno in una posizione che rinuncia a priori ad ogni tentativo di ricomposizione dialettica, agiscono per un puntiglio, per partito preso, e non è per caso che sia Ismene, nel suo dialogo con Antigone, che il servo, quando dice giustamente a Creonte che non si può condannare un uomo per colpe che non ha commesso, imputano loro di agire per puro capriccio. Essi si rivelano in fondo, al di là di una apparentemente irriducibile dicotomia, più uguali di quello che si possa pensare, due facce della stessa medaglia (l’orgogliosa durezza del martire che per perseguire la giustizia non si accorge del male che provoca in chi lo circonda, da una parte, e la proterva arroganza di chi, per combattere la mancanza di senso dell’esistenza, non vede altro rimedio, avendo in mano il potere, che farsi padrone della vita degli altri con dispotica arbitrarietà), due persone logiche fino all’assurdo, che perseguono una purezza che non può dare sollievo e lenire i mali del mondo, ma solo accrescere la sofferenza altrui, due esseri che abdicano alla vita per diventare sterili princìpi (Creonte: “Diventare un principio che agisce. Questa è la massima esaltazione”; Antigone: “Io sono una legge che non conosce riposo… Io sono come un principio”). Il risultato finale è la solitudine, una solitudine assoluta che si fa paradigma della condizione dell’uomo moderno, dovuta a una ontologica capacità di comunicare da parte di coloro che sono come due rette parallele destinate a non incontrarsi mai, perché non vogliono e non possono deviare dalla loro traiettoria destinata all’autodistruzione (proprio come le falene di cui parla Creonte nella scena quarta dell’atto primo, le quali volano incontro alla luce pur sapendo di finire bruciate vive). C’è una scena emblematica nel secondo atto che rappresenta in maniera inequivocabile questa totale incapacità di stabilire un qualsiasi rapporto con l’altro, ed è quella in cui Creonte ed Emone, il quale si è recato dal padre per cercare di far revocare la condanna della fidanzata, finiscono per parlare ognuno per conto proprio, come se le loro parole non avessero più un destinatario che potesse ascoltarle.
Uno dei maggiori punti di discrimine rispetto a Sofocle è l’assenza degli dei che trapela dall’opera di Sannipoli. Laddove nella tragedia greca c’era un destino in cui i personaggi si riconoscevano e che li faceva agire come espressione terrena di un’istanza trascendente, magari sbagliata, opinabile, ma chiara e coerente, qui i personaggi o brancolano nell’oscurità e si fanno strumento di arbitrio e di ingiustizia (Creonte) o si ergono a fautori, altrettanto discrezionalmente, di una purezza fanatica e intransigente (Antigone), entrambi a loro modo incarnando posizioni totalitarie o integraliste per cui è difficile parteggiare. Il posto degli dei (“Il cielo è muto”, “Muta la bocca degli dei”) è stato preso da una religiosità naturale, panteista, in cui terra, acqua e vento reclamano una esistenza che è anteriore a quella delle divinità. La tragedia di Sannipoli è percorsa da versi in cui gli dei sono pregati, invocati e chiamati in causa un po’ da tutti, ma a cui nessuno in fondo crede più veramente. Il senso del sacro si è trasferito in un altrove che non la fredda logica può afferrare, ma forse solo un cuore ardente. E per questo che Emone (il personaggio che più di tutti ha probabilmente beneficiato del maggior spazio scenico concessogli dall’autore) si appella alla natura nell’estremo tentativo di far recedere Antigone dai suoi propositi suicidi (“E siamo di terra e di aria e di acqua e di fuoco e siamo luce e siamo noi, in un secondo infinito che non conosce il minuto”), intuendo l’afflato panico che pervade la ragazza (“La mia legge regge il mondo. Vive nelle piante, nell’acqua, nel soffio del vento, nel volo di un uccello”, aveva confessato all’inizio Antigone alla sorella). E’ una scena meravigliosa, piena di immagini di straziante poesia (“Scende il cielo, ci lambisce i piedi e si libra in alto la luna, ancora più su, un lago argentato, ci allaga e disperde, siamo alghe marine”), che fa degnamente corona al sorprendente monologo, tutto costruito in ardite paratassi, con cui si apre il secondo atto e che mi ha suscitato più volte la sensazione che i personaggi di Sannipoli, come negli antichi miti, potessero in qualsiasi istante metamorfizzarsi, Antigone magari trasformandosi come Niobe in una roccia. Non è secondo me un caso che la tragedia si chiuda con l’immagine simbolica di un amaranto che, al dissolversi della nebbia, compare sul palcoscenico là dove prima erano stesi i corpi dei due giovani suicidi.
Borges ha scritto che “non si può più esprimere, ma solo citare”. Anche Sannipoli, come il grande maestro argentino (una sorta di Tiresia della letteratura moderna), nella sua “Antigone” dà sfoggio di un ampio e variegato apparato di riferimenti culturali. In primo luogo, ovviamente, c’è il “Caligola” di Camus, che viene più volte omaggiato (e bene ha fatto l’autore a evidenziarlo nella prefazione), ad esempio nella scena dell’uccisione di Euridice (che echeggia quella di Cesonia), in quella in cui Creonte schernisce e sbeffeggia il vecchio tebano facendolo abbaiare e saltare su una gamba sola, o in battute come quella sul dolore (“Finchè c’è dolore c’è vita […] ma il tempo sgretola anche il dolore!”; Camus: “La vera pena è di accorgersi che neanche il dolore dura; e che, allora, neanche il dolore ha più un senso”), sulla necessità di essere logici (“Logico, Creonte, sii logico; Camus: “Logica, Caligola, logica. Bisogna seguire la logica”) e sulla irreversibilità della sofferenza che prescinde anche dall’impossibile ritorno in vita dell’essere amato (“Se anche tornasse in vita, per morire di nuovo, proverei lo stesso disgusto”; Camus: “Anche se i morti tornassero a fremere sotto la carezza del sole, non per questo rientrerebbe sotto terra l’assassinio”). C’è una comune sensibilità, che Sannipoli aveva già in qualche modo fatto balenare nel suo libro d’esordio, con il pensiero di Camus, e questa conduce la tragedia a esiti ancora più drammatici e irreparabili rispetto all’originale greco. Nell’”Antigone” di Sannipoli si percepiscono anche echi della Virginia Woolf de “Le onde” (soprattutto nei già citati parallelismi uomo-natura, che nel capolavoro woolfiano trovano espressione in personaggi come Rhoda o Susan), di Clarice Lispector (quando Tiresia afferma che “la luce disvela il vero, ma acceca anche con l’inganno della sua trasparenza” sembra di leggere la scrittrice brasiliana che in “Vicino al cuore selvaggio” asserisce che “per poter discernere determinate cose è necessario un certo grado di cecità… Proprio quelle determinate cose sfuggono alla luce accesa”) e perfino di Buchner (il vaneggiante monologo di Creonte, uno stream of consciousness di eccezionale potenza espressiva, mi ha fatto pensare al farneticante farfugliare di Woyzeck, la cui insensata gelosia lo conduce inesorabilmente alla follia omicida). Non si deve comunque cadere nella fuorviante convinzione che Sannipoli sia solamente abile nell’esibire la sua indubbiamente vasta e profonda cultura letteraria. La sua opera è infatti, sotto molteplici aspetti, estremamente personale: egli fa uno scrupoloso, pregevolissimo lavoro sulle parole, che sembrano essere pensate a lungo, approfondite e quasi distillate con una cura meticolosissima, e soprattutto sul ritmo narrativo, che, aulico e ancora classicheggiante in Tiresia, si fa frammentato e delirante in Creonte, sognatore e romantico in Emone, lucido ed esaltato in Antigone. Sannipoli divide la sua opera in tre atti via via più brevi, e a quella lunghezza progressivamente decrescente fa corrispondere, creando una suggestiva simmetria compositiva, una prosa sempre più febbrile e concitata, come se i personaggi fossero coscienti che il tempo a loro disposizione sta per scadere. L’”Antigone” di Sannipoli è un’opera densa, stratificata, polisemica, incredibilmente e in un certo senso (considerata l’età dell’autore) inaspettatamente matura, che rivela un’ammirevole urgenza espressiva, con scene di una bellezza quasi insostenibile ed indicazioni sceniche (ad esempio, il dialogo tra Eumone ed Antigone, con la scena divisa in due dalla parete della grotta) che ne accrescono ulteriormente la suggestione; un’opera di una purezza accecante, che non teme però di sporcarsi di fango e di sangue (alcune scene grandguignolesche mi hanno riportato alla mente il “Tito Andronico” di Shakespeare) e che fa sembrare il capolavoro di Sofocle come un film in bianco e nero degli anni ’20 in confronto a una pellicola dai colori romanticamente violenti di Wong Kar-wai. E’ un testo che non solo merita una lettura attenta e partecipe, ma spero possa trovare presto anche la via del palcoscenico: sarebbe il giusto riconoscimento per quella che mi sentirei di definire, senza tema di essere smentito, come una delle voci più promettenti e sincere del panorama teatrale (e letterario) italiano.
Indicazioni utili
"Caligola" di Albert Camus
FARSA AL VETRIOLO
“Perché non lasci i soldi ai figli, non è così che vanno le cose. Non lasci i soldi ai figli, lasci i figli ai soldi”
Il titolo italiano del terzo romanzo di William Gaddis farebbe pensare di primo acchito a una storia alla Edgar Allan Poe o alla H.P. Lovecraft, con le loro atmosfere allucinate, tenebrose e in bilico tra realtà e soprannaturale. In realtà “Gotico americano” non ha niente a che vedere con tutto questo, ma allude semplicemente a uno stile architettonico diffuso negli Stati Uniti del XIX secolo, soprattutto negli stati del Nord-Est, che riprendeva in forme romanticamente bizzarre lo stile gotico europeo. Quelle che da lontano sembravano edifici di lusso, con finestroni ad arco a sesto acuto, tetti ripidamente spioventi e in alcuni casi anche cupole e torrette, più da vicino rivelavano la loro ben più modesta struttura, con materiali dozzinali che prendevano il posto della pietra o del ferro battuto. “Tutta quell'ispirazione del gotico medievale, ma questi poveri diavoli non l'avevano la pietra e il ferro battuto. Tutto quello che avevano erano i vecchi materiali, semplici e affidabili, il legno e i martelli e le seghe e il loro goffo ingegno nel ridurre queste grandiose visioni lasciate dai maestri a una scala umana con le loro piccole invenzioni, quei dardi verticali che spuntano dalle grondaie e, sotto, quella fila di occhi di bue […] Un centone di presunzioni, prestiti, inganni, l'interno è un guazzabuglio di buone intenzioni, come un ultimo ridicolo sforzo di fare una cosa che val la pena di fare anche su una scala così piccola”. In questo modo si presenta anche la casa dove è ambientata la vicenda di “Gotico americano”, la quale assurge al ruolo di vera e propria protagonista al pari dei personaggi in carne e ossa che vi abitano o la frequentano, e che Gaddis ha il merito di trasformare, con la sua accozzaglia di pretenziosi elementi decorativi e la sua stravagante e ostentata asimmetria, in una azzeccata metafora dell’intera società americana: gli stucchi che si sbriciolano, le nicchie macchiate di umidità, le verande mezze marce rimandano infatti a una nazione che apparentemente sembra florida e prosperosa, ma ad una più attenta osservazione si rivela irrimediabilmente in decadenza. All’interno della fatiscente magione domina l’entropia, che è un po’ il segno distintivo, il marchio di fabbrica dei romanzi di Gaddis: stanze stracolme di mobili e oggetti accatastati l’uno sull’altro, apparecchi non funzionanti o che si rompono in continuazione, la posta che si riversa ogni giorno dal mondo esterno in quantità talmente esorbitante (fatture, lettere, biglietti, inviti, opuscoli, riviste, ecc.) da non poter essere evasa e che pertanto si accumula sui tavoli e sulle mensole in maniera incontrollabile. Gaddis sembra prefigurare, con lucida e profetica chiaroveggenza, gli effetti sulla società contemporanea provocati dall’avvento di internet e dei social media, in cui a un massimo di informazioni non corrisponde un livello altrettanto grande di conoscenze e di comprensione della realtà. Inoltre, a riempire e ipostatizzare questo caotico disordine, vi sono i dialoghi incessanti, interminabili, estenuanti dei personaggi, in cui chi parla e chi ascolta sembrano sempre su lunghezze d’onda diverse, tanta è l’incapacità di capirsi e di comunicare (scene come quella di Paul che si sfoga velenosamente nei confronti di tutti coloro che stanno mettendo i bastoni tra le ruote dei suoi affari, ed Elizabeth che, beckettianamente, non trova di meglio che chiedergli cosa voglia per cena, sono la norma). Paul e Billy, Paul e la moglie, McCandless e Lester sembrano sempre parlare ognuno per conto proprio, e come se ciò non bastasse vengono continuamente interrotti dal telefono che, per tutta la durata del romanzo, petulante e inopportuno, non smette mai di squillare. Tutto ciò crea delle sequenze davvero esilaranti, ma a poco a poco l’atmosfera del romanzo si fa via via più plumbea e ansiogena: la farsa si trasforma progressivamente, impercettibilmente, in dramma, ed è un dramma nerissimo quello di “Gotico americano”, una tragedia di proporzioni elisabettiane.
Non mi è mai capitato di vedere Gaddis così caustico e polemico. La sua satira si dispiega contro il capitalismo e la religione (e questa non è una novità per coloro che hanno già avuto modo di frequentare la sua cinica e irriverente bibliografia), ma anche contro la politica (il finto pacifismo di certe amministrazioni che in realtà nasconde bieche velleità imperialistiche), la famiglia (“non è vero che la guerra è la politica esercitata con altri mezzi, è la famiglia esercitata con altri mezzi”), gli uomini del Sud (“un branco di sconfitti dove gli aristocratici decaduti s'incontrano al caffè per lamentarsi come se fossero i cugini poveri che danno al ramo ricco della famiglia, su nel nord, la colpa di avergli rubato il diritto di primogenitura” e “che tengono vivo il ricordo fino a quando qualcuno gli offrirà una guerra che possano vincere” e “che restauri la dignità nazionale, perché loro hanno perso la loro cent'anni fa”), le nuove generazioni (“è la storia più vecchia del mondo perdio, la nuova generazione dà alla vecchia la colpa del casino che eredita, e ci mettono in un sol fascio perché tutto ciò che vedono è quello che siamo diventati, quelli ti aspettano al varco, un passo falso e ti sono addosso, mostra di avere il minimo interesse personale e ti accuseranno di esserti tradito, di averli traditi, di esserti venduto”), e molto altro ancora. Le invettive di Gaddis contro il terzomondismo (i prestiti ai paesi in via di sviluppo che si trasformano in lucrose commesse a beneficio delle aziende di famiglia degli esponenti del governo) o contro le teorie creazioniste (“Questi idioti soddisfatti con i loro sorrisi ipocriti, questi non sopportano l'idea di essere discesi da quella banda del lago Rodolfo che andava in giro picchiando qua e là le sue mazze di pietra nel tentativo d'imparare qualcosa, no, loro credono che Dio li abbia messi al mondo con i loro poveri vestiti e le loro sudicie cravatte, a sua immagine, quasi metà del paese, lo sapevi? quasi metà degli abitanti di questo paese, perdio, credono che l'uomo sia stato creato otto o diecimila anni fa pressappoco com'è oggi […] vengono giù da Malachia contando tutti quei "generò", "generò", "generò", e la creazione ebbe luogo il ventisei di ottobre del quattromilaquattrocento avanti Cristo alle nove antimeridiane, ecco quello che chiamano il metodo scientifico”), queste invettive mettono il dito nella piaga in quelli che sono i peccati mortali della società contemporanea, la corruzione, l’ipocrisia e, soprattutto, la stupidità, quella stupidità che è “un’abitudine maledettamente difficile da vincere e che “batte l’ignoranza” in quanto “la stupidità è la deliberata cultura dell’ignoranza”, “la dannata convinzione di essere nel giusto”. A incarnare questa ideologia nel romanzo è soprattutto McCandless che, in quanto studioso e occasionalmente anche scrittore, sembra essere proprio l’alter ego dell’autore. In realtà in “Gotico americano” non c’è alcun eroe positivo, e alla fine la corrusca indignazione di McCandless si rivela sterile e innocua, il suo disprezzo, privo di una reale volontà di cambiare le cose, non meno spregevole dell’arrivismo e dell’ipocrisia degli altri personaggi, o forse anche peggiore, dal momento che egli è privo di qualsiasi illusione, ancorché sbagliata (“sei tu che vuoi l’Apocalisse, Armageddon, il sole che si spegne e il mare che diventa di sangue, non vedi l’ora, no? […] perché disprezzi la loro, non la loro stupidità no, le loro speranze, perché non ne hai, perché non te ne resta neanche una”). Il pessimismo di Gaddis tocca in “Gotico americano” il suo apice. Nulla si salva se non, forse, quel vecchietto che i personaggi osservano dalla finestra e che ogni giorno, instancabilmente e quasi senza motivo, come obbedendo a un incoercibile istinto vitale, si trascina nel giardino confinante per pulire e mettere in ordine. C’è una profonda ambiguità in “Gotico americano”, che sconcerta e destabilizza il lettore. Ad esempio, Paul e Billy si odiano e si combattono per tutto il libro, ma Elizabeth fa giustamente notare che i due in fondo si assomigliano (“a volte io non riesco quasi a distinguervi, te e Paul, perché tu ti esprimi nello stesso modo, esattamente nello stesso modo, l'unica differenza è che lui dice: il tuo maledetto fratello, e tu dici: cazzo Paul, ma è la stessa cosa, se chiudessi gli occhi potrei confondervi l'uno con l'altro, forse è per questo che l'ho sposato”). Niente è come sembra. C’è sempre “una linea sottilissima tra la verità e quello che succede veramente, e in questo impercettibile scarto, in questo iato, Gaddis si insinua da par suo per portare allo scoperto e denunciare le contraddizioni dell’american way of life.
Leggere un nuovo romanzo di Gaddis è un’attività che richiama inevitabilmente alla mente i suoi precedenti lavori, perché il suo universo è fatto di tematiche, ossessioni e stilemi che si reiterano ogni volta con ammirevole coerenza. Quello che un critico statunitense, recensendo proprio “Gotico americano”, un giorno definì argutamente “lo scrittore famoso per non essere abbastanza famoso” sperimenta però qui qualcosa di nuovo, ossia un impianto di natura prettamente teatrale. L’unità di luogo, di tempo e di azione, insieme a un numero di pagine inferiore a quello, imponente, delle altre sue opere, fanno sì che “Gotico americano” potrebbe essere addirittura portato con pochissimi accorgimenti su un palcoscenico, ed è a mio parere un vero peccato che Gaddis non abbia mai voluto misurarsi direttamente con questa particolare espressione artistica perché la sua virtuosistica abilità nella costruzione dei dialoghi, che rende i suoi romanzi così irresistibili e originali, lo avrebbe potuto far diventare un Tennessee Williams all’acido muriatico o un Martin McDonagh ancor più cinico e grottesco. Oltre a essere il suo romanzo più teatrale, “Gotico americano” è anche quello più agevole e accessibile. Il suo stile è fatto sempre di dialoghi (interpuntati da brevi e sporadici intermezzi lirici) in cui non viene mai esplicitato chi sta parlando, e oltretutto nel corso delle frequenti conversazioni telefoniche chi è all’altro capo del filo non si sente mai e le sue parole possono essere desunte solo dal tenore della risposta dell’interlocutore, ma il minor numero di personaggi rende il tutto di più facile lettura (certe scene de “Le perizie” o di “JR”, con numerosi personaggi contemporaneamente in scena, erano di ben altra, quasi inconcepibile, complessità). Certo, il plot narrativo (una ingarbugliata storia di eredità contese e di spionaggio, di sette religiose e di concessioni minerarie) è abbastanza criptico e di ostica comprensione, ma tutto sommato “Gotico americano” è un romanzo in cui contano le atmosfere e i temi trattati assai più che i dettagli della trama. Da un punto di vista artistico, “Gotico americano” non riesce a raggiungere le vette de “Le perizie “ e di “JR”, ma questo paragone non può essere considerato un elemento a suo discapito, perché stiamo pur sempre parlando di due dei massimi capolavori della letteratura del Novecento. A me è parso per esempio che Gaddis sia stato qui meno allusivo e più polemico di quanto ci aveva abituati, come se si fosse fatto coinvolgere troppo direttamente dall’oggetto delle sue invettive e fosse stato invece meno capace di mantenere una maggiore e più opportuna distanza critica, come se lui, che prima sembrava guardare i suoi personaggi come attraverso un cannocchiale rovesciato, qui avesse scelto di usare una lente di ingrandimento. Lo spirito dell’opera (quello che fa dire a Elizabeth “Io credo che si scriva perché le cose le cose non sono andate come avrebbero dovuto”) è comunque quello dei momenti migliori, battagliero e militante, beffardo e provocatore, ancorché conscio che alla fine la realtà prosaica e volgare non ha alternative e antidoti che gli si si possano validamente opporre. Quella che Gaddis propone in “Gotico americano”, con una sagacia e un acume che hanno pochi eguali nella cultura (o forse sarebbe meglio dire controcultura) contemporanea, è un’ardita operazione, molto politicamente scorretta, di immersione nei più oscuri e sordidi meccanismi ideologici, economici e finanziari che regolano, spesso a nostra insaputa, le nostre vite, al fine di trarre una morale all’insegna di un salutare scetticismo. “Perché deve essere sempre solo questione di soldi?”, chiede a un certo punto Elizabeth a Paul, e questa domanda sembra provenire dritta dritta da “JR”, come se nulla da allora fosse cambiato anche se nel frattempo sono passati ben dieci anni. La risposta, tautologicamente, non può essere che una e una sola: “Perché è sempre questione di soldi”.
Indicazioni utili
230 risultati - visualizzati 1 - 50 | 1 2 3 4 5 |